Monday, September 21, 2015

Stone alone

Che cosa fa una pietra quando non rotola? Non si lascia coprire di muschio se questa pietra si chiama Keith Richards. Si guarda dentro, riscopre quello che ha accumulato in una lunga vita, un amore grande così per la musica in tutta la sua interezza e ne fa un bel disco. Che è poco "rolling" e molto "stone" nel senso che Richards a differenza di Jagger è ben fisso sulle radici della musica. Come una pietra. Un po' come Bob Dylan che ormai da molti anni vive in un mondo antico e fa musica che appartiene all'era pre rock'n'roll: il blues, il jazz, il folk, il country precedenti alla rivoluzione di Elvis. Che poi sono la cifra stessa che costituisce il rock'n'roll.

Anche il chitarrista degli Stones nel suo nuovo disco solista, "Crosseyed Heart", a ventitré anni di distanza dal precedente (con questo tre in tutto nella sua carriera) percorre queste strade, tanto che l'unico vero pezzo che ha il sapore e l'eccitazione della sua band appare solo a un certo punto, Trouble, anche se gli indizi qua e là non mancano. Un disco raffinato, cantato con un cuore (strabico, perché è un cuore che si è giocato tutto nella vita) purissimo, dove emerge tutta l'onestà di un artista che ha dedicato ogni attimo dell'esistenza a qualcosa di più grande di lui, la musica. Canta Bene in questo disco, Keith Richards, stupendo visto che non è mai stato un cantante vero e proprio, certo non all'altezza dell'amico/nemico Jagger, ma questo lo sanno tutti. In "Crosseyed Heart" supera se stesso declinando la voce come un vecchio crooner pieno di affetto e sincerità.



I brani di Richards solista, come già ci avevano mostrato i due dischi precedenti, sono un po' pezzi degli Stones prima della lavorazione di Mick Jagger. Scarni, essenziali, tenuti su da riff squadrati e implacabili. Jagger poi li colora e li fa diventare quella festa grande che sappiamo. Ma in "Crosseyed Heart" Keef va oltre e incide una serie di brani che portano lontano, perfetti per un noir di Raymond Chandler. E' un viaggio alle radici, compiuto quasi tutto di notte, tra ricordi, fantasmi e promesse infrante.

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Sunday, September 13, 2015

Il suono della vita

Ricordo le telefonate eccitate: ma fa anche Chimes of Freedom, una versione irriconoscibile. Così irriconoscibile che infatti non era neanche Chimes of Freedom. In quei giorni antichi in cui si scopriva che stava per uscire un disco nuovo solo attraverso i passaparola dei più informati e soprattutto qualche passaggio radio, quando le radio non erano spazzatura, ma erano libere, libere veramente come cantava Eugenio Finardi, l'attesa aumentava di giorno in giorno. Poi il disco usciva e naturalmente un ragazzino di 14 anni non poteva permettersi di comprarlo subito, doveva aspettare la luna buona dei genitori che gli sganciassero i soldini.
Hard Rain usciva il 13 settembre di 39 anni fa. Era un bel periodo quello per essere ragazzi, c'era tanta bella musica dietro ogni angolo. Desire era uscito solo sette mesi prima, io l'avevo comprato due mesi prima, e già c'era un altro nuovo disco di Bob Dylan. Un disco misterioso, strano, pure bizzarro. A cominciare da quell'incredibile foto di copertina, un volto straniato e straniante, in primissimo piano, con quegli occhi inquietanti ed evidentemente sballati. Un disco punk prima del punk, un disco ferocemente garage, che urlava la stessa follia del Dylan di dieci anni prima, quello di "play fucking loud". Un Dylan spiazzante e irriconoscibile come allora, che buttava là un disco live con soli nove pezzi quando tutti facevano dei lussuosi doppi live che poi erano dei greatest hits pure ritoccati in studio per correggere errori e stonature e per auto incensarsi: ascoltate come siamo bravi, sembrava dicessero tutti.


Dylan se ne fregava. Il suono era indecifrabile, avvolto di nebbie soniche, la voce implacabile, cattiva, le canzoni scelte tra le sue più oscure, ma di una bellezza travolgente. Una bellezzaa inquietante. Cambiava i testi originali, improvvisava, guidava i musicisti dietro di lui nel caos più totale, nel buio più spaventoso, per uscirne salvo alla fine, ma era una guerra. C'era sangue nei solchi.
Il più grande disco dal vivo di Bob Dylan per chi scrive ancora oggi, ancor più della magnificenza dei live del 1966. Idiot Wind, la più grande performance mai registrata dal vivo della più grande canzone di sempre. Shakespeare sta gridando nel cortile. Paura. Le più intense e commoventi declamazioni liriche, One too many mornings. Mestizia, dolore, separazione, solitudine agghiacciante, You're a big girl now. Un urlo implacable, Lay lady lay. Garage rock del più insolente e straboccante, Maggie's farm.
Erano dei giorni gloriosi quelli per essere un ragazzino che si affacciava alla vita e quel disco suona ancora oggi più vivo che mai e più misterioso di allora.
Quella faccia finì anche su un poster, e quel poster finì sul muro della mia stanza da letto. A dettare il tempo, il ritmo della scoperta, la paura di crescere, le ansie, la consolazione, una compagnia per guardare in faccia a una vita che non era quella che doveva essere.
Ma non eri solo. Quel disco mi ha salvato la vita. Fu un riparo dalla tempesta della vita, proprio come la canzone, Shelter from the storm.

Shelter From The Storm - Bob Dylan from Rolling Thunder Bard on Vimeo.

Friday, September 11, 2015

Incoerente anche come panettiere

Adesso che tutti quelli che ti davano dei consigli vomitano la loro plastica ai miei piedi per convincermi del mio dolore e che le mie conclusioni dovrebbero essere più drastiche. Non chiedetemi più di presentare i vostri libri quando nessun editore vuole pubblicare i miei. Non chiedetemi di ascoltare i vostri dischi. Non chiedetemi di scrivere recensioni dei vostri libri e delle vostre canzoni con la scusa che vi interessa la mia opinione, se così fosse me la chiedereste in privato. Ho fatto scarpe per tutti, ho creato anche dei mostri, siete stati più furbi di me, mentre io vado ancora in giro scalzo. Non mandatemi post su facebook, a meno che me li mandiate dal vicolo della desolazione.



Io voglio tornare a casa da mia mamma, mangiare la pastasciutta che ha cucinato per me e camminare per ore intorno al tavolo basso rotondo della sala mentre sta suonando Workingman's Dead dei Grateful Dead. Voglio ascoltare Alabama Rain di Jim Croce mentre lei suona il campanello e sale a trovarmi. Per rinunciare alla mia giovinezza ho fatta tanta fatica, anche per arrivare di fronte al mare. Queen Jan, approssimativamente, vieni a trovarmi. Sono incoerente, anche come panettiere.

Sangue nei solchi del cuore

“Bob Dylan è in città, c’è bisogno di catturare qualcosa di magico”. La “città” è ovviamente New York, al telefono John Hammond, il più gran...

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