Friday, February 27, 2009

Impossible Germany

Impossible Germany
Unlikely Japan

But this is what love is for
To be out of place
Gorgeous and alone
Face to face

With no larger problems
That need to be erased
Nothing more important than to know
Someone's listening
Now I know
You'll be listening

(Impossible Germany, Wilco)

Perché i tedeschi non hanno il bidet? Tutte le volte che entro nel bagno di una camera d'albergo tedesca mi pongo l'annoso problema. Non lo so, ma neanche gli inglesi, i francesi e gli americani lo hanno. Jack Kerouac aveva già sollevato il problema prima di me, e con maggior arguzia.

Non c'entra niente con lo straordinario concerto dei Kings of Leon che ho visto ieri sera a Colonia. Martedì sera, intanto, ero andato a vedere i Gaslight Anthem. Super osannati dalla critica anglo-americana, scelti da Bruce Springsteen per aprire il suo prossimo concerto ad Hyde Park, già nominati il futuro del rock'n'roll made in New Jersey. Non mi sono piaciuti. Divertenti, a tratti, ma nonostante il gran sbattersi non mi sono sembrati in grado di far muovere il dito indice della mia mano sinistra. Il che è solitamente per me un buon indicatore del livello energetico di un concerto rock.

I Kings of Leon invece, al Palladium di Colonia, Germania (un capannone da 4mila posti, simile al nostro Alcatraz, ma con una acustica straordinaria. Impossibili tedeschi, a parte i bidet, sanno come far suonare bene anche un capannone, perché noi no?) mi hanno fatto muovere l'indice della mano sinistra, della destra e anche tutto il resto del corpo. Straordinari. Formidabili. Una macchina da rock'n'roll implacabile, sorretta dal groove infinito della sezione ritmica, e soprattutto da questo magnifico batterista che non solo armonizza alle voci come faceva Levon Helm, ma pesta come John Bonham.
Le loro canzoni possono sembrare un po' una simile all'altra, e in effetti lo sono, ma loro sono interessati più che alla canzone a creare un'emozione: Caleb Followill (26 anni...) canta come un predicatore di colore del Mississippi, Matthew Followill con la chitarra crea magie psichedeliche che a tratti ricordano il The Edge degli anni 80, altre esplodono in assordante fragore tutto wah-wah. Creano un sentimento, che abbraccia il meglio del rock dei 70s con la percezione del Terzo Millennio e intanto sanno svelare quello che c'era prima, visioni di una repubblica invisibile imparata dal padre predicatore. Sono rock, sono soul, sono psichedelici, sono i custodi della tradizione. Danno fiducia anche a un vecchio scassato come me. Sono la miglior rock band under 35 in circolazione e sono tra le migliori rock band in assoluto oggigiorno.

Impossibili tedeschi. Al concerto, tantissimi ragazzi e ragazze giovanissimi. Anche famiglie con i bambini. Noi i figli li portiamo a vedere "le leggende". Sai, bimbo mio, guardati Bruce e Bob prima che tirino le cuoia così un giorno potrai dire di averli visti... Loro i bambini li portano a vedere i Kings of Leon. E' così che si costruisce una educazione alla buona musica. Ed ecco perché ieri sera era pieno di ragazzi e ragazze giovani. In Italia, i Kings of Leon a suonare non ce li facciamo neanche venire. Però riempiamo gli stadi e le arene per le leggende. Non ho rivisto la giornalista svedese, ma sono andato a fare un giro all'Hard Rock Cafè di Colonia. Perché a Milano non c'è? Impossibili tedeschi. Ho scattato qualche foto e ho toccato una chitarra dei Traveling Wilburys. Impossible Germany

Tuesday, February 24, 2009

Fly Jefferson Airplane. It takes you there on time

Giovedì volo a Colonia, Germania. L'ultima volta che ci sono stato era ancora dell'Ovest, un bel 25 anni fa. Mi hanno invitato insieme ad altri due colleghi al concerto dei Kings of Leon. Niente interviste, solo concerto. Bizzarro, in tempi di vacche magre della discografia come questa, che si tirino fuori dei soldi per una mission impossible come questa: non è che penseranno che Paolo Vites e gli altri due cowboys con le loro parole possano far vendere vagonate di dischi a un gruppo che in Italia non ci viene manco a suonare? Vabbè, a me i KoL piacciono abbastanza, non li ho mai visti dal vivo e sono molto curioso. Vi racconterò.
Intanto mi è venuto in mente l'ultimo viaggio di lavoro che ho fatto proprio in Germania, quando di soldi ne giravano appena un po' di più di oggi e le trasferte erano ancora cosa abbastanza consueta.

Credo fosse il 2002, e una intrepida pattuglia di journos, le menti più brillanti della critica musicale italiana, si ritrovò a Malpensa, destinazione Monaco di Baviera: ci aspettavano gli Aerosmith, e insieme a noi i colleghi di tutta la stampa europea, conferenza stampa il primo giorno e concerto - in un piccolo club! - la sera dopo. Morale tre giorni a Monaco e soprattutto la possibilità di vedere gli Aero non in una balorda arena ma in un posto da circa 500 spettatori.
A Malpensa i primi casini: il volo non so che problemi aveva, così a me al collega del Corriere della Sera ci dirottano su un altro volo che partiva in orario (gentilezza dovuta al fatto che eravamo i più vecchi della compagnia, e poi io avevo già cominciato, come mio solito, a sclerare con il tipo della casa discografica perché mi avevano promesso una singola con Steven Tyler e invece era sfumata, quindi per tenermi buono mi offrirono di partire.. al volo...). Gli altri sarebbero partiti non si sapeva quando, con il rischio di perdere la conferenza stampa. Prima di imbarcarci incrociamo Mario Luzzato Fegiz: viene anche lui, chiedo al collega? No, lui sta volando a Miami per la prima del nuovo tour mondiale degli U2. Ah, ecco, la stampa che conta... Di fatto, l'amico del Corriere sapeva vagamente chi erano gli Aerosmith, in quanto si occupava normalmente di nera. Durante il volo gli feci una ripassata di storia del rock.

In aereo conto gli spiccioli che ho in tasca: senza l'accompagnatore della casa discografica, che ha preso l'altro volo, il taxi dall'aeroporto all'albergo me lo dovrò pagare di tasca mia. Luckily, il collega non ha problemi. Ovvio, il Corriere della Sera rimborsa anche le birre, mica è Jam. Così scrocco un passaggio.
La conferenza stampa vede uno spiegamento mediatico degno di una serata agli Oscar, un centinaio di giornalisti, più i rappresentanti di alcuni fan club di mezza Europa. Loro arrivano sprigionando tonnellate di carisma tossico (volete sapere quando un musicista rock vale qualcosa? Quando ha carisma. A me gli indie low-fi finto depressi che sembrano degli impiegati di banca o dei boscaioli disoccupati puzzano sin dalle foto. E infatti i loro dischi mediamente fanno cagare. Gli Aerosmith hanno carisma). E soprattutto con loro una mezza dozzina di super top funky model da urlo. Cazzo, questo è rock'n'roll. Conduce Victoria, di Mtv. Amo quella ragazza, l'unica della sua categoria che sopporto. Non capisce un tubo della mia prima domanda, però, traducendo non so cosa. Allora la seconda domanda me la faccio direttamente in inglese da solo. Sparo alto, qua bisogna fare i fighi, anche perché due sedie più in là è seduta una collega della stampa svedese degna di altre cause, e bisogna mostrare loro che "the italians do it better". Chiedo a Tyler della sua partecipazione al recente disco tributo a Jack Kerouac, tra gente come Joe Strummer, Warren Zevon, Eddie Vedder, Michael Stipe. "Steve, 'azzo ci fa un burino metallaro come te insieme a certa gente e soprattutto quando cazzo mai hai letto un libro di Kerouac?". No, non è vero, uso altro linguaggio, ma il senso era quello. Tyler mi guarda sgranando gli occhi. "Bersaglio centrato", penso, e guardo la collega svedese dall'alto in basso. Lei mi guarda dal basso in alto. Risponde bene, l'uomo di Walk This Way, dimostrando di averne letti di libri di Kerouac.
A fine conferenza mi avvicino per chiedergli un autografo per una amica. Mi chiede di dove sono, "Wow, Milano..." e parlottiamo un po'. Fico. Ma soprattutto la collega svedese viene a presentarsi: "Do I meet you before?" mi chiede. Mmm parliamone davanti a un drink.
Serata con il resto della band di journos, tutti arrivati poi in tempo. Se magna e se beve. Tanto. La collega svedese? Non sono fatti vostri.

La sera, dopo una giornata a svuotare almeno due volte il frigo bar della camera, pullmino privato e via in questa discoteca. Caldo torrido, zeppo di crucchi già strafatti di birre. Gli Aero arrivano sul palco con ancor più carisma, adesso che sono nel loro vero ruolo, e soprattutto sul palco si posizionano anche la mezza dozzina di super funky model su cui Tyler si struscerà di continuo durante lo show. Beato lui. Io, cazzo, invece non riesco più a ritnracciare la collega svedese.
Comunque sia, la musica che comincerà di lì a poco me la farà dimenticare. Il rock'n'roll, quello vero, è meglio di un anti concezionale. Il volume è al limite dell'umana resistenza, ma vedere questa band in uno spazio piccolo, senza le scenografie e i trucchetti minchiosi che usano di solito, vederli all'opera come una autentica garage band, è quasi meglio di un orgasmo. Cazzo se suona Joe Perry. Questi non prendono prigionieri. Volete sapere quando una rock band è una grande rock band? Quando suonano, anche a 50 anni e più, come se fosse ancora la loro prima volta. O l'ultima. Fanno partire una Mama Kin, dal primissimo loro album - 1973 - e Perry e Tyler sono più Toxic Twins che mai.Rattlesnake Shake è il sabba voodoo che stavi sognando, tra John Lee Hooker e il cervello fritto di Peter Green. British Invasion, ecco da dove arrivano gli Aero, e infatti Train Kept A Rollin' (Yardbirds) sarà una lunga, devastante, impossibile jam da sballo. Joe Perry si sdraia su una delle funky model senza perdere un riff di chitarra. Si finisce in gloria con Come Together dei Beatles. Hanno celebrato le loro radici rock-blues senza perdersi in banalità come l'amore in ascensore, hanno riportato tutto a casa e non hanno fatto prigionieri.
Dopo, fine serata a dosi massicce di birra. La collega svedese? Non sono fatti vostri. La mattina dopo, check out all'hotel e ci vediamo allungare un conto da pagare che sembra arrivare fino all'altra parte del muro di Berlino. Che già era crollato. Io e un collega di quella rivista che pubblica gli articoli dei blog senza autorizzazione nella loro rubrica della posta facendoli passare per lettere mai scritte, ci guardiamo con un leggero pallore. Ci voltiamo a cercare quello della casa discografica. Di solito, nelle trasferte di lavoro, il conto fa parte delle spese a carico loro. ma era così fino al viaggio precedente. Senza ancora sapere nulla di crisi della musica, ne tocchiamo con mano le prime avvisaglie. "Noi paghiamo solo pernottamento e viaggio. Il resto è a carico vostro". Stikazzi...

