Monday, November 30, 2009

Best of Decade 2000-2009: i primi cinque

Gennaio 2000-novembre 2009: i cinquanta dischi degli anni Zero
(esclusi live, ristampe, antologie, tributi e colonne sonore)

Spiritual guidance: Claudio Magnani
Musical advisors: Rossana Savino, Diana Pizzuto

1. Wilco, A Ghost is Born, 2004
2. Wilco, Yankee Hotel Foxtrot, 2002
Due dischi della band di Chicago, a pari merito. Potrebbe essere un unico disco. Un grande, grandissimo disco. I Wilco sono la miglior rock band del terzo millennio: geniali, imprevedibili, innovativi, ma anche tradizionalisti. E a differenza di quelli degli anni Zero, loro (Jeff Tweedy) sanno scrivere grandi canzoni e, ancor di più, testi che hanno un contenuto. Totali.

3. Bob Dylan, Love and Theft, 2001
Non meriterebbe di stare fra i cinque migliori dischi di Dylan, ma alla fine della fiera il grande vecchio dimostra di avere ancora una marcia in più rispetto ai suoi coetanei. L&T avrebbe potuto essere suonato, cantato e prodotto meglio, ma per aver scritto un pezzo come Mississippi chiunque venderebbe la madre. Facendo musiche che precedono l’era del rock’n’roll, Dylan fa uno dei migliori dischi rock della decade. Onesto, come dice lui, con se stesso: honest with me.

4. Shelby Lynne, Just a Little Lovin’, 2008
Minimale e raffinato, suonato e registrato come 50 anni fa, con alcuni dei musicisti che lavoravano con Frank Sinatra. Una voce che spacca, impietosa e consolatoria allo stesso tempo. E alcune delle più belle canzoni del Novecento, quelle che cantava l’immortale Dusty Springfield. Per cuori infranti.

5. Nick Cave and the Bad Seeds, No More Shall We Part, 2001
Il disco dove l’artista maledetto fa finalmente pace con se stesso, le donne e Dio. Caccia il diavolo via di casa, perché a casa c’è Lui: God Is in the House. Musicalmente, uno dei suoi più intensi e raffinati lavori di sempre, con Leonard Cohen ben fisso nel cuore. Trascendente.

Friday, November 27, 2009

Best of Decade (gli anni Zero)

Se Claudio Magnani chiama, io rispondo. Uno dei tre discografici italiani per cui ho stima totale. Uno che si è fatto fotografare tra Keith Richards e Tom Waits. Mi chiede di fargli avere una lista dei miei dischi preferiti degli anni Zero, dal gennaio 2000 a novembre 2009, la prima decade del terzo millennio. Io manco mi ero accorto che era finita. Oddio, è difficile metterne insieme dieci, di dischi, di questi anni. In qualche modo ne tiro fuori una cinquantina, che pubblicherò cinque alla volta su questo blog, andando in ordine di preferenza, quelli che preferisco a cominciare e poi giù, a scendere.Non sono uno che, nonostante tutto, ascolta moltissimi dischi, quando ne trovo uno che mi piace dedico anche mesi ad ascoltare solo quello. E se un disco non mi prende, vola giù dal quarto piano dove abito molto presto, così non ne ho trovati molti di questi anni Zero, da citare. Sicuramente mi sono perso tantissime cose, ma non sono un tuttologo esasperato. Less is more, come diceva quello.
Ho escluso i live, i tributi, le raccolte a tema, per concentrarmi solo su solisti e gruppi. C'è poco rock, e non è un caso. Trovarne di veri dischi rock è quasi impossibile, quasi nessuno oggi suona ancora rock, checché ne dicano MTV o Virgin Radio. Sono andato a vedere liste analoghe che ci sono in giro sulla Rete, anche di autorevoli riviste, e sono rimasto allibito dalle loro classifiche. Bah.
Non ci sono, a parte un paio di eccezioni, sopravvissuti dei Sixties, ma anche dei Seventies. Non è un caso neanche questo. Ci sono tanti songwriter, ed è da lì che in questi anni Zero sono venute le cose migliori. La voce è tornata protagonista, e questo è un bene. Ma comunque, di questi 50 dischi che ho stilato, ne ascolto pochissimi. Li ho elencati, ma stanno là, sullo scaffale. Magari fra dieci o vent'anni avranno assunto un altro peso, un altro valore. O magari saranno volati giù anche loro dal quarto piano.
Si comincia lunedì con i primi cinque. Se intanto volete sbizzarrirvi a lasciare nei commenti i vostri preferiti, sarà divertente.

