Ci aveva lasciati, lo scorso luglio, con l'implorazione "Milano, prega con me", durante un devastante e intesissimo concerto full band, nella cornice dell'Arena Civica, tra echi di CBGB's e cover hendrixiane. È tornata, in una fredda notte a pochi giorni dal Natale, per pregare davvero insieme a noi, questa volta nella bellissima cornice di uno dei tesori architettonici di Milano, la basilica di San Vittore.
Non so se è stato perché mi trovavo seduto a un metro e mezzo da lei – una volta tanto questo dannato mestiere è servito a qualcosa – con il suo sguardo carico di passione e tensione che ogni tanto incrociava il mio, non so se è stata l'ambientazione in cui ci trovavamo - alzavi gli occhi e vedevi le meraviglie lasciate in secoli di storia da un popolo che con queste chiese rendeva reale il proprio rapporto con Dio – ma credo sia stata la più appassionante esperienza concertistica della mia vita. E ho pianto, più di una volta, per la tensione e il carisma che sprigionano da una donna, Patti Smith, e che mi investiva con quelle "wave", le onde, che solo ora, trent'anni dopo, capisco cosa lei volesse dire quando lo cantava nel brano omonimo, una donna che è in grado realmente di fare di un concerto rock un momento di preghiera e catarsi religiosa.
"Quando dicevano a Elvis che lui era il re del rock'n'roll" ha detto prima di introdurre una deliziosa e tenerissima Blue Christmas che Presley rese famosa "lui rispondeva che c'è un solo Re, e sta lassù nel cielo". Quel brano, insieme a una incredibilmente pregnante O Holy Night, è stato la misura di uno show in cui si è celebrato il mistero del Natale, una incarnazione che sì, è possibile che passi anche attraverso il rock'n'roll: anche Because The Night, stasera, non era per niente fuori contesto. Helpless, di Neil Young, è stata dedicata allo scomparso marito Fred "Sonic" Smith, perché è questo che siamo, indifesi davanti alla vita che ci porta via i nostri cari, se il Mistero non ci soccorre. Il Mistero che Patti Smith, alzando le braccia verso la volta di San Vittore, ha invocato e pregato con voce straziata nel finale di una maestosa Dancing Barefoot: "Oh God, I fell for you....".
"La notte prima che Giovanni Paolo II morì, mi trovavo in Piazza San Pietro a Roma" ha detto a un certo punto. "Chiesi alla gente perché fissavano quelle tre finestre con la luce accesa nel palazzo del Papa. Mi dissero che lì c'era lui, il Papa, e che quelle luci si sarebbero spente quando lui fosse morto. Tornai la sera dopo, e quelle luci erano spente. Allora ho scritto questa poesia per Giovanni Paolo": Three Windows for Jean Paul II, liriche di dolcezza infinita, ci ha portati di schianto ai giorni antichi di St. Mark's Church, downtown NYC, dove la poetessa Smith muoveva i suoi primi passi nei primi 70, anche allora in una chiesa. E il viaggio, per lei e per noi, è sembrato finalmente concluso, una generazione perduta che sotto quelle tre finestre si è ritrovata.
Uscendo, stordito per la performance a cui ho assistito (sul piccolo palco solo lei, il bravo Tony Shanhan chitarra, voce e tastiere, e il bravissimo violoncellista Giovanni Sollima) vedo dei ragazzi accendere delle candele davanti a una piccola statua di un santo. Non so se è il santo protettore della gioventù, sotto cui una giovane Patti Smith era solita accendere candele qualche decennio fa, a St. Patrick a New York, ma so che Patti Smith questa notte ha acceso in tutti i presenti una grande candela: quella che illumina il Mistero.
Thursday, December 20, 2007
Tuesday, December 18, 2007
In questa notte splendida
Una fredda sera d’inverno di più di dieci anni fa, periferia di Milano. Sto dirigendomi verso la sala dove fra qualche minuto inizierà il concerto. La voce, come sempre forte e squillante, mi chiama, la stretta della sua mano sul mio braccio, come sempre decisa e intransigente, mi afferra: “Vieni” mi dice “entriamo qua in questa stanzetta, devo farti sentire una canzone nuova”.
Era sempre così, Claudio Chieffo, quando aveva una canzone nuova. Per lui erano un dono, qualcosa di inaspettato e di immeritato, ma che andava condiviso subito. Come una canzone gli arrivava, doveva andare per il modo. Ricordo le sue telefonate, in ufficio, al mattino: “Ti disturbo? Solo un minuto, voglio farti sentire questo pezzo a cui sto lavorando”. E io, tra un casino e l’altro al lavoro, che andavo in balcone, per non essere disturbato mentre lui mi faceva questo regalo. Mi mancano le sue telefonate, mi mancano un casino.
Quella sera, in quella squallida stanzetta dietro al palco, mi fece sentire un primo abbozzo di “In questa notte splendida”, una meravigliosa canzone natalizia. Fu come se quella stanza si aprisse all’infinito. Era sempre così, quando lui cantava, e il privilegio di essere io da solo unico spettatore di quel momento, è stato un dono raro.
Dieci anni e più dopo, ritrovo questa canzone nel bellissimo disco appena uscito in questi giorni, “È bella la strada”, una raccolta di 24 suoi brani pubblicato nella prestigiosa collana “Spirto Gentil” edito dalla Universal. È una sorta di demo registrato nel 1995 – dunque poco tempo dopo che Claudio me la fece ascoltare quella sera – a casa sua, solo voce e chitarra, perché voleva mandarlo subito a don Giussani (i cui commenti alle canzoni impreziosiscono questo nuovo cd), quel prete brianzolo che per primo lo aveva incoraggiato a scrivere canzoni. Dopo tanti anni, quel prete era sempre il suo punto di riferimento principale per ogni cosa importante della sua vita, ad esempio le canzoni.
È una registrazione formidabile: quella voce straordinaria che si svolge su una melodia bellissima, una melodia forte di una nostalgia positiva, come solo la nostalgia per le cose belle può essere. Quando la ascolto mi ritrovo in quella stanzetta di quel teatro di periferia e realizzo che privilegio ho avuto nella mia vita. Canzoni come queste, non capita davvero spesso di ascoltarle.
L’altro giorno ero alla recita di Natale della scuola di mia figlia. Nel modo bizzarro ma affascinante come solo la vita sa svolgersi, eravamo davanti alla stessa chiesa nella cui stanzetta del teatro dieci anni prima Claudio mi aveva fatto sentire quel pezzo in anteprima. Alla fine della recita il coro ha cantato proprio “In questa notte splendida”. E allora ho capito come le canzoni di Claudio Chieffo, nella più autentica tradizione della vera musica popolare, come voleva lui, sono andate per il mondo e hanno messo radici, sono patrimonio di un popolo, scorrono nel suo sangue, e non se ne andranno mai più, finché ci sarà una voce per cantare.
E io posso solo ringraziare per essere stato messo in questo stesso popolo. Anche se mi mancano le telefonate di Claudio, al mattino, in ufficio.
Era sempre così, Claudio Chieffo, quando aveva una canzone nuova. Per lui erano un dono, qualcosa di inaspettato e di immeritato, ma che andava condiviso subito. Come una canzone gli arrivava, doveva andare per il modo. Ricordo le sue telefonate, in ufficio, al mattino: “Ti disturbo? Solo un minuto, voglio farti sentire questo pezzo a cui sto lavorando”. E io, tra un casino e l’altro al lavoro, che andavo in balcone, per non essere disturbato mentre lui mi faceva questo regalo. Mi mancano le sue telefonate, mi mancano un casino.
Quella sera, in quella squallida stanzetta dietro al palco, mi fece sentire un primo abbozzo di “In questa notte splendida”, una meravigliosa canzone natalizia. Fu come se quella stanza si aprisse all’infinito. Era sempre così, quando lui cantava, e il privilegio di essere io da solo unico spettatore di quel momento, è stato un dono raro.
Dieci anni e più dopo, ritrovo questa canzone nel bellissimo disco appena uscito in questi giorni, “È bella la strada”, una raccolta di 24 suoi brani pubblicato nella prestigiosa collana “Spirto Gentil” edito dalla Universal. È una sorta di demo registrato nel 1995 – dunque poco tempo dopo che Claudio me la fece ascoltare quella sera – a casa sua, solo voce e chitarra, perché voleva mandarlo subito a don Giussani (i cui commenti alle canzoni impreziosiscono questo nuovo cd), quel prete brianzolo che per primo lo aveva incoraggiato a scrivere canzoni. Dopo tanti anni, quel prete era sempre il suo punto di riferimento principale per ogni cosa importante della sua vita, ad esempio le canzoni.
È una registrazione formidabile: quella voce straordinaria che si svolge su una melodia bellissima, una melodia forte di una nostalgia positiva, come solo la nostalgia per le cose belle può essere. Quando la ascolto mi ritrovo in quella stanzetta di quel teatro di periferia e realizzo che privilegio ho avuto nella mia vita. Canzoni come queste, non capita davvero spesso di ascoltarle.
L’altro giorno ero alla recita di Natale della scuola di mia figlia. Nel modo bizzarro ma affascinante come solo la vita sa svolgersi, eravamo davanti alla stessa chiesa nella cui stanzetta del teatro dieci anni prima Claudio mi aveva fatto sentire quel pezzo in anteprima. Alla fine della recita il coro ha cantato proprio “In questa notte splendida”. E allora ho capito come le canzoni di Claudio Chieffo, nella più autentica tradizione della vera musica popolare, come voleva lui, sono andate per il mondo e hanno messo radici, sono patrimonio di un popolo, scorrono nel suo sangue, e non se ne andranno mai più, finché ci sarà una voce per cantare.
E io posso solo ringraziare per essere stato messo in questo stesso popolo. Anche se mi mancano le telefonate di Claudio, al mattino, in ufficio.
Tuesday, December 11, 2007
Il film di Natale
“Non è quello che c’è, ma quello che rimane fuori: questo è il rock’n’roll”. Come un breve assolo che colpisce in profondo, questa frase ricorda il valore della migliore musica rock: puntare dritto a quel punto che “non torna”. Ma, in piena coerenza, la frase viene tagliata fuori dalla versione cinematografica del film.
Almost Famous (lo so, è vecchio di almeno sei anni, ma è sempre uan visione che non guasta) basato sulle esperienze realmente accadute al futuro regista Cameron Crowe, giovanissimo giornalista rock nel 1973, è la ricostruzione di un’epoca storica in cui la musica rock ancora faceva rima con innocenza e passione. Per la prima volta in un film su questa musica gli stereotipi del “sesso & droga” sono messi in secondo piano, sottolineando invece il profondo senso di mistero e di scoperta di se stessi legato alla musica rock (emblematica la scena iniziale in cui la sorella maggiore lascia al piccolo protagonista la sua collezione di vinili, con un biglietto con la scritta “Ascolta questo disco con una candela accesa e vedrai il tuo futuro"; il disco è Tommy degli Who).
Il film rappresenta benissimo l’idea che nella musica rock – di quel periodo storico, naturalmente – ci sia una tensione ideale capace di esprimere i tanti tumulti dell’animo, specialmente giovanile. Significativa in questo senso la scena in cui la figlia maggiore, durante l’ennesimo scontro con la madre, utilizza l’ascolto di una canzone di Simon & Garfunkel (America) per comunicare i suoi sentimenti.
Viene esaltato il senso di amicizia che lega gli appassionati di musica, siano essi giornalisti, musicisti o ragazze innamorate: la scena sul pullman, dopo il litigio tra il cantante e il chitarrista del gruppo, in cui tutti si uniscono a cantare una canzone di Elton John (Tiny Dancer) illumina il film con l’evidenza di un abbandono possibile alla positività cui ciascuno aspira e che resiste nelle situazioni più difficili. Ognuno lascia da parte il proprio punto di vista ammettendo che l’amicizia ti permette di dire di sì alla vita, comunque essa si presenti.
Essere in tournée, però, finisce per diventare una “realtà” che si sostituisce alla realtà della vita vera (quando Penny dice a William, che vuole tornare a casa: “Questa è la tua casa adesso”). Una utopia destinata a crollare una volta che tutti i limiti (gelosie, tradimenti amorosi, rivalità etc) delle persone vengono a galla, e per questo il film è anche un bellissimo resoconto del viaggio che porta dall’innocenza dell’adolescenza allo scontro con la realtà del diventare adulti (emblematica la frase che Penny che rivolge al protagonista: “Sei troppo buono per il rock’n’roll”).
Come caratteristica di quasi tutti i film di Cameron Crowe, un regista del "positivo", c'è un lieto fine, in cui viene sottolineato che nonostante tutto è possibile preservare la cosa più importante, e cioè l’amicizia (tra il chitarrista Russell e il giovane protagonista, che alla fine si riconciliano).
I PERSONAGGI
La bravissima Frances McDormand impersona una delle più efficaci madri mai vistesuul grande schermo. È una professoressa liberal di sinistra che vuole crescere dei figli non mediocri, ma che tende ad imporre le sue scelte di vita, una risposta parodistica allo stereotipo dell'intellettuale repressivo che non capisce il rock, visto in tanti brutti film e spot pubblicitari. La sua conversazione telefonica con il leader del gruppo è un momento formidabile di ottimo cinema.
Kate Hudson (figlia dell’attrice Goldie Hawn) è meravigliosa da ogni punto di vista, una icona di femminilità primi anni 70, apparentemente matura e misteriosa, ma in realtà fragilmente irresponsabile nel voler nascondere a se stessa la realtà, e alla fine profondamente ferita dal comportamento maschilista dei musicisti rock.
Peter Fugit, il protagonista e giornalista di 15 anni, dal sorriso allo stesso tempo astuto e imbarazzato proprio come le situazioni in cui viene a trovarsi. Il rigore della madre lo fa partire meno sprovveduto della sua età, ma il "viaggio" che questa storia lo costringe ad affrontare per la sua passione nei confronti della musica lo porterà a diventare uomo.
Bill Crudup (il chitarrista Russell) è la rock star carismatica e attraente, il suo rapporto di odio/amore con il cantante della band ricorda i classici dualismi Jagger/Richards, diviso tra il ruolo di star e quello di persona in cerca di veri affetti e vere amicizie.
Philip Seymour Hoffmann è il famoso critico rock Lester Bangs (che sin dalle prime battute afferma che il rock è ormai morto), vero “re degli sfigati”, che ha capito tutto, cinico e disilluso, ma che incarna lo spirito positivo di Crowe. Non può esimersi dal fascino che il ragazzo gli provoca, quasi con istinto paterno. Compie un coraggioso atto di disponibilità nei confronti della realtà: la positività che attrae è più forte del cinismo desunto dalle sue esperienze passate.
CURIOSITA’
Molte scene sono tratte da avvenimenti reali: la rosa sul palcoscenico prima dell’inizio di uno spettacolo degli Stillwater, riprende esattamente l’immagine di copertina di un disco live di Neil Young, Time Fades Away, uscito proprio nel 1973; la scena in cui Russell, fatto di Lsd, vuole gettarsi dal tetto della casa urlando “Io sono un dio dorato”, ricorda quanto fece Robert Plant dei Led Zeppelin in circostanze analoghe dal tetto di un albergo di Los Angeles; le scene sul pullman degli Stillwater riprendono alcune fotografie del periodo della Allman Brothers Band, che era il gruppo che il giovane Cameron Crowe fu inviato a intervistare.
In una delle scene finali, quando William sta cercando Penny Lane, guarda dentro un taxi dove è seduto un elegante signore che legge il giornale: è Jann Wenner, direttore e fondatore di Rolling Stone.
Strictly personal: la scena in cui il gorilla della security sbatte la porta in faccia al giovane Miller lasciando entrare solo le groupie nel backstage è successa anche a me, giugno 1991, Roma, davanti alla porta del camerino di Bob Dylan: “Nel camerino di Bob Dylan entrano solo le donne”. La porta mi è stata sbattuta in faccia e la groupie è entrata.
La battuta più divertente: quando il nuovo manager cerca di spiegare alla band la realtà dello showbusiness: “Credete forse che Mick Jagger a 50 anni sculetterà ancora così su un palco?”.
PS: grazie a Giorgio Natale per gli illuminanti commenti sul film.
Almost Famous (lo so, è vecchio di almeno sei anni, ma è sempre uan visione che non guasta) basato sulle esperienze realmente accadute al futuro regista Cameron Crowe, giovanissimo giornalista rock nel 1973, è la ricostruzione di un’epoca storica in cui la musica rock ancora faceva rima con innocenza e passione. Per la prima volta in un film su questa musica gli stereotipi del “sesso & droga” sono messi in secondo piano, sottolineando invece il profondo senso di mistero e di scoperta di se stessi legato alla musica rock (emblematica la scena iniziale in cui la sorella maggiore lascia al piccolo protagonista la sua collezione di vinili, con un biglietto con la scritta “Ascolta questo disco con una candela accesa e vedrai il tuo futuro"; il disco è Tommy degli Who).
Il film rappresenta benissimo l’idea che nella musica rock – di quel periodo storico, naturalmente – ci sia una tensione ideale capace di esprimere i tanti tumulti dell’animo, specialmente giovanile. Significativa in questo senso la scena in cui la figlia maggiore, durante l’ennesimo scontro con la madre, utilizza l’ascolto di una canzone di Simon & Garfunkel (America) per comunicare i suoi sentimenti.
Viene esaltato il senso di amicizia che lega gli appassionati di musica, siano essi giornalisti, musicisti o ragazze innamorate: la scena sul pullman, dopo il litigio tra il cantante e il chitarrista del gruppo, in cui tutti si uniscono a cantare una canzone di Elton John (Tiny Dancer) illumina il film con l’evidenza di un abbandono possibile alla positività cui ciascuno aspira e che resiste nelle situazioni più difficili. Ognuno lascia da parte il proprio punto di vista ammettendo che l’amicizia ti permette di dire di sì alla vita, comunque essa si presenti.
Essere in tournée, però, finisce per diventare una “realtà” che si sostituisce alla realtà della vita vera (quando Penny dice a William, che vuole tornare a casa: “Questa è la tua casa adesso”). Una utopia destinata a crollare una volta che tutti i limiti (gelosie, tradimenti amorosi, rivalità etc) delle persone vengono a galla, e per questo il film è anche un bellissimo resoconto del viaggio che porta dall’innocenza dell’adolescenza allo scontro con la realtà del diventare adulti (emblematica la frase che Penny che rivolge al protagonista: “Sei troppo buono per il rock’n’roll”).
Come caratteristica di quasi tutti i film di Cameron Crowe, un regista del "positivo", c'è un lieto fine, in cui viene sottolineato che nonostante tutto è possibile preservare la cosa più importante, e cioè l’amicizia (tra il chitarrista Russell e il giovane protagonista, che alla fine si riconciliano).
I PERSONAGGI
La bravissima Frances McDormand impersona una delle più efficaci madri mai vistesuul grande schermo. È una professoressa liberal di sinistra che vuole crescere dei figli non mediocri, ma che tende ad imporre le sue scelte di vita, una risposta parodistica allo stereotipo dell'intellettuale repressivo che non capisce il rock, visto in tanti brutti film e spot pubblicitari. La sua conversazione telefonica con il leader del gruppo è un momento formidabile di ottimo cinema.
Kate Hudson (figlia dell’attrice Goldie Hawn) è meravigliosa da ogni punto di vista, una icona di femminilità primi anni 70, apparentemente matura e misteriosa, ma in realtà fragilmente irresponsabile nel voler nascondere a se stessa la realtà, e alla fine profondamente ferita dal comportamento maschilista dei musicisti rock.
Peter Fugit, il protagonista e giornalista di 15 anni, dal sorriso allo stesso tempo astuto e imbarazzato proprio come le situazioni in cui viene a trovarsi. Il rigore della madre lo fa partire meno sprovveduto della sua età, ma il "viaggio" che questa storia lo costringe ad affrontare per la sua passione nei confronti della musica lo porterà a diventare uomo.
Bill Crudup (il chitarrista Russell) è la rock star carismatica e attraente, il suo rapporto di odio/amore con il cantante della band ricorda i classici dualismi Jagger/Richards, diviso tra il ruolo di star e quello di persona in cerca di veri affetti e vere amicizie.
Philip Seymour Hoffmann è il famoso critico rock Lester Bangs (che sin dalle prime battute afferma che il rock è ormai morto), vero “re degli sfigati”, che ha capito tutto, cinico e disilluso, ma che incarna lo spirito positivo di Crowe. Non può esimersi dal fascino che il ragazzo gli provoca, quasi con istinto paterno. Compie un coraggioso atto di disponibilità nei confronti della realtà: la positività che attrae è più forte del cinismo desunto dalle sue esperienze passate.
CURIOSITA’
Molte scene sono tratte da avvenimenti reali: la rosa sul palcoscenico prima dell’inizio di uno spettacolo degli Stillwater, riprende esattamente l’immagine di copertina di un disco live di Neil Young, Time Fades Away, uscito proprio nel 1973; la scena in cui Russell, fatto di Lsd, vuole gettarsi dal tetto della casa urlando “Io sono un dio dorato”, ricorda quanto fece Robert Plant dei Led Zeppelin in circostanze analoghe dal tetto di un albergo di Los Angeles; le scene sul pullman degli Stillwater riprendono alcune fotografie del periodo della Allman Brothers Band, che era il gruppo che il giovane Cameron Crowe fu inviato a intervistare.
In una delle scene finali, quando William sta cercando Penny Lane, guarda dentro un taxi dove è seduto un elegante signore che legge il giornale: è Jann Wenner, direttore e fondatore di Rolling Stone.
Strictly personal: la scena in cui il gorilla della security sbatte la porta in faccia al giovane Miller lasciando entrare solo le groupie nel backstage è successa anche a me, giugno 1991, Roma, davanti alla porta del camerino di Bob Dylan: “Nel camerino di Bob Dylan entrano solo le donne”. La porta mi è stata sbattuta in faccia e la groupie è entrata.
La battuta più divertente: quando il nuovo manager cerca di spiegare alla band la realtà dello showbusiness: “Credete forse che Mick Jagger a 50 anni sculetterà ancora così su un palco?”.
PS: grazie a Giorgio Natale per gli illuminanti commenti sul film.
Sunday, December 09, 2007
Tuesday, December 04, 2007
Introducing... The Felice Brothers
“La tradizione è una cosa che malgrado tutto non scompare. Le vecchie canzoni folk, la musica country, i cantautori degli anni 70 che abbiamo ascoltato sin da ragazzini, sono cose che si tramandano, si passano di generazione in generazione. Naturalmente puoi rifiutare tutto ciò. Noi abbiamo deciso di raccogliere questa tradizione e cerchiamo di portarla avanti a modo nostro. La bellezza della musica tradizionale è che è fatta di storie, e adesso è il nostro turno di raccontare delle storie” (Simone Felice, the drummer)
"Barnstorming and brilliant"
The Guardian
"The next generation of Americana heroes."
Uncut Magazine
"The Felice Brother's Catskills Folk is rough around the edges and intoxicating.....Ryan Adams: eat your heart out."
Metroland/Best Of 2007
Li trovate qui: www.myspace.com/thefelicebrothers
Saturday, December 01, 2007
Il caso Springsteen: come un paio di belle chiappe hanno salvato la mia vita
L'altra sera sono andato a vedere il concerto di Bruce Springsteen And The E Street Band. Ogni volta che viene in Italia non me lo perdo da quando lo vidi per la prima volta quel 21 giugno 1985 allo stadio di San Siro, a volte anche più di un concerto nel medesimo tour. Di quella notte, resteranno per sempre stampate nel mio cuore una Badlands così devastante nella sua epicità e una Can't Help Falling In Love With You, così commovente nella sua intimità, da avermi fatto intravedere da vicino la terra promessa, la promised land dove i sogni di rock'n'roll sembrano farsi realtà.
Negli anni ho imparato che la promised land, o è qualcosa che puoi vivere tutti i giorni e non solo nello spazio di due, tre ore che dura un concerto, o è una menzogna. Qualcosa del genere lo ha detto anche Springsteen, credo nella sua The River.
Così un concerto di Springsteen non mi impressiona oggi più di tanto. Ho amato, e tantissimo, quelli visti con la Seeger Sessions Band, credo il suo apice massimo come musicista e performer. Ero prevenuto all'idea di una reunion della E Street Band, ma Magic mi era piaciuto abbastanza. L'altra sera sono invece rimasto deluso dalla pochezza che le nuove canzoni mostrano in concerto; per di più, dopo quasi un mese di tour la E Street Band non ha ancora imparato a suonarle (la mia amatissima I'll Work For Your Love è stata imbarazzante), dimostrando una stanchezza e una svogliatezza che evidentemente a una certa età colpisce tutti.
Ma a un concerto di Sprigsteen, si sa, si va per lui, il Boss. Che se non ha esaltato nei pezzi nuovi, gli è bastato infilare una Reason to Believe strepitosa (inizio bluesy e tormentato, esplosione secca rock'n'roll e ritorno di nuovo nella terra del Delta, fra Robert Johnson e diavoletti vari) e una Incident on 57th Street da strapparti il cuore nella sua meravigliosa e suprema poesia notturna, per rendere il viaggio fino allo stramaledetto e infame Datch Forum di Assago un viaggio che ne valeva la pena.
Ma ancora una volta, quello che colpisce è il pubblico. Il pubblico italiano. Ieri mi sono prontamente scaricato il cocnerto e sono rimasto ancor più sconvolto da questo pubblico incredibile, che è come un secondo Springsteen con 12mila teste e 12mila gole che cantano a tratti anche meglio di lui - che poverino era raffreddato - e 12mila cuori che battono più forte della batteria. L'esplosione di voci durante il ritornello di The Ties That Bind è qualcosa di incredibile. Terrorizza. Ci sono americani che vengono a avedere Bruce in Italia per godersi questo spettacolo. Non vengono per Springsteen, vengono per vedere il pubblico italiano in azione. Ci sarà un motivo. Dal 1985 ad oggi dovrei essermi abituati a questo pubblico, eppure non è così.
Personalmente vado ai concerti per due motivi: "to get wasted", come dice un mio amico inglese, cioè per andare fuori di testa, o come diceva una volta Bob Dylan, "to forget about today until tomorrow", dimenticarmi per un paio d'ore della realtà. Ma anche in quei casi, succede sempre (quando il concerto è buono) quello che è l'altro motivo per cui vado a sentire musica dal vivo, o l'ascolto a casa mia: il performer mi ispira, mi comunica qualcosa, mi spaventa e mi pone delle domande. Non mi lascia tranquillo e mi suggerisce che la vita è più grande di me, va in mille direzioni ed è, alla fine, un mistero. Lui però non mi tende una mano, mi dice solo "alza il culo e fa' la tua parte, la mia l'ho fatta satsera sul palco, adesso tocca a te". Succede di raro, con la musica che gira oggigiorno, ma tantè. Qualche sera fa ho visto il formidabile Marc Ford in concerto, ex chitarrista di Black Crowes e Ben Haprer. C'erano una quarantina di sparuti spettatori, ma lui ha suonato come se fosse stata l'ultima volta della sua vita, incurante di chi ci fosse davanti a lui, gli occhi chiusi e una potenza musicale da far paura. Se n'è andato come era venuto, nella notte, senza dire una parola. E anche noi, ma toccati da qualcosa di grande.
Springsteen sfugge a queste due categorie e appunto per questo non capisco il suo pubblico. Springsteen è evidentemente il padre, il fratello, il marito, la moglie, il figlio che non hanno mai avuto. Il Dio che qualcuno ha ucciso? Celebrano un rito (Jeff Tweedy una volta mi disse che un concerto rock, per lui che non va in chiesa, è quanto di più simile all'esperienza di chi in chiesa ci va, è una liturgia che forgia una comunità, una sorta di fede laica che unisce le persone - destinata a finire quando tutti sono usciti dal locale e si sono dispersi per le loro strade private, aggiungo però io), si uniscono sudati tra di loro come a cercare il "riparo dalla tempesta" che c'è lì fuori, forgiano per due, tre ore un popolo che balla, si affidano a Sringsteen perché li consoli, dia loro la forza di andare avanti, insieme a lui irrigidiscono i muscoli perché, come ho letto su Internet, abbiamo la forza di andare avanti fino al prossimo suo concerto. Credo che Springsteen comunichi una positività e un senso dela speranza che probabilmente non hanno uguali nel panorama odierno della musica rock e pochi paragoni ha avuto in passato. Non solo le sue canzoni, ma il suo porsi sul palco. L'altra sera a un certo punto ha fatto un piccolo siparietto di carattere politico, che quasi nessuno degli spettatori si è filato ignorandolo bellamente, perché erano tutti lì per cantare e ballare, non per sentire un comizio. Be', lui si è messo a ridere mentre leggeva quelle frasi, come dire: "Scusate, il mio senso civico mi costringe a dire queste cose, ma me ne frega poco anche a me. Ricominciamo a ballare".
Stamattina ascoltavo una compilation di gruppi doo wop anni 50, e in quelle meravigliose canzoni c'è un tale senso di innocenza, un tale sentimento di speranza e di bellezza della vita, che mi sono venute in mente certe canzoni di Springsteen. Non tutte, non quelle del disco nuovo (a parte la mia amata I'll Work for your Love), ma certamente quelle che tutti aspettano a un concerto di Bruce, come l'altra sera Thunder Road o Born to Run.
Eppure, non capisco perché solo il pubblico italiano è sensibile a questi aspetti, abbia bisogno di questo uomo come nessun altro pubblico al mondo ha bisogno. Forse non ci hano ancora riempito la testa di spazzatura mediatica e di certo marketing di alto bordo come in altri Paesi, e siamo ancora sensibili a un desiderio di pienezza e di felicità che altrove non troviamo. E' un caso irrisolto, quello di Springsteen.
Oppure, come mi ha detto l'altra sera una mia amica, è solo perché "a quasi sessant'anni, Bruce ha il miglior paio di chiappe al mondo". La copertina di Born in The Usa, evidentemente, è stata un ottimo investimento promozionale a lungo termine.
Negli anni ho imparato che la promised land, o è qualcosa che puoi vivere tutti i giorni e non solo nello spazio di due, tre ore che dura un concerto, o è una menzogna. Qualcosa del genere lo ha detto anche Springsteen, credo nella sua The River.
Così un concerto di Springsteen non mi impressiona oggi più di tanto. Ho amato, e tantissimo, quelli visti con la Seeger Sessions Band, credo il suo apice massimo come musicista e performer. Ero prevenuto all'idea di una reunion della E Street Band, ma Magic mi era piaciuto abbastanza. L'altra sera sono invece rimasto deluso dalla pochezza che le nuove canzoni mostrano in concerto; per di più, dopo quasi un mese di tour la E Street Band non ha ancora imparato a suonarle (la mia amatissima I'll Work For Your Love è stata imbarazzante), dimostrando una stanchezza e una svogliatezza che evidentemente a una certa età colpisce tutti.
Ma a un concerto di Sprigsteen, si sa, si va per lui, il Boss. Che se non ha esaltato nei pezzi nuovi, gli è bastato infilare una Reason to Believe strepitosa (inizio bluesy e tormentato, esplosione secca rock'n'roll e ritorno di nuovo nella terra del Delta, fra Robert Johnson e diavoletti vari) e una Incident on 57th Street da strapparti il cuore nella sua meravigliosa e suprema poesia notturna, per rendere il viaggio fino allo stramaledetto e infame Datch Forum di Assago un viaggio che ne valeva la pena.
Ma ancora una volta, quello che colpisce è il pubblico. Il pubblico italiano. Ieri mi sono prontamente scaricato il cocnerto e sono rimasto ancor più sconvolto da questo pubblico incredibile, che è come un secondo Springsteen con 12mila teste e 12mila gole che cantano a tratti anche meglio di lui - che poverino era raffreddato - e 12mila cuori che battono più forte della batteria. L'esplosione di voci durante il ritornello di The Ties That Bind è qualcosa di incredibile. Terrorizza. Ci sono americani che vengono a avedere Bruce in Italia per godersi questo spettacolo. Non vengono per Springsteen, vengono per vedere il pubblico italiano in azione. Ci sarà un motivo. Dal 1985 ad oggi dovrei essermi abituati a questo pubblico, eppure non è così.
Personalmente vado ai concerti per due motivi: "to get wasted", come dice un mio amico inglese, cioè per andare fuori di testa, o come diceva una volta Bob Dylan, "to forget about today until tomorrow", dimenticarmi per un paio d'ore della realtà. Ma anche in quei casi, succede sempre (quando il concerto è buono) quello che è l'altro motivo per cui vado a sentire musica dal vivo, o l'ascolto a casa mia: il performer mi ispira, mi comunica qualcosa, mi spaventa e mi pone delle domande. Non mi lascia tranquillo e mi suggerisce che la vita è più grande di me, va in mille direzioni ed è, alla fine, un mistero. Lui però non mi tende una mano, mi dice solo "alza il culo e fa' la tua parte, la mia l'ho fatta satsera sul palco, adesso tocca a te". Succede di raro, con la musica che gira oggigiorno, ma tantè. Qualche sera fa ho visto il formidabile Marc Ford in concerto, ex chitarrista di Black Crowes e Ben Haprer. C'erano una quarantina di sparuti spettatori, ma lui ha suonato come se fosse stata l'ultima volta della sua vita, incurante di chi ci fosse davanti a lui, gli occhi chiusi e una potenza musicale da far paura. Se n'è andato come era venuto, nella notte, senza dire una parola. E anche noi, ma toccati da qualcosa di grande.
Springsteen sfugge a queste due categorie e appunto per questo non capisco il suo pubblico. Springsteen è evidentemente il padre, il fratello, il marito, la moglie, il figlio che non hanno mai avuto. Il Dio che qualcuno ha ucciso? Celebrano un rito (Jeff Tweedy una volta mi disse che un concerto rock, per lui che non va in chiesa, è quanto di più simile all'esperienza di chi in chiesa ci va, è una liturgia che forgia una comunità, una sorta di fede laica che unisce le persone - destinata a finire quando tutti sono usciti dal locale e si sono dispersi per le loro strade private, aggiungo però io), si uniscono sudati tra di loro come a cercare il "riparo dalla tempesta" che c'è lì fuori, forgiano per due, tre ore un popolo che balla, si affidano a Sringsteen perché li consoli, dia loro la forza di andare avanti, insieme a lui irrigidiscono i muscoli perché, come ho letto su Internet, abbiamo la forza di andare avanti fino al prossimo suo concerto. Credo che Springsteen comunichi una positività e un senso dela speranza che probabilmente non hanno uguali nel panorama odierno della musica rock e pochi paragoni ha avuto in passato. Non solo le sue canzoni, ma il suo porsi sul palco. L'altra sera a un certo punto ha fatto un piccolo siparietto di carattere politico, che quasi nessuno degli spettatori si è filato ignorandolo bellamente, perché erano tutti lì per cantare e ballare, non per sentire un comizio. Be', lui si è messo a ridere mentre leggeva quelle frasi, come dire: "Scusate, il mio senso civico mi costringe a dire queste cose, ma me ne frega poco anche a me. Ricominciamo a ballare".
Stamattina ascoltavo una compilation di gruppi doo wop anni 50, e in quelle meravigliose canzoni c'è un tale senso di innocenza, un tale sentimento di speranza e di bellezza della vita, che mi sono venute in mente certe canzoni di Springsteen. Non tutte, non quelle del disco nuovo (a parte la mia amata I'll Work for your Love), ma certamente quelle che tutti aspettano a un concerto di Bruce, come l'altra sera Thunder Road o Born to Run.
Eppure, non capisco perché solo il pubblico italiano è sensibile a questi aspetti, abbia bisogno di questo uomo come nessun altro pubblico al mondo ha bisogno. Forse non ci hano ancora riempito la testa di spazzatura mediatica e di certo marketing di alto bordo come in altri Paesi, e siamo ancora sensibili a un desiderio di pienezza e di felicità che altrove non troviamo. E' un caso irrisolto, quello di Springsteen.
Oppure, come mi ha detto l'altra sera una mia amica, è solo perché "a quasi sessant'anni, Bruce ha il miglior paio di chiappe al mondo". La copertina di Born in The Usa, evidentemente, è stata un ottimo investimento promozionale a lungo termine.
Friday, November 30, 2007
Rock is dead
Lo dico da anni, mi hanno sempre preso per un cretino, ma finalmente ho la prova provata da sbattervi sotto il naso. Ha!
Mia figlia mi sta sottoponendo a dosi massicce di Tokyo Hotel, il gruppo per teenager del momento (unica consolazione è che la ragazza si sta dedicando a della musica, seppur adolescenziale, almeno simil-rock e non a certi fenomeni hip-hop-napoletan rap- funkygallo-tizianocel’hadiferro etc), così li ho ascoltati abbastanza.
Ebbene, sono una copia in formato melodico e popettaro dei Nirvana. Il loro hit più famoso, Monsoon, è un plagio addomesticato di Smells Like Teen Spirit.
Risultato: i Tokyo Hotel hanno recentemente riempito il Forum di Assago e i loro dischi si stravendono.
Bene.
Sono passati 16 anni da quando Nevermind fu pubblicato e la domanda che viene ovvia è questa: se nel 2007, per creare un gruppo di successo si deve ancora fare riferimento a quanto è successo 16 anni fa, vuol dire che in questi 16 anni non è successo nulla di significativo a cui ispirarsi. È come se, nel 1979, 16 anni dopo l’esplosione del fenomeno Beatles, discografici e produttori costringessero ancora i gruppi a rifarsi musicalmente a She Loves You Yeah Yeah Yeah. E invece, in quei 16 anni che separano il 1963 dal 1979 è successo di tutto: il british blues, i songwriter, il folk-rock, la psichedelia californiana, il country-rock, il progressive, il punk, l’hard-rock, l’heavy metal, il soft-rock e tanto altro ancora.
Che cosa è successo, musicalmente, dal 1991 ad oggi? Una bella ciufala di niente.
Mia figlia mi sta sottoponendo a dosi massicce di Tokyo Hotel, il gruppo per teenager del momento (unica consolazione è che la ragazza si sta dedicando a della musica, seppur adolescenziale, almeno simil-rock e non a certi fenomeni hip-hop-napoletan rap- funkygallo-tizianocel’hadiferro etc), così li ho ascoltati abbastanza.
Ebbene, sono una copia in formato melodico e popettaro dei Nirvana. Il loro hit più famoso, Monsoon, è un plagio addomesticato di Smells Like Teen Spirit.
Risultato: i Tokyo Hotel hanno recentemente riempito il Forum di Assago e i loro dischi si stravendono.
Bene.
Sono passati 16 anni da quando Nevermind fu pubblicato e la domanda che viene ovvia è questa: se nel 2007, per creare un gruppo di successo si deve ancora fare riferimento a quanto è successo 16 anni fa, vuol dire che in questi 16 anni non è successo nulla di significativo a cui ispirarsi. È come se, nel 1979, 16 anni dopo l’esplosione del fenomeno Beatles, discografici e produttori costringessero ancora i gruppi a rifarsi musicalmente a She Loves You Yeah Yeah Yeah. E invece, in quei 16 anni che separano il 1963 dal 1979 è successo di tutto: il british blues, i songwriter, il folk-rock, la psichedelia californiana, il country-rock, il progressive, il punk, l’hard-rock, l’heavy metal, il soft-rock e tanto altro ancora.
Che cosa è successo, musicalmente, dal 1991 ad oggi? Una bella ciufala di niente.
Sunday, November 25, 2007
Informazioni di Vincent
Mi sono accorto in oltre un anno di 'bloggin' around' di aver speso pochissime parole su dei musicisti italiani. Probabilmente perché ascolto pochissima musica italiana. Eppure, trent'anni fa o giù di lì, c'era un tempo che di musica italiana ne ascoltavo moltissima, e certe canzoni hanno definito passaggi importanti della mia vita. Incontro, di Francesco Guccini, ha tutt'oggi per me un fascino che poche canzoni (anche non italiane) hanno.
Ma di questi ascolti antichi, c'è ne è uno che mi affascina e mi incuriosisce ormai da un sacco di tempo, da quando ascoltai Rimmel per la prima volta trent'anni e più fa, da quando vidi l'autore di quel brano in concerto per la prima volta durante il Banana Republic tour del '79, anche se fu un concerto di circa un anno dopo, in un caotico palazzetto dello sport a Genova, che a me sembrò paragonabile all'esibizione di un gruppo punk, a lasciare il primo vero punto di domanda: Francesco De Gregori: chi è costui?
In Left & Right - Documenti dal vivo di Francesco De Gregori, poi, la fin troppa generosa inclusione del mio nome nei credits non ha nulla a che fare con la musica, per cui questo disco potrei anche recensirlo. Ma vorrei andare oltre, capire la lunga strada da quel concerto genovese alle esibizioni raccontate in questo disco.
E' l'ennesimo live del cantautore romano, ed è quello che narra di uno stato di grazia musicale raggiunto che ha pochi paragoni nel nostro Paese e soprattutto nella sua stessa carriera. Lo scrittore americano Greil Marcus una volta mi disse che ci sono - rari ma ci sono - momenti in cui non è più il musicista che esegue della musica, ma è la musica che attraverso il musicista si esprime indipendentemente. La musica "passa attraverso". Me lo avete già sentito dire, credo. Ma ogni volta che mi ci ritrovo davanti, "lfet and right", è sempre una epifania. Per riuscire a fare ciò, come documentato in questo live, ma avvisaglie si erano già avute nei due recenti dischi di studio Pezzi e Calypso, De Gregori ha fatto una lunga strada, estremamente faticosa come chi si intende di musica suonata può percepire, e non priva magari di errori. Lui è andato avanti, fino ad ottenere una genesi musicale che adesso, con un songbook ammirabile dietro le spalle e ottime nuove recenti composizioni, gli permette di fare uso di questo canzoniere per lasciare che la musica parli attraverso le sue canzoni: è come essere finalmente entrati in possesso di una magnifica Ferrari - o meglio ancora, una Lamborghini - e lasciare che il suo motore ruggisca a piacimento su una autostrada deserta, fino allo sfinimento.
Se ascoltate l'iniziale Numeri da scaricare, vi accorgerete che il chitarrista "sulla destra" - almeno per come è impostato il mio impianto di amplificazione - non fa mai due volte lo stesso assolo pur intervenendo nel pezzo numerosissime volte. In Mayday, dopo un andamento per tre quarti del brano alquanto modesto e privo di scossoni, il chitarrista esplode in un assolo terrificante, al limite del noise, prendendosi il rischio di guidare l'intera band sul palco con lui non sappiamo per dove. Il cantante si limita ad offrire la sua voce, che si colora di sfumature e di tinte perfetamente adeguate a quanto accade intorno a lui, e ogni volta che riascolti quel pezzo, esso si apre a nuove interpretazioni. In Un guanto, è il musicista seduto dietro alla pedal steel che a un certo punto si prende la briga di partire per "il viaggio", emergendo e sprofondando continuamente nell'impasto sonoro dietro di lui. Ma, sempre, è il cantante ed autore che sta offrendo ai suoi musicisti una autostrada dove, insieme, far correre quella Ferrari o Lamborghini che sia. Accade una comunione sul palco, si esprime una coralità, per cui non c'è più "un cantante e la sua band", ma "una band con un cantante". E' profondamente diverso, ed è molto americano come accezione musicale.
Ci sono pochi artisti, anche a livello internazionale, capaci di tutto ciò. Ovviamente viene in mente il nome di Bob Dylan, a cui evidentemente De Gregori si è ispirato per anni, fino ad avergli carpito qualche segreto che probabilmente sfugge anche a Bob Dylan stesso, in fatto di esecuzioni live. Chi di musica ci azzecca poco, continua a ripetere fino alla nausea che sì, De Gregori fa come Bob Dylan, stravolge le canzoni, ne cambia la struttura, le rende "incantabili" rispetto alla versione originale. Che è quanto di più sbagliato si possa dire di Bob Dylan. E di De Dregori. Se ciò avviene, qui, avviene nella conclusiva Buonanotte fiorellino, che non è più un valzer, ma un blues. E infatti a me piace poco. Come ha detto proprio Bob Dylan, non è possibile stravolgere la struttura di una canzone. E' possibile invece lasciare che la canzone ti prenda per mano e ti conduca verso il mistero che è la musica stessa. Allora De Gregori - e Bob Dylan - ottengono una vittoria. Nel dvd allegato a questo disco c'è una resa live di Rimmel: la canzone segue la struttura originale linea per linea, eppure non è mai stata eseguita in modo così soddisfacente, brilla di luce cento volte maggiore che nell'originale. Come è possibile ciò? Evidentemente il cantante è riuscito a impossessarsi del mistero della sua stessa canzone.
Una volta Bob Dylan ha detto: "(essere sul palco) è vivere ogni sera, o sentirsi vivi ogni sera. Rischi la tua vita suonando musica, se lo fai nella maniera giusta".
C'è un grosso rischio, nella musica di questo ultimo live del cantautore romano, ed è ciò che lo rende così unico e appassionante. C'è il senso della musica vissuta come un rischio che percepii per la prima volta in quel caotico palazzetto dello sport genovese che a ogni cosa si poteva prestare, tranne che - apparentemente - alla musica. Ma qualcosa, quella notte, era cominciato, e quel qualcosa continua ancora oggi.
Ma di questi ascolti antichi, c'è ne è uno che mi affascina e mi incuriosisce ormai da un sacco di tempo, da quando ascoltai Rimmel per la prima volta trent'anni e più fa, da quando vidi l'autore di quel brano in concerto per la prima volta durante il Banana Republic tour del '79, anche se fu un concerto di circa un anno dopo, in un caotico palazzetto dello sport a Genova, che a me sembrò paragonabile all'esibizione di un gruppo punk, a lasciare il primo vero punto di domanda: Francesco De Gregori: chi è costui?
In Left & Right - Documenti dal vivo di Francesco De Gregori, poi, la fin troppa generosa inclusione del mio nome nei credits non ha nulla a che fare con la musica, per cui questo disco potrei anche recensirlo. Ma vorrei andare oltre, capire la lunga strada da quel concerto genovese alle esibizioni raccontate in questo disco.
E' l'ennesimo live del cantautore romano, ed è quello che narra di uno stato di grazia musicale raggiunto che ha pochi paragoni nel nostro Paese e soprattutto nella sua stessa carriera. Lo scrittore americano Greil Marcus una volta mi disse che ci sono - rari ma ci sono - momenti in cui non è più il musicista che esegue della musica, ma è la musica che attraverso il musicista si esprime indipendentemente. La musica "passa attraverso". Me lo avete già sentito dire, credo. Ma ogni volta che mi ci ritrovo davanti, "lfet and right", è sempre una epifania. Per riuscire a fare ciò, come documentato in questo live, ma avvisaglie si erano già avute nei due recenti dischi di studio Pezzi e Calypso, De Gregori ha fatto una lunga strada, estremamente faticosa come chi si intende di musica suonata può percepire, e non priva magari di errori. Lui è andato avanti, fino ad ottenere una genesi musicale che adesso, con un songbook ammirabile dietro le spalle e ottime nuove recenti composizioni, gli permette di fare uso di questo canzoniere per lasciare che la musica parli attraverso le sue canzoni: è come essere finalmente entrati in possesso di una magnifica Ferrari - o meglio ancora, una Lamborghini - e lasciare che il suo motore ruggisca a piacimento su una autostrada deserta, fino allo sfinimento.
Se ascoltate l'iniziale Numeri da scaricare, vi accorgerete che il chitarrista "sulla destra" - almeno per come è impostato il mio impianto di amplificazione - non fa mai due volte lo stesso assolo pur intervenendo nel pezzo numerosissime volte. In Mayday, dopo un andamento per tre quarti del brano alquanto modesto e privo di scossoni, il chitarrista esplode in un assolo terrificante, al limite del noise, prendendosi il rischio di guidare l'intera band sul palco con lui non sappiamo per dove. Il cantante si limita ad offrire la sua voce, che si colora di sfumature e di tinte perfetamente adeguate a quanto accade intorno a lui, e ogni volta che riascolti quel pezzo, esso si apre a nuove interpretazioni. In Un guanto, è il musicista seduto dietro alla pedal steel che a un certo punto si prende la briga di partire per "il viaggio", emergendo e sprofondando continuamente nell'impasto sonoro dietro di lui. Ma, sempre, è il cantante ed autore che sta offrendo ai suoi musicisti una autostrada dove, insieme, far correre quella Ferrari o Lamborghini che sia. Accade una comunione sul palco, si esprime una coralità, per cui non c'è più "un cantante e la sua band", ma "una band con un cantante". E' profondamente diverso, ed è molto americano come accezione musicale.
Ci sono pochi artisti, anche a livello internazionale, capaci di tutto ciò. Ovviamente viene in mente il nome di Bob Dylan, a cui evidentemente De Gregori si è ispirato per anni, fino ad avergli carpito qualche segreto che probabilmente sfugge anche a Bob Dylan stesso, in fatto di esecuzioni live. Chi di musica ci azzecca poco, continua a ripetere fino alla nausea che sì, De Gregori fa come Bob Dylan, stravolge le canzoni, ne cambia la struttura, le rende "incantabili" rispetto alla versione originale. Che è quanto di più sbagliato si possa dire di Bob Dylan. E di De Dregori. Se ciò avviene, qui, avviene nella conclusiva Buonanotte fiorellino, che non è più un valzer, ma un blues. E infatti a me piace poco. Come ha detto proprio Bob Dylan, non è possibile stravolgere la struttura di una canzone. E' possibile invece lasciare che la canzone ti prenda per mano e ti conduca verso il mistero che è la musica stessa. Allora De Gregori - e Bob Dylan - ottengono una vittoria. Nel dvd allegato a questo disco c'è una resa live di Rimmel: la canzone segue la struttura originale linea per linea, eppure non è mai stata eseguita in modo così soddisfacente, brilla di luce cento volte maggiore che nell'originale. Come è possibile ciò? Evidentemente il cantante è riuscito a impossessarsi del mistero della sua stessa canzone.
Una volta Bob Dylan ha detto: "(essere sul palco) è vivere ogni sera, o sentirsi vivi ogni sera. Rischi la tua vita suonando musica, se lo fai nella maniera giusta".
C'è un grosso rischio, nella musica di questo ultimo live del cantautore romano, ed è ciò che lo rende così unico e appassionante. C'è il senso della musica vissuta come un rischio che percepii per la prima volta in quel caotico palazzetto dello sport genovese che a ogni cosa si poteva prestare, tranne che - apparentemente - alla musica. Ma qualcosa, quella notte, era cominciato, e quel qualcosa continua ancora oggi.
Monday, November 19, 2007
He was made to love magic
Si dice che il giorno “that music died” sia stato quello in cui Buddy Hollie precipitò con il suo aeroplano, il 3 febbraio 1959. Il giornalista inglese Nick Kent preferisce dire che il giorno in cui la musica è morta per sempre è quello che coincide con la scomparsa del cantautore inglese Nick Drake, la notte fra il 24 e il 25 novembre 1974.
Quel giorno, il 24 novembre di 33 anni fa, è una fredda e nuvolosa giornata autunnale, il sole è tramontato alle ore 16 e 04 del pomeriggio. Nick ha la sua stanza al piano superiore della villetta di Far Leys a Tanworth in Arden dove vive la famiglia Drake. Dopo il fallimento della sua carriera artistica e la forte crisi depressiva che lo ha colto ormai da qualche anno, è lì che si è ritirato a vivere.
Quella sera Nick si ritira in camera sua molto presto. L'ultima persona a vederlo in vita è la madre, Molly. Lo ricorda mentre lo saluta nello specchio della porta della sua stanza. Molly ricorda anche che generalmente il figlio era abituato a svegliarsi piuttosto tardi al mattino perché durante la notte aveva difficoltà a riposare. Per questo motivo nessuno, né lei né il padre, si preoccupano quando al mattino Nick non scende a far colazione.
Rodney, il pade, dirà che di solito il figlio si alzava durante la notte per scendere in cucina. La madre lo sentiva sempre passare accanto alla loro camera, si alzava e scendeva a fargli compagnia. Anche quella notte Nick si era alzato, avrebbero trovato i resti di un frugale pasto a base di cornflake il giorno dopo, ma questa volta nessuno se ne era accorto.
Verso mezzogiorno del 25, Molly decide che è ora di svegliare il figlio: “Non lo disturbavo mai. Ma era quasi mezzogiorno ed entrai in camera sua perché pensai che era ormai ora di alzarsi. Lui giaceva sul letto riverso a metà. La prima cosa che notai furono le sue gambe, le sue lunghe gambe”.
Secondo il dottore che per primo lo esamina nel pomeriggio del 25, Nick è deceduto all’incirca verso le sei del mattino o poco prima. Il fatto che si stato trovato in quel modo, riverso malamente sul letto e non in una normale posizione di riposo, indicherebbe un improvviso attacco cardiaco.
Non esiste nessuna certificazione di quante pillole di Tryptizol (il medicinale anti depressivo che gli era stato prescritto) Nick avesse effettivamente preso quella notte. La sorella Gabrielle avrebbe dichiarato anni dopo che Nick avrebbe ingerito 30 pillole, ma non esiste nessuna prova di ciò: “Personalmente” dirà la donna “preferisco pensare che Nick si sia suicidato, nel senso che preferisco pensare che morì perché fu una sua scelta piuttosto che pensare che sia stato il risultato di un tragico errore. Non posso accettare l’ipotesi di un tragico errore”.
Il giornalista Nick Kent parlando con diversi amici di Nick poco dopo la sua morte, trovò una donna che gli disse che “tre giorni prima di morire, Nick era andato nel suo appartamento e aveva detto alle persone presenti: ‘Vi ricordate di me? Vi ricordate di come ero? Ditemi come ero. Avevo un cervello, ero qualcuno. Che cosa mi è successo?”.
Il mistero di Nick Drake è ancora aperto. Il suo talento è oggi ancor più formidabile, immenso, nella sua capacità melodica di racchiudere tutto il mistero della vita. Forse quando lui se ne è andato, la musica è veramente finita per sempre. Lui, come recitava una delle sue canzoni, aveva “una pelle troppo sottile” per sopportare la difficoltà del vivere.
I was born to sail away
Into a land of forever
Not to be tied to an old stone grave
In your land of never.
I was made to love magic
(Nick Drake)
Quel giorno, il 24 novembre di 33 anni fa, è una fredda e nuvolosa giornata autunnale, il sole è tramontato alle ore 16 e 04 del pomeriggio. Nick ha la sua stanza al piano superiore della villetta di Far Leys a Tanworth in Arