“Buongiorno, sto chiamando per avere un aborto affrettato”. Dalla clinica dove l’aspettano per abortire, Juno scappa via, decisa a dare alla luce il figlio di una gravidanza inattesa, frutto del tentativo di trovare alternativa a un pomeriggio noioso. Lei ha 16 anni, e preferisce dare al “feto” una possibilità, nonostante i genitori inizialmente la sconsiglino, ammettendo che avrebbero preferito sapere che si facesse di "hard drugs", droga pesante.
Troverà su un giornale una coppia di yuppie pronti ad accoglierlo, nonostante difficoltà di ogni tipo e soprattutto dell’accorgersi del miracolo della vita che prende forma in lei.
È divertente come tutte le recensioni di questo film, dal New York Times al Corriere della Sera, si preoccupino di strillare “questo non è un film contro l’aborto!”: e cosa dovrebbe essere, dopo aver visto quella scena meravigliosa in cui Juno, con il suo pancione enorme, entra a scuola e sfida orgogliosamente tutte le altre ragazzine che si scostano come se lei fosse una appestata, una “balena ammonitrice”, come si soprannomina lei stessa. Non sarà un film contro l’aborto, ma è sicuramente per la vita.
Di fatto, è un film che ha spiazzato tutti, come si evince dall'attacco del plot dell'Internet Movie Database: "Faced with an unplanned pregnancy, an offbeat young woman makes an unusual decision regarding her unborn child": "una ragazza alle prese con una gravidanza inaspettata, prende una decisione inusuale rispetto al figlio ancora non nato". Certo: far nascere un figlio è una decisione "inusuale" per chi è ormai abituato a pensare che i problemi è meglio eliminarli. Siano gravidanze inaspettate o magari degli anziani.
Juno (impersonata da un’attrice esordiente strepitosa) affronta cose troppo grandi per lei con un senso dell’ironia e della realtà formidabili; la sceneggiatura (che si è meritata un Oscar) arriva da un blog, quello della famosa ex spogliarellista Diablo Cody (http://diablocody.blogspot.com); le musiche girano attorno a certo rock indie che piace tanto agli adolescenti di oggi, ma, hey, per Juno, Iggy Pop e il rock degli anni 70 non si toccano…
Insieme a Into the Wild, un altro film imperdibile, forse la prova che qualcosa sta cambiando: se anche Hollywood, per la seconda volta dopo pochi mesi, ci dice che la vita, con tutte le sue difficoltà, può essere lo stesso una cosa bella da vivere fino in fondo.
Friday, March 28, 2008
Wednesday, March 26, 2008
There are places I remember (2)
Prima di cominciare, un importante DISCLAIMER: tutte le foto che vedete in questo post non sono ciulate qua e là da Internet, ma le ho fatte IO. E che cavolo…
Insomma, questo è un posto dove anche con tutta la buona volontà (e i soldi che non ho) non ci potrò mai tornare. Ero lì in una tiepida e splendida prima settimana di ottobre del 1991, durante il mio viaggio di nozze, di ritorno da una settimana passata a San Francisco (di cui racconterò un’altra volta). Nel 2001, in occasione del nostro decimo anniversario di nozze, avevamo programmato di tornarci. L’occasione era ghiotta: oltre a celebrare i nostri ricordi, a novembre Bob Dylan si sarebbe esibito al Madison Square Garden, e il sogno di vedere il menestrello nella città che gli aveva dato i natali (artistici) è sempre stato un mio grande sogno, che è rimasto appunto tale.
Avevo fatto tutto per benino: il 10 settembre mi era arrivata la conferma dell’acquisto dei biglietti per il concerto e per il volo. Perfetto. Fantastico.
Il giorno dopo era l’11 settembre 2001.
Non ce la sentimmo di andare a celebrare in una città dove a novembre ancora tiravano fuori dalla terra ciò che rimaneva dei 3mila e più morti: ticketmaster, che come i più esperti sanno è soprannominata “ticketbastard”, fu meno bastarda del solito e per la circostanza mi diede indietro i soldi dei biglietti. Bob Dylan avrebbe suonato lo stesso – e dalla registrazione che ho fu anche un grandissimo concerto, baciato da una sua dedica alla “city of ruins”: “In questa città ho scritto le mie canzoni migliori e non ho bisogno di dire alcunché per esprimere tutto il mio amore per New York”, avrebbe detto riferendosi ai soliti imbecilli che polemizzavano sul fatto che Bob Dylan non avesse prese parte alle numerose maratone “buoniste” a cui tutte le star del rock stavano prendendo parte in quel periodo in ricordo delle vittime delle Twin Towers. Davvero in certi momenti non c’è bisogno del presenzialismo, ma solo dei fatti.
Ricordo che quando sbucai dalle parti di Wall Street e mi trovai davanti le Torri Gemelle, appunto, uno non poteva che rimanere a bocca aperta per lo spettacolo di grandiosità che esprimevano. Ricordo anche che mi fecero la stessa impressione che immagino un uomo dell’antichità potesse subire di fronte alla Torre di Babele: qualcosa di troppo grande e inquietante per mani d’uomo. Fu un brutto presentimento, me ne rendo conto oggi, ma l’idea di entrare lì dentro faceva davvero paura. Ricordo l’ascensore che dal piano terra ti portava in cima, letteralmente schizzando con l’accelerazione di una astronave, circa dieci minuti per scalare centinaia di piani incollandoti alle pareti per la pressione. Anche questa non era una cosa buona, pensai.
Il panorama da lassù era però davvero incredibile. Ci tornammo poi un’altra volta, alla sera, per ammirare le mille luci di New York.
Come al solito concludo con una foto della mia mogliettina: come si deduce dall’espressione, quando uscimmo sul tetto all’aria aperta era terrorizzata. In effetti le Twin Towers facevano paura. Ma senza di loro, New York non è più stata la stessa. E io non ci sono più tornato.
Insomma, questo è un posto dove anche con tutta la buona volontà (e i soldi che non ho) non ci potrò mai tornare. Ero lì in una tiepida e splendida prima settimana di ottobre del 1991, durante il mio viaggio di nozze, di ritorno da una settimana passata a San Francisco (di cui racconterò un’altra volta). Nel 2001, in occasione del nostro decimo anniversario di nozze, avevamo programmato di tornarci. L’occasione era ghiotta: oltre a celebrare i nostri ricordi, a novembre Bob Dylan si sarebbe esibito al Madison Square Garden, e il sogno di vedere il menestrello nella città che gli aveva dato i natali (artistici) è sempre stato un mio grande sogno, che è rimasto appunto tale.
Avevo fatto tutto per benino: il 10 settembre mi era arrivata la conferma dell’acquisto dei biglietti per il concerto e per il volo. Perfetto. Fantastico.
Il giorno dopo era l’11 settembre 2001.
Non ce la sentimmo di andare a celebrare in una città dove a novembre ancora tiravano fuori dalla terra ciò che rimaneva dei 3mila e più morti: ticketmaster, che come i più esperti sanno è soprannominata “ticketbastard”, fu meno bastarda del solito e per la circostanza mi diede indietro i soldi dei biglietti. Bob Dylan avrebbe suonato lo stesso – e dalla registrazione che ho fu anche un grandissimo concerto, baciato da una sua dedica alla “city of ruins”: “In questa città ho scritto le mie canzoni migliori e non ho bisogno di dire alcunché per esprimere tutto il mio amore per New York”, avrebbe detto riferendosi ai soliti imbecilli che polemizzavano sul fatto che Bob Dylan non avesse prese parte alle numerose maratone “buoniste” a cui tutte le star del rock stavano prendendo parte in quel periodo in ricordo delle vittime delle Twin Towers. Davvero in certi momenti non c’è bisogno del presenzialismo, ma solo dei fatti.