Thursday, November 26, 2009

Jewels and binoculars

"I aint gonna give you no bullshit"
(Mick Jagger, Madison Square Garden, 26 novembre 1969)

Una volta chiesi a Eric Andersen se gli piacevano gli Stones. Da folksinger purosangue e da appassionato che, come mi dice sempre lui, a casa ascolta sempre e solo jazz e musica classica, mi aspettavo un diniego disgustato. "Mi sono sempre piaciuti" disse invece "da quando li vidi al Madison Square Garden".
Jagger e soci al Garden di NYC devono averci suonato una infinità di volte nel corso della loro carriera, ma per tutti, specie quelli di quella generazione lì, dire "li vidi al Madison Square Garden" significa una data ben precisa. Significa quella volta lì, quarant'anni fa esatti, significa "il" concerto, la prima volta che suonarono nel cuore di New York, dando vita di fatto ai concerti rock moderni come oggi li conosciamo.
Solo che a differenza dei concerti che oggi conosciamo, quello di 40 anni fa, anzi i due che si tennero le sere del 26 e 27 novembre 1969, quelli facevano paura. Non erano intrattenimento stile Disneyland per famiglie. Era quando la musica rock faceva paura.
Con Mick Taylor a bordo e Brian Jones sottoterra da pochi mesi, gli Stones erano diventati la rock band più cattiva del pianeta. Questa sarebbe stata la formazione definitiva, e migliore, del gruppo inglese, con buona pace di Ronnie Wood e della buon'anima di Brian. Il blues era la cifra di questa formazione, il lato oscuro della psiche umana la storia che raccontavano: nei quasi dieci minuti di angosce narrate nella sconvolgente Midnight Rambler, raffigurazione dello strangolatore di Boston, o nel sabba luciferino di Sympathy for the Devil dove la chitarra di Keith Richards a un certo punto simette a suonare da sola. E attenti che a scherzare con certi personaggi si finisce per evocarli, come sarebbe successo meno di un mese dopo ad Altamont, California, con uno spettatore assassinato proprio mentre si alzavano le note di Sympathy for the Devil. E se Eric Clapton incendiava i Crossroads di Robert Johnson, loro feriscono l'amore con la sua Love In Vain.
Ma al Madison Square Garden si celebra ancora il blues bianco del combattente di strada: Street Fightin' Man, e che altro può fare un povero ragazzo, se non suonare in una rock'n'roll band?
L'evento viene giustamente celebrato in una versione deluxe di quello che è uno dei cinque più grandi dischi dal vivo di tutti i tempi, Get Yer Ya-Ya's Out (nella cui copertina, gli attenti dylaniani avranno riconosciuto l'evidente riferimento a Visions of Johanna di Bob Dylan, gioielli e binocoli che pendono dalla testa del mulo): un secondo cd con 5 brani in più registrato nel corso di quelle serate, tra cui Satisfaction, un terzo cd con le performance dei supporter, BB King e Ike and Tina Turner, e un dvd con immagini delle serate, del backstage, di Richards in studio. Una bonanza di grande musica, come dicono gli inglesi. Musica che fa ancora paura.

Tuesday, November 24, 2009

Rock critics

"Tanto ci sarà sempre un Bertoncelli o un Vites a sparare cazzate"
(Da una e-mail ricevuta, a proposito dei miei deliri sul blues *)
A fine anni 70 mi innamorai perdutamente dell'introduzione che Riccardo Bertoncelli scrisse a un volume di traduzioni dei testi di CSN&Y (traduzioni peraltro bruttine, ma non le aveva fatte lui). La lessi e rilessi tante di quelle volte che finii per impararla quasi a memoria. Era poesia, poesia rock, più che un saggio critico. Allora non pensavo di mettermi a scrivere di musica, finché c'era qualcuno che scriveva così che bisogno c'era di provare a fare altrettanto. Purtroppo Bertoncelli si dedicò ad altri impegni, anche se credo scriva ancora. Nello stesso periodo, era il 1978, mi innamorai anche di un articolo di Mauro Zambellini sulla scena di New York del periodo. Il primo disco che ho comprato perché una recensione mi aveva convinto a farlo (era piuttosto un lungo articolo, ma allora si faceva così) fu Two Sides to Every Story, 1977, di Gene Clark, e l'autore del pezzo era Raffaele Galli.
Smisi poi per noia di leggere le riviste rock, negli anni 80, fino a che mi imbattei a fine decennio in Blue Bottazzi che esaminava quanto uscito in non ricordo quale anno musicale. Fui di nuovo preso dalla passione per la lettura rock. Si può fare, pensai, si può scrivere così. E lo feci. Feci una fanzine su Bob Dylan e ne mandai qualche copia a Blue per sapere la sua opinione. Mi telefonò per dirmi che gli sembrava cosa bella, che anche lui anni prima aveva cominciato con una fanzine. Fu una sorta di battesimo della scrittura, di sponsorizzazione. Per cui adesso chi si incazza per le cose che scrivo se la prenda con Blue Bottazzi. E Bertoncelli. E Zambellini. Two Sides to Every Story, per la cronaca, quando lo comprai non mi piacque. Oggi mi piace tantissimo, per cui prendetevela anche con Raffaele Galli.

