Thinking of a series of dreams Where the time and the tempo drag, And there's no exit in any direction 'Cept the one that you can't see with your eyes. Wasn't making any great connections, Wasn't falling for any intricate schemes. Nothing that would pass inspection, Just thinking of a series of dreams (Bob Dylan, Series of Dreams)
Mi sovviene che l’anno 2010 sta finendo esattamente come era cominciato. Come? Di merda, direi. Mi stanno arrivando una serie violenta di flashback tutti insieme che faccio fatica a distinguere se siano i primi giorni del gennaio 2010 o gli ultimi giorni di dicembre 2010. E non ho bevuto neanche un Bloody Mary. Ancora. Ma è qualche settimana che mi succede sta cosa qua, e credo anche di sapere perché, ma non lo dirò. Mi si incrina qualche zona del cervelletto e ho delle visioni. A volte belle, limpide e chiare come il sole. Più spesso grigie, marcilenti se così si può dire. Angoscia. Questa serie di visioni è accompagnata da un turbinare di sogni, sogni che non sono sicurissimo di aver fatto, perché mi sembra in realtà di averli fatti pochi secondi fa il che è impossibile. Un istante dopo so con certezza che sono sogni vecchi di anni e anni, ma come è possibile che li ricordi così in maniera freschissima. L’unica spiegazione che siano sogni ricorrenti. Eccoli, è la prima volta che li metto giù su carta, pardon su computer. La mia series of dreams. Mi rendo conto che in un modo o nell’altro nei miei sogni c'è sempre un qualche tipo di casa.
Enormi case di campagna abbandonate o semi abbandonate dove mi aggiro insieme ad altre persone che credo di conoscere, sono luoghi familiari ma allo stesso tempo non sappiamo trovarne l’uscita.
Viaggi in macchina verso case in cima a qualche montagna attraverso strade stradine tunnel da paura. Persone che aspettano lassù in cima. La meta non si raggiunge mai e la sensazione è che sia meglio così.
Viaggi verso paesini di mare su promontori in teoria bellissimi ma che hanno sempre qualcosa di angoscioso su strade stradine super a picco.
Vialoni cittadini notturni semi deserti viaggi estenuanti su filovie metropolitane verso fermate che perdo sempre per un motivo o per l’altro, poi capolinea abbandonati nessuno a cui chiedere una informazione.
Fabbriche enormi in rovina dove si passa e si cammina come se ci si trovasse in un normale quartiere cittadino. Fabbriche enormi in rovina dove sto cercando qualcosa o qualcuno.
Tunnel sottoterra dove ci si infila a malapena e dentro cui spuntano cadaveri, morti in putrefazione, mummie assortite.
Ascensori, portoni di case eleganti dove non dovrei trovarmi ma mi ci trovo davanti. Ascensori enormi che portano a loft inondati di sole dove non vive nessuno.
1. Aver visto The Tallest Man on Earth in concerto (a Londra) 2. Aver visto John Grant e i Midlake in concerto (a Londra) 3. Aver girato in vespa di notte (per Londra) 4. Aver fatto colazione con due Bloody Mary (a Londra) 5. Aver trovato lavoro (a Milano)
("Resta con me, nella realtà": frase dell'anno 2010 - non mia ovviamente, troppo bella)
Tu non lo sai, ma quando ti accarezzo, la tua bella faccetta, cosi pulita, mi pare, mi pare di essere un signore, un signore che ha la radio nuova e nell'armadio la torta per i figli, che vengono a casa da scuola, e ti tocca viziarli; per te un'altra vestina, a te ti compero le scarpe (Ti te sé no, Enzo Janancci)
L’uomo è laggiù, in fondo al corridoio. Quando arriva, si va sempre a chiudere lì dentro. Poi magari esce fuori e se incrocia qualcuno lo saluta, gli stringe l amano. Perché è timido e riservato. Anche se ha passato quasi tutta la vita sui palcoscenici davanti a migliaia di persone.
“Sono sempre stato timido, ancora adesso faccio fatica a chiedere informazioni alla signorina del supermercato. Quello che la gente si ricorda di me sono le entrate a passettini, che non erano una trovata artistica, ma venivano dal fatto che avevo paura di disturbare”.
L’uomo è laggiù in fondo al corridoio e mi dicono che è seduto laggiù. Anche questa volta è arrivato, riservato e misterioso come le altre volte, poi sparisce allo stesso modo con cui è arrivato. Mi dicono, vai a salutarlo dai. No non ci vado. Massì vai a salutarlo, gli fa piacere. No che non ci vado.
“C’è una carica vitale che la supera da tutte le parti, da dove arriva questa carica? Da chi ho davanti, da chi incontro, da quello che guardo, da dove penso arrivi la musica”.
Ok ci vado. Attraverso il corridoio. Se è piccola sta stanzetta. L’uomo è seduto lì, incassato in un angolino di una stanzetta che è già un angolino. Si stringe forte l’impermeabile. Fuori, su Milano, la sua Milano, sta nevicando. So che è anziano, per così dire, ha 75 anni. Ma ha una bella pelle liscia, un sorriso che spacca, gli eleganti capelli bianchissimi. La stretta di mano forte ma educata. Il sorriso. Il carisma. Che allarga e di tanto la minuscola stanzetta.
“La normalità come la penso io è essere te stesso, sapendo che ci vuole una misura anche nella tua cattiveria. Essere buoni non può voler dire non essere cattivi, ma essere disponibili ai desideri, ai bisogni. La normalità è poter dire di essere a casa”.
Parliamo un po’, come si dice del più e del meno, di amici musicisti in comune. Ha una gran voglia di parlare, di raccontare. Si vede che gli piacciono le storie. Si schernisce per la bellissima intervista che ci ha concesso, come si schernisce la bravissima amica che glie l’ha fatta. Ma insomma chi l’ha fatta questa intervista, mica si sarà fatta da sola.
“Questo Armando a un certo punto dice: non ci sono più maestri, ma solo esperti di settore”.
Potrei rimanere nella stanzetta per ore, ma in qualche modo sento che l’uomo guarda già lontano, è come se fosse attraversato. Appartiene già a un altro tempo, un tempo immemorabile.
"Io amo talmente la musica e la bellezza, le amo talmente perché sento che se tu ne prendi dei pezzi, dei piccoli svolazzi, come quei foulard che nelle serate di moda si vedono svolazzare… Solo che la musica è un continuo svolazzare di foulard, va avanti da sola e uno deve essere lì pronto ad ascoltare, perché poi lei va via. Però può essere che qualche volta si ferma e anche lei ascolta, perché c’è anche la musica che ascolta. La vita per me è concepita da uno che ti mette lì - e io so chi è - … ti ha messo lì e c’è tutta una serie di avvenimenti, di affreschi, di patate sauté, di bistecca con la polenta, di uova sode… tutte cose che, tra l’altro, piacciono a me, magari agli altri no, ma a me piacciono molto".
Dopo, quando lui è già andato via, oppure è ancora là nella stanzetta che si vedeva che era felice di essere in quella stanzetta, tra amici presenti e altri che dovevano ancora arrivar, io esco. Per le strade della sua Milano nevica. Sto imparando a guardare. Perché nella vita è la cosa più bella, guardare ogni cosa. La neve. Le biciclette e i tram. Stupirsi. Guardare a persone che ti sanno essere dei maestri. Che altro c'è. Be' le patate sauté e una bistecca con polenta. Perché la vita accade. Ora.
'Cuz you'll never know the reason Why the seas rise and fall You'll never know the reason Or if there's a reason at all 'Cuz you'll never know the reason Why the sun shines at all You'll never know the reason Why we each must one day fall
You find your way To write your song And come what may I hope you find friends with whom you belong I said I hope you find friends with whom you belong
(With Whom You Belong. Fistful of Mercy)
Mi piace andare ai concerti. Mi piace che dopo più di trent'anni ne ho ancora voglia, anzi ne ho sempre di più. Mi piace prendere la metropolitana poco distante dall'ufficio e uscire poco distante da dove ci sarà il concerto, venti minuti in tutto di viaggio. Mi piace perché mi ricorda quando andavo a vedere tutte le sere Bob Dylan suonare all'Hammersmith, facendo venti minuti di metropolitana dal mio albergo. Mi piace camminare con la gente che mano a mano gli impiegati si disperdono e rimaniamo solo noi, quelli "da concerto". Mi piace stasera questo vento quasi caldo che spazza il cielo di Milano e sembra quasi che invece che l'inverno stia per arrivare primavera. Mi piace scontrarmi con le prime bancarelle di abusivi, l'odore dei baracchini di birra e salsicce. Mi piace entrare nel locale, sentire quel'odore inconfodibile, pensare ai musicisti nel loro camerino. Mi piace incontrare gente che mi chiama per nome e cognome e io sia dannato se ricordo i loro, di nomi e cognomi, e si parla come se ci si conoscesse da sempre. Non mi piace tanto che mia figlia, la piccolina, mi telefoni mentre sono sotto al palco e loro stanno attaccando un pezzo di Bob Dylan così che devo uscire fuori perché lei ha il magone che le manca il papà e devo consolarla. Ma mi piace essere un papà.
Ieri sera mi sono piaciuti tantissimo i Fistful of Mercy, il supergruppo (?) composto da Ben Harper, Joseph Arthur e il figlio di George Harrison, Dhani. Come ha detto un mio amico ieri sera, se un merito questo gruppo ce l'ha, è quello di aver de-lennykravizzato Ben Harper e riportato a essere quello che è veramente, quello dei tempi di Welcome to the Cruel World o Fight for your Mind. Sembrava Stevie Wonder ieri sera, che si muoveva sgraziato ma irrefrenabile al ritmo di una musica che gli scorre dentro potente, musica nera, musica dell'anima. Chitarra acustca, Weissenborn siderale (come ha detto Arthur, "hey sapete cosa vuol dire avere Jimi Hendrix che suona nella vostra band?"). Dhani, piccolissimo, ugualissimo al padre nella voce e nel volto: il giorno dopo trent'anni dalla morte di John Lennon, qualche giorno dopo nove anni dalla morte di George Harrison, sto guardando una picola eredità dei Beatles. Che meraviglia. Si alterna alla chitarra acustica, elettrica e al pianoforte, è ovviamente il più beatlesiano e psichedelico della band. In mezzo Josseph Arthur, il più loquace, il più caciarone, il più rock'n'roll. M ricordo di quando lo intervistai, nel 1997, al suo primo disco, lui scoperto da Peter Gabriel, un ragazzone dell'Ohio che se la rideva e che non avrebbe scommesso di fare dishci ancora a lungo, invece eccolo qua. Mi ricordo che in quel 1997 intervistai anche Ben Harper, quando ancora non era trendy come oggi che è una sorta di super eroe anche di Pierluigi Bersani e ha un pubblico in realtà alquanto caciarone che ieri sera erano quasi tutti lì per lui e hanno proprio rotto le palle starnazzando fra di loro come se sul palco non ci fosse stato nessuno. Bah. Allora era un ragazzone timido anche lui, non sapevamo bene di che parlare perché mi avevano mandato da lui all'ultimo minuto. Parlammo di Dio, e ci fumammo qualcosa.
Seduti uno accanto all'altro, sono stati una festa della bella musica. Chitarre acustiche hanno riempito le volte dell'Alcatraz meglio di dieci gruppi heavy metal; armonie perfette, che neanche Crosby Stills e Nash riuscivano a cantare così senza stonare. Tutto il loro primo e unico disco - non ce ne saranno altri, mi sa - e cioè tante ballate che affondano nel cuore, e qualche cover di lusso: Buckets of Rain di Dylan, trascinante, spumeggiante, divertente. To Bring You My Love di PJ Harvey, rockata, densa e incandescente con scambi di assoli di chitarra elettrica a tre, lunghissima e incalzante. Pale Blue Eyes dei Velvet Underground, ma questa mi dispiace è una canzone che solo le donne possono cantare. Scandalous di Prince, funky e devastante come si merita. Durante Restore me di Harper, poi, i tre si sono lasciati andare anche a una sagace ripresa di Stayin' Alive dei Bee Gees che finisce per affondare nelel risate dei tre. Restore Me, che è stato il momento clou della serata con un Ben Harper invasato che sembrava il figlio di James Brown e Stevie Wonder. Alla fine i tre lasciano microfoni e cavetti e si dispongono al limite del palco, snza amplificazione. Cantano With Whom You Belong, che sembra un inno sacro delle Catskill Mountains. Si scambiano di posto tra di loro, vanno avanti che non vogliono più smettere, invitano il pubblico a cantare con loro. E' bello, molto. Mi piace. "Spero che tu possa trovare amici con cui stare", è un bell'augurio, quello che loro stanno cantando.
Mi piace che stasera avevo bisogno di un pugno di misericordia e sono tornato a casa con a fistful of mercy, un autentico pugno di misericordia.
Non ho mai avuto dubbi nel definirla - dopo Mystery Train di Elvis - la più grande performance vocale della storia del rock'n'roll. E' quella di John Lennon in Twist and Shout come la registrarono i Beatles.
Ecco perché a 30 anni da quell'8 dicembre ho voluto scrivere queste cose su quel giorno e su Lennon.
“Le cose non si possono tutte afferrare e dire come d’abitudine ci vorrebbero far credere; la maggior parte degli eventi sono indicibili, si compiono in uno spazio inaccesso alla parola, e più indicibili di tutto sono le opere d’arte, esistenze piene di mistero la cui vita, accanto all’effimera nostra, perdura.” — Rainer Maria Rilke
"Un tale mi stava chiedendo una canzone romantica, non so dire se questa che canterò sia una canzone romantica o una canzone santa. In ogni caso, rappresenta un po' quella breve comunione che è un bacio. Che sia un bacio o solo un momento di particolare unione tra gli opposti" (Judee Sill)
Una più o meno famosa attrice diceva che i baci sono meglio del sesso. Una mia amica invece diceva che i baci sono solo uno scambio di dna. Per Judee Sill, addirittura un momento di comunione. Che in fondo è vero. Che altro è il bacio e quello che ne consegue (a volte) tra due persone se non il fondersi di due identità in una sola, per quei pochi istanti. Esattamente come il fare la comunione, per chi si ricorda ancora di certi vocaboli che oggi non si usano più e gesti che non si fanno più neanche. Per Judee Sill il riferimento all'eucarestia era un riferimento importante. Non che fosse una cristiana particolarmente impegnata, ma diverse sue canzoni toccavano un tema profondo, quello della redenzione e del peccato. Chissà se Johnny Cash l'aveva mai ascoltata, l'avrebbe trovata familiare. Ma un bacio è stato anche il segnale del più grande tradimento della storia dell'umanità. Sempre per chi si ricorda certe antiche storie di cui oggi non si parla quasi più. E Judee Sill era segnata, nonostante la bellezza che andava cantando e cercando.
Judee Sill muore il 23 novembre 1979, di overdose. Ha solo 35 anni. La sua era stata una vita segnata da sempre dalla violenza, lo sbandamento, la disperazione. Un padre morto di polmonite e un fratello in un incidente. Una dipendenza dall'eroina durata tre anni già quando aveva vent'anni circa. Una vita sui marciapiedi di San Francisco e anche in galera. Lei stessa colpita in un incidente così gravemente da dover prendere droghe per sopportare il dolore. Eppure Judee Sill era stata la prima artista in assoluto a incidere un disco per quella che sarebbe diventata una delle più importanti case discografiche americane, e certamente una delle prime indipendenti in assoluto. L'Asylum di David Geffen, quello che una volta Jackson Browne definì capace di "buttarsi in un letamaio per tirarne fuori un solo centesimo". E che negli anni 80 avrebbe fatto causa a Neil Young perché faceva dischi che non erano abbastanza commerciali. Ma l'Asylum, come diceva il nome stesso, era nata per dare "asilo" a quei musicisti che non avevano spazio nelle case discografiche perché non abbastanza "commerciali". Oh l'ironia della vita, caro Geffen. Ma almeno ci ha dato la possiiblità, ancor oggi, di ascoltare le canzoni straordinarie di Judee Sill.
Solo due dischi incisi: "Judee Sill", nel 1971, e "Heart Food", nel 1973. Graham Nash produsse il suo primo singolo, Jesus was a Crossmaker (Gesù era uno che costruiva croci, e lei, Judee, di croci ne conosceva), e con Crosby And Nash, due superstar in quegli anni, sarebbe andata in tour. Ma il successo non arrivò. Lasciò perdere la musica, tornò a farne di tutti i colori come vivere in cinque in unma macchina fino a morire un giorno nel suo appartamento di North Hollywood. Aveva trovato quel bacio di comunione santa che aveva cercato per tutta la vita.
Dischi postumi in questi ultimi anni ne stanno uscendo. Uno su tutti, il doppio cd registrato dal vivo alla Bbc durante una fugace visita londinese. Meraviglioso, perché solo la sua voce incantevole, una chitarra custica suonata molto bene e un pianoforte. E una canzone, The Kiss, che ancora oggi suona come una delle più belle in assoluto delgi anni 70. Anche se allora, probabilmente, non la ascoltò quasi nessuno. Judee Sill sarebeb troppo facile paragonarla a Nick Drake: stesso talento sconosciuto alle masse durante la vita, stessa morte che sa tanto di suicidio cercato, con la differenza che oggi Drake gode nell'al di là del successo meritato, Judee ancora no. Eppure le sue canzoni sono di una sofisticatezza che non ha paragoni: lei conoscvea la musica classica, e l'eco di certe composizioni di Bach ad esempio è evidente. Lei cercava la "dark peace", la pace nera, come la chiamava lei. Per alcuni è l'unica cosa che rimane.
When the music's over When the music's over, yeah When the music's over Turn out the lights Turn out the lights Turn out the lights, yeah
When the music's over When the music's over When the music's over Turn out the lights Turn out the lights Turn out the lights
For the music is your special friend Dance on fire as it intends Music is your only friend Until the end Until the end Until the end
Cancel my subscription to the Resurrection Send my credentials to the House of Detention I got some friends inside
The face in the mirror won't stop The girl in the window won't drop A feast of friends "Alive!" she cried Waitin' for me Outside!
Before I sink Into the big sleep I want to hear I want to hear The scream of the butterfly
Come back, baby Back into my arm We're gettin' tired of hangin' around Waitin' around with our heads to the ground
I hear a very gentle sound Very near yet very far Very soft, yeah, very clear Come today, come today
What have they done to the earth? What have they done to our fair sister? Ravaged and plundered and ripped her and bit her Stuck her with knives in the side of the dawn And tied her with fences and dragged her down
I hear a very gentle sound With your ear down to the ground We want the world and we want it... We want the world and we want it... Now Now? Now!
Persian night, babe See the light, babe Save us! Jesus! Save us!
So when the music's over When the music's over, yeah When the music's over Turn out the lights Turn out the lights Turn out the lights
Well the music is your special friend Dance on fire as it intends Music is your only friend Until the end Until the end Until the end!
Che cosa vuol dire che tra uomo e donna ci può essere qualcosa di più importante dell’amore? Vuol dire che è possibile vedere un’altra persona come si vede se stesso: consentirgli tutti i gesti e i movimenti che si consentono a se stesso, godere che li faccia come si gode a farli noi, non sentirsi privati di cosa che faccia con altri come noi non ci sentiamo privati di cosa che facciamo con altri — vuol dire amare questo nostro prossimo come noi stesso. Quest’amore si chiama carità. Ma se l’altra persona scompare? Possiamo amare noi stesso sparito? Bisognerebbe credere che nessuno scompare mai. Che non c’è la morte.
Morirà e tu sarai solo come un cane. C’è un rimedio? Ricorda sempre che nulla ti è dovuto. Che cosa meriti infatti? Quando sei nato, ti era forse dovuta la vita?
Tempo presente e tempo passato sono forse entrambi presenti nel tempo futuro, e il tempo futuro contenuto nel tempo passato. Se il tempo tutto è eternamente presente il tempo tutto è irredimibile. Ciò che avrebbe potuto essere è un’astrazione che rimane perpetua possibilità solo in un mondo ipotetico. Ciò che avrebbe potuto essere e ciò che è stato puntano a un solo fine, che è sempre presente. Passi echeggiano nella memoria lungo la via che non abbiamo preso verso la porta che non abbiamo aperto per entrare nel roseto. Le mie parole echeggiano così, nella tua mente. Ma a che scopo turbare la polvere su una ciotola di petali di rosa io non so.
(...)
Sembra, a mano a mano che uno invecchia | che il passato abbia una diversa forma | e cessi di rappresentare una successione | o, perfino, uno sviluppo [...] | Noi abbiamo compiuto l'esperienza, ma non ne cogliemmo il significato | e l'approssimarsi al significato ripropone l'esperienza | sotto diversa forma, oltre ogni senso | che noi possiamo dare alla felicità. || La gente cambia e sorride: l'agonia persiste. | Il tempo che di-strugge è il tempo che conserva
Music heard so deeply that it is not heard at all, but you are the music while the music lasts. Four quartets, t. s. eliot
Non so più dove mettere la musica. Ho anche aperto insieme ad alcuni amici un altro blog, ve l'ho già detto. Il fatto è che la seconda decade del terzo millennio è una goduria quasi quanto come quando andavamo per dischi nel 1967 o nel 1977. Mmm. Nel 1977 sì, vabbè. Qua, su Sunday Morning trovate un paio di bei dischetti, il secondo - e nuovissimo - dei Jim Jones Revue e il primo del supergruppo Fistful of Mercy (in arte, Ben Harper, Dhani Harrison figlio di George e Joseph Arthur). E anche la ristampa deluxe di un dei più bei dischi degli anni 70, Damn the Torpedoes! di Tom Petty. Ma su Sunday Morning c'è un sacco di altre belel cose da leggere.
Qua, nel blog dei deliri, vorrei invece parlarvi delle mie sorelle segrete. Non vi parlo di Sorella Morte che mi sta accanto deliziosamente ogni giorno. Nè di Sorella Sfiga, quella c'è l'ho accanto dal giorno che sono nato e sta cominciando pure a diventarmi simpatica. Le Sorelle della Misericordia invece mi hanno tradito per sempre. Vi parlo piuttosto delle Secret Sisters, viste ieri sera per puro caso al Letterman Show. Immediatamente ho capito di trovarmi davanti a qualcosa di straordinario. Perché io amo la country music.
Chiunque vi abbia detto che la country music è musica divertente, spensierata, è un povero pirla. Io amo la country music di Hank Williams, per intenderci, il cantante più triste e disperato di ogni tempo. Epperò certo che la country music si svolge su armonie piacevoli, tempi saltellanti, approcci ariosi. Apparentemente. Qual era il segreto di Hank Williams? Sfoderare un bel sorriso di fronte alle mille amarezze della vita. Perché la country music è come il blues: è musica dell'anima e ha il potere di guarire l'anima. Be', le Secret Sisters sono un gruppo nuovissimo, prodotto dal più grande salvaguardatore del patrimonio popolare nord americano, T Bone Burnett, e sono riuscite nel miracolo. Pensate che fanno anche Something Stupid di Nancy Sinatra in versione country, oddio meglio di così cosa c'è?
In una giornata in cui mi sentivo "da suicidio proprio come il Mister Jones di Dylan" (per quotare John Lennon), mi hanno ridato la voglia di vivere. Sono sorelle segrete, sono angeli custodi. E anche di quelli ce ne ho tanti. Uno di essi oggi mi ha tenuto compagnia e mi ha pregato di non mollare. E alla sera è arrivata la musica. Hey, good lookin'.
Anzi, un superblog! Da tempo andavo pensando a una situazione del genere: visitare ogni giorno una dozzina di blog diversi per leggerne i post è per me ormai impresa impossibile, manca il tempo, time out of mind... Così radunare più blog in un posto solo mi sembrava un'idea comoda, oltre che quanto di più simile a una vera e propria rivista musicale online, che era - ed è - anche quella un mio grande sogno.
Così adesso abbiamo il super blog, Sunday Morning, a questo indirizzo, http://sunday-m-orning.blogspot.com/, con un po' di validi bloggers riuniti sotto un'unica bandiera. Quello che ci scrive di meno ovviamente sono io per i motivi di cui prima. Red River Shore rimane sempre aperto, dont worry. Qua ci rimangono i miei deliri notturni, albeggianti e di tramonto. Di là cercherò di essere più professionale, tempo permettendo. Così fateci un giro e poi tornateci, credo ne valga la pena.
"Usciamo fuori stanotte e immergiamoci nel rumore e nelle luci accese e nella confusione del rock'n'roll. Troviamo una strada verso il Mistero e seguiamolo (...) Il pubblico pensa, ecco un'altra band. La band pensa, ecco un'altra città. E insieme si incontrano nella notte e insieme danzano" (Paul Williams. The Map - Or Rediscovering Rock'n'Roll)
Ho fatto il pieno. Ho ingerito tutto quello che potevo ingerire nel percorso che ho dovuto fare per arrivare fino a qui. Un tassista mi ha anche scaraventato fuori del suo taxi perché stavo vomitandogli dentro. Bontà sua non mi ha fatto neanche pagare il pezzo di corsa che avevo fatto con lui. In realtà non avevo bisogno di ingerire nulla perché sono 36 ore che non chiudo occhio pensando a quanto mi aspetta tra quelle mura. Ma onestamente, ho dovuto prendere un sacco di roba e berci sopra anche, perché ho sette donne che mi ossessionano la testa e se non le faccio fuori tutte e sette stanotte, non ce la farò mai più. C'è anche un tipo coi baffi che mi ossessiona da mesi, ma non sono gay e poi è stronzo, se ne andrà da solo prima o poi. Sono venuto fin qui stanotte perché ho dei conti da saldare. Con i ricordi del mio futuro.
“Karen, put me in a chair, fuck me and make me a drink I’ve lost direction, and I’m past my peak I’m telling you this isn’t me No, this isn’t me Karen, believe me, you just haven’t seen my good side yet” (The National, Karen)
Quando la canzone che annuncia l'ingresso della band sul palco è On the Beach di Neil Young, sparata alla dose giusta come se NEIL YOUNG fosse sul palco, capisci che la serata è quella giusta, se ancora avevi dubbi. Ancora di più dopo l'ottimo set di apertura di Mr Phosphorescent che suona, con la sua band, come se il tempo e la musica si fossro fermati a Zuma. Le fotomodelle che ti girano attorno contribuiscono a sostenere l'idea, e quando incontri The American Mary allora che la festa abbia inizio. Non c'è più da aver paura, anche se facce orribili stravolte di gelosia continuo a vederne in giro, qua dentro. Ma The National sono la band giusta nella notte giusta per quello che deve accadere, e quando Abel spacca di rumore bianco il soffitto dell'Alcatraz, così come England si adagia sulle vetrate della cattedrale di Westminster, allora capisci che Douglas Coupland aveva predetto giusto, che sì, una band come i National doveva apparire prima o poi per salvare ancora una volta il rock'n'roll. Se quella di Coupland era la prima generazione a cui avevano portato via il concetto di Dio, questa sera i National ribadiscono che senza Mistero non si fa rock'n'roll. E quando quell'allampanato cantante tutto vestito di nero scende dal palco e attraversa tutta la sala dell'Alcatraz continuando a cantare in mezzo a un pubblico che lo sfiora appena, epicità fa ancora rima con bellezza. E tutto va dove deve andare. Tranne io, che non riesco a trovare la porta d'uscita.
My mind's not right My mind's not right My mind's not right
Abel, come on, give me a reason I am not as bright as I could be Abel, come on, take me with you Everything has all gone down wrong (The National, Abel)
In qualche modo sono riuscito a uscire di là. Ho la testa che si spacca e si disintegra in mille modi, ma non mi sono mai sentito così bene come adesso. Quei sette demoni - o angeli - l'hanno avuta vinta anche stanotte nonostante tutto, ma già lo sapevo che dovrò abituarmi ad averle sempre intorno, nel bene e nel male. Fino a quando non si stancheranno loro di perseguitarmi e se ne torneranno nella notte che le ha partorite. Forse una si fermerà per sempre, ma non ci conterei e poi ormai non credo che sarebbe un bene. Si spreca un sacco di tempo per scoprire che una donna, alla fine, è solo un'altro straniero e basta. La cosa positiva è che lo stronzo con i baffi, lui sì se n'è andato via per sempre. Non era musica per lui questa. Di musica, lui, d'altro canto, non ne ha mai capito un cazzo. Appoggio le spalle contro il muro e stendo le gambe sul marciapiede. Che pace. Intravvedo dozzine di piedi che mi passano davanti, le luci delle macchine, l'asfalto umido che fuma puzzolente. Non ci arrivo a casa stanotte ma chissenefrega. Sorrido come un cretino mentre le luci dell'alba mi arrivano in faccia. Big city, bright lights. Quante ore sono passate? Cazzo, devo correre in redazione. Devo ancora scrivere la recensione del concerto di stanotte. Basterebbero cinque o sei parole per descrivere ogni momento di questa serata, tipo "Sono vivo. Non posso crederci, sono vivo. C'è un nuovo giorno all'alba e io vi sono finalmente arrivato. Sono vivo, ma senza di te non è giusto". Ma non capirebbero. Nessuno capirebbe. Neanche lei capirebbe. Mr. November potrebbe capirmi invece. Anzi, ne sono certo.
You must be somewhere in London, you must be loving your life in the rain You must be somewhere in London, walking Abbey Lane I don't even think to make, I don't even think to make I don't even think to make corrections
Famous angels never come through England England gets the ones you never need I'm in a Los Angeles cathedral Minor singing airheads sing for me (The National, England)
I'm the new blue blood, I'm the great white hope I'm the new blue blood I won't fuck us over, I'm Mr. November I'm Mr. November, I won't fuck us over (The National)
With special thanx to Jackson Browne, Bob Dylan, Eternal sunshine of the spotless mind, Eric Andersen, Douglas Coupland and the seven women in my mind. And The National of course, including The American Mary...
"Oh my God, am I here all alone?" (Ballad of a Thin Man, Bob Dylan)
In principio era due cassettine, di un amico. Cassette originali. Una era Nashville Skyline, l'altra The Freewheelin' Bob Dylan. Dopo il mio primo acquisto dylaniano in tempo reale, Desire, 1976, che modo più sconclusionato per cominciare ad affondare dentro all'oceano dylaniano. Suonate su mangianastro, ha! Stereo e mono era due parole sconosciute, allora. Ascoltare quei due dischi in conteporanea, poi, era come se fossero stati due cantanti diversi, non la stessa persona. Poi venne Bob Dylan's Greatest Hits 2, un vinile, e manco quello con i pezzi più famosi. Però c'era quella che suona per me come la più grande canzone di Bob Dylan, (Sooner or Later) One of Us Must Know. Una cascata argentea di note di pianoforte e organo hammond. La batteria che rullava sul rullante. La voce che suonava come quella di un morto dall'oltretomba. Paura. Una volta un'amica mentre la ascoltavamo insieme mi chiese, perché l'hai messa? Sta dicendo un sacco di cose cattive, Bob Dylan. E' vero, nessuno canta la realtà meglio di Bob Dylan. La dovetti togliere.
"Lp's were like a force of gravity. They had covers, back and forth, that you could stare at it for hours" (Bob Dylan, Chronicles)
Poi ci furono i colori. Ogni disco, ogni canzone, per me suona con un colore diverso tutt'oggi, ma allora di più. Sì, centra un po' l'effetto inconscio dei colori della foto in copertina, che lascia un sottofondo. Ma per me The Freeewheelin' ha sempre suonato di verde scuro massiccio, come le foreste del nord America, con qualche striscia di marrone autunnale. Highway 61 Revisited invece è bianco bianco, che a tratti diventa un grigio sporco, come lo scarico di una automobile nel traffico. Blonde on Blonde è giallo bronzeo, un giallo che scintilla ma non è accecante. A tratti lo è, ma tende a sfumare in giallo caldo e avvolgente. Musica e colore vanno allo stesso passo.
"This stereo recording can also be played in mono" (Dall'interno copertina della mia copia olandese di Blonde on Blonde)
Dei principali dischi di Bob Dylan ho diverse versioni, di Highway 61 Revisted ho anche una copia americana degli anni 60, ma è stereo. Per anni ho sentito espertoni discutere del fatto che Blonde on Blonde dovrebbe essere ascoltato in versione mono, quella giapponese peraltro, per averne la qualità sonora perfetta. Io ho una copia "gold", quando negli anni 90 alcuni dischi furono rimasterizzati con un "nuovo" (e come tutti quelli prima e quelli dopo) sistema poi subito accantonato. Suona divinamente per me, quella versione di Bionda su Bionda. Nelle ultime decadi i dischi di Bob Dylan sono stati ristampati diverse volte, disordinatamente, la maggior parte con masterizzazioni da galera. Non solo non sono stati usati i master originali, ma a volte a diverse canzoni per "comprimerle" su cd sono stati tagliati anche i secondi finali. Ne hanno provate di tutte, da - come si chiamava - il SACD a finte masterizzazioni mono ricreate oggigiorno. Delirio. Non sono un esperto di hi-fi e una bella canzone mi colpisce anche attraverso le cuffiette dell'orrido iPod, così come mi colpiva dalla radio degli anni 30 con cui mia madre ascoltava Radio Londra durante la guerra, e io le radio pirata italiane negli anni 70. Aveva anche un piatto per il giradischi, quella radio, che sono certo non fosse stereo, e io ci ascoltavo i dischi, vorrei sapere oggi che effetto era ascoltare un disco stereo degli anni 70 su una radio mono degli anni 30. Forse è stato allora che ho cominciato a drogarmi senza aver bisogno di droga.
"The first time that I heard Bob Dylan I was in the car with my mother, and we were listening to, I think, maybe WMCA, and on came that snare shot that sounded like somebody kicked open the door to your mind, from 'Like a Rolling Stone.'" (Bruce Springsteen)
In realtà ho sempre adorato quelle registrazioni stereo degli anni 60, quelle dove si sente la batteria in un canale e voce e chitarre tastiere o quant'altro nell'altro. E' un suono unico, un marchio di epoca, e la batteria che viaggia da sola mi fa godere. Non è il massimo, anzi è 'na merdaccia, questo tipo di stereo, per i dischi solo voce e chitara, come Freewheelin' e gli altri acustici di Dylan, perché non capisci chi sta suonando la chitarra e se il cantante è uno che la chitarra proprio non la suona. Perché la chitarra è in una cassa e la voce nell'altra. L'armonica nel caso di Dylan poi sta in mezzo. Ma quanti sono in realtà su disco, tre? I Dylan Brothers? Phil Spector, che riusciva a portare in studio per una sola canzone circa 150 musicisti, ha sempre sostenuto la filosofia del suono mono a tutti i costi. Cioè la comoatezza sonica, tutit gli strumenti che si esprimessero come una sola voce. Un motivo ci sarà.
L'altra sera sono tornato a casa con il cofanetto The Original Mono Recordings di Bob Dylan, quello che contiene i suoi primi otto album in versione mono. Un viaggio di poco più di cinque anni, dal marzo 1962 al dicembre 1967, da quando uscì Bob Dylan a John Wesley Harding. Un viaggio che è un frullato di storia e di emozioni impagabile. Pazzesco pensare che l'autore di questi dischi diversissimi sia sempre la stessa persona. Ovviamente il primo pezzo che ho messo su è stata Like a Rolling Stone. Che adoro da sempre, che non ho dubbi a ritenere la più grande canzone rock di tutti i tempi, ma che finalmente ascoltandola in questa versione mono (comunque con lavoro di fine rimasterizzazione) mi ha fatto capire le parole di Bruce Springsteen. Non avevo mai percepito che Like a Rolling Stone fosse una tale canzone violenta, brutale. E' un calcio in culo e nei denti, altro che aprire una porta con un calcio. Se Pulp Fiction fosse uscito negli anni 60 questa era la canzone ideale. Posso solo immaginare cosa abbiano provato milioni di americani, nel 1965, quando la ascoltarono per la prima volta. La spettacolarità di questo cofanetto è proprio questa, ti riporta indietro in una epoca storica precisa e ti fa sentire come se fossi lì, come se fossi uno di quelli, che allora ascoltavano queste canzoni. L'effetto mono pone ogni strumento sullo stesso piano, ne fa una polpetta sonica rude e gonfia, con la voce che emerge dal cataclisma sonoro. Come ascoltare una radio AM ferma per sempre agli anni 60 da una rovinata Buick (6, ovviamente) ferma all'angolo tra Positively Fourth Street e MacDougal Street. Come essere in studio con Bob Dylan e ascoltare pe rla prima volta come diavolo era fvenuto fuori Highway 61 revisited. Mica bruscolini. I dischi acustici ovviamente suonano da paura, sono la perfezione sonica assoluta. Ma It's Alright Ma (I'm Only Bleeding), la seconda più grande canzone di tutti i tempi, adesso ha anch'essa una violenza sonica impressionante. La devi ascoltare tutta d'un fiato e hai paura ad arrivare alla fine. Ci credo che Bob Dylan ha cambiato la coscienza collettiva d'America. Ci credo che quei due pazzi fondarono le Black Panthers ascoltando Ballad of a Thin Man in ripetizione per ore.
Siamo nel 2010, ascolto Bob Dylan da 34 anni e stasera mi sento come se non lo avessi mai ascoltato prima. The Freewheelin' Bob Dylan è la giovane America in cerca di sé stessa; Another Side of Bob Dylan sono i Beatles senza i Beatles; Highway 61 è la rabbia giovane; Blonde on Blonde è un cataclisma di droga, perdizione sonica e un sacco di belle ragazze (peccato che la foto di Claudia Cardinale sia stata eliminata, la concervo gelosamente nelle mie precedenti edizioni di BoB) . John Wesley Harding è il Grande Libro delle Verità. Non è una bella cosa? Non lo so, quello che mi domando è se Youtube sia stereo, mono o che altro.
I see you walking, baby, down the street Pushing that baby carriage at your feet I see that lonely ribbon in your hair Tell me am I the man for whom you put it there
You never smile girl, you never speak You just walk on by, darlin', week after week Raising two kids alone in this mixed up world Must be a lonely life for a working girl (Bruce Springsteen, I Wanna Marry You)
L’altra sera quel fesso di un tram ha saltato la fermata di casa mia. Erano quasi le undici di sera, la mia giornata era cominciata alle 7 e mi sono dovuto fare un pezzo di strada in più che già dormivo in piedi. Ma alla fine della fiera è stato meglio così. Nel fare il giro largo per andare a casa sono passato per dove non sarei dovuto passare. C’era una macchina, a un certo punto, con il bagagliaio aperto. Avvicinandomi, vedevo nell’oscurità qualcuno, poi ho sentito un tonfo. Ormai ero lì a due passi, e ho visto che il tonfo era causato da un passeggino su cui erano state caricate una mezza dozzina di borse e sacchetti vari. Mi è successo un milione di volte anche a me, quando per casa mia c’erano passeggini e carozzine, di fare l’errore di posare le borse sul retro passeggino che quindi si sbilancia e precipita all’indietro. Ma mai alle 11 passate di sera. Davanti al passeggino, sconsolata, una giovane mamma che scuoteva la testa, mi sembrava quasi che si mettesse a piangere e cominciava a raccogliere il tutto. Naturalmente da quel burino che sono non l’ho aiutata ma ho continuato a guardare la scena, un po’ commosso. Che ci fa una mamma in giro a quell’ora, sarà tornata da recuperare il bambino dai nonni dove lo ha lasciato tutto il giorno per poter andare al lavoro. Sarà stanca morta, come solo una mamma che lavora può esserlo. Accidenti. Io non credo ci sia cosa più grande al mondo di questa, una mamma, e una mamma che lavora. Magari non era il suo caso ma ho pensato a questo.
E mi è venuto in mente un mio amico che non vedo da una vita. Tanti anni fa quando ero un ragazzotto agli albori della mia vita di lavoro, quando lavoravo di giorno e la sera sbancavo tutte le discoteche ei club “in” di Milano, ero finito a cena a casa sua. Lui faceva l’operaio, turni di giorno e turni di notte. Eravamo a cena, c’era tutta la sua bella famiglia. A un certo punto si fermò dal mangiare e scuotendo la testa con un mezzo sorriso mormorò: “Accidenti, è bello essere a casa”. Non capii, ma provai un gran senso di tenerezza. Non c’è niente di più grande di un uomo che lavora duro per la propria famiglia. Adesso che torno a casa mediamente alle 10 di sera ogni giorno, quando mi siedo lì a tavola e vedo le mie figlie e mia moglie che si preparano ad andare a dormire, e ci salutiamo e ci scambiamo tre parole tutti quanti, penso anche io “accidente è bello essere a casa”. Avercela, una casa.
E poi l’altra sera c’era mia figlia grande, la mamma e la sorellina era già andate a letto. Io stramazzavo come sempre sul divano, con un bicchiere di gin in una mano e il telecomando nell’altra, gli occhi semichiusi dal sonno, ma non abbastanza per impedirmi di notare mia figlia che prendeva gli aghi da cucire e si sedeva al tavolo della sala. Che mia figlia grande prenda in mano degli aghi da cucire, una che mette via i suoi vestiti solo una volta al mese dopo che sono diventati una orrida catasta di stracci, è già un evento. Qualcosa di così casalingo e femminile non me lo aspetto mai da lei. Così ho aperto del tutto gli occhi e l’ho guardata fisso. E’ incredibilmente bella, ho pensato, come diavolo ho potuto mettere al mondo un essere così meraviglioso. Ovviamente è solo passata attraverso di me, lei c'era già nella mente e nel cuore di qualcun altro che l'ha voluta così bella, io sono stato solo il tramite. E mentre la guardavo la vedevo un giorno sposa, madre e quant’altro. La vedevo che non mi apparteneva manco un briciolo, è così evidente in quei momenti che i figli non sono tuoi. Ti vengono affidati per un po’ di anni, poi devono correre via, e lei a 16 sta già correndo via e va bene così. Allora l’ho chiamata sul divano, l’ho stretta un po’ che di solito non se lo fa mai fare, e le ho detto, “sei incazzata anche oggi?” che lei lo è praticamente sempre. Ha risposto: “Se sono arrabbiata sempre è per colpa tua che sei sempre arrabbiato”. Accidenti è vero, ho pensato. “Sono figlia tua, ho preso da te” Accidenti è vero anche questo. Allora cerchiamo di non essere più incazzati, figlia, le ho detto, anche se fa tanto rock’n’roll. Ma mi sono sentito padre veramente in quei minuti. Perché lei mi ha fatto da padre.
"La sete di trascendenza si è pervertita in una sete di alcol (…). L’alcolista sembra essere una persona estremamente sensibile, tormentata da un bisogno particolarmente pressante di trascendenza. La dipendenza tende a colpire spiriti liberi che hanno intravisto l’Infinito, ma sono rimasti imprigionati nei loro corpi terreni. L’alcolista, avendo sognato la trascendenza, non è in grado di sopportare la vita reale, ma desidera essere in cielo, qui, ora, sempre".
* Tratto da Lapsed Agnostic - da profugo a pellegrino, di John Waters
"Two flutes? What a fucking band!" grida qualcuno da mezzo della gran folla che si pigia all'interno della Roundhouse di Londra. Dal palco, Tim, frontman dei Midlake risponde "What a fan!". Scherzano, evidentemente, sia lo spettatore che il musicista. Certo che ben due flauti, a me che non sopporto neanche quello di Mr. Jethro Tull, potrebbero ammazzare un elefante, specie se stai cercando una dose di rock'n'roll. Con i Midlake invece anche due flauti suonati contemporaneamente fanno rock'n'roll. Per anni ho ritenuto - credo a ragione - i Wilco essere la miglior live band americana degli ultimi 15 anni, ma stasera, uscendo dalla Roundhouse - tardi, moooolto tardi - comincio a pensare che Tweedy e soci potrebbero tranquillamente abdicare, perché c'è una nuova band in città. I Midlake dopo il concerto che li ha consacrati alla regale Londra, ieri sera alla Roundhouse, potrebbero adesso essere la migliore live band americana. E dire che in America li conoscono davvero in pochi. In Inghilterra, come già successo svariate volte in passato, invece questi ragazzoni americani sono esplosi con un seguito e un affetto degno dei grandi. Vistilo scorso luglio in condizioni penose - un impianto audio degno di Mickey Mouse - qua a Milano, rivederli ieri sera a Londra è stato come scoprire una band mai ascoltata prima. Non solo il soundboard degno di un concerto rock, ma anche loro che conitnuano a migliorare in modo esagerato.
Le migliaia di persone che ieri sera si pigiavano nella "rotonda del rock" ascoltavano in religioso silenzio, rapiti e storditi dal suono vorticoso che arrivava dal palco. Canzoni che partono - apparentemente - come tranquille nenie folk, con un senso dello struggimento che spezzerebbe il cuore anche del più incallito bastardo, e che si aprono alla coralità vocale "monastica" che contraddistingue i Midlake e infine si squarciano in esplosioni di magma sonoro, crescendo cosmici che lasciano storditi. Grazie anche al nuovo innesto nella band, un nuovo chitarrista solista che lancia strali di vorticosa elettricità, portandoti su su oltre le volte bluastre di questa Roundhouse, dove ieri sera, anche Jimi Hendrix si era staccato dal posterone appeso sopra le scale d'ingresso e che ricorda la sua esibizione qua dentro un secolo fa, per scendere in platea ad ascoltare questa band formidabile, i Midlake.
Una serata emozionante sin dagli inizi, quando sul palco tutto solo c'era Jason Lytle, ex Grandaddy, una band che mi piaceva un tempo e che avevo dimenticato. Lui sembra una sorta di Neil Young post grunge e ha carisma e belle canzoni. E' stato invitato ad andare in tour con i Midlake perché, come dicono loro, "ci piace portare con noi gli artisti che ci piacciono". Generoso e molto vintage, questo modo di andarsene in giro un po' alla Rolling Thunder Revue, di dylaniana memoria, un carozzone di musicisti santi e peccatori. Lytle, a fine serata, suonerà una divertentissima versione di AM 180, dal repertorio dei Grandaddy, accompagnato dai Midlake. E sì, sono momenti da Rolling Thunder revue del terzo millennio.
Dopo di lui, John Grant. Desideravo vederlo dal vivo, immaginando chissà quando mai approderà qui in Italia e saperlo sullo stesso palco dei Midlake la stessa sera, non potevo mancare. E' un cantante da paura, John Grant, non sbaglia una nota, e ha sentimento e senso della musicalità come pochi. Accompagnato dal solo tastierista dei Midlake, esegue le canzoni più belle di Queen of Denmark con uno struggimento sonico che ti fa capire che solo con i Midlake poteva incidere un disco. Ogni tanto si avvicina al moog o tastiere elettroniche o checavolo ne so e tira fuori divertenti e pazzoidi suoni finto-futuristi, che in realtà ricordano certe robe che si facevano negli anni 70. A fine serata anche lui si unirà ai Midlake per eseguire un brano dei tempi in cui Grant militava negli Czars, ed è un momento di fascino purissimo.
Dei Midlake ho già detto, ricordo solo la versione per sole chitarre acustiche (e flauto...) di Fortune, presentata come "qualcosa che non abbiamo mai fatto prima". Be', anche solo acustici i Midlake sono da paura. Due parole ancora per la straordinaria sezione ritmica, basso e batteria, seconda solo, e già, a quella dei Wilco. Che i Midlake sono davvero una live band come pochissime oggi, o meglio, come tante che ce n'erano una volta. Dopo il concerto, dico a questo assembramento di fuoriusciti dal film Almost Famous, questi ragazzoni totally vintage, a cominciare dal loro incredibile road manager, che spero davvero abbiano pensato a registrare il concerto di stasera. Macché no, non ci hanno pensato. Un dvd di questo show alla Roundhouse sarebbe stato il regalo perfetto del prossimo Natale. Lo aspettiamo presto. Happy trails, Midlake e amici. Chi ha mai detto che la musica rock è finita.
Londra è comunque Londra. Due sere prima eravamo andati in un minuscolo locale, il Drop, peraltro molto carino come lo sono quasi tutti i locali di questa città, anche quelli piccolini, per un'altra serata di musica. Atmosfera diversa ovviamente, ma medesime vibrazioni. E capire ancora una volta perché la grande musica è sempre giunta da questi lidi, come da quelli americani. Presentavano i loro nuovi dischi la bravissima Emma Tricca, i Superimposers e i Colorama. Emma Tricca ha incantato come sempre, con il suo fascino così folkie, la voce incantevole e quelle melodie che solo lei sa rilasciare. Ho avuto anche l'onore di una dedica, ma soprattuto la fortuna di sentire una versione da brivido di Love Minus Zero/No Limit. Oh Emma, you broke my heart... Poi i Colorama, il cui frontman è anche produttore del disco di Emma, ed è uno a cui gli Oasis chiesero di unirsi a loro e che ebbe il buon gusto di dire "no grazie". La sua band è psichedelia pop di fascino assoluto, ricordano i Brian Jonestown Massacre ma con molta più disciplina e costruzione musicale. I crescendo chitarristici sono incandescenti, e fanno venire alla mente una Swinging London della memoria, quando qualcuno poteva titolare così quei giorni: "tonight everybody's making love in London". In serate come queste, semplicemente perfette, mai parole sanno essere migliore colonna sonora di una città e di un senso della musica che non si trovano altrove.
Be' dicevo, Londra è sempre Londra. Perché? Perchè a questa serata c'erano ragazzi e ragazze giovanissimi. La birra girava, e molta, ovviamente, ma tutti ascoltavano con la massima attenzione e partecipazione. Già, perché erano usciti di casa per la Musica. E la Musica, per le strade di Londra, è ovunque, e si è fatta incontrare. A The Drop, o alla Roundhouse. Everywhere. Poi chiediamoci perché anche nel terzo millennio da queste parti di grande musica se ne fa ancora. Io, per il resto, posso ribadire anche questa volta che a Londra ho lasciato il cuore. Oltre alla musica e gli amici, l'ho lasciato in un localino di Soho dove sono andato a fare colazione una mattina. Nel menu dei vari tipi di colazione, anche i "breakfast cocktails". Già, avete capito bene, mica caffè o cappuccino. Insomma, solo a Londra si può fare colazione con un Bloody Mary. E io ovviamente ne ho ordinati due, insieme all'english full breakfast.
Secondo un post che ho trovato da qualche parte, questa straordinariamente bella ragazza è colei per la quale Springsteen ha scritto canzoni come Sandy e Rosalita. E' la Crazy Janey di Spirit in the Night, è anche Terry di Backstreets. Infine, anche l'ispiratrice di For You e Thundercrack.
La domanda è: come si fa a vivere sapendo di aver ispirato alcune delle più belle canzoni della storia del rock? Ma anche: dove è e che cosa fa oggi questa donna e ascolterà ancora le canzoni di Springsteen?
Una cosa è sicura: era di una bellezza assoluta e giudicando dalla foto, sembra anche di una profondità altrettanto assoluta. Prova che dietro ogni grande canzone rock c'è una ragazza speciale.
Ci ha provato sin dal 2001, con il buon Songs from the West Coast, a far dimenticare l’orrido personaggino che infestava le notti di Mtv, ma anche le mattinate e i pomeriggi, durante gli anni 80 e 90. Adesso si è finalmente ricordato di essere stato uno dei migliori autori di canzoni degli anni 70, e per farlo ha dovuto chiamare con sé in studio un altro fantasma di quegli anni straordinari, Leon Russell, visto per l’ultima volta sul palco del Concert for Bangladesh. Insieme hanno fatto un disco pregno di nostalgia per quei tempi là: inutile fingere, sono due anziani signorotti, uno dei quali per poco non ci lasciava le penne (Leon), ma il sentimento c’è tutto.
Quello per l’America profonda, quella America che The Band cantava orgogliosa (Elton un giorno dedicò una canzone al batterista di quel gruppo, intitolandola semplicemente Levon, e di The Band si è sempre professato ammiratore indefesso). Gone to Shiloh, d’altro canto – in cui appare al canto anche Neil Young - potrebbe essere la nuova The Night They Drove Old Dixie Down, mentre altri messaggi di una mappa nascosta appaiono qua e là. Ad esempio quando Elton canta "I hear you singing 'I Shall Be Released' like a chainsaw running through a masterpiece" e il riferimento evidente qui è allo scomparso Richard Manuel,scomparso pianista di The Band, oppure in un’altra occasione, quando cita “the winter of our discontent” che è sì William Shakespeare, ma anche l’ultima novella scritta da John Steinbeck. Un disco pieno di sentimenti, dunque, e forte come una quercia del Tennessee. Da ascoltare a notte, con una bottiglia di rosso sanguigno e un sigaro fumante, che l’inverno è alle porte e abbiamo bisogno di coperte calde per non lasciare che il cuore si raffreddi. Non vogliamo che sia un altro "winter of our discontent".
«Sono stato con Dio e con il diavolo. Hanno litigato per avermi. Dio ha vinto, io ho preso la sua mano, la migliore. Non ha mai vacillato la mia certezza che Dio mi avrebbe tirato fuori»
Mario Sepulveda, secondo minatore estratto dalla miniera di San José
Nick Cave ne avrebbe potute scrivere, di “murder ballads”, con tutto quello che sta succedendo in Italia nelle ultime settimane. O meglio, non ne avrebbe scritte ma avrebbe aspettato un po’, che la gente avesse raccolto in forma canzone quelle cose orribili che succedevano intorno a loro e se le sarebbero tramandate. Ma che dico. Oggi c’è la televisione, le canzoni non servono più. E nessuno scrive più “murder ballads”. L’horror reality show cui abbiamo assistito in queste settimane è davvero l’inizio di un’era di morte in diretta televisiva. Ho scritto parecchio anch’io nelle ultime settimane sul caso di Sarah Scazzi e mentre il mio collega aveva capito tutto sin dagli inizi, io no. Perché a certi orrori non si vuole mai credere fino in fondo. L’altro giorno ad esempio ho dovuto scrivere un pezzo sul suicidio in diretta webcam di un ragazzo svedese. Mentre cercavo le fonti per il pezzo, mi sono imbattuto nel video che lui stesso aveva messo online e che nessuna polizia postale tre giorni dopo il fatto si era preoccupata di rimuovere. Non ho resistito e l’ho guardato. Bella roba. Sono stato male ovviamente anche se facevo fatica a capire che stavo guardando un ragazzo di 21 anni che stava morendo o una fiction tv. Whats real and what is not, come si chiedeva il Grande Bardo secoli fa.
Più di ogni altra cosa mi stupisce il disgusto di plastica su questa (e quella della donna romena uccisa con un pugno e quella del tassista milanese mandato in coma dopo un pestaggio) vicenda. Come se il male non esistesse da sempre. Come se l’uomo non fosse cattivo, da sempre. La possibilità di fare il male è di tutti, compresi quelli che su certi giornali hanno invocato “il ritorno della bontà”. Bontà de che? Ma per favore. Come si fa a essere "buoni"? Mi metto di impegno e sarò buono. Per 5 minuti, probabilmente. Il male lo facciamo tutti, ogni istante, in modi diversi.
Ma certo, è vero che la bontà è possibile. Non possiamo farlo da soli con le nostre mani cattive, il bene. Ci vuole qualcuno che ci liberi dal male. Non più in questa epoca moderna, questi modern times che hanno fatto fuori l’unica possibilità di non fare il male. Perché oggi tutto ci è possibile. Siamo liberi. Abbiamo la libertà. Ci siamo liberati di qualunque costrizione morale, nessuno ci deve dire cosa è giusto e cosa è sbagliato. Bastiamo a noi stessi. Abbiamo la libertà. Quella di fare il male.
Le murder ballads ci sono sempre state. Oggi nessuno le scrive più, ma le murder ballads si cantano ancora. Nel nostro cuore, un cuore che desidera il bene, ma fa il male.
Dimenticavo. Tra gli horror reality shows di queste settimane, c'è stato anche qualcosa di straordinariamente bello. Qualcghe imbecille l'ha definito "i minatori cileni escono dalla casa del grande fratello". E stato un reality anche quello è vero, ma incredibilmente commovente. Un popolo li ha sostenuti, e li ha accompagnati all'uscita del loro inferno, 700 metri sotto terra. Sono tornati a rivedere il sole, come diceva il Sommo Poeta, o a rivedere le stelle, cioè. Segno che una speranza c'è sempre, quando il cuore reclama la giustizia e qualcuno sa aspettare, affidandosi a una preghiera. Che come diceva Patti Smith, è la cosa più intelligente che possiamo fare.
Le canzoni rock dicono la verità (copyright by Paolo Vites). Le canzoni folk la dicono di più (copyright sempre di me). Ma le canzoni, qualunque canzone - certe canzoni non tutte le canzoni - dicono la verità di noi stessi, esprimono l'inesprimibile che ci portiamo dentro da quando siamo stati concepiti.
In una fredda, maledettamente piovigginosa notte di febbraio di molti anni fa mi trovavo a vagare solo soletto per le strade di Soho, a Londra. Ero stato su con la solita compagnia di giornalistuccoli italiani (missione Lauryn Hill), ma adesso se ne erano tornati tutti a casa. Io avevo agganciato qualche giorno in più per rimanere a Londra. E non c'è niente che alzi il livello di tristitudine (copyright by the Mighty Diana) come trovarsi da soli in una città straniera un milione di miglia da casa tua, con ad aspettarti nessuno se non una squallida stanzetta d'albergo. Volevo trovare un "locale folk", quella notte, lo volevo a tutti i costi. Ogni volta che sono a Soho, d'altro canto, vado a cercare il fantasma di Nick Drake. E di tanti altri come lui. Per quanto me la tiri, ancor prima che sapessi che esistevano le chitarre elettriche, io sono nato alla musica con il fingerpicking acustico di un milione di anime belle di folksinger, da ogni lato dell'Oceano Atlantico. Alla fine ne trovai uno, quando ero ormai bagnato fradicio, una cantina in un vicolo assurdo, dove c'era una banale band di folk albionico, il locale pieno zeppo e buio e nessuno che scambiasse due chiacchiere con me. Presi la mia tristitudine e me ne tornai per le strade di SoHo, sotto la pioggia.
Il "locale folk" che cercavo l'ho trovato ieri notte a Varese. E' il Twiggy, così deliziosamente psichedelico nella sala dei concerti. E sul palco ieri notte ho ritrovato reincarnati quel milione di anime belle dei folksinger della mia adolescenza, tutti nelle sembianze adorabile della straordinaria Emma Tricca, una ragazza italiana che, probabilmente, anche lei in cerca del fantasma di Nick Drake, un giorno se n'è andata a vivere a Londra e si è messa a fare dischi inctantevoli. L'ultimo dei quali, Minor White, è appena uscito. Quel fingerpicking che ha cullato i miei anni più irrequieti e appassionanti, era tutto lì, che usciva dalle sue dita. E le canzoni. E la voce, la voce purissima e piena di intensità al calor bianco. Non un minor white in realtà, ma un bianco accecante, splendente, stordente. E la sua bella figura sul palco. Penso che la chiamerò Buffy St. Marie d'ora in avanti, se lei non si offenderà, ma non credo, se tanto mi dà tanto dopo averla sentita ieri notte.
Stamattina è una giornata uggiosa a Milano. Fra poco devo andare in redazione, ho il turno del weekend. Ho messo su Minor White mentre mi preparo un caffè. Ogni cosa sembra risplendere di gioiosa innocenza, adesso. Anche il tigro che mia figlia più piccola ha lasciato sul divano come al solito e che come al solito mi ritrovo sotto al culo mentre mi siedo non mi fa imbestialire ma anzi sorridere. Sono canzoni capaci di trasfigurare la realtà le canzoni che hanno un senso e che rimangono. Proprio com equelle che sto ascoltando stamattina, quelle di Minor White, quelle di Emma Tricca. E i fantasmi di un milione di anime belle di folksinger sono tutti qui stamattina, hanno lasciato la pioggia di Soho per sedersi anche loro ad ascoltare. E' capace di sposendere il tempo, Emma Tricca, con le sue canzoni, in una purezza sonica che non ritrovavo più da quando avevo 15 anni. God bless you Emma.
Crescendo, dimentichiamo cosa significa essere bambini (…)
(…) ero ritornato (…) a un momento proustiano di richiamo alla memoria, quando il suono degli alberi fuori dalla casa di mia zia era vivido nella mia testa, come se quarant’anni si fossero ridotti a pochi istanti (…)
(…) il profumo del faggio, il mistero del campo di O’Rourke oltre il fosso, lo stupore della distanza dalla strada principale, più di un miglio a valle, il suono dell’espressione – “l’incrocio” – usata per descrivere l’intersezione fra la strada di mia zia e la strada principale che andava da Roscommon a Boyle,la luce esatta di quei molti giorni d’estate che io e Marian, la mia sorella maggiore, passavamo da bambini in quel paradiso (…)
(…) Lì la notte era fatta di morbido fresco, di piccoli colpetti d’aria che occasionalmente sorgevano dal buio. Foglia su foglia. Fil di ferro su legno. Acqua su ferro zincato.
Ricordo il “tunnel degli alberi” appena più in là della casa di mia zia e che c’era qualcosa di rituale nel passarci in mezzo correndo verso il punto in cui abitava Jimmy, che all’epoca era il fidanzato di mia zia (…)
Più avanti, in lontananza, dove la strada curva in salita in direzione dei campi di grano e del sole, sta il povero cancello della casa dove vivono i due Padian. La casetta si erge nella sua fiabesca grandezza profilata contro il cielo occidentale, che per un attimo si rischiara prima di capitolare all’oscurità, il sole fa una macchia rossastra che sembra filtrare attraverso la casa come una mano contro una lampadina.
Quelle settimane passate da zia Teresa erano le più intense della nostra infanzia e quando finivano le vacanze ci dovevano trascinare, urlanti, nel camioncino di papà, per riportarci a Castlerea. Adesso, quarant’anni dopo, mi rendevo conto che da bambino avevo avuto come tutti i bambini, un’intensissima esperienza della religione. Avevo incontrato la realtà e ne ero stato sopraffatto, sopraffatto dalla sua meraviglia e dalla sua intensità. Avevo, istante per istante, sperimentato un senso profondo della realtà religiosa, ma nessuno mi aveva mai detto che si chiamava così.
* John Waters, estratto da Lapsed Agnostic, da profugo a pellegrino
Chi mi conosce sa che sono un talebano (del rock). Italiani che suonano il blues? Ma per favore. Manco Eric Clapton ha mai fatto del blues (ha fatto grandissima musica, ma era la musica di Eric Clapton). Giapponesi che fanno rock'n'roll? Uh. Il problema non è una capacità tecnica, o un comune sentire del cuore e dell'anima. Il problema è che per fare una certa musica, si deve essere cresciuti nel contesto culturale e sociale in cui detta musica è nata. L'ho già detto, ma se un simpatico cittadino del Nebraska facesse un disco di cori degli alpini, gli direi bravo perché i canti degli alpini sono bellissimi, ma andrei a recuperare un disco della SAT. Anche se questa estate ho sentito dei ragazzi dell'Uganda cantare straordinariamente bene dei canti alpini. Vabbè. Ne riparleremo.
Il fatto è che sto ascoltando un disco che mi piace moltissimo. Musicisti italiani che fanno le canzoni di Bruce Springsteen. Ricordo anni fa una recensione sul Mucchio Selvaggio di Tunnel of Love, forse scritta dallo stesso Ermanno Labianca, che cominciava più o meno con un "Eravamo venuti per ballare e lui - Springsteen - ci ha rimandati a casa". Era il primo disco di Bruce dopo i bombardamenti "bombastici" tutti muscoli e Cadillac ranch che era stato il periodo Born in the Usa, e questo se ne usciva con un disco di canzoni tristi e sussurrate. Insomma, Springsteen insinuava l'idea che sì, forse eravamo nati per correre, ma non per vincere. Crisi fu, per i fan, ai tempi. E' un po' quello che mi viene in mente ascoltando For You 2 - A tribute to Bruce Springsteen, un doppio cd di cantanti e band italiane che fanno pezzi di Springsteen, prodotto dal sempre geniale Ermanno Labianca (a cui va un plauso speciale: in un periodo storico in cui le case discografiche chiudono per fallimento e i dischi non li compra più nessuno, lui che fa? Apre una casa discografica, la Route 61 Music, e pubblica dei cd. Uào, congrats, che coraggio). I più attenti ricorderanno il primo volume di questa serie, uscito nell'ormai lontano 1995.
For You è un disco, come viene definito sulla cover, di "Americana made in Italy", altra genialata di Ermanno, perché mi costringe a fare a pugni con la mia idea di musica, come dicevo in apertura. Comunque, se ravate venuti per ballare con le note travolgenti di Born to Run, ve ne tornerete invece a casa con note malinconiche per poche chitarre acustiche, molto pianoforte e voci in perfetta "tristitudine" come la chiamo io. I tempi sono cambiati, e gli italiani devoti a Bruce lo hanno capito: ecco un disco tributo nella chiave di Tom Joad e di Devils & Dust. E' il risultato è davvero affascinante.
C'è veramente della gran bella musica qua dentro. Qualcuno va sopra le righe, vabbè è naturale, e non starò a dire chi. Starò a dire invece che sono colpito dalla bellissima versione solo voce, pianoforte e chitarra elettrica di Radio Nowhere di Daniele Groff - lo intervistai una quindicina d'anni fa quando uscì il suo primo disco e poi ne ho perso le tracce, bello ritrovarlo qua. Una versione veramente da paura, che rende tangibile, addirittura più dell'originale, quell'american night e la sua disperante solitudine di cui si cantava nel pezzo originale. Mi diverto un casino con i rumori sonici delle chitarre di tale PJ Faraglia (chi sarà mai?) che rilegge strumentalmente State Trooper e Cadillac Ranch. Mi commuovo con uno dei miei springsteeniani favoriti di sempre, Lorenzo Bertocchini, alle prese con una struggente Be True e una altrettanto malinconica Sherry Darling. Mi si apre il cuore con un Luigi Mariano che giganteggia con una versione in italiano di Matamoros Banks - e qui sì che canti degli alpini e canzone americana potrebbero diventare una cosa sola. Mi sorprendo con Brando che rifà in vena rockabilly-dark Johnny Bye Bye. E tanto altro ancora, da Francesco Lucarelli con Tomorrow Never Knows che diventa uno scintillante bluegrass, alla straordinariamente bella Land of Hopes and Dreams dei Mardi Gras. Un sacco di belle canzoni e un sacco di buona musica. Lunga vita alla Route 61 Music. Che sia solo l'inizio.
Correre in autostrada nell'ultima domenica di settembre, quando manca poco all'ora legale, all'inverno, all'oscurità incombente dei prossimi mesi, sotto il cielo di Lombardia sfavillante della luce che solo il cielo di Lombardia può - a volte - avere, tornando da una casa di matti - veri - può dar luogo a delle epifanie. Un cielo che sembra fatto di aria solida. Solid air. Mmmm. Musicali queste epifanie, ovviamente, ma come ben sappiamo noi, che siamo brutti ma abbiamo la musica, L. Cohen docet (a proposito devo ricordarmi di cattare su il suo nuovo dvd), vita e musica sono una cosa sola. E allora l'epifania musicale e quella esistenziale diventano una cosa sola.
Succede infilando nel lettore la versione deluxe di Live at Leeds, di John Martyn, originariamente uscito nel 1975 (anno in cui uscirono - uh - Blood on the Tracks di Dylan, Horses di Patti Smith e Born to Run di Springsteen fra gli altri) e adesso ristampato con un cd in più di altri brani live o tratti dalle prove del concerto.
Mi è capitato di conoscere Danny Thompson una sera ("DT, the original DT!" come lo presenta Martyn in questo disco), qualche anno fa. Un elegante signore over 60 accompagnato da elegante signora. A volte penso ai musicisti rock come ai sopravvissuti di una delle Guerre mondiali. Alcuni ce l'hanno fatta, molti altri no. John Martyn ad esempio no, Danny Thompson sì. Perché la musica rock, per chi l'ha vissuta a fondo, è stata una guerra, combattuta in quella golden age che curiosamente qualche tempo fa ho definito essere durata dal 1965 al 1975, l'anno in cui fu registrato e pubblicato questo Live at Leeds. Dieci anni per una guerra sono fin troppi, e tanto è durata la guerra del rock. La seconda guerra del rock perché ovviamente ci fu anche la prima Guerra mondiale del rock: quella durò dal 1954 al 1960. La terza Guerra mondiale, checché ne dicano alcuni, in realtà non venne mai combattuta.
Danny Thompson dicevo, c'era anche Danny Thompson in quella sera di delirio puro e di musica formidabile che fu la sera del 13 febbraio 1975 a Leeds. La sera in cui fu registrato questo disco. A Leeds cinque anni prima e un giorno dopo, il 14 febbraio 1970, avevano registrato uno dei più grandi dischi del rock anche gli Who, nello stesso luogo (la mensa della locale università che alla sera diventava sala da concerti). Ci doveva essere qualcosa di magico a Leeds, negli anni 70. Io manco so in che punto dell'Inghilterra si trovi Leeds. Ma ho il disco degli Who e adesso anche quello di John Martyn.
John Martyn e Danny Thompson
In molti conoscono di cosa era capace John Martyn negli anni 70, l'autore di uno dei dischi più belli di quel decennio, Solid Air, dedicato all'amico Nick Drake. Solo l'idea che John Martyn e Nick Drake si frequentassero mi fa uscire di testa. Tantè. Chitarrista acustico sopraffino, un piede nel folk e uno nel blues ed entrambi più che volentieri nel jazz, John Martyn. Ma dal vivo. Ah! Pazzia pura che invece ritrova sempre la strada per una musicalità formidabile. Ecco quello che susccedeva quella sera a Leeds. Ascoltarlo delirare a volte anche per lunghi minuti fra un brano e l'altro non è solo uno spasso, fa anche un po' paura: sembra di assistere alle liti fra ubriachi fuori di un pub, piuttosto che a battute fra musicisti su di un palco. Liti che in realt' succedevano davvero, finivano in risse con gi occhi neri e il naso sanguinante tra i due, ubriachi persi. E le sue gag,le sue imitazioni di personaggi dei cartoon o di chissà chi sono sconvolgenti. Le risate folli, una follia che avrebbe sempre più preso piede aiutata dalle bottiglie di whiskey. Delirio, appunto. Con la più lunga sequenza di "fuckin'" mai sentita su disco. Sid Vicious può andare a mangiare il gelatino. Che il vero punk era John Martyn e non i Sex Pistols.
E la musica naturalmente. Da paura anche quella: paura che aumenta per la presenza in quel concerto di Leeds del chitarrista Paul Kossoff, ex Free, che sarebbe morto un anno dopo, di infarto mentre volava verso New York, eroinomane perso. Ascoltare ad esempio gli oltre dodici minuti di trip cosmico nella psiche più perversa che è Outside In, l-epifania di cui parlavo prima: caos primordiale, ma invece tutto ricondotto a un ordine superiore, quello della musica straordinariamente comunicativa di questi musicisti sul palco. Che si gettano nel caos alla ricerca della strada, della nota perfetta, la trovano, la perdono e di nuovo si mettono a cercarla per arrivare ala fine della sarabanda cosmica sfiniti ma felici Wow. Anche l'ascoltatore deve tirare il fiato. E se pensate che Kossoff fosse gia sul palco con la sua Gibson elettrica, durante questo pezzo, invece no. Perche il genialmente folle Martyn suonava una acustica che poteva tramutarsi improvvisamente in elettrica e suonare contemporaneamente come se una chitarra acustica e una elettrica fossero suonate da due persone. E come cantava John Martyn, mica solo suonava l'acustica da dio. Ascoltarlo nel traditional Spencer The Rover: la sofferenza per la ricerca di una melodia totale nella sua voce è sconvolgente. Un po' come il David Crosby dei giorni migliori, la melodia perfetta, purissima, totale. Inarrivabile, ovviamente. O anche nella sempre dolcissima May You Never che apre il disco.Musica totale, music acosmica, musica dell'anima. Soul music.
E l'epifania, direte voi a questo punto. Non lo so esattamente. Ascoltando questo disco però mi è venuta in mente una frase di Albert Camus: "Non si ha bisogno di essere felici per ricominciare". Ecco la mia epifania di questa ultima domenica di settembre.
Ps: Live at Leeds in realtà non venne mai pubblicato ufficialmente. La Island, la casa discografica di John Martyn, si rifiutò. Martyn allora se lo pubblicò da solo e lo mise in vendita via posta, spedendo personalmente ogni singola copia da casa sua. In pochi mesi ne vendette 10.000 copie, un autentico successo. Live at Leeds fece così di John Martyn ilprimo artista indipendente della storia, decenni prima che nascessero le etichette "indie".