Ormai senza più ritegno, prendiamo un taxi verso l'aeroporto. Il collega della rivista che non sa la differenza tra un blog e una rubrica delle lettere, è decisamente sclerato e insulta il taxista a ogni curva e a ogni frenata. "Sta' attento" gli dico "in Germania l'italiano lo capiscono". Non ci crede e continua ad insultarlo pesantemente. All'arrivo all'aeroporto, il taxista si gira ed educatamente e in perfetto italano, ci dice. "Il totale è...., signori e signore". Coglione, è la parola che sommerge il collega. Si unisce, distintamente, anche il taxista.
Il viaggio di ritorno è accompagnato da un delizioso venticello di tempesta che ci fa traballare tipo Buddy Holly e Ritchie Valenzuela, da Monaco fino a Milano. Ripasso mentalmente le immortali parole di Bob Dylan: "On a plane ride so bumpy that I almost cry". C'è chi vomita, chi maledice il lavoro che fa, chi discute ancora se l'assolo di Joe Perry era suonato più velocemente di uno di Joe Satriani.
Arrivati, alfine, con meno soldi in tasca e molto mal di pancia e mal di testa. Ne valeva comunque la pena. Per una delle più folgoranti serate di rock'n'roll della mia vita. E per una collega svedese, che non ho mai più rivisto. Forse la rivedrò giovedì sera a Colonia, al concerto dei Kings of Leon. Who knows it. Se era un tipo intelligente, come mi sembrò, avrà sicuramente cambiato lavoro e lasciato questo insulso carrozzone del rock'n'roll. Io no, I'm too old for rock'n'roll, but too young to retire. Che altri mi resta da fare, nella vita? E' uno sporco lavoro, ma qualcuno deve pur farlo. Come dite? Sì, lo so. Il conto degli extra non lo passa la casa discografica. Me ne ricorderò, a Colonia.

Friday, February 20, 2009

La stella. E John

C’era una sola stella nel terso, scuro come il cobalto cielo di febbraio. Viaggiavo per una strada solitaria persa nella campagna della bassa padana. Nessuno dietro di me, nessuno che mi veniva incontro. La stella stava lì, dritta nella mia direzione, forse era la stella polare che mi guidava nella mia strada verso casa. Ero stanco di lunghe ore di macchina, e di lavoro. Non avevo neanche voglia di ascoltare musica. Ma sembrava che la stella mi dicesse, fammi sentire una bella canzone. È solitario quassù, e stanotte fa freddo. Siamo solo io e te, questa sera, teniamoci compagnia. Con gesto assonnato ho schiacciato player e in sequenza sono partite Help!, The Night Before, You’ve Got to Hide Your Love Away, I Need You.. e via via tutto Help! dei Beatles.
La stella mi sorrideva, perché, oh come erano formidabili quelle canzoni.

Pur nella loro assoluta semplicità, nelle parti di chitarra solista così zoppicanti di George Harrison, negli arrangiamenti pressoché identici ed elementari, quelle voci spaccano. È il disco di John Lennon, questo. Anche se Paul ci infila con nonchalance I’ve Just Seen a Face e Yesterday, dal grido di aiuto iniziale, passando per la maestosità di I Need You, alla rabbia disperante di You’re Goin’ to Lose That Girl, la magnificenza compassionevole di It’s Only Love e la gioiosa innocenza di Ticket to Ride, con le sue fantastiche innovazioni musicali, qua c’è un ragazzo già uomo che prova a fare i conti con la vita. Con l’amore, impossibile da trattenere, eppure impossibile da rinunciarvi. Che cosa saremmo, senza l’amore?
E a chiosa di tanto desiderio, l’amico Paulie ci infila Yesterday, canto funebre pieno di mistero – quell’ombra appesa, nessuno ha mai scritto verso più poetico in una canzone d’amore – a sostenere John nel suo dolore.
Per poi dirci, quasi, “avevamo scherzato”: DIZZY MISS LIZZIE!. Ma è John che canta.
La stella continuava a fissarmi da lassù. Suonalo ancora, amico, mi ha chiesto. Questo disco è troppo bello.

Monday, February 16, 2009

Queen Jane non abita più qui

"Inside a house
with a broken guitar
I waited for a song
but nothing would come
won't you come, my Queen Jane
and bring me a song"


Un altro cd. Un altro disco che rimane lì a fissarti. Un altro cd ascoltato distrattamente, di corsa. Un’amica che insiste: ascoltalo. Uno sguardo ai titoli delle canzoni: Words Tangled in Blue, Queen Jane, Stayed Too Long in this Place. Questo tipo ha buon gusto, sa dove pescare i titoli delle sue canzoni, quanto meno.