Da quando poi ho cominciato a farne il mio lavoro, ho scoperto Greil Marcus e Lester Bangs. Cerco di ispirarmi a loro, adesso. Cioè scrivere di musica rock, come qualunque altra cosa nella vita, non può essere una cosa neutra e non si può cercare di piacere a tutti. Non vuol dire azzeccarci sempre, tutt'altro. Manco Greil e Lester lo facevano. Figurarsi io. Vuol dire però non essere fan. Perché il fan farà sempre il tifo per la sua squadra. Qualche tempo fa un amico mi ha segnalato che in un forum dei Pearl Jam qualcuno era incazzato con me perché "avevo parlato male dell'ultimo disco dei Pearl Jam". Non ho mai scritto alcunché sull'ultimo disco dei Pearl Jam, ho solo ascoltato il singolo e scritto di quel brano (che reputo tutt'oggi bruttissimo). La persona poi aggiungeva che quando parlo di Bob Dylan invece parlo sempre benissimo. Il che è falso: negli ultimi anni ho parlato male o poco bene tante volte di Bob Dylan, tanto che diversi fan di Dylan mi hanno scritto messaggi ricchi di insulti assortiti. Vedete come si può distorcere la realtà quando si è dei tifosi. Il problema è la cattiva educazione che abbiamo ricevuto per tanti decenni attraverso tante riviste musicali che hanno insegnato solo a fare i tifosi, non gli appassionati di musica.
La stessa cosa mi è capitata a volte con musicisti di cui mi sono permesso di criticare i loro dischi. Italiani,ovviamente. C'è un gruppo rock di casa nostra molto amato di cui recensii benissimo l'esordio, salvo dire che secondo me tecnicamente aveva dei difetti come qualità di registrazione. Da allora non mi hanno più mandato i loro dischi perché si erano offesi.
Ma non disperiamoci: ci sarà sempre un Bertoncelli o un Vites a sparare cazzate... E per citare ancora il maestro Guccini, "tanto saranno le ultime oramai".
Keep rockin'

* cmq con l'amico che mi ha scritto ciò ci siamo lasciati senza malumori reciproci. Credo

Saturday, November 21, 2009

Blues power

E' un problema tutto mio, ovviamente, tipico di un ragazzino cresciuto, prima di scoprire Bob Dylan, con Lucio Battisti, Cat Stevens ed Elton John nelle orecchie. Musica melodica, musica che non contiene alcun segno di blues. E il blues, quello vero, quello anteguerra, quello acustico di Robert Johnson, Mississippi John Hurt o Charlie Patton ancora oggi faccio fatica ad ascoltarlo. Anche Blind Willie McTell, che nessuno canta il blues come fa lui. Certo, so riconoscere la grande capacità compositiva innata che avevano questi personaggi, ma spesso mi sembra cantassero davvero male e suonassero peggio. Anche i fantasmi, le presenze demoniache e la paura che Eric Clapton o Greil Marcus trovavano nei blues di Robert Johnson io non ce li ho mai sentiti. Leggendo i testi sì ovviamente, ma a me sembra che Johnson cercasse piuttosto di fare il verso ai crooner, i cantanti melodici pop di allora, con quella vocina tutta vellutata e impostata che aveva.
Mi piacciono però Muddy Waters e Howlin' Wolf, il blues elettrificato, probabilmente perché ci sento dentro le prime anticipazioni di rock'n'roll, e questi avevano delle voci straordinarie, erano performer da paura veramente, esperti in studio e sul palcoscenico. Insomma: se devo andare all'epoca pre-rock'n'roll per me vince sempre Hank Williams contro Robert Johnson (e non sono razzista).