Ricordo che quando sbucai dalle parti di Wall Street e mi trovai davanti le Torri Gemelle, appunto, uno non poteva che rimanere a bocca aperta per lo spettacolo di grandiosità che esprimevano. Ricordo anche che mi fecero la stessa impressione che immagino un uomo dell’antichità potesse subire di fronte alla Torre di Babele: qualcosa di troppo grande e inquietante per mani d’uomo. Fu un brutto presentimento, me ne rendo conto oggi, ma l’idea di entrare lì dentro faceva davvero paura. Ricordo l’ascensore che dal piano terra ti portava in cima, letteralmente schizzando con l’accelerazione di una astronave, circa dieci minuti per scalare centinaia di piani incollandoti alle pareti per la pressione. Anche questa non era una cosa buona, pensai.
Il panorama da lassù era però davvero incredibile. Ci tornammo poi un’altra volta, alla sera, per ammirare le mille luci di New York.
Come al solito concludo con una foto della mia mogliettina: come si deduce dall’espressione, quando uscimmo sul tetto all’aria aperta era terrorizzata. In effetti le Twin Towers facevano paura. Ma senza di loro, New York non è più stata la stessa. E io non ci sono più tornato.
Sunday, March 23, 2008
I'm gonna DJ (fino alla fine del mondo)
Uno è diventato un autentico DJ, ed è la cosa che oggi, senza offesa, sa far meglio. Il suo programma radio Theme Time Radio Hour è un autentico pozzo senza fine di grande musica, arguto umorismo, profonde riflessioni, sagaci rivelazioni. Il doppio cd - che però non contiene i commenti che Bob Dylan fa appunto durante il programma - Theme Time Radio Hour with your Host Bob Dylan da poco uscito, rischia di passare alla cronaca come la Anthology Of American Folk Music del terzo millennio: 50 pezzi che viaggiano dagli anni 30 al 2005, da Memphis Minnie ai White Stripes. Cioè,come fare il DJ fino alla fine del mondo e ricordarci quello che lui stesso aveva scritto nella sua biografia, Chronicles: "il potere dello spirito: the ghost of Billy Lyons, rootin' the mountain down, standing 'round in East Cairo, Black Betty bam be lam".
Anche Michael Stipe e soci pensano a fare il DJ fino alla fine del mondo: "La morte è piuttosto definitiva, faccio collezione di vinili, farò il DJ alla fine del mondo", cantanto nella formidabile traccia conclusiva (I'm Gonna DJ) del loro nuovo, altrettanto formidabile disco, Accelerator.
Avevano fatto di tutto negli ultimi dieci e forse più anni per farci dimenticare che una volta i R.E.M. erano stati una grande rock'n'roll band. Persi in stupidità pseudo art, pseudo pop, fatte di plasticaccia buona per MTV, i R.E.M. forse non riuscivano a superare il trauma dell'abbandono del loro batterista storico Bill Berry, andatosene a fare il contadino nel 1997. Chissà. Certo è che negli anni 80 erano stati una gran band di garage rock: ancor prima che nascesse la nozione di alternative rock, loro ne erano già i leader. Ancora due dischi di formidabili melodie elettro/acustiche come Automatic for the People e Out of Time e poi più niente.
Fino a oggi. Perché Accelerator è un disco di grande, stravolgente, adrenalinico rock'n'roll. Solo loro sono capaci di creare un muro assordante di chitarre elettriche che spaccano in due condite con deliziose melodie vocali che riportano di schianto al miglior pop anni 60: come se Roger McGuinn avesse avuto come backing band i Ramones, o Brian Wilson i Nirvana. E' un disco straordinario, che incanta, che non puoi fare a meno di ascoltare dall'inizio alla fine, stordito, e poi ti alzi in piedi e gridi "Wow... ma questo è rock'n'roll". E che - era ora - dura solo 34 minuti, proprio come i vinili di questo DJ d'altri tempi, e basta con quei CD inutili riempiti fino all'ultimo megabyte disponibile, 70 e passa minuti fatti di sei canzoni accettabili e il resto scarti che una volta non sarebbero neanche stati pubblicati.
"Music will provide the light you cannot resist" canta Stipe, e i R.E.M. regalano quella luce di cui avevamo bisogno e che ci dice che sì, a volte il rock'n'roll non muore mai. Fino alla fine del mondo.
Wednesday, March 19, 2008
In the Garden
When they came for Him in the garden, did they know?
When they came for Him in the garden, did they know?
Did they know He was the Son of God, did they know that He was Lord?
Did they hear when He told Peter, "Peter, put up your sword"?
When they came for Him in the garden, did they know?
When they came for Him in the garden, did they know?
When He spoke to them in the city, did they hear?
When He spoke to them in the city, did they hear?
Nicodemus came at night so he wouldn't be seen by men
Saying, "Master, tell me why a man must be born again."
When He spoke to them in the city, did they hear?
When He spoke to them in the city, did they hear?
When He healed the blind and crippled, did they see?
When He healed the blind and crippled, did they see?
When He said, "Pick up your bed and walk, why must you criticize?
Same thing My Father do, I can do likewise."
When He healed the blind and crippled, did they see?
When He healed the blind and crippled, did they see?
Did they speak out against Him, did they dare?
Did they speak out against Him, did they dare?
The multitude wanted to make Him king, put a crown upon His head
Why did He slip away to a quiet place instead?
Did they speak out against Him, did they dare?
Did they speak out against Him, did they dare?
When He rose from the dead, did they believe?
When He rose from the dead, did they believe?
He said, "All power is given to Me in heaven and on earth."
Did they know right then and there what that power was worth?
When He rose from the dead, did they believe?
When He rose from the dead, did they believe?
When He rose from the dead, did they believe?
When He rose from the dead, did they believe?
He said, "All power is given to Me in heaven and on earth."
Did they know right then and there what that power was worth?
When He rose from the dead, did they believe?
When He rose from the dead, did they believe?
Monday, March 17, 2008
FREE TIBET
(grazie a Luca Skywalker per avermi segnalato questo articolo; fonte http://www.ilgiornale.it/a.pic1?ID=248363)
Il Tibet del 2008 è come la Polonia del 1980, come la Lituania del 1988, come la Birmania del 2007 e anche come l'Afghanistan del 1989, dove la maggioranza dei miliziani che combattevano contro l'Urss non stavano con Bin Laden ma chiedevano libertà religiosa e democrazia. Che cos'hanno in comune questi scenari, culturalmente diversissimi? La forza della religione che scende in piazza: una forza tale da aver fatto cambiare idea a un teorico della secolarizzazione come il sociologo Peter Berger che, dopo la Polonia e l'Afghanistan, parla di un mondo ormai «de-secolarizzato».
Questo vigore della religione che rende interi popoli disposti a battersi e a morire per la libertà non è un residuo di tempi passati. In Polonia non erano vecchi che ricordavano gli anni Trenta a organizzare la resistenza al comunismo. Erano giovani, studenti e operai che non avevano conosciuto altra scuola che quella comunista, dove s'insegnavano l'ateismo scientifico e il materialismo dialettico. E anche i lituani, gli afghani, i birmani venivano da scuole che da anni martellavano contro la religione come oppio del popolo. Quando si tratta di sacerdoti come padre Jerzy Popieluszko, il martire della resistenza polacca ucciso dal regime nel 1984, o di monaci, come in Birmania o all'inizio della protesta tibetana di questo mese, si può certo immaginare che abbiano anche ricevuto una formazione alternativa.
Ma preti e monaci da soli non fanno una resistenza. In Tibet le immagini ci mostrano sempre meno monaci e sempre più giovani che non sono religiosi, ragazzi e ragazze uguali a tanti altri nell'impero cinese comunista e consumista che tuttavia sono disposti a morire per la libertà.
