Quasi una decina di anni fa invitati Elliott Murphy a esibirsi in Italia, all’interno di uno dei massimi eventi culturali italiani, nella Rimini felliniana che lui ama tanto. Con lui, oltre alla sua band, c’era la famiglia, la splendida moglie e il figlio Gaspard, un simpatico ragazzino grassottello credo tredicenne che sembrava uscito dal film I Goonies. Il padre me lo presentò come amante dell’heavy metal e lo invitò anche sul palco a suonare in un pezzo: divertente e bravo. Ma me lo ricordo però maggiormente come un ragazzino della sua età, che si divertiva da morire alle barzellette dell’allora drummer di Elliott, il bravissimo Daniel Montgomery. Così, dopo aver ascoltato il nuovo disco di Murphy “It takes a worried man”, la prima cosa che ho pensato è stata: finalmente un disco prodotto come Elliott merita. Rimango infatti dell’idea che il suo ultimo disco degno del suonome sia ancora Selling the Gold, che come questo ultimo riporta ai fasti dei giorni di gloria degli anni settanta di Murphy. Be’, sono rimasto alquanto scioccato a vedere che il disco è stato prodotto da quell’ex ragazzino paffuto, che evidentemente nel tempo è diventato un produttore e un musicista con i contro coglioni e ha saputo dare alle canzoni del padre quel suono che meritano, un orgoglioso disco autenticamente rock e molto 70s.
Quello che mancava infatti agli ultimi lavori di Murphy non erano le buone canzoni - quelle a Elliott non mancano mai - ma era la visione, e un artista senza visione è come un pittore senza pennelli o uno scrittore senza la penna. E la visione di Murphy è sempre stata, nei suoi momenti migliori, quella di celebrare lo spirito del rock’n’roll, la sua bellezza e la sua miseria, la sua gloria e la sua decadenza. Nel nuovo disco c’è tutto questo, l'ha ritrovata proprio Gaspard, che cosa buffa: dal brano che titola il disco che recupera la versione originale, quella della Carter Family, da cui Junior Parker avrebbe tirato fuori Mystery Train, il pezzo rock definitivo, al pop sontuoso di Little bit More sfuggito di mano a Phil Spector fino a uno scarto di “night visions” che sono appunto le visioni migliori di Elliott, la pianistica, in totale solitudine, Even Steven, aspra e dolorosa come trovarsi ubriachi alle cinque del mattino sulla Bowery, un’altra vita e tanti anni fa. In mezzo, tanti poderosi brani rock come la sixties e deliziosa Angelina che fanno solo bene al cuore. Oppure la strabordante I am Empty. "Welcome to Murphyland": in questo disco c'è tutta la caratura artistica di un eroe dei Seventies e dunque perché non intitolare un pezzo proprio Murphyland?
Gaspard on stage with daddy Murphy
Così, bene: bravi Elliott e Gerard. Ma che bel disco. Solo la copertina è da buttare via: neanche Andy Warhol in acido avrebbe fatto qualcosa di tanto brutto. Vabbè, ma in fondo chi se ne frega. E poi a Andy Warhol avevi già dedicato una canzone, Elliott.
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