Poi, un fatto, un accadimento, un incontro. E il cd entra nel lettore della macchina prima, poi in quello di casa, e ci rimane. Per lunghi lunghissimi ascolti che non vuoi interrompere più. Le “note dedicate a un’amante assente” sono gli appunti di un amore finito. Sangue nei solchi, blood on the tracks. La storia che si ripete, perché sembra nessun amore, per quanto grande, riesca a resistere, a durare nel tempo. Ma non si è soli quando qualcuno è venuto, si è soli se qualcuno non è mai arrivato.
Questo disco di Barzin, http://www.barzinh.com/main.html, Notes to an Absent Lover, è bellissimo. Chi ha amato le canzoni del film Once, non potrà che rimanere stregato dalla stessa malinconia piena di dignità che esce da queste canzoni, melodie impalpabili, nostalgiche, addolorate ma ricche di desiderio, coniugate in un country-pop di alta classe, tra Dylan e Cohen. Accompagnamenti discreti, chitarre sfiorate, tastiere in evidenza, una voce forte, bella, che avvince. E quell’amante adesso assente diventa l’amante di tutti noi. Perché il dolore ci accomuna tutti. “Won’t you come see me, Queen Jane”, come cantava quell’altro, quarant’anni e più fa.

http://goodfellaspromo.blogspot.com/2009/02/barzin.html

Friday, February 13, 2009

Vecchio amico, di giorni e pensieri

“E un' altra volta è notte e suono,
non so nemmeno io per che motivo, forse perché son vivo
e voglio in questo modo dire "sono"
o forse perché è un modo pure questo per non andare a letto
o forse perché ancora c'è da bere
e mi riempio il bicchiere”


L’altro giorno in macchina mi è capitata fra le mani una raccoltina di sue canzoni che mi ero fatto un giorno e poi dimenticato. E mi è tornato in mente, di come un tempo “divorassi” i suoi dischi. Fino a Metropolis. Poi anche per lui sono cominciati gli anni 80. Ha cercato di diventare un musicista, ma lui era uno scrittore in musica. Ma da Folk Beat n. 1 fino a Metropolis le sapevo tutte a memoria. Alcune, ho anche provato a impararle con la chitarra senza grandi risultati. L’ho visto in concerto una sola volta, Genova, Palazzetto dello Sport, inverno 1980. Un bel 10mila spettatori e lui da solo, con un chitarrista, sul palco, a tenere tutti a bada. Altro che rock’n’roll. Scusate, non da solo. Il bottiglione di vino al suo fianco, da cui tracannare a ogni canzone. Chissà se oggi lo fa ancora, di portarsi il bottiglione di vino sul palco. Dubito. Allora, Francesco Guccini era il fratello freak di tutti noi. Quella foto sul retro copertina di Stanze di vita quotidiana era perfetta: look da hippie di San Francisco. Nessuno come lui in Italia.
Oggi sembra diventato il preside di quel film di Pieraccioni che lui stesso ha interpretato. Mi dicono che canta sempre La locomotiva e che immancabili si alzano sempre migliaia di pugni chiusi. Anzi, mi dicono che è cazzosamente e politicamente più impegnato oggi di 30 anni fa. È curioso, perché se c’era un buon motivo per essere schierati politicamente era proprio allora, negli anni 70 (ok, oggi c’è il Berluska, vero? Ok). Ma allora, ogni giorno “revolution was in the air”. Lo erano, lo eravamo, tutti, impegnati politicamente. Lui, invece no. Cantava di solitudine, disperazione, nostalgia e tristezze assortite. Lo faceva non per farti sentire uno sfigato, ma perché cercava, cercava disperatamente un significato al vivere. Era stoico, aveva le palle. Poi andava decisamente contro corrente, l’unico che scrisse una canzone contro l’invasione sovietica di Praga. Che dischi formidabili.
Via Paolo Fabbri 43 è per me il suo disco perfetto. Non solo perché, finalmente, era suonato e prodotto bene. Tutti avevano bellissime canzoni, ma Radici, ad esempio, era (ed è) inascoltabile per come fu registrato. Questo invece non sembra neanche un disco degli anni 70. E che infilata di brani memorabili uno dopo l’altro: sei, il numero perfetto di Guccini. Perché le sue erano canzoni lunghe lunghe, come dei libri. Piccola storia ignobile, a tema l’aborto, ma non per farne una bandiera politica, ma per raccontarne il dramma. Ricordo che per scandalizzare mia madre la mettevo su ogni volta che lei entrava in camera mia. Canzone di notte n. 2, arpeggio fingerpicking, arie di country music, quel solo di chitarra buttato là in mezzo. Dio quanto lo amavamo quest’uomo. Con quelle parole, che prima ci facevano alzare in piedi, pronti a scendere per le strade (“Però non siate preoccupati, noi siamo gente che finisce male: galera od ospedale! Gli anarchici li han sempre bastonati e il libertario è sempre controllato dal clero, dallo Stato”), poi ci faceva capire che neanche una rivoluzione è abbastanza (“O forse non è qui il problema e ognuno vive dentro ai suoi egoismi vestiti di sofismi e ognuno costruisce il suo sistema di piccoli rancori irrazionali, di cosmi personali, scordando che poi infine tutti avremo due metri di terreno”). Maestro di realismo, il compagno Francesco.
L’avvelenata. C’è bisogno di dire qualcosa per la più grandiosa canzone del vaffanculo di tutti i tempi? È il vaffanculo messo in musica, e ditemi chi ha saputo fare meglio, e ditemi se non l’avremmo scritta tutti noi, al posto suo. Canzone quasi d’amore, "il vuoto che al solito ho di dentro”… cazzo sapevi parlare di noi, compagno Francesco. Il pensionato… “Il pensionato è uno dei miei soliti ritratti di diversi, di emarginati perché ultimi residui di una cultura che sta scomparendo”: come Radici, perché senza memoria dove vogliamo andare?
È un disco così memorabile, così perfetto, che ancora oggi il Guccini-preside usa quella facciona in copertina per pubblicizzare i suoi concerti.