Nessuno di loro ha studiato nei monasteri. Hanno frequentato la temuta scuola unica cinese, dove si continua ancora oggi a venerare la sanguinaria memoria di Mao Tse-tung, se ne imparano a memoria le massime e perfino le poesie, si tace sui suoi crimini, si è esposti a una quotidiana propaganda dell'ateismo che insegna che Dio non esiste e le religioni hanno solo sfruttato i poveri e gli oppressi. Sono gli allievi di questa scuola che oggi pregano, vanno in piazza, invocano il buddhismo, gridano che l'educazione atea è una menzogna. Non bastano cinquant'anni di indottrinamento a strappare dall'anima di un popolo la sua fede millenaria.
Il buddhismo è sopravvissuto in Tibet grazie a un meccanismo sociale silenzioso ma efficace. Strettamente sorvegliata nella sfera pubblica, la religione ha fatto un passo indietro e si è rifugiata nella sfera privata, nella vita delle famiglie che il regime non può controllare e in piccoli circoli di lettura e meditazione che la polizia cinese non sempre riesce a scovare e reprimere. La distruzione di 6.500 monasteri da parte dei cinesi non è bastata. Nel cuore di ogni credente c'è un monastero interiore che nessuna polizia può devastare.
Naturalmente i ragazzi del Tibet sanno bene di non poter vincere. L'esercito cinese alla fine riuscirà a reprimere la rivolta nel sangue, come già avvenne nel 1956 e nel 1959. Ma negli anni Cinquanta non c'erano la Cnn e Internet. I giovani di Lhasa vogliono che tutto il mondo almeno si accorga del fatto che la repressione continua. Sperano che qualcuno in Occidente pensi meno al business degli affari con la Cina e delle Olimpiadi e più ai diritti umani. Anche questo dovrebbe diventare un tema di campagna elettorale, in America come in Italia.
Friday, March 14, 2008
Shine a light
"Ti ci vedi a 60 anni fare ancora questa vita?". Mick Jagger: "Yeah, easily", sì, senza problema. Era il Dick Cavett show nei primi anni 70. Poco prima, in un altro spezzone di intervista risalente al 1965, un giovanissmo Jagger, alla domanda circa quanto tempo prevede ancora possa durare il fenomeno Rolling Stones risponde pensieroso: "Non so, forse ancora un paio di anni".
A oltre 60 anni di età, Mick Jagger e la sua band sono ancora qui, in forma fisica e musicale strepitose, come si può dedurre dal bellissimo film Shine a Light (http://www.shinealightmovie.com/) girato da Martin Scorsese che ho potuto vedere in anteprima ieri sera e che sarà sugli schermi italiani l'11 aprile. Scorsese è un genio: come già fatto con The last waltz - il più bel film mai girato di un concerto rock - ha dato il suo tocco formidabile anche a questo. Il suo segreto è riuscire a trasportare tutta l'epica e allo stesso tempo la vulnerabilità dei musicisti che salgono su di un palco. Il pubblico viene quasi ignorato, le telecamere girano intorno a questi uomini consegnandoli per sempre a una dimensione "oltre". Il momento topico è una lunga inquadratura del volto di Buddy Guy (uno dei tre ospiti, insieme a Jack White dei White Stripes e a una sorprendentemente brava Christina Aguilera) che fissa Jagger mentre duettano. Sembra una visione ultraterrena, una scultura ferma nel tempo e oltre il tempo, quasi dimentichi la musica e ti perdi nel suo sguardo. Così è anche quando la telecamera insiste sul volto ormai pieno di rughe di Jagger durante As Tears go By: il regista sembra volerlo scolpire sul Monte Rushmore, una maschera drammatica che buca il tempo e lo spazio.
Musicalmente, il film è una dimostrazione di strapotere musicale di questa incredibile band di vecchietti: la versione torrida, quasi punk, di Some Girls perfora lo stomaco, mentre la lunga resa di My Imagination fa impallidire qualunque E Street Band.
E che dire di quando Mick e Keith si stringono uno all'altro fronte contro fronte durante una Far Away Eyes da brivido, come dire: ehi, ce l'abbiamo fatta, siamo vivi.
Spezzoni di interviste prese qua e là in oltre 4o anni di carriera emergono tra un pezzo e l'altro, dando il polso di un gruppo di amici a cui alla fine è sempre interessata una cosa sola: fare musica assieme e fanculo tutto il resto. In fondo, che altro può fare un povero ragazzo se non cantare in una rock'n'roll band?
A oltre 60 anni di età, Mick Jagger e la sua band sono ancora qui, in forma fisica e musicale strepitose, come si può dedurre dal bellissimo film Shine a Light (http://www.shinealightmovie.com/) girato da Martin Scorsese che ho potuto vedere in anteprima ieri sera e che sarà sugli schermi italiani l'11 aprile. Scorsese è un genio: come già fatto con The last waltz - il più bel film mai girato di un concerto rock - ha dato il suo tocco formidabile anche a questo. Il suo segreto è riuscire a trasportare tutta l'epica e allo stesso tempo la vulnerabilità dei musicisti che salgono su di un palco. Il pubblico viene quasi ignorato, le telecamere girano intorno a questi uomini consegnandoli per sempre a una dimensione "oltre". Il momento topico è una lunga inquadratura del volto di Buddy Guy (uno dei tre ospiti, insieme a Jack White dei White Stripes e a una sorprendentemente brava Christina Aguilera) che fissa Jagger mentre duettano. Sembra una visione ultraterrena, una scultura ferma nel tempo e oltre il tempo, quasi dimentichi la musica e ti perdi nel suo sguardo. Così è anche quando la telecamera insiste sul volto ormai pieno di rughe di Jagger durante As Tears go By: il regista sembra volerlo scolpire sul Monte Rushmore, una maschera drammatica che buca il tempo e lo spazio.
Musicalmente, il film è una dimostrazione di strapotere musicale di questa incredibile band di vecchietti: la versione torrida, quasi punk, di Some Girls perfora lo stomaco, mentre la lunga resa di My Imagination fa impallidire qualunque E Street Band.
E che dire di quando Mick e Keith si stringono uno all'altro fronte contro fronte durante una Far Away Eyes da brivido, come dire: ehi, ce l'abbiamo fatta, siamo vivi.
Spezzoni di interviste prese qua e là in oltre 4o anni di carriera emergono tra un pezzo e l'altro, dando il polso di un gruppo di amici a cui alla fine è sempre interessata una cosa sola: fare musica assieme e fanculo tutto il resto. In fondo, che altro può fare un povero ragazzo se non cantare in una rock'n'roll band?
Tuesday, March 11, 2008
Quel famoso impermeabile blu
“Ho visto il futuro del rock’n’roll e il suo nome non è Leonard Cohen”. Così, indicando un pacioso Jon Landau seduto nelle prime file, scherza l’unico autentico poeta della canzone d’autore, il 73enne Leonard Cohen appunto, durante il discorsetto di accettazione per il suo ingresso alla Rock’n’roll Hall Of Fame. Come dire: ma che ci azzecco io con il rock’n’roll? Nulla, da un punto di vista formalmente musicale; tantissimo, se si parla di attitudine.