Se però devo ascoltare del blues, finisco sempre ad ascoltare quello che ne fanno i bianchi. Non ci posso far niente, è un problema mio, è un problema di radici e di cultura. Ancora oggi la più devastante e tenebrosa esecuzione blues per me rimane Crossroads come la fece quella sera Eric Clapton al Winterland di San Francisco, quarant'anni fa. E' l'assolo di chitarra più violento e terrificante della storia del rock (con tanti saluti a tutti i chitarristi metallari e compagnia). E' il blues trasfigurato e adattato a un mondo del tutto differente, ma certamente che ha più in comune con me dei campi di cotone del Mississippi degli anni 30. Altre volte ascolto l'Allman Brothers Band al Fillmore East e non mi basta mai.
Oppure tiro fuori Blues from Laurel Canyon di John Mayall, il suo ultimo grande disco. Blues bianco, bianchissimo, composto e registrato durante una vacanza nella mecca degli hippie di allora. Per qualche motivo, sia questo disco che quella Crossroads furono registate nello stesso anno, il 1968, quasi che il blues fosse l'unico modo rimasto per interpretare quello che stava accadendo nel mondo attorno. Se i canoni tipici del blues sono alla base di tutto il lavoro, con quei riffoni presi qua e là nel repertorio dei neri, Mayall parte per un viaggio in acido, scarnificando e facendo del blues una rilettura minimale a volte, altre lasciando esplodere chitarre e tastiere, batteria e armonica, la voce ululante, evocando veramente i fantasmi e i demoni che Robert Johnson si era limitato a descrivere. Questo è un disco che fa paura. E' gothic blues, questo. Il blues è un'eco da un mondo scomparso che si cerca di evocare, come un sabba all'LSD. Mick Taylor, di lì a pochissimo nei Rolling Stones, ragazzino di 17 anni (!), suona come non suonerà mai più in vita sua. Scava e taglia, sanguina e implora, bestemmia e trancia, sfidato da John Mayall davanti a lui ad andare dentro un viaggio nell'ignoto.
Ecco. Questo è il blues per me. Quando la formula viene trascesa e si parte per non si sa dove. Qalche anno fa vidi John Mayall in concerto, e fu una bella delusione. Ormai incapace di sfidare i demoni che una volta aveva scatenato, ridotto a fare quello che fanno tutte le blues band da bar che infestano festival e locali anche di casa nostra: routine, e pure noiosa. Due anni fa ho visto anche Mick Taylor, e considerando che l'inferno questo ex ragazzo l'ha attraversato in lungo e in largo, seppur lontano anche lui anni luce dai fantasmi di Laurel Canyon, è stato molto più dignitoso. In alcuni pezzi la sua chitarra faceva ancora male, e molto. Ad esempo quando ha invitato sul palco Blind Willie McTell, cortesemente mandato lì da Bob Dylan. Allora sì che ho capito che nessuno ha mai cantato il blues come lui.

Wednesday, November 18, 2009

Da cui si deduce che la voce di una generazione era Babbo Natale



Ma anche finalmente possiamo vedere "who threw the glass/chi tirò il bicchiere", annosa (diremmo ultradecennale) diatriba che tormentò i bravi protagonisti di Don't Look Back, nella famosa scena del bicchiere di vetro volato dalla camera di albergo di Bob Dylan al Savoy Hotel di Londra, 1965, quasi terminata in rissa perché nessuno voleva ammettere chi lanciò il bicchiere dalla finestra. Eccolo il colpevole, che sta ancora scappando. O forse è stato semplicemente trovato nella camera da letto della moglie del padrone di casa.
Comunque questo è il tipo di sera di Natale che ho sempre sognato di passare. E Bob Dylan ha una sfilza di splendidi cappelli. La parrucca.... sembra ancora quella indossata a Newport nel 2002, ma, o è cresciuta da sola oppure l'avrà tenuta sotto il cuscino in tutti questi anni per stirarla così bene.
Fantastico. Adoro. Must be Santa. Non chiedo di più e mi ritiro fino alla vigilia di Natale.
Oh... e qui trovate commenti interessanti al video: http://maggiesfarms.blogspot.com/2009/11/frank-capras-revisited-must-be-santa.html

Tuesday, November 17, 2009

Thanks for the song, Mister Capossela

Qualche anno fa, in uno scalcinato locale milanese, mi stavo godendo un fantastico concerto del grande Joe Henry. Tra il pubblico si aggirava questo tipo strano, cappellino storto in testa, barba lunga, un sorriso piacione stampato sul viso e un bicchiere sempre in mano. Io cercavo di seguire le intricate costruzioni melodiche del cognato di Madonna, e questo tipo me lo trovavo sempre davanti, che mi sorrideva come se fossimo stati vecchi amici. Non prestava grande attenzione alla musica, ma mi sembrava felice, e ciò me lo rese simpatico. Più tardi mi dissero trattarsi di Vinicio Capossela.

Non sono suo fan, i suoi dischi, seppure colga sprazzi di genialità, mi lasciano abbastanza freddo. Magari dovrei vederlo in concerto. Però ho trovato queste sue parole l'altro giorno da qualche parte nella Rete e penso siano bellissime. Dicono tutto quello che c'è da dire, dicono quello che provo a dire da una vita, ma lui lo ha detto meglio. Perciò grazie, signor Capossela. Magari dovrei ascoltare meglio anche i suoi dischi:

Molte canzoni possono accompagnare la nostra vita, ma solo poche obbligano ad accendersi una sigaretta, a tirarla a lungo, come a soffocare un taglio con un’altra lama, e riempire così un vuoto nel petto. Quella è la musica di cui voglio occuparmi. La musica che, nella sua bellezza, non fa stare tranquilli. Chiede qualcosa di più alla vita, apre nell’anima un senso di incompiutezza, come se la vita non fosse abbastanza, come se le fosse sfuggito l’essenziale. Fa intravedere qualcosa che si desidera al punto di soffocare, che ci ha lasciato orfani per sempre. Così ho iniziato. Per avvicinare la vita a quello che avrebbe dovuto essere.
[…]Le parole possono servire, possono contare. Una voce può essere una stagione, la luna un invito, la strada un’invocazione. La poesia sono le parole che ti conquistano, quelle che hanno un’epica, un mondo dietro di sè. Quello a cui ci si è sottratti per poterne scrivere. Così dovrebbe essere. Suonare è un’altra cosa.
Lo sentii dire a un vecchio violinista cubano: “La musica me riconfuerta”. La musica risolleva, oppure fa impazzire la gente. E’ la compagna del cammino, si limita a non lasciarti in pace, a non perderti di vista, a non lasciarti da solo.
Così è. Ci sono poche cose che salvano, cose molto interiori, che quando uno ha perso si sente davvero perduto. Credo che la musica renda fortunati. E’ un modo di riavere indietro quello che mettiamo nella vita.

Sunday, November 15, 2009

You'll never rock alone (Wilco, via Chicago)

You hurt her but you don't know why
You love her but you don't know why
Short on long term goals
There's a party there that we ought to go to
Do you still love rock and roll?

(Misunderstood, Wilco)

Alla fine mi sono anche comprato la sciarpetta di lana, tipo quelle dei tifosi inglesi, che invece della scritta classica "you'll never walk alone" ha su "you'll never rock alone". Perché sì, come mi disse una volta lo stesso Jeff Tweedy, non c'è nulla di più simile a una comunità, come quando si va (o si andava) in chiesa, di trovarsi a un concerto rock. Un tutt'uno, un momento in cui si fondono le migliaia di persone là sotto e i performer sul palco, catarsi e telogia del rock (che d'altro canto i Wilco in repertorio hanno anche una canzone che si intitola Theologians). Io invece ieri sera al concerto dei Wilco non mi sentivo parte di nessuna comunità e mi sono sentito solo, sarà perché ho troppi cazzi miei per la testa, sarà per quelle assurde poltroncine che vanno bene per i puffi e non per un adulto, con le ginocchia nelle gengive e mi domandavo come si fa a sentire un concerto di musica classica in quelle condizioni e questo è pure il Conservatorio di Milano. Per quello mi sono comprato la sciarpa dei Wilco, per fare memoria che non si vive il rock'n'roll da soli.

E allora, proprio perché avevo troppi cazzi miei per la testa, mi sono anche permesso di fare il critico, che quando facevo il critico per davvero me ne fottevo bellamente e mi godevo la musica: sempre fantastici i Wilco, è sempre "il" concerto rock da vedere oggigiorno, però hanno raggiunto anche loro il limite oltre cui basta. Da quando li vidi per la prima volta nel 1998, ai Magazzini Generali e con ancora il povero Jay Bennett in formazione, è sempre stata una ascesa, una sfida nuova verso cieli sempre più alti. Chissà cosa inventeranno questa volta, ti domandavi prima che salissero sul palco. Ieri sera hanno replicato nota per nota il concerto di tre, quattro anni fa, quando fecero uscire di senno i coraggiosi presenti in un Palatrussardi mezzo vuoto, segno che anche per i Wilco la corsa è finita e che quello che bisognava raggiungere, scovare tra le pieghe della musica, è stato trovato e adesso va bene così. Lo dimostra anche il fatto che abbiano quasi del tutto ignorato l'ultimo, recente disco, quello del cammello: come dire, è un disco inutile anche per noi.

Ed è segno di questo anche il fatto che il momento più spettacolare e coinvolgente rimanga sempre la stratosferica versione di Misunderstood, un pezzo che ha sulle spalle la bellezza di 13 anni. E sarebbe anche l'ora che i critici, quelli veri, quelli illuminati (mica io) si decidessero a inserire questo pezzo tra le 10 più grandi canzoni rock di tutti i tempi, tra Like a Rolling Stone, Satisfaction e Born to Run. Perché Misunderstood è davvero tale, dalle liriche che dicono tutto quello che c'e da dire su cosa è la trascendenza della musica rock, liriche che sanno ancora porre la domanda esistenziale decisiva: ma a te piace ancora, il rock'n'roll? Cioè, è ancora quella cosa che al di là della miseria e delle sconfitte della tua vita sa definirti e farti puntare lo sguardo in alto? E poi per la musica, con quelle esplosioni e quell'infinita sequenza di stop and go: ieri sera il mio amico ne ha contati 32, dce che l'ultima volta erano 34. In questo video io ne ho contati 37. Da paura.Tra le delicatezze jazzy di Impossibile Germany, il punk di I Am a Wheel, l'adrenalina di A Shot in the Arm, la poesia di Jesus etc, i Wilco dal vivo sono un'orchestra rock, fatta di riff, assoli di una nota sola, incursioni elettroniche, catastrofi rumoristiche in crescendo che neanche John Cage, che chiudi gli occhi e ti trovi catapultato alla fine dei mondi. E poi California Stars, tanto per dire da dove veniamo, e la perfezione melodica di Via Chicago e tanto altro. Fin troppo.

Che Dio benedica i Wilco, l'ultima grande american rock band. Dopo di loro, nessuno. Io intanto, giro per casa con la sciarpa dei Wilco, e cerco di rispondere alla domanda, anzi la Domanda: do you still love rock and roll?

Thursday, November 12, 2009

A new kind of death

Il titolo a questa poesia dello straordinario songwriter canadese Barzin mi sono preso la libertà di darglielo io. Così come mi sono preso la libertà di riprenderlo dal sito degli amici di Happy Days Are Here Again (http://takethesongsandrun.wordpress.com/). Perché il problema è che il cuore vuole tutto il mondo, nulla gli basta. E la Bellezza, che è sempre così vicina, è anche sempre impossibile da afferrare.

I have sat on leather sofas
waited in waiting rooms
in subways stations.
I have dreamt of limbs
of soft eyes
velvet breasts.

Autumn went by without me
the yellow leaves piling
higher and higher.

I had so much to say then
I had so much to say
yet I saved them for a day like today.
And now
I have forgotten everything

The problem with the heart
is that it wants the world.
It wants everything:
fresh laundry on Sundays
avocados and French baguettes
girls in long leather boots
ruby cunts to kiss
a house to call its own
and Death, yes even Death.
It wants a simple, quiet death.

These days I am distracted
one step behind my deeds
sleeping walking through a fog
thinking too much about loneliness
and as always someone else’s voice has
gotten caught in my thoughts
and I mistake it for my own.

I still fall in love
wherever I go.

Ah, the beauty that is so close to touch
yet always out of reach.

Where is the girl who lay beside me last year?
Whose arms is she in tonight?
Who is picking flowers for her hair?

Maybe I’ll go to Paris.
The city of forgetfulness.
The unreal city.

I am ready for a new kind of death.


© 2009 Barzin

Wednesday, November 11, 2009

E poi uno dice: volevo nascere in America

UNIVERSITY OF CALIFORNIA, SANTA CRUZ

Grateful Dead Archivist

The University Library of the University of California, Santa Cruz, seeks an enterprising, creative, and service-oriented archivist to join the staff of Special Collections & Archives (SC&A) as Archivist for the Grateful Dead Archive. This is a potential career status position. The Archivist will be part of a dynamic, collegial, and highly motivated department dedicated to building, preserving, promoting, and providing maximum access both physically and virtually to one of the Library’s most exciting and unique collections, The Grateful Dead Archive (GDA). The UCSC University Library utilizes innovative approaches to allow the discovery, use, management, and sharing of information in support of research, teaching, and learning.

