Monday, October 08, 2018

Sangue nei solchi del cuore

“Bob Dylan è in città, c’è bisogno di catturare qualcosa di magico”. La “città” è ovviamente New York, al telefono John Hammond, il più grande scopritore di talenti della storia della musica (tra i tanti, Count Basie, Aretha Franklin, Charlie Christian, Billie Holiday, Bruce Springsteen e ovviamente Bob Dylan). Sta parlando con il produttore Phil Ramone, fondatore e proprietario di quelli che allora sono i più importanti studi discografici di New York, gli A&R Recording, che si trovano dove erano gli studi di registrazione della Columbia negli anni 60, e dove Dylan registrò i suoi capolavori, da Freewheelin’ a Highway 61.

Hammond è perentorio, non ci sono alternative: Dylan è appena tornato alla Columbia, sua casa discografica storica, dopo un anno di esilio alla Geffen. Deve registrare un capolavoro o niente e ancora una volta Hammond sa già che sarà così. E’ la metà di settembre del 1974, e qualcosa di ancor più che magico verrà “catturato”.

Questa è una storia che però comincia prima, esattamente il 14 febbraio precedente, quando Dylan scende dal palco del Forum di Inglewood, Los Angeles, dove è terminato l’ultimo concerto di quello che è stato chiamato il “Comeback tour”.

Dopo otto anni di lontananza dai concerti, a parte qualche apparizione sporadica, il cantautore è tornato a fare un tour, per di più con gli storici accompagnatori di The Band, gli stessi che erano con lui durante l’ultima sua tournée, quella del 1966. Cinque milioni e mezzo di persone, il 7% della intera popolazione americana, aveva fatto richiesta per uno dei circa 500mila posti disponibili per uno dei 40 concerti previsti. Il tutto per una durata di un mese e 11 giorni (diversi concerti si tennero in due appuntamenti in un giorno solo, al pomeriggio e alla sera) in 21 città da una costa all’altra dell’America. Un successo stratosferico, un ritorno atteso come la seconda venuta di Gesù sulla Terra. L’unico che mentre scende le scale del palco è a disagio, insoddisfatto, è lui, Bob Dylan. Quel tour gigantesco, a bordo di jet privati, limousine, suite principesche negli alberghi, guardie del corpo, lo ha lasciato interdetto. Non sono più gli anni 60, pensa, “quando ci divertivamo”. Il mondo della musica degli anni 70 è invece un enorme business. A Dylan questo non basta.



Ma non ci sono solo motivi artistici dietro il suo malumore. Il rock’n’roll può essere pericoloso per le persone sposate. Perché un matrimonio resti in piedi, c’è bisogno di una buona dose di compromesso da entrambe le parti. Per otto anni Dylan è stato il marito e il padre di famiglia perfetto, lassù a Woodstock. Nello stesso tempo la sua vena artistica è andata scomparendo realizzando dischi insulsi di country melenso. Dylan e Sara Lownds, una ex pin up di Playboy che aveva divorziato dal marito fotografo dopo aver avuto da lui una figlia, si erano sposati in gran segreto il 22 novembre 1965, così segretamente che quasi nessuno lo sapeva, neanche le tante amanti e groupie che Dylan aveva a New York. Per molte di loro fu uno shock scoprirlo.

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Friday, September 28, 2018

When Jokers Attack / Sailor - The Brian Jonestown Massacre live in Castl...