Che la musica rock non è, come mi dice sempre mia figlia, basso-batteria-chitarra elettrica soltanto (quello è un clichè, infatti lei ascolta un gruppo che di rock ha solo i clichè, cioè i Tokio Hotel…). Come dico ormai da troppo tempo, una canzone rock è soprattutto apertura al mistero, e chi allora meglio dell’uomo che ha scritto brani che esaltano, indagano e attaccano il mistero, di una bellezza ineguagliabile, come Chelsea Hotel, Sisters Of Mercy, Tower Of Song e uno sfracello di altri? Che poi, dopo di lui, hanno fatto entrare nella Rock’n’roll Hall Of Fame anche Madonna, e dire che lei del rock’n’roll non ha manco i clichè…
Leonard Cohen torna a fare concerti dopo 15 anni di assenza dai palcoscenici. Questa è la notizia vera. In questo periodo ha vissuto lunghi periodi in un monastero buddista di clausura. Ho avuto la fortuna di vederlo quell’ultima volta, nel 1993, quando si esibì al Teatro Smeraldo di Milano. Fu una serata in cui trattenni a stento le lacrime, per l’intensità della bellezza della performance. Allora aveva poco meno di sessant’anni, ma già ci si chiedeva se a quell’età ha senso salire su di un palco. Figurarsi oggi che di anni ne ha 73. Non importa, che lui non è Mick Jagger (che comunque su di un palco ci sarà, ci scommetto, anche quando avrà 73 anni).
Elegantemente vestito di nero, in giacca e cravatta, introduceva ogni brano recitando la prima strofa a mo’ di poesia. Perché se a Bob Dylan vogliono dare il premio Nobel per la letteratura, a Cohen allora cosa dovrebbero dare? Lui che prima di incidere un disco già scriveva romanzi e raccolte di poesie, è il più brillante autore di versi che la storia della musica popolare ricordi. Accompagnato da una band raffinatissima, con brave coriste intorno, con giochi di luce che ricordavano un cielo stellato, ha incantato per tutta la sera fino a quando, completamente da solo abbracciandola quasi fosse stata una donna amata, ha eseguito alla chitarra acustica Suzanne. Roba da infarto.
Adesso suonerà in giro per l’Europa, in (pochi) teatri e in (molti) festival open air. Anche a Lucca (il 27 luglio), ma non credo che andrò a vederlo. Sembra che lui abbia scelto questi grandi spazi aperti per dare a quanta più gente possibile la possibilità di vederlo. Perché questa, sicuramente, sarà l’ultima volta che salirà su di un palco. The last chance, the last waltz. Ma vi assicuro: non si può vedere un concerto come il suo in una piazza tra uno stand di piadine e una pizzeria, in piedi ammassati come sardine.
Mi terrò i miei ricordi di quella sera di 15 anni fa e accenderò ancora una volta lo stereo. Ascolterò Famous Blue Raincot e sorridendo pieno di gratitudine gli rivolgerò le sue stesse parole: “Che posso dirti fratello mio, mio assassino, che cosa potrei dire? Credo che tu mi manchi, credo di averti perdonato, ma sono così felice che tu ti sia imbattuto nella mia strada”.
Qua c'è la cerimonia integrale dell'ingresso nella Hall of Fame, compreso il divertente discorsetto di presentazione di Lou Reed e poi il commovente discorso di Cohen. Dura in tutto dieci minuti, ma vale la pena guardarselo tutto.
Che la musica rock non è, come mi dice sempre mia figlia, basso-batteria-chitarra elettrica soltanto (quello è un clichè, infatti lei ascolta un gruppo che di rock ha solo i clichè, cioè i Tokio Hotel…). Come dico ormai da troppo tempo, una canzone rock è soprattutto apertura al mistero, e chi allora meglio dell’uomo che ha scritto brani che esaltano, indagano e attaccano il mistero, di una bellezza ineguagliabile, come Chelsea Hotel, Sisters Of Mercy, Tower Of Song e uno sfracello di altri? Che poi, dopo di lui, hanno fatto entrare nella Rock’n’roll Hall Of Fame anche Madonna, e dire che lei del rock’n’roll non ha manco i clichè…
Leonard Cohen torna a fare concerti dopo 15 anni di assenza dai palcoscenici. Questa è la notizia vera. In questo periodo ha vissuto lunghi periodi in un monastero buddista di clausura. Ho avuto la fortuna di vederlo quell’ultima volta, nel 1993, quando si esibì al Teatro Smeraldo di Milano. Fu una serata in cui trattenni a stento le lacrime, per l’intensità della bellezza della performance. Allora aveva poco meno di sessant’anni, ma già ci si chiedeva se a quell’età ha senso salire su di un palco. Figurarsi oggi che di anni ne ha 73. Non importa, che lui non è Mick Jagger (che comunque su di un palco ci sarà, ci scommetto, anche quando avrà 73 anni).
Elegantemente vestito di nero, in giacca e cravatta, introduceva ogni brano recitando la prima strofa a mo’ di poesia. Perché se a Bob Dylan vogliono dare il premio Nobel per la letteratura, a Cohen allora cosa dovrebbero dare? Lui che prima di incidere un disco già scriveva romanzi e raccolte di poesie, è il più brillante autore di versi che la storia della musica popolare ricordi. Accompagnato da una band raffinatissima, con brave coriste intorno, con giochi di luce che ricordavano un cielo stellato, ha incantato per tutta la sera fino a quando, completamente da solo abbracciandola quasi fosse stata una donna amata, ha eseguito alla chitarra acustica Suzanne. Roba da infarto.
Adesso suonerà in giro per l’Europa, in (pochi) teatri e in (molti) festival open air. Anche a Lucca (il 27 luglio), ma non credo che andrò a vederlo. Sembra che lui abbia scelto questi grandi spazi aperti per dare a quanta più gente possibile la possibilità di vederlo. Perché questa, sicuramente, sarà l’ultima volta che salirà su di un palco. The last chance, the last waltz. Ma vi assicuro: non si può vedere un concerto come il suo in una piazza tra uno stand di piadine e una pizzeria, in piedi ammassati come sardine.
Mi terrò i miei ricordi di quella sera di 15 anni fa e accenderò ancora una volta lo stereo. Ascolterò Famous Blue Raincot e sorridendo pieno di gratitudine gli rivolgerò le sue stesse parole: “Che posso dirti fratello mio, mio assassino, che cosa potrei dire? Credo che tu mi manchi, credo di averti perdonato, ma sono così felice che tu ti sia imbattuto nella mia strada”.
Qua c'è la cerimonia integrale dell'ingresso nella Hall of Fame, compreso il divertente discorsetto di presentazione di Lou Reed e poi il commovente discorso di Cohen. Dura in tutto dieci minuti, ma vale la pena guardarselo tutto.
Sunday, March 09, 2008
Notes from the underground
I was born at the right time, I know that, because I fell in love with the guitar and rock and roll and I have walked on this planet in the shadow of Elvis Presley and the footsteps of Bob Dylan
(Elliott Murphy)
Se vi capita di essere a Parigi per assistere a un concerto di Bruce Springsteen,non perdete tempo a fare una scommessa. E' sicuro, come è sicuro che è successo ogni volta negli ultimi dieci anni più o meno, forse anche di più, che verso a un certo punto salirà sul palco Elliott Murphy. A dire il vero è successo anche una volta in Italia, a Bologna. Era il 2002 e io ero in ospedale ad aspettare che nascesse la mia seconda figlia. La mattina dopo quel concerto, quando aprì il cellulare, lo trovai intasato da almeno una dozzina di sms che i miei amici springsteeniani mi avevano mandato quella notte, del tipo "ELLIOTT... BRUCE... STANOTTE... SUL PALCO...". Sapete, il livello di conversazione più o meno quello di E.T. ("TELEFONO... CASA..."). Ma questi sono gli effetti che il rock'n'roll pùò avere sugli animi particolarmente sensibili, li capisco bene. Comunque, chiamai subito Elliott al cellulare, fingendo incazzatura:"Ehi, ma la prossima volta che pensi di salire sul palco con Bruce, fammi il favore di avvertirmi, così oltre a non perdermi il duetto magari me lo presenti anche". Se c'è una cosa che Mr Murphy non sa fare, è mentire. D'altro canto nelle liner notes di un disco live dei Velvet Undeground, una volta aveva scritto uno dei più bei pensieri a proposito di questa musica, "il rock'n'roll è una l'unica cosa onesta rimasta in giro", e lui di rock'n'roll sa una cosa o due.