Potrei parlare di quanto ho amato e amo un disco come Stanze di vita quotidiana, con quell’ode leopardesca in musica che è Canzone per Piero, la più bella canzone sull’amicizia. Ma ho già parlato abbastanza.
L’ho incontrato una volta sola, di sfuggita. Eravamo a Conegliano, a un festival di poesia, metà anni 90. Io accompagnavo Eric Andersen. Stavamo entrando nel backstage, eravamo pieni di borse e chitarre e lui, che era già dentro, corse ad aprirci la porta gentilissimo e umilmente ci aiutò a sistemare i bagagli. Aveva riconosciuto Eric, uno dei grandi folksinger che lui da ragazzo aveva ascoltato sicuramente, insieme all’amato Bob Dylan. Non ci parlammo, si fece di lato insieme a un suo amico e diedero sotto a un paio di bottiglie di vino. Era un gigante, fisicamente, e sprigionava ancora tonnellate di carisma. Mica il preside di Pieraccioni. Lo guardai a lungo con malcelato affetto senza rivolgergli la parola. Il compagno Francesco, “mio vecchio amico di giorni e pensieri…”.

Wednesday, February 11, 2009

Silly Love Songs

«Nell'esperienza di un grande amore tutto ciò che accade diventa un avvenimento nel suo ambito»
Romano Guardini

Sembra si intitolerà My Own Love Song, traducibile più o meno con un “la mia personale canzone d’amore”, il nuovo disco di Bob Dylan in uscita a fine aprile. L’anno scorso, al cantautore americano era stato chiesto di scrivere alcune canzoni per la colonna sonora del film del regista francese Olivier Dahan, dal medesimo titolo. Ne ha scritta qualcuna (che nel film sono cantate dall’attrice Renee Zellweger), poi ci ha preso gusto, ne ha scritte altre e ha pensato che valesse la pena di radunarle tutte insieme in un suo nuovo album. Nel disco tra gli altri è presente l’eccellente chitarrista degli Heartbreakers Mike Campbell e un – ancora misterioso – musicista si dice appartenente a un importante gruppo rock. Le speculazioni sono aperte: io dico Jack White dei White Stripes.
Il disco è stato registrato lo scorso ottobre 2008 a Los Angeles e Santa Monica, in California. Tra aprile e maggio Dylan sarà in tour in Europa. Ai primi di maggio si esibirà a Londra alla 02 Arena dove si parla di un concerto speciale in cui potrebbe presentare il nuovo disco.