When Jokers Attack, i BJM alla Santeria di Milano

Con album che si intitolano Their Satanic Majesties’ Second Request, My Bloody Underground, Who Killed Sgt. Pepper’s (ma il nostro titolo preferito è senz’altro Thank God for Mental Illness, “grazie a Dio per la malattia mentale”), appare subito chiaro dove hanno sempre guardato i Brian Jonestown Massacre. A un revisionismo sonico che fa i conti con tutto quanto di sballato, esagerato, psichedelico è giunto a noi fin dagli anni 60. Il tutto frullato in una carica deflagrante e devastante di chitarre elettriche (alla Santeria ieri sera in alcuni brani l’assalto sonico era guidato da ben quattro di questi strumenti) che si può definire psichedelia punk o garage, fate voi. Il nome del gruppo a proposito di revisionismo la dice lunga: Brian Jones, naturalmente, il cui bel viso campeggia nel logo del gruppo sparato sullo sfondo del palco, ma anche il massacro-suicidio di massa avvenuto a Jonestown in Guyana nel 1979 di una setta comunista-religiosa americana, 917 morti tra cui molti bambini, il più grave nella storia degli Stati Uniti. Anton Newcombe d’altro canto ha sempre vissuto nel lato oscuro della vita, anche se sembra che finalmente l’abbia finita con la droga.
Il progetto musicale di un autentico freak in acido, il geniale Anton Newcombe originario non per niente di San Francisco, la patria dei viaggi musicali cosmici a base di Lsd. Un genio che se ne è sempre fregato di ogni logica commerciale, facendo (e drogandosi) solo quello che voleva e così perdendo il treno per un meritato successo di massa, ma guadagnanonde in libertà personale e artistica: dall’esordio nel 1993 a oggi ha pubblicato 17 album, cinque compilation, cinque dischi dal vivo, 13 ep, 16 singoli. Nel 2018, per non smentirsi, pubblica due cd, il primo dei quali, Something Else, già uscito.
Inutile cercare tra la formazione sul palco volti noti, a parte l’immancabile, adorabile Joel, unico che riesce a stare vicino a Newcombe sin dall’esordio (un tempo molti concerti finivano in risse tra musicisti o spettatori).


Cappellino di lana, occhiali da sole sul cappellino, tamburello o maracas tra le mani per tutto il concerto, limitandosi a qualche seconda voce, se ne sta immobile a fissare il nulla davanti o il pubblico di sotto senza mai cambiare smorfia del viso, che è di puro godimento. Genio. I BJM infatti sono un ensemble aperto che raramente ha visto gli stessi musicisti per due volte nello stesso disco o nello stesso tour. In Australia, questa estate, ad esempio, alla batteria sedeva un ragazzino, a Milano una ragazzetta (brava) di massimo vent’anni. Ma non importa. Newcombe, che adesso vive a Berlino e pare abbia smesso di ingurgitare più droghe di quanto faceva Syd Barrett è la guida di un esperimento musicale che non ha pari: questa volta è riuscito a riempire la Santeria di Milano sold out con un pubblico di ragazzetti universitari e belle ragazze che ballavano sotto al palco come a un concerto dei Grateful Dead.
Lui, che sembra ormai il fantasma di Neil Young, se ne sta sempre in disparte, davanti un muro di chitarre (tra cui una Rickenbacker dodici corde dal suono strepitoso) altri due chitarristi, poi un pazzoide al moog e ai trucchetti elettronici e talvolta chitarra. Il risultato che si ottiene è un muro del suono fragoroso ma mai disturbante, che vola in alto un po’ come facevano i Sonic Youth, per dare delle coordinate, in un trip mai noioso ma sempre carezzevole e sognante. A volte questo muro impazzisce e i tre chitarristi tenendo le stesse due note sono capaci di andare avanti quasi un quarto d’ora: tripping the live fantastic, man.
E’ il caso del brano più amato del gruppo, When Jokers Attack, un brano dall’incedere alla Byrds che esplode in deflagrazioni soniche spaventose: questa sera dura “solo” dieci minuti, altre volte supera il quarto d’ora.
Tante le gemme presentate, da What Happened to Them alla nuova Who Dreams of Cats, da That Girl Sucide a Anemone. Sul palco la definizione di cool: tutti con occhiali da sole, uno che sembra Tex Watson della Family di Charles Manson, vestiti e taglio di capelli da Beach Boys in acido, i BJM sono uno spettacolo anche solo per la vista.
Ti portano così in alto che pensi che un muro di chitarre così potrebbe coprire tutte le bestialità di Donald Trump o Matteo Salvini e farci vivere una vita migliore. Ma i concerti rock durano due ore e le canzoni non hanno mai cambiato il mondo. Per qualche ora sì, però. E va bene così.

Thursday, September 13, 2018

La scopa del sistema

"Mi manca chiunque", dice Rick Vigorous in La scopa del sistema, il primo importante libro di David Foster Wallace, uscito nel 1987. In quella frase c'è tutto l'uomo che si è impiccato il 12 settembre di dieci anni fa, a 46 anni di età. Era malato di depressione da quando aveva vent'anni, si era curato in modo assiduo, si era anche sposato. Ma si sa che dalla depressione non si esce mai del tutto, il cane nero ti rimane alle costole nella battaglia approfittando di un tuo momento di distrazione.