Magari qua trovo un posto alla biblioteca di Pizzo Calabro - part time e con rimborso spese come stipendio - come archivista della discografia dei Pooh.

Tuesday, November 10, 2009

Rock'n'roll ruined (our) life

Padre preoccupato: ha una figlia che dalle 10 di stamattina è in fila fuori del Forum per il concerto di stasera dei Green Day.
Poi pensa che di cose simili ne ha fatte anche lui. Però all'uscita non aveva nessun papà che lo aspettava in macchina per portarlo a casa. Things have changed indeed.

E si domanda: quando lei avrà l'età di suo padre, ci saranno ancora i concerti rock? E se ci saranno, cosa andranno a vedere i figli di sua figlia, nel 2042? La reunion dei Franz Ferdinand?

Friday, November 06, 2009

Pathway to the stars (episode # 2)

(In cui si narrano tutti i concerti di His Bobness visti da colui che smaneggia questo blog, saltellando di qua e là negli anni, senza alcun filo logico, senso compiuto e soprattutto alcuna capacità critica)

Area Ex Autodromo, Modena, Italia, 12 settembre 1987

“Andiamo”. “Dove?”. “Non lo so, l’importante è andare”. No, checché ne dicessero le guide spirituali di tutti gli automobilisti del mondo, santi protettori Dean Moriarty e Neal Cassady, noi quel giorno caldo del 12 settembre 1987 ci mettemmo on the road con una meta ben precisa:Modena. Dentro a una autentica Ford degli anni 70, quelle che avevo visto solo nei film di Martin Scorsese, che ciucciava benzina come un dinosauro e che andava anche più o meno alla stessa velocità, la meta era il festivalone dell’Unità dove sotto garrule bandiere falce & martello (il muro era lì lì per crollare, ma ancora non lo sapeva nessuno) avremmo rivisto the blue eyed boy, dopo l'apparizione di tre anni prima, e non ci speravamo più che sarebbe ritornato.
E mica da solo. Accompagnato dalla più scintillante e ardente rock band d’America (“L’ultima rock band americana” come la definiva Dylan stesso, e a ragione), Tom Petty And The Heartbreakers. E mica solo loro, perché prima ancora avrebbe suonato Mister Roger Tambourine Man McGuinn. Roba da infarto per quelli come me, cresciuti piangendo sui vinili dei Byrds, di Dylan e urlando American Girl.

Posto infame, l’autodromo di Modena. Desolante e tristissimo, sotto al sole, manco un albero per ombrarsi o pisciare. Ci mettiamo in fila ben presto già al pomeriggio per finire comunque a metà dell’enorme spiazzo, lontani dal palco, schiacciati tra 20mila altre anime povere. Allora ancora non si usavano i megaschermi al fianco del palco, e noi cerchiamo di vedere le figurine piccole laggiù. Grazie a Dio l’impianto audio è ottimo. McGuinn, da solo all’acustica, già fa capire che stanotte anche senza dosi di LSD viaggeremo bene in alto negli spazi siderali delle buone vibrazioni. Chestnut Mare, Mr Tambourine Man, ovviamente. Poi sul palco salgono gli Heartbreakers ed è So You Want to Be a Rock’n’Roll Star. Sì, stanotte vogliamo essere tutti rock’n’roll stars. Portaci in viaggio sulla tua magica nave scintillante. Ecco: è come, anzi meglio, essere da Ciro’s a Los Angeles quella sera del 1965 in cui The Byrds entrano nella storia.
La tensione cresce e gli Heartbreakers la spazzano via con un set solidissimo, sguaiato e divertente: this is american music. Fucking american music. Non c’è uno dei 20mila che non stia saltando con loro. American girl. Mi giro per vedere se è scesa dal palco, ma non c’è.