Sono tutte notizie rinfrescanti: nuovi musicisti, un progetto che ha appassionato l’autore (vale la pena ricordare che Slow Train Coming inizialmente era una serie di canzoni che Dylan aveva scritto perché la sua corista le incidesse, poi aveva deciso di riappropriarsene) e soprattutto un tema, che è quello che Bob Dylan ha trattato in maniera superba e in modo continuativo, fino a farlo diventare il “suo tema”: l’amore.
Fa sorridere che un uomo di quasi 70 anni scriva ancora delle pene del cuore? No, perché come diceva Nick Cave, “la Canzone d’Amore è la luce di Dio, giù nel profondo, che si fa largo tra le nostre ferite. Alla fine la Canzone d’Amore esiste per riempire, con il linguaggio, il silenzio tra noi stessi e Dio, per abbattere la distanza tra il temporale e il divino”. Non c’è tema più appassionante, più profondo e più umano che scrivere dell’amore. Perché è nel desiderio di unirsi all’altro che si svela quello di cui siamo fatti, quell’incompletezza che ci definisce, quell’ansia che rivela la nostra natura di esseri imperfetti. È nella constatazione della caducità stessa del rapporto affettivo, del suo inevitabile corrompersi, che siamo portati a desiderare sempre di più qualcosa di sempre più grande, che finalmente appaghi la nostra inquietitudine.
In fondo, la Divina Commedia era solo una grande storia d’amore.
Allora ecco la mia Top Ten delle più belle canzoni d’amore di Bob Dylan:
1.Sad Eyed Lady Of The Lowlands
2.Just Like A Woman
3.Idiot Wind
4.Red River Girl
5.I Want You
6.One More Cup Of Coffee
7.Shooting Star
8.Girl From the North Country
9.Is Your Love In Vain?
10.Love Minus Zero/No Limit

Sunday, February 08, 2009

Le canzoni rock dicono la verità

"Nessuno può entrare nel loro sonno misterioso e dirci cosa sia davvero, perciò non è giusto misurarlo con il tempo dei nostri orologi. Ecco perché vale sempre la pena di aspettare"
Enzo Jannacci



Magician Magician take me upon your wings
and ... gently roll the clouds away
I'm sorry so sorry I have no incantations
only words to help sweep me away

I want some magic to sweep me away
I want some magic to sweep me away
I want to count to five
turn around and find myself gone
Fly through the storm
and wake up in the calm

Release me from the body
from this bulk that moves beside me
Let me leave this body far away
I'm sick of looking at me
I hate this painful body
that disease has slowly worm away

Magician take my spirit
inside I'm young and vital
Inside I'm alive please take me away
So many things to do - it's too early
For my life to be ending
For this body to simply rot away

I want some magic to keep me alive
I want a miracle ... I don't want to die
I'm afraid that if I go to sleep I'll never wake
I'll no longer exist
I'll close my eyes and disappear
and float into the mist

Somebody ... please hear me
my hand can't hold a cup of coffee
My fingers are weak - things just fall away
Inside I'm young and pretty
Too many things unfinished
My very breath taken away

Doctor you're no magician - and I am no believer
I need more than faith ... can give me now
I want to believe in miracles - not just belief in numbers
I need some magic to take me away

I want some magic to sweep me away
Visit on this starlit night
replace the stars the moon the light - the sun's gone
Fly me through this storm
and wake up in the calm ...
I fly right through this storm
and ... I ... Wake ... Up ... In ... The ... Calm

Thursday, February 05, 2009

Magic: le canzoni

Mi sono fatto la compilation delle canzoni citate nel libro. È divertente. È la versione audio del libro. Ho dovuto lasciarne fuori qualcuna perché in un cd solo non ci stavano tutte. Ad esempio Elliott Murphy (cazzo!), Bruce Springsteen e Sheryl Crow. Ascoltandolo mi sono accorto che sono praticamente tutte canzoni tristi. Mi piacciono ancor di più. Magari fra un po', come si fa per i grandi film, faccio anche un cd tipo "Songs ispired by Magic". O faccio un secondo volume di questo cd, perché No Surrender ci deve proprio entrare.