Be', con la voce piena di stupore lui stesso mi rispose: "Shit, man... neanche io so quando riesco a salire sul palco con Bruce!".
Partiti da una città di perdenti più o meno nello stesso periodo e più o meno nella stessa zona, Elliott non ha avuto la stessa fortuna del suo amico Springsteen, ma oggi non se ne fa più un cruccio. Fa i suoi dischi (uno nuovo è in uscita proprio in questi giorni, come sempre con un titolo ricco di fascino, che è po lo stesso di questo post, Notes from the Underground), fa i suoi tour (sarà in Italia dal 12 al 16 marzo, non perdetevelo se siete nei paraggi di dove suona; le date le trovate sulla sua pagina MySpace, dove si può ascoltare anche un pezzo del nuovo disco, http://www.myspace.com/elliottmurphy ), scrive - benissimo - anche dei libri. L'ultimo, un romanzo western, è uscito da poco anche in Italia. E poi ha inciso no sfracello di grandi dischi che gli valgono una pensione dorata nel grande libro del rock, i miei preferiti se a qualcuno interessa sono senz'altro Night Visions e Selling the Gold (in quest'ultimo c'è anche un gran bel duetto proprio con Bruce).
La prima volta che l'ho conosciuto di persona, fu a un convegno di poeti e cantanti, dalle parti di Venezia, più di dieci anni fa. Era piuttosto incazzato perché gli organizzatori lo avevano lasciato ad aspettare tutto il giorno alla stazione di Venezia e quando era finalmente arrivato,aveva scoperto che Allen Ginsberg, con la cui promessa che sarebbe stato presente alla serata lo avevano allettato a venire appositamente da Parigi, non c'era. Welcome to Italy, Elliott... Nonostante questo aveva rilasciato, da par suo, una splendida performance.
Nel 2002 fu così carino da venire apposta, sempre da Parigi (città in cui vive ormai da parecchi anni, con una splendida moglie e un simpatico figlio che va pazzo per la musica heavy metal), per la presentazione del mio libro su Bob Dylan, per cui aveva scritto una splendida introduzione. Il libro non importa se non lo avete letto, che non è nulla di che, ma la sua introduzione se ve la siete persa la potete trovare qui, ne vale la pena: http://www.elliottmurphy.com/writings/dylan.html
Il pomeriggio prima della presentazione, in cui diede vita a un formidabile set acustico di brani dylaniani e suoi, tra cui una travolgente esecuzione acustica di Like a Rolling Stone impreziosita da una delle sue mitiche introduzioni che io trovo più spassose ed epiche di quelle di Bruce Springsteen, eravamo seduti in un bar di Milano. Vicino al nostro tavolo erano sedute due belle ragazze che continuavano a lanciarci occhiate. Da vecchi sopravvissuti del rock'n'roll, io ed Elliott eravamo piuttosto lusingati. A un certo punto una delle due si avvicina e timidamente mi chiede: "Mi scusi, ma il suo amico è Tom Waits?? Sa, sono una grande fan...". Elliott non voleva crederci, quasi cascò giù dalla seggiola per le risate. "No, non è Tom Waits, ma scrive canzoni belle come le sue". Sia io che Elliott rimanemmo un po' male nel vedere, alla fine della serata, che le due non si erano fatte vive nonostante il nostro invito...
Ah, il concerto che fece quella sera si trova - ancora, credo - da scaricare sul sito dimeadozen. E' davvero carino, anche se di qualità approsimativa. Ogni volta che lo riascolto, mi vengono i brividoni a sentire Elliott che dal palco dice "grazie a Paolo, che con i suoi libri tiene vivo l'amore per il rock'n'roll". Mi sento un po' come se fossi stato ammesso anche io nella Rock'n'roll Hall of Fame.
Nel 2004 ebbi il piacere di portarlo a suonare al Meeting di Rimini. Non gli capita spesso di suonare su un palco vero e proprio davanti a qualche migliaio di spettatori, e quella sera fu un evento formidabile, una roba d'altri tempi, per uno che negli anni 70 aveva suonato con i migliori musicisti della scena rock e registrato con i migliori produttori. Elliott, chiamato il "nuovo Bob Dylan", sembrava proprio dovesse diventare ancora più grande di Springsteen. E' andata diversamente e oggi non gli capita spesso una cosa così: spesso deve esibirsi in scalcinati club da quattro soldi. A un certo punto del concerto, un centinaio di ragazzi si buttarono sotto al palco a saltare come se fossimo stati a uno show dei Green Day. Alcuni di loro si facevano passare uno sopra l'altro, sapete, come si fa ai concerti dei gruppi punk. Elliott mi confessò dopo che per un istante era stato tentato di buttarsi giù dal palco sulla folla, ma gli era sembrato un po' troppo una cosa tipo Spinal Tap.
Che sia un gran palco o un piccolo club, un suo concerto è sempre una cosa che non si domentica. Lui suona sempre come se fosse l'ultima occasione della sua vita, e la dice lunga dell'amore che ha ancora per la musica: "Scrivere libri è la mia passione, ma il rock'n'roll è la mia religione" ha detto una volta. Un anno fa, o forse, due, sempre in questo periodo di Pasqua, venne a suonare nella sperduta provincia di Pavia. Per colpa di un amico troppo eccitato, arrivammo lì alle nove e il concerto cominciava alle undici. Elliott beve solo acqua ormai da anni, ha superato con successo le brutte abitudini del rock'n'roll, io invece ancora no. Per quando il concerto era cominciato, ero ormai così ubriaco che dopo un paio di canzoni dovetti andare a sedermi in macchina perché rischiavo di crollare a terra. In qualche modo, ancora non so come, riuscii a tornare a casa. Elliott mi chiamò preoccupato il giorno dopo: "Hey man, are you alive? Non ti ho più visto a un certo punto".Gli spiegai le vicende e da gran signore come lo è sempre, mi disse di raggiungerlo la sera dopo al concerto successivo. Il mio nome sarebbe stato ancora sulla guest list.
Nel 2006, a Pistoia, ebbe l'onore, per la prima volta nella sua carriera, di fare da opener a Bob Dylan. Abbiamo provato tutti e due a cercare di andare a salutarlo, ma poi visto che lui se ne stava blindato nel suo bus, abbiamo preferito andarcene a mangiare in una ottima trattoria toscana. C'è di meglio, nella vita. Fui io, questa volta, a cercarlo dopo il concerto. "Elliott, dove cazzo sei? Magari adesso passa di qui Bob". "Uh" mi rispose dalla sua camera d'albergo con la voce assonata. "Me ne sono andato dopo le prime due canzoni... Non mi sembrava che stesse cantando granché bene...". Non potei dargli torto.
Non mi ha ancora presentato Bruce, ma non ci dispero. Comunque non importa. Le storie di rock'n'roll che mi ha raccontato e i suoi concerti che ho visto mi bastano e mi avanzano. C'è un nuovo disco in uscita, e sebbene la mia canzone preferita di Elliott Murphy rimanga un pezzo che scrisse negli anni 70, la bellissima Diamonds By the Yards, un autentico poema rock'n'roll, una di quelle canzoni che danno un significato a questa musica , ogni suo disco è come un libro che vale la pena fermarsi a meditare a lungo.
Ma non offritemi un drink, al prossimo concerto di Elliott. I'm too old for rock'n'roll, but too young to retire...