Ma non è di depressione che scriveva Wallace, piuttosto di quella malinconia dolce e vibrante che vive chi si sente fatto di mancanza: mi manca chiunque. Non mi manca la mia donna, mia madre, il mio amico: mi manca tutto, mi manca ogni cosa.

A dieci anni dalla sua morte, il mistero della sua arte è pari soltanto alle lodi sperticate e vertiginose che gli sono state tributate, già quando era ancora in vita, definito uno dei maggiori scrittori americani di sempre. Eppure libri come Infinite Jest (1996) con le sue 1400 pagine, sono una sfida aperta ancora oggi. Celano un mistero che probabilmente ancora nessuno ha carpito.



Come Douglas Coupland, l'autore di due capolavori come Generazione X e Generazione Shampoo, Wallace aveva colto in maniera straordinaria la sperdutezza della sua generazione, abitanti di centri commerciali alienanti, di college dove il massimo delle aspettative era lo sballo, di palestre di fitness e di sport come il tennis, insomma della solitudine immensa che ormai avvolge una nazione, gli Stati Uniti, dove il numero dei suicidi è da decenni in crescita vertiginosa. Per Wallace, forse, la sfida era stata cercare di capire cosa potesse esserci dietro il fallimento conclamato del sogno americano: "La letteratura si occupa di cosa vuol dire essere un cazzo di essere umano" disse in una intervista. Per Wallace e la sua generazione il mondo non era il posto dove viviamo la nostra vita, ma qualcosa che ci impatta addosso e ci lascia doloranti e spaventati. Ma anche ci si ride sopra, cosa che Wallace sapeva fare.

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Thursday, August 02, 2018

If you don't become the ocean, you'll be seasick every day

“Let us fancy we see hell, and imagine what is worst to behold – a horrible cavern full of black flames. Sulphur, devils, dragons, fire, swords, arrows, and innumerable damned who roar in despair. Imagine the worst you can, and then say, ‘All this is nothing compared to hell”
- St. Ignatius of Loyola

Una gelida sera di gennaio dei miei vent’anni o poco più ero in motorino in viale Fulvio Testi dopo aver fatto una consegna. Facevo il fattorino, come servizio civile alternativo al militare. Non avevo neanche il parabrezza, e a gennaio a Milano fa così freddo che mi veniva da piangere. Ma pensavo: ecco, tutta questa fatica, questa sofferenza costruirà il mio futuro. Mi sto temprando, pensavo, sto diventando uomo cominciando dal livello più basso. Un giorno tutto cambierà.
36 anni dopo ho raggiunto il basso più basso che ci sia, ma la colpa è solo mia.

Ricordo quando negli ultimi mesi del 1979 con un amico parlavamo del nuovo decennio che sarebbe cominciato di lì a poco: negli anni 80 avremo fatto tutto quello che dobbiamo fare nella vita, ci dicevamo con grande soddisfazione. Troveremo il nostro lavoro, ci sposeremo, avremo dei figli. Tutto quanto insomma. A parte che mi sono sposato nel 1991, non ho mai trovato un vero lavoro (sempre colpa mia), ma ho avuto due figlie (sempre negli anni 90). Cazzo facevo negli anni 80?

Ricordo che pensavo che la vecchiaia, sperando di non avere problemi fisici, sarebbe stato il tempo del giusto riposo e delle soddisfazioni per una vita pienamente vissuta. Non potrò riposarmi mai da vecchio, dovrò lavorare fino all’ultimo giorno di vita (per colpa mia) e ho vissuto la mia biografia, non una vita vera.

Ricordo che un prete mi disse qualche anno fa che diventando vecchi cominciano i problemi. Mi incazzai, perché mi avevano sempre detto il contrario. Invece aveva ragione.

Ricordo che da qualche parte ho letto questa cosa: "Lo spirito religioso si associa in genere ad un'attitudine mentale positiva, che 'protegge' da malattie che si associano a personalità poco duttili, come ictus o colite ulcerosa. Ed è infine documentato che la religiosità protegge dalla depressione, notoriamente a sua volta associata a malattia e morte".