Magic va anche on the road. Il 14 febbraio (St. Valentine Day...) a Chiavari: si torna a casa. Partecipano Giovanni De Cillis e Renzo Cozzani, canteranno alcune canzoni del libro; il 21 marzo a Gazzada (WelcHome - Art Food Living Complesso Lorenzini
Rotonda di GAZZADA Via Morazzone, 60 ), con l'amico Marco Zanzi della Piedmont Brothers Band: Magic goes country!. Una data ancora da fissare a Bresso (Milano) ma già sicura, probabilmente aprile. Poi una grande festa finale a Milano, ancora top secret. Sarà The last magic waltz.
Stay tuned.
Grazie Anna per la copertina e il retro. Copyright, of course (la copertina veramente è marroncina, non azzurrina.. non chiedetemi perché è venuta fuori di questo colore... its magic!).

Tuesday, February 03, 2009

WTF

La lettera a firma Paolo Vites che appare a pagina 7 della rivista Mucchio Selvaggio - nella rubrica delle lettere - in edicola questo mese non è una lettera scritta da Paolo Vites a detta rivista, ma un post tratto dal blog di Paolo Vites, pubblicato senza il suo consenso e senza citare la fonte da cui è tratto.



Paolo Vites si domanda il bizzarro motivo di tutto ciò. Magari scrive una lettera al Mucchio Selvaggio.

Sunday, February 01, 2009

People ain't no good

People just ain't no good
I think that's welll understood
You can see it everywhere you look
People just ain't no good

(Nick Cave)

But all the people who don't fit
Get the only fun they get
From people puttin' people down

(John Prine)

La gente è cattiva. Alla gente piace fare del male alla gente. Perché mi piacciono le canzoni rock? Perché dicono la verità. Non sto dicendo che i loro autori siano gente che necessariamente viva così, ma le canzoni dicono sempre la verità. "Il rock'n'roll è una delle poche cose oneste che siano rimaste" disse una volta Elliott Murphy. Aveva ragione.

Siamo cattivi, ci facciamo del male gli uni con gli altri, a volte con calcolata, fredda capacità scientifica, magari solo per invidia. Ci facciamo del male anche tra amanti, sposi, fidanzati, quando ci diciamo che ci vogliamo bene: "What good am I if I say foolish things and I laugh in the face of what sorrow brings?" .
Quegli obsoleti, un po' stupidotti dei cristiani lo chiamavano peccato originale. La natura dell'uomo, cioè, quella di essere incapace da solo a fare del bene. Di essere creatura fragile, impotente, tendenzialmente stronza. Mi diverte che siano poi alcuni di quelli che hanno decretato la morte del peccato, e di Dio, a fare le cose peggiori, oggigiorno. In nome dell'assoluta e totale libertà da tutto e da tutti. Ma la libertà come libertà da ogni legame, da ogni morale, da ogni giudizio, alla fine conduce in un vicolo cieco. O alla canna di un fucile puntato in bocca, quello di Kurt Cobain.

Questo blog si prende una pausa. O magari finisce per sempre qui la sua avventura. Magari mi metterò a vedere quanto male io stesso ho seminato per strada. Magari faccio come Leonard Cohen e mi chiudo per 15 anni in un monastero buddista a meditare. Voglio diventare un po' zen, impermeabile al male che ho fatto e mi hanno fatto. E come Bob Dylan, mi guarderò dietro un'ultima volta e sottovoce canterò:
Oh a false clock tries to tick out my time
To disgrace, distract, and bother me.
And the dirt of gossip blows into my face,
And the dust of rumors covers me.
But if the arrow is straight
And the point is slick,
It can pierce through dust no matter how thick.
So I'll make my stand
And remain as I am
And bid farewell and not give a damn.

Sangue nei solchi del cuore

“Bob Dylan è in città, c’è bisogno di catturare qualcosa di magico”. La “città” è ovviamente New York, al telefono John Hammond, il più gran...

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