Friday, March 07, 2008
There are places I remember
There are places I remember all my life,
Though some have changed
Some forever, not for better
Some have gone and some remain.
All these places have their moments
Of lovers and friends I still can recall
Some are dead and some are living
In my life I loved them all
Così cantava il buon John Lennon. E ci sono giornate uggiose da morire come questa, in cui la mia mente se ne va a certi posti che ho avuto la fortuna di visitare. Così inauguro una nuova - per dirla all'americana... - "column". Ogni tanto piazzerò lì qualche foto e qualche ricordo di un posto in particolare dove vorrei essere in questo momento. Non che l'escapismo esistenziale sia un bel modo di affrontare la realtà. Anzi. Fa solo male, diventa una meta sempre più lontana con cui finisci per oscurare la vita stessa. Però è diverso sognare di andare in un posto dove non sei mai stato e invece nutrire dei (bei) ricordi di posti dove ci sei stato veramente. Rafforza lo sguardo che va sempre tenuto desto sulla vita quotidiana, triste o felice, facile o difficile che sia. Ti fa ripartire con maggior buon umore.
Perché - sì, Temple Bar a Dublino è un quartiere, non solo il pub più famoso di Dublino - in un pub come il Temple Bar ci entrerei al volo adesso. La sensazione di accoglienza, familiarità, calore, simpatia che un pub irlandese sa dare è impagabile. Mica come entrare al bar "Sandrino" che c'è dietro l'angolo qui dove vivo. Ti danno un caffé (freddo) e non vedono l'ora che ti togli di torno. E mica come i pub-imitazione che stanno prendendo piede qui da noi: enormi schermi che sparano insulsa muzak da Mtv a tutto volume e birra pessima, che quella irlandese o inglese non ha mica il contenuto di bollicine che invece infilano nelle nostre. La loro non è birra soltanto: è crema...
Vabbé. Tanto di posti che ho visitato in vita mia mica ce ne sono poi così tanti. Questa "column" finirà presto, non temete. Ah, e la bella ragazza che si vede seduta al Temple Bar è la mia signora...
Che naturalmente è l'unica persona che possiate incontrare in un pub irlandese a bere Coca Cola invece che birra...
Though some have changed
Some forever, not for better
Some have gone and some remain.
All these places have their moments
Of lovers and friends I still can recall
Some are dead and some are living
In my life I loved them all
Così cantava il buon John Lennon. E ci sono giornate uggiose da morire come questa, in cui la mia mente se ne va a certi posti che ho avuto la fortuna di visitare. Così inauguro una nuova - per dirla all'americana... - "column". Ogni tanto piazzerò lì qualche foto e qualche ricordo di un posto in particolare dove vorrei essere in questo momento. Non che l'escapismo esistenziale sia un bel modo di affrontare la realtà. Anzi. Fa solo male, diventa una meta sempre più lontana con cui finisci per oscurare la vita stessa. Però è diverso sognare di andare in un posto dove non sei mai stato e invece nutrire dei (bei) ricordi di posti dove ci sei stato veramente. Rafforza lo sguardo che va sempre tenuto desto sulla vita quotidiana, triste o felice, facile o difficile che sia. Ti fa ripartire con maggior buon umore.
Perché - sì, Temple Bar a Dublino è un quartiere, non solo il pub più famoso di Dublino - in un pub come il Temple Bar ci entrerei al volo adesso. La sensazione di accoglienza, familiarità, calore, simpatia che un pub irlandese sa dare è impagabile. Mica come entrare al bar "Sandrino" che c'è dietro l'angolo qui dove vivo. Ti danno un caffé (freddo) e non vedono l'ora che ti togli di torno. E mica come i pub-imitazione che stanno prendendo piede qui da noi: enormi schermi che sparano insulsa muzak da Mtv a tutto volume e birra pessima, che quella irlandese o inglese non ha mica il contenuto di bollicine che invece infilano nelle nostre. La loro non è birra soltanto: è crema...
Vabbé. Tanto di posti che ho visitato in vita mia mica ce ne sono poi così tanti. Questa "column" finirà presto, non temete. Ah, e la bella ragazza che si vede seduta al Temple Bar è la mia signora...
Che naturalmente è l'unica persona che possiate incontrare in un pub irlandese a bere Coca Cola invece che birra...
Wednesday, March 05, 2008
On your sleeve
"Ma credo ancora nel vero amore e correrò il rischio, anche se dovesse capitare alle 3 del mattino"
Fa un certo effetto pensare che una persona, cresciuta a un oceano di distanza da te, abbia affidato sogni ed emozioni alle tue stesse canzoni. Uno anche più giovane di te. Vuol dire qualcosa, credo, della magia che solo una canzone rock sa sprigionare: portare a galla le esigenze del tuo cuore, a qualunque latitudine e non importa gli anni che hai.
Guardo la lista dei brani altrui che Jesse Malin, il simpatico rocker newyorchese, ha deciso di inserire nel suo nuovo cd, tutto appunto composto di brani di altri cantanti e in modo appropriato intitolato On Your Sleeve, che sta un po' per "sulla tua copertina (di disco)" ma anche, come dice l'espressione inglese "wearing your heart on your sleeve", "indossare il tuo cuore sulla tua pelle" - perché certe canzoni esprimono il tuo cuore e ti restano tatuate sulla pelle e tutti lo possono vedere - e scopro che sono alcune di quelle che più hanno segnato la mia adolescenza. Ed evidentemente anche la sua.
Quello che è bello scoprire è che per la maggior parte non si tratta di nomi altisonanti della storia del rock. Perché a 16 anni, per sentirti considerato e apprezzato dai coetanei e dai più grandi dovevi per forza dire "io ascolto Bob Dylan", cioè musica seria, colta. Il che era anche vero. Cioè lo ascoltavo e mi paiceva.
Ma quando pensavo a quella ragazzina dell'altra classe, quella che ignorava sempre i miei sguardi, allora mi affidavo a Operator di Jim Croce. O a Looking for a Love del Neil Young considerato più banale. O ancora ad Harmony di Elton John. Ma quei nomi e quelle canzoni dovevamo tenerceli ben nascosti, per non sembrare degli sciocchi ragazzini col cuore spezzato. E così Jesse Malin.
Perché in un disco o in una canzone cercavamo la corrispondenza che la vita spesso non poteva darci: "Amo ancora il rituale di andare a cercare dischi in un negozio di dischi, anche se stanno chiudendo ormai quasi tutti" dice Malin. "Adoro il desiderio di far compere lì dentro e avere attorno degli sconosciuti che sono anche loro in cerca di salvezza". Già, perché si può sperare di trovare la salvezza anche in una canzone rock.
Come nella splendida I Hope I Don't Fall in Love With You di Tom Waits, che Malin rende in modo toccante. Una canzone sulla paura di coinvolgersi troppo, perché innamorarsi può far male: "Well I hope that I don't fall in love with you 'Cause falling in love just makes me blue". Ma non è possibile farne a meno, perché è della presenza di un altro che è fatta la nostra stessa consistenza: "I can see that you are lonesome just like me, and it being late,you'd like some some company, and I hope that you don't fall in love with me". Troppo tardi, lei se n'è andata: "Turn around to look at you, you're nowhere to be found,I search the place for your lost face, guess I'll have another round". Ed è proprio quando l'altro non c'è più che si capisce quanto si ha bisogno di lui/lei: "And I think that I just fell in love with you", credo di essermi innamorato di te. Perché come diceva quello là nel film Almost famous, “Non è quello che c’è, ma quello che rimane fuori: questo è il rock’n’roll”.
Se siete arrivati a leggere fino a qui, vi meritate una scena del più bel film a tema "negozi di dischi & dischi". Ma non solo... Anche innamorarsi alle 3 del mattino...
Fa un certo effetto pensare che una persona, cresciuta a un oceano di distanza da te, abbia affidato sogni ed emozioni alle tue stesse canzoni. Uno anche più giovane di te. Vuol dire qualcosa, credo, della magia che solo una canzone rock sa sprigionare: portare a galla le esigenze del tuo cuore, a qualunque latitudine e non importa gli anni che hai.
Guardo la lista dei brani altrui che Jesse Malin, il simpatico rocker newyorchese, ha deciso di inserire nel suo nuovo cd, tutto appunto composto di brani di altri cantanti e in modo appropriato intitolato On Your Sleeve, che sta un po' per "sulla tua copertina (di disco)" ma anche, come dice l'espressione inglese "wearing your heart on your sleeve", "indossare il tuo cuore sulla tua pelle" - perché certe canzoni esprimono il tuo cuore e ti restano tatuate sulla pelle e tutti lo possono vedere - e scopro che sono alcune di quelle che più hanno segnato la mia adolescenza. Ed evidentemente anche la sua.
Quello che è bello scoprire è che per la maggior parte non si tratta di nomi altisonanti della storia del rock. Perché a 16 anni, per sentirti considerato e apprezzato dai coetanei e dai più grandi dovevi per forza dire "io ascolto Bob Dylan", cioè musica seria, colta. Il che era anche vero. Cioè lo ascoltavo e mi paiceva.
Ma quando pensavo a quella ragazzina dell'altra classe, quella che ignorava sempre i miei sguardi, allora mi affidavo a Operator di Jim Croce. O a Looking for a Love del Neil Young considerato più banale. O ancora ad Harmony di Elton John. Ma quei nomi e quelle canzoni dovevamo tenerceli ben nascosti, per non sembrare degli sciocchi ragazzini col cuore spezzato. E così Jesse Malin.
Perché in un disco o in una canzone cercavamo la corrispondenza che la vita spesso non poteva darci: "Amo ancora il rituale di andare a cercare dischi in un negozio di dischi, anche se stanno chiudendo ormai quasi tutti" dice Malin. "Adoro il desiderio di far compere lì dentro e avere attorno degli sconosciuti che sono anche loro in cerca di salvezza". Già, perché si può sperare di trovare la salvezza anche in una canzone rock.
Come nella splendida I Hope I Don't Fall in Love With You di Tom Waits, che Malin rende in modo toccante. Una canzone sulla paura di coinvolgersi troppo, perché innamorarsi può far male: "Well I hope that I don't fall in love with you 'Cause falling in love just makes me blue". Ma non è possibile farne a meno, perché è della presenza di un altro che è fatta la nostra stessa consistenza: "I can see that you are lonesome just like me, and it being late,you'd like some some company, and I hope that you don't fall in love with me". Troppo tardi, lei se n'è andata: "Turn around to look at you, you're nowhere to be found,I search the place for your lost face, guess I'll have another round". Ed è proprio quando l'altro non c'è più che si capisce quanto si ha bisogno di lui/lei: "And I think that I just fell in love with you", credo di essermi innamorato di te. Perché come diceva quello là nel film Almost famous, “Non è quello che c’è, ma quello che rimane fuori: questo è il rock’n’roll”.
Se siete arrivati a leggere fino a qui, vi meritate una scena del più bel film a tema "negozi di dischi & dischi". Ma non solo... Anche innamorarsi alle 3 del mattino...
Tuesday, March 04, 2008
Campagna elettorale
Se cinque lavoratori muoiono sul posto di lavoro, cercando di salvarsi l’uno con l’altro. Se due bambini vengono lasciati a morire in un pozzo come fossero topi, a 400 metri dalla piazza principale della loro città, mentre va di scena l’imbecillimento da grande fratello quotidiano. Se i programmi elettorali dei principali candidati al governo sono identici l’uno all’altro e al massimo sanno promettere l’eliminazione della tassa dell’Ici, e intanto la moglie del primo ministro ancora in carica osa dire che la salvezza della scuola è che gli studenti facciano i bravi e seguano le regole. Se il beppegrillismo rampante è solo moralismo senza morale, come un prete senza tonaca che blatera idealismo senza ideale. Se la cultura è ormai solo un buco da riempire con l’ecologismo trendy da salotto.
Datemi tre accordi di chitarra fusi con il potere della parola: “Ho visto il futuro baby, è assassinio”.
The Future
(Leonard Cohen)
Ridatemi la mia notte infranta
La mia stanza degli specchi, la mia vita segreta
Ci si sente soli qui
Non c’è più nessuno da torturare
Datemi il controllo assoluto
Su ogni anima vivente
E stenditi accanto a me, baby
Questo è un ordine!
Datemi del crack e il sesso anale
Prendetevi l’unico albero rimasto
E ficcatelo nel buco
Della vostra cultura
Ridatemi il muro di Berlino
Ridatemi Stalin e San Paolo
Ho visto il futuro, fratello:
È assassinio
Le cose cominceranno a scivolare, in tutte le direzioni
Non sarà nulla
Nulla che potrai più misurare
La tempesta del mondo
Ha attraversato la soglia
E ha sovvertito
L’ordine dell’anima
Quando dicono PENTITI
Mi domando cosa intendano
Non puoi conoscermi dal vento
Non lo potrai mai, non lo hai mai potuto
Io ero il piccolo ebreo
Che scrisse la Bibbia
Ho visto le nazioni sorgere e crollare
Ho ascoltato le loro storie, le ho sentite tutte
Ma l’amore è il solo motore della sopravvivenza
Il tuo servo è qui, gli è stato detto
Di parlare chiaro, di dirlo freddo
È finita, non si andrà più avanti
E adesso le ruote del cielo si fermano
Puoi sentire il raccolto del diavolo
Sii pronto per il futuro:
È assassinio
L’antico codice d’occidente verrà spezzato
La tua vita privata improvvisamente esploderà
Ci saranno fantasmi
Ci saranno fuochi per le strade
E un uomo bianco che danza
Vedrai una donna
A testa in giù
Le sue parti coperte da una gonna cadente
E tutti quei poeti da quattro soldi
Arriveranno
Cercando di assomigliare a Charles Manson
Ridatemi il muro di Berlino
Ridatemi Stalin e San Paolo
Ridatemi il Cristo
Oppure ridatemi Hiroshima
Distruggete un altro feto, adesso
Tanto i bambini non ci piacciono comunque
Ho visto il futuro baby:
È assassinio
Datemi tre accordi di chitarra fusi con il potere della parola: “Ho visto il futuro baby, è assassinio”.
The Future
(Leonard Cohen)
Ridatemi la mia notte infranta
La mia stanza degli specchi, la mia vita segreta
Ci si sente soli qui
Non c’è più nessuno da torturare
Datemi il controllo assoluto
Su ogni anima vivente
E stenditi accanto a me, baby
Questo è un ordine!
Datemi del crack e il sesso anale
Prendetevi l’unico albero rimasto
E ficcatelo nel buco
Della vostra cultura
Ridatemi il muro di Berlino
Ridatemi Stalin e San Paolo
Ho visto il futuro, fratello:
È assassinio
Le cose cominceranno a scivolare, in tutte le direzioni
Non sarà nulla
Nulla che potrai più misurare
La tempesta del mondo
Ha attraversato la soglia
E ha sovvertito
L’ordine dell’anima
Quando dicono PENTITI
Mi domando cosa intendano
Non puoi conoscermi dal vento
Non lo potrai mai, non lo hai mai potuto
Io ero il piccolo ebreo
Che scrisse la Bibbia
Ho visto le nazioni sorgere e crollare
Ho ascoltato le loro storie, le ho sentite tutte
Ma l’amore è il solo motore della sopravvivenza
Il tuo servo è qui, gli è stato detto
Di parlare chiaro, di dirlo freddo
È finita, non si andrà più avanti
E adesso le ruote del cielo si fermano
Puoi sentire il raccolto del diavolo
Sii pronto per il futuro:
È assassinio
L’antico codice d’occidente verrà spezzato
La tua vita privata improvvisamente esploderà
Ci saranno fantasmi
Ci saranno fuochi per le strade
E un uomo bianco che danza
Vedrai una donna
A testa in giù
Le sue parti coperte da una gonna cadente
E tutti quei poeti da quattro soldi
Arriveranno
Cercando di assomigliare a Charles Manson
Ridatemi il muro di Berlino
Ridatemi Stalin e San Paolo
Ridatemi il Cristo
Oppure ridatemi Hiroshima
Distruggete un altro feto, adesso
Tanto i bambini non ci piacciono comunque
Ho visto il futuro baby:
È assassinio
Sunday, March 02, 2008
Una sera, a New York
La sera del 12 aprile 1963, circa 900 spettatori assistono al primo concerto fuori di una coffee house newyorchese del giovane Bob Dylan. La sede è la prestigiosa Town Hall di New York City. Alle spalle il cantautore ha un solo disco, intitolato semplicemente Bob Dylan e uscito circa un anno prima, non troppo convicente e composto quasi interamente di brani tradizionali. Nel tempo trascorso da allora, il giovane ha sviluppato una capacità compositiva straordinaria e anche una abilità esecutiva formidabile: sono proprio i brani di quel primo disco, eseguiti questa sera, a sottolineare l'incredibile talento che il musicista ha sviluppato in meno di un anno: Highway 51sembra già una anticipazione della futura It's Alright Ma (I'm only Bleeding); Pretty Peggy-O un bluesaccio maligno, degno di Robert Johnson; l'inedita New Orleans Rag è una cavalcata quasi rock e Seven Curses gode di un arpeggio folkie di bellezza intensissima, e il brano è la gemma di tutta la serata. Chiunque poi si è posto il dubbio negli ultimi 40 e passa anni se l'autore del bel fingerpicking durante Don't Think twice, It's Alright del disco che sarebbe uscito poco dop, a fine maggio, fosse proprio Bob Dylan (non è lui, non ne è capace!), be' ascoltando qui lo stesso fingerpicking - anche se in una tonalità minore - si ricrederà delle capacità tecniche del giovane folksinger.
Che, come documenta anche il concerto alla Carnegie Hall sempre di NYC del 26 ottobre 1963 e già disponibile da tempo, è in questo 1963 che affina le qualità di performer e le porta ai massimi livelli come esecutore folk-blues; era questo, infatti, oppure quello della Carnegie Hall, il concerto acustico da pubblicare nella Bootleg Series, non quello della sera di Halloween 1964. Carino, piacevole, divertente, ma documetnazione minore, anzi errata: quella sera Dylan, ubriaco e fumato, offre infatti una performance per larghi tratti scadente. E poi sta già pensando ai Beatles e al rock'n'roll: di fare il folksinger non ne può più.
Il concerto alla Town Hall è disponibile adesso integralmente grazie a un nuovo Bootleg (Stolen Moments): 23 brani, solo una manciata di essi circolavano in precedenza. Qualità audio perfetta (nonostante il nostro disponga di un impianto audio scarsino, che lo frega a volte quando si lascia andare con l'irruenza del periodo, producendo brutti colpi sul microfono davanti a lui). Si può scaricare comodamente da qui, basta registrarsi: http://www.hungercity.org/details.php?id=7010.
Ne vale la pena.
A new two-disc set from the Hollow Horn label that will contain the complete performance from the legendary concert at the Town Hall in New York City on 12 April 1963. Several songs have appeared from this concert over the years from several different sources (including some off scratchy acetates) but this features the whole 23 song performance from a perfect fully mixed professional tape source. The sound quality is staggering, and this performance, in my opinion, is one of the most important that has ever emerged in the history of “non official” releases. The packaging is up to usual high standard for Hollow Horn releases, and this one includes an extra booklet as well as the usual fold-out panel design.
DISC ONE: RAMBLIN’ DOWN THROUGH THE WORLD; BOB DYLAN’S DREAM; TALKIN’ NEW YORK; BALLAD OF HOLLIS BROWN; WALLS OF RED WING; ALL OVER YOU; TALKIN’ JOHN BIRCH PARANOID BLUES; BOOTS OF SPANISH LEATHER; HERO BLUES; BLOWIN’ IN THE WIND; JOHN BROWN; TOMORROW IS A LONG TIME; A HARD RAIN’S A GONNA FALL
DISC TWO: DUSTY OLD FAIRGROUNDS; WHO KILLED DAVEY MOORE?; SEVEN CURSES; HIGHWAY 51; PRETTY PEGGY-O; BOB DYLAN’S NEW ORLEANS RAG; DON’T THINK TWICE, IT’S ALL RIGHT; HIDING TOO LONG; WITH GOD ON OUR SIDE; MASTERS OF WAR; LAST THOUGHTS ON WOODY GUTHRIE
Che, come documenta anche il concerto alla Carnegie Hall sempre di NYC del 26 ottobre 1963 e già disponibile da tempo, è in questo 1963 che affina le qualità di performer e le porta ai massimi livelli come esecutore folk-blues; era questo, infatti, oppure quello della Carnegie Hall, il concerto acustico da pubblicare nella Bootleg Series, non quello della sera di Halloween 1964. Carino, piacevole, divertente, ma documetnazione minore, anzi errata: quella sera Dylan, ubriaco e fumato, offre infatti una performance per larghi tratti scadente. E poi sta già pensando ai Beatles e al rock'n'roll: di fare il folksinger non ne può più.
Il concerto alla Town Hall è disponibile adesso integralmente grazie a un nuovo Bootleg (Stolen Moments): 23 brani, solo una manciata di essi circolavano in precedenza. Qualità audio perfetta (nonostante il nostro disponga di un impianto audio scarsino, che lo frega a volte quando si lascia andare con l'irruenza del periodo, producendo brutti colpi sul microfono davanti a lui). Si può scaricare comodamente da qui, basta registrarsi: http://www.hungercity.org/details.php?id=7010.
Ne vale la pena.
A new two-disc set from the Hollow Horn label that will contain the complete performance from the legendary concert at the Town Hall in New York City on 12 April 1963. Several songs have appeared from this concert over the years from several different sources (including some off scratchy acetates) but this features the whole 23 song performance from a perfect fully mixed professional tape source. The sound quality is staggering, and this performance, in my opinion, is one of the most important that has ever emerged in the history of “non official” releases. The packaging is up to usual high standard for Hollow Horn releases, and this one includes an extra booklet as well as the usual fold-out panel design.
DISC ONE: RAMBLIN’ DOWN THROUGH THE WORLD; BOB DYLAN’S DREAM; TALKIN’ NEW YORK; BALLAD OF HOLLIS BROWN; WALLS OF RED WING; ALL OVER YOU; TALKIN’ JOHN BIRCH PARANOID BLUES; BOOTS OF SPANISH LEATHER; HERO BLUES; BLOWIN’ IN THE WIND; JOHN BROWN; TOMORROW IS A LONG TIME; A HARD RAIN’S A GONNA FALL
DISC TWO: DUSTY OLD FAIRGROUNDS; WHO KILLED DAVEY MOORE?; SEVEN CURSES; HIGHWAY 51; PRETTY PEGGY-O; BOB DYLAN’S NEW ORLEANS RAG; DON’T THINK TWICE, IT’S ALL RIGHT; HIDING TOO LONG; WITH GOD ON OUR SIDE; MASTERS OF WAR; LAST THOUGHTS ON WOODY GUTHRIE
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