Foto di Guido Harari

Le luci calano. Lo stomaco si avvinghia di terrore e amore. Perché il picoclo jokerman sta per salire sul palco. Allora non esisteva internet. Allora non si sapeva cosa aveva suonato la sera prima. Allora era tutto una scommessa. Allora era tutto più bello. A guardare oggi la set list di quella serata sembra di non crederci. Ma con gli Heartbreakers dietro, ogni cosa è possibile: c’è il fantasma dell’elettricità (addirittura Pledging My Time che su Blonde on Blonde seguiva Rainy Day Women, pezzo suonato in apertura di serata; da quel disco glorioso arrivano anche una spregiudicata I Want You e Memphis Blues Again). C’è il poeta solitario di Simple Twist of Fate e…. non potevo crederci, in quel momento… sta suonando Joey…………… E mi ritrovo catapultato in quel ‘claim bar in New York’--- C’è un po’ di Caraibi psichedelici in I and I e c’è il gospel poderoso, grazie alle meravigliose Queen of Rhythm, di In the Garden. Scampolo di Rolling Thunder Revue quando McGuinn si unisce a Dylan per Knockin’s on Heaven’s Door e poi la cavalcata sexy funk di When the Night Comes Falling from the Sky per mandare tutti a casa in grazia di Dio.
Gli Heartbreakers sono incredibilmente duttili, sanno replicare magicamente i suoni di ogni singolo disco originale, dal wild mercury sound di Blonde on Blonde alle delicatezze folk di Blood on the Tracks, aggiungendoci tocchi di ispirato jazz.
Nei giorni successivi non potrò credere alle cose che leggerò: tutti sono intenti a massacrare e stroncare questo concerto. Non ha fatto questa canzone non ha fatto quella e non ha detto neanche un grazie al pubblico…. Canta male ed è noioso. Coglioni tutti, dai quotidianisti alle riviste specializzate. Ancor più coglioni pensando agli orridi concerti che Dylan ha messo in scena in questi ultimi anni e sempre salutati dalla stampa come serate di grande musica. Prezzolati ignoranti con l’articolo già scritto nel cassetto due mesi prima.

Ma stanotte è per gli amanti. Stanotte è per chi è giovane. Stanotte è per chi è venuto fino a qui cercando la magia e l’ha saputa cogliere. Gli altri si mettano in coda per il prossimo concerto di Phil Collins. Stanotte è per correre sulle highway di casa, e poco importa che il sottoscritto provi a vedere se è possibile guidare – almeno un pochino – dormendo. L’esperimento non va in porto e passiamo il volante. Fra meno di un mese Bob Dylan e il tour dei templi in fiamme (è già never ending tour, ma nessuno lo sa) tornerà, questa volta a casa mia, a Milano. Ma questa è un’altra storia, altrettanto magica e forse ancor più bella.


Tour
: Temples in Flames

Band: Tom Petty And The Heartbreakers and The Queen of Rhythm

Scaletta concerto: Rainy Day Women # 12 & 35 / I Want You / In The Garden / Highway 61 Revisited / Simple Twist Of Fate / I And I / I'll Remember You / Joey / Tangled Up In Blue / Ballad Of A Thin Man / Pledging My Time / Stuck Inside Of Mobile With The Memphis Blues Again / All Along The Watchtower / Knockin' On Heaven's Door / When The Night Comes Falling From The Sky

Vites rating
: **** su *****

Thursday, November 05, 2009

I'm with stupid

Cioè, lo stupido sono io ovviamente, anche se la meravigliosa Aimee Mann quando scrisse questa canzone pensava ad altri. Se comunque volete stare con lo stupido, cioè me, oltre che su questo simpatico (?) blog da gennaio potrete trovarlo sull'eccellente rivista Raro! dove avrà uno spazio tutto suo, dedicato a un grande disco del passato visto, rivisto, raccontato e sezionato.

Nella settimana che va da lunedì 16 novembre a domenica 22 compresa potrete ascoltarlo invece su MWRadio, un'ottima web radio dove lo stupido è stato ospite di due puntate in cui ha spiegato perché vale la pena ascoltare canzoni rock e quali canzoni rock, tanto per dire, uno farebbe bene ad ascoltarsi. Più altre idiozie assortite.
Gli orari della messa in onda sono questi:
Lunedì 15-16 p.m
Mercoledì 18-19 p.m
sabato 19-20 p.m
Domenica 21-22 p.m

Il programma in cui appare lo stupido si chiama Like a Rolling Stone (esatto) e la radio la trovate qui: http://www.mwradio.it/

Infine lo stupido scrive, da tempo ormai, anche per il prestigioso quotidiano online Il Sussidiario (nella sezione musica, qui http://www.ilsussidiario.net/articoli.aspx?canale=77). Vi segnalo, tra le altre cose, una splendida serie di articoli che rivisitano tutta la discografia dei Beatles alla luce delle recenti ristampe rimasterizzate, scritti da competenti critici musicali e anche dallo stupido.

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