Palle. Sono stato religioso tutta la vita, ma ho sofferto come un cane per tutta la vita. Palle. Ho la depressione da anni, ma probabilmente è ancora colpa mia. “Per il credente l’esperienza del dolore è ancora più temibile che per il non credente, perché significa anche l’esperienza del silenzio di Dio”: ricordo di aver letto anche questo ed è una cosa che sento più vera.

Ricordo che ho contato sul prossimo tutta la vita, salvo scoprire (troppo tardi) che nessuno può aiutare nessuno. Non sempre per cattiveria (spesso), ma perché ognuno è diverso dall’altro, quello che sono io non sei tu e cosa puoi saperne di come aiutarmi. La frase, dai andiamoci a fare una birra mettetevela nel culo. Insieme alla pacca sulle spalle.

Ricordo la prima volta che ho sentito una canzone uscire dalla radio, forse era Elton John, forse erano i Beatles, forse era Bob Dylan. Ricordo che ho pianto.
Una canzone può salvarti la vita? Può un canto cambiarla, alterare fondamentalmente il suo corso? Può succedere un momento del genere, magari da diventare parte di ciò che sei, di chi stai per diventare?

Sì, può succedere. A me è successo, e non con una canzone sola, ma con diverse. D'altro canto sono vecchio abbastanza per poter dire che ascolto canzoni da più di 40 anni. E ne ho ascoltate tante, sin da quando, ragazzino, infilavo la radio sotto il cuscino la sera a letto
per ascoltarle senza farmi scoprire dai miei genitori. La musica è sempre stata il mio angolo sicuro sin da quando avevo 13 anni per nascondermi e difendermi da un mondo che là fuori mi terrorizzava. Quando ascoltavo un disco, nulla e nessuno poteva toccarmi, ero
protetto, diventavo invisibile. Continuamente, come se una radio fosse sempre accesa nella
mia testa, fluiscono senza interruzione. Quando dormo, quando cerco di distendere i nervi in silenzio, quando mi inginocchio a pregare. C'è sempre una melodia che spunta fuori. Una canzone. Quel mondo là fuori continua a terrorizzarmi.

Le canzoni sono le mie preghiere.

“Le canzoni sono la mia religione”
- Bob Dylan

Friday, July 27, 2018

ALANIS MORISSETTE/ Milano Summer Festival: come uscire vivi dagli anni 90

ALANIS MORISSETTE/ Milano Summer Festival: come uscire vivi dagli anni 90: Tutto esaurito al Milano Summer Festival per l'unica apparizione italiana di Alanis Morissette, protagonista di un concerto di rara bellezza e potenza musicale. PAOLO VITES

Friday, July 13, 2018

Solidarnosc rock

Ci sono alcune foto, della prima metà degli anni 80, in cui si vede la pop star inglese Elton John seduto a un tavolaccio di legno in una umile abitazione con a fianco il leader di Solidarnosc, Lech Walesa. E' l'abitazione dove il sindacalista stava trascorrendo gli arresti domiciliari dopo il colpo di stato filo sovietico del generale Jaruselski. Elton John, uno dei primissimi se non il primo artista rock occidentale invitato a esibirsi in Polonia, era andato a trovarlo, affascinato dalla figura di quel piccolo uomo che da solo aveva cercato di opporsi all'impero comunista di Mosca.

Sebbene difficilmente il concerto di Elton John si possa definire un concerto rock come siamo abituati a viverli noi, con il pubblico in gran parte composto da membri della casta del partito comunista, con un dispiego di forze dell'ordine quasi maggiore degli spettatori e il manganello pronto per rimettere seduto chi si lasciava prendere dalla musica e osava alzarsi in piedi, l'episodio nella sua interezza la dice lunga di quanto la musica rock sia stata fondamentale nel processo del crollo del Muro di Berlino e come ci fosse una linea forte di reciproca empatia tra artisti rock e dissidenti.


La famosa "rivoluzione di velluto" che il futuro presidente cecoslovacco Vaclav Havel lanciò a fine anni 60 prendeva nome e ispirazione dal suo gruppo preferito, i Velvet Underground di Lou Reed ("il velluto sotterraneo") mentre Joan Baez che si era esibita in alcune abitazioni di dissidenti cecoslovacchi, scampò per pura fortuna all'arresto.

In Russia e in tutti i paesi dell'est europeo la musica rock era severamente bandita, nonostante questo molti giovani riuscivano a far entrare di nascosto i dischi dei Beatles, che poi artigianalmente ristampavano per un fiorente mercato clandestino a cui il KGB dava la caccia in modo sistematico, con la violenza e il carcere. Gruppi rock fiorivano nelle cantine di Mosca e Leningrado sistematicamente vittime di violenze della polizia quando venivano scoperti. Ma l'anelito di libertà si diffondeva comunque.


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Friday, June 01, 2018

Green green grass of home

Disclaimer: scritto dopo 5 ore di sono senza rilettura e fregandomene dei refusi


City in the smog, city in the smog… Sali in machine e pigi l'acceleratore, vuoi soltanto allontanarti il più possibile dalla fottuta sporca città nello smog. Cominci a lasciarti dietro palazzoni infami pieni di vite disperate e ti trovi in mezzo agli alberi, l'aria fresca entra dal finestrino, vuoi allontanarti dalla giornata di umiliazioni, rabbia ingoiata a forza, delusioni, tristezza e sconfitta. Non sai neanche cosa ascolterai, non sai chi sono, ma a Milano non c'è più spazio neanche per la musica, ti hanno venduto due grattacieli per ingannarti una volta di più. Arrivi a Cantù che manco capisci dove sei, parcheggi, le scalette che portano sotto terra all'1&35. Sì, dove noi apparteniamo, lontano degli occhi del mondo malvagio. Che vogliamo lasciare fuori della porta. La porta è aperta, quel piccolo corridoio sotto una volta curvata che porta sotto, pieno di locandine, foto, manifesti, eroi che sono passati di qua, di colpo hai perso il senso del tempo e del luogo: è il 1974 e stai scendendo all'inferno, CBGB's sulla Bowery, è questo il posto? Scusami Dio per il ritardo. Poi entri la sala è piena di gente, la stessa sala che a volte è il Grand Ole Opry di Nashville, altre il Roxy di Los Angeles, altre ancora il Folk Club del Greenwich. Stsera chenneso sono venuto qui a riposare l'anima ferita, datemi qualunque cosa andrà benissimo per lenire il mio dolore.



Sul palco riconosco un amico, persona buona, Jimmy Ragazzon, con due dei suoi Mandolin Brothers. Ecco, Blind Willie McTell per segnalare che ho scelto la serata giusta, poi una sorta di lungo country progressive con la chitarra acustica che sembra Dave Matthews e le tastiere jazz e lui all'armonica. Già sto bene,
Poi infilandosi a fatica attraverso il pubblico attaccato e sudato al palchetto si infilano cinque ragazzoni alti, sembrano arrivati direttamente dalla Bing Pink lassù a Woodstock, invece sono di Austin, Texas. Partono dritti come il midnight train che attraversa Alabama, Georgia Tennesseee: le due voci soliste che si alternan, le due chitarre soliste che si innalzano a lottare fra loro, una più bluesy e a voltes lied, una secca e incalzante come quella della New York post punk, i Television tra le note. Sarà una notte magica, tra un Elton John, quello di Tumbleweed Connection con Ballad of a Well -Known Gun, quando Sir Reginald sognava di far parte di The Band, che poi arrivano comunque con una focosa When I Paint My Masterpiece.



Il senso della serata sarà questo, un mix tra Little Feat e The Band, assoli di chitarra che sembrano non saziarsi mai, che si arroventano in alto, altissimo, canzoni bellissime piene di soul e country, come The Green Grass of California, inno alla marijuana non quella da sballo, ma quella dell'amore e della cura di se stessi; una sezione ritmica secca precisa pulsante e grasse note di Hammond e deliziosi interventi pianistici honky tonk. Questi ragazzi sanno suonare di tutto. Il finale tira giù tutto, You Wreck Me di Tom Petty è un assalto frontale con le chitarre punk e l'energia pazzesca che oggi non trovi più da nessuna parte.
Il sogno è finito, si torna allo smog e alla nostra tristezza quotidiana. Ma santoiddio, il rock'n'roll resiste ancora.

Grazie a Carlo Prandini per la solita ineffabile accoglienza (ma quelli con la maglietta dei gobbi non dovrebbero entrare); grazie a Cesare Carugi per aver portato questi ragazzi in Italia. Grazie alla vita, quando vince.

Wednesday, April 11, 2018

The streets of Rome

Prendiamo al volo la macchina parcheggiata in vicolo della Desolazione, e schizziamo per le strade di Roma, in cerca di un posto ancora aperto dove mangiare qualcosa. Lo troviamo, entriamo e ci troviamo al tavolo al fianco di un signore dalla bella barba bianca tutto vestito di bianco, bianco anche il turbante. Con lui alcune ragazze, splendenti in elegantissimi abiti bianchi anche loro, velo sul capo e un diadema in fronte a unire il copricapo. Sono bellissimi.
Ci guardiamo negli occhi e ci riconosciamo, mezz'ora prima ci eravamo stretti la mano uscendo dalla sala dell'Auditorio Spazio della Musica, che come dice De Gregori ha davvero una acustica infame, benché sia la gloria musicale della capitale. Erano seduti in prima fila ed era impossibile non notarli, rilucevano di bianco come degli angeli, magari scesi tra la folla per applaudire uno che di angeli ha bisogno e li ha sempre cercati.
Ci spiega il sikh dalla carnagione bianchissima come le sue ragazze, "quando Bob Dylan è in città non si può non andarlo a vedere". Così faranno anche nelle due sere seguenti di permanenza del cantautore americano a Roma, sempre in prima fila. Da quando li ho notatila prima sera ho pensato subito fossero ospiti speciali di Dylan, che ama tanto ogni tipo di religione, anche se dice che "le canzoni sono la mia religione". In realtà erano sì ospiti, ma non perché di religione sikh, ma perché musicisti anche loro. L'anno scorso hanno pure vinto un premio Grammy, ci tengono a spiegare, per il miglior disco new age, si chiamano White Sun. Sono di Santa Monica, California, a Roma hanno un centro yoga.
Usciamo nella notte romana e ci ritroviamo da qualche parte, con un senso di smarrimento e dolce perdutezza. Qualcosa è successo questa notte, ma noi non sappiamo csa, "do ya Mr. Jones"? Che concerto abbiamo visto? Chi era dietro il pianoforte che muoveva continuamente i piedi calzati in stivaletti bianchi tenendo il ritmo di una musica conosciuta a lui, l'unica parte del corpo che non riusciva a stare ferma, dietro a quella maschera impassibile e quel corpo rigido da sembrare una statua? Ha ragione il mio amico americano che da anni mi dice che andare a vedere Bob Dylan in concerto è come andare ad ammirare il Mount Rushmore? Ma dobbiamo andare, abbiamo appuntamento con la nipote di Botticelli. E un paio di bottiglie di vino rosso calabrese.

"Quando ero un ragazzino e vivevo a La Jolla, in California, una piccolissima cittadina, ogni 4 di luglio c'era una parata. Ricordo chiaramente i veterani della Guerra Civile che marciavano lungo la strada principale, alzando la polvere. La prima volta che ho ascoltato Bob Dylan, mi sono tornati alla mente. E ho pensato a lui come se fosse uno di quei veterani della Guerra Civile. Una sorta di troubadour del 19esimo secolo. Uno spirito americano antagonista. L'asprezza della sua voce e e la frugalità delle sue parole vanno dritte al cuore dell'America" (Gregory Peck)

La prima sera quando iniziano i bis ci eravamo lanciati sotto al palco, alto mezzo metro, come quelli dei vecchi concerti rock degli anni 70, che si vedono nei film dell'epoca, dove ti appoggi comodamente al palco stesso. Chiedo al tipo della security se posso fare un paio di foto senza flash ovviamente, mi risponde ridendo "ormai le fanno tutti, che te devo dì" e registro 15 secondi di video, invece, mai stato così vicino al cantante, in quasi 40 anni di suoi concerti, senza spintoni, senza donnine deliranti, senza fan allucinati, tutti invece ad ammirarlo in estatico silenzio e lui contento. Alla fine manda un bacio sorridente alla donna a fianco a me, evidentemente la conosce bene.


La sera dopo invece la security è imbestialita e ci blocca prima della prima fila di poltroncine urlando "ordine dell'artista se fate come ieri sera dice domani non suonerà". Boh. A un certo punto un maori imbruttito si lancia dal palco su uno spettatore che ha fatto l'imprudenza di tirare fuori il cellulare, la sera prima il maori probabilmente lo avevano chiuso a chiave nei camerini. Lo insulta, lo minaccia fisicamente, poi se ne torna sul palco. Lui, il cantante, ci guarda malissimo mentre sembra che voglia andarsene dopo i primi due versi di Blowin' in the Wind. Forse invece sta guardando malissimo la security. Tutto sembra fuori controllo. D'altro canto Phil Ochs negli anni 60 diceva che "Dylan sul palco è LSD puro". Lo è ancora, a quasi 77 anni di età. Lo sguardo è una fessura cattiva cattiva, sembra di essere agli ultimi istanti della sfida all'OK Corral, scruta tra la folla per vedere se là in mezzo ci sono ancora William Zanzinger e il Gobbo di Notre Dame. Ci sono vibrazioni cattive, fantasmi dell'elettricità che però non hanno nulla di buono da dire. Infatti se ne va senza lanciare nessun bacio. In sala restano solo il Roving Gambler e Dio, aspettano Casanova per uscire da lì per tornare nel vicolo della Desolazione. O riprendere l'highway 61 dove li aspetta Robert Johnson e il suo amico Lucifero.

"Il suo modo di suonare qualunque strumento è del tutto ibrido. Non ha senso dal punto di vista musicale. Quando suona il piano, non ha alcun senso se non per l'ascoltare e lui stesso. Se sei un musicista ti viene da dire: Be', ma che ci stai a fare qui? Non ha alcun senso. Lo stesso quando suona la chitarra. E' come se qualunque cosa suoni tu debba aspettare un anno o due per avere l'approccio giusto per essere in grado di apprezzarlo. Al primo ascolto, ogni cosa che fa sembra senza speranza. Poi ci ripensi e realizzi che era perfetto, del tutto giusto" (Eric Clapton)


A Milano, oltre un palco alto quasi due metri, le prime due file di poltroncine sono divise dal resto della platea da una specie di muretto. Il palco è gigantesco, e lui e la band si mettono in fondo in fondo, il più lontano possibile dalla folla. Nessuno stasera ha voglia di vedere se c'è Johanna, nessuno sente alcun tipo di dolore, stanotte mentre siamo tutti soli sotto la pioggia.
Il cantante è in grande forma stasera, sputa i versi come fosse una mitragliatrice, scardina le coordinate del buon senso musicale cercando una melodia impossibile che solo lui sente nella testa attorcigliato nel dolore. La mia amica che lo sta vedendo per la prima volta dice che c'è un grande senso di dolore nel modo in cui canta, malinconia e tristezza. Tangled up in blue. D'altro canto, "love sick" ed è un "melancholy mood" quello che ci avvolge tutti.
Poi si ricorda di quando rivoltava il mondo tanto che qualcuno scrisse che se mai ci si ricorderà di Bob Dylan, ci si ricorderà di un fottuto uomo di rock'n'roll. Sono i minuti più esaltanti della serata, sembrano i tempi quando scendeva da una Buick 6 e stendeva tutti a terra, anche Stones e Beatles. Non c'è ne è per nessuno. ma quei minuti volano anche questi via presto. E' tutto un succedersi di memorie, ricordi tra la nebbia, pillole di anfetamina, e lacrime, come fossi una bambina. In fondo siamo tutti soli nella vita.

Usciamo nella pioggia e abbiamo in mente solo le foglie che cadono con grazia in autunno, anche se questa è primavera. E' una vita piena di dolore e qualcuno deve farsene carico per noi, che altrimenti ci spezzeremmo in due. Lui ha portato il peso del mondo per decenni, e ancora lo fa. Io penso a due ragazze lasciate a Roma e se mai le rivedrò. Vado a casa, intrappolato nel blu, ad ascoltare Leonard Cohen.

The falling leaves drift by the window
The autumn leaves of red and gold
I see your lips, the summer kisses
The sun-burned hands I used to hold

Thursday, January 18, 2018

Salvation

"La vita è davvero fragile, non puoi mai sapere cosa ti succederà, non sai se ti ammalerai o se ti succederà qualcosa, non puoi dare mai niente per scontato, questa è la verità sulla vita". Con la capacità profetica che solo le grandi anime possono avere, quelle più sensibili e sofferenti, Dolores O'Riordan qualche anno fa in una bellissima intervista concessa alla giornalista Valeria Rusconi del mensile XL, aveva espresso il medesimo sentimento che John Lennon, poco prima di morire, aveva fatto suo: "La vita è quella cosa che ti capita mentre sei occupato a fare altre cose". La vita non la decidiamo noi, non ci appartiene, ci supera e ci sorprende. Anche e soprattutto con la morte che non sappiamo mai quando busserà alla nostra porta. Non abbiamo deciso noi di nascere e non decideremo noi quando morire, anche se tutto nella mentalità contemporanea, quella che discende dal vecchio slogan "la vita è mia e me la gestisco io" vuole farci credere che possiamo esserne padroni.



"Non puoi mai dare niente per scontato, questa è la verità". Secondo le ultime persone che avevano visto e parlato con la cantante dei Cranberries nelle ultime settimane, lei stava bene ed era contenta. Lo aveva detto anche lei in un messaggio ai fan dopo essersi esibita nella settimana di Natale a una serata dell'industria discografica, era il suo primo concerto dopo mesi, dopo aver dovuto cancellare il tour estivo dei Cranberries, previsto anche in Italia. L'ex chitarrista dei Kinks Dave Davies aveva detto che l'aveva sentita al telefono, gioiosa e di buon umore: "Sembrava piena di vita, scherzava ed era felice di vedere me e mia moglie in questi giorni". Il suo nuovo fidanzato e musicista nel suo nuovo progetto Ole Koretsky aveva postato delle foto su Instagram della coppia serena e contenta in giro per New York.

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Monday, January 15, 2018

Gimme Shelter

A volte, per scrivere una canzone di protesta non c'è bisogno di slogan, di accuse eclatanti, di prese di posizioni ideologiche. Basta una strofa, per rispecchiare in modo efficace una intera epoca storica. Come nel caso di You Can't Always Get What You Want, brano dei Rolling Stones pubblicato nel 1969, ma scritto e inciso nel 68: "Sono andato giù alla manifestazione per ottenere la giusta quota di abusi cantando Sfogheremo la nostra frustrazione se non lo facciamo, faremo saltare una miccia da cinquanta ampere". C'è tutto in queste quattro righe: le manifestazioni che erano all'ordine del giorno in quel 1968, la partecipazione di tanti giovani che non capendone neppure le motivazioni ideologiche vi prendevano parte per sfogare la loro frustrazione rabbiosa di persone che si sentivano escluse dalla società, le botte della polizia, la minaccia di passare dalle marce alle bombe, come sarebbe in effetti successo da lì a poco. Nel ritornello, la canzone affermava una massima di saggezza zen rara a quei tempi. Mentre per le strade i giovani gridavano "vogliamo il mondo e lo vogliamo adesso" gli Stones si distaccavano con il realismo di "you can't always get what you want", non puoi ottenere sempre quello che vuoi.



"Una canzone non serve alla rivoluzione se non sei tu a seguirla con l'azione" diceva Joan Baez, la regina del movimento per i diritti civili, lasciando trapelare quanto la musica non fosse abbastanza per "cambiare il mondo". In realtà, le canzoni rock hanno sempre riflesso quello che accadeva intorno, una sorta di ripetitore satellitare, più che incitare a scendere per le strade. Il 68 ci sarebbe stato anche senza la musica rock, per capirci, ma la musica rock ne è stata la colonna sonora, cogliendone aspetti e limiti molto più di ogni altra forma di comunicazione. Come sempre d'altro canto, perché non c'è mezzo di comunicazione più profondo, appassionato e intelligente delle canzoni.

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Sangue nei solchi del cuore

“Bob Dylan è in città, c’è bisogno di catturare qualcosa di magico”. La “città” è ovviamente New York, al telefono John Hammond, il più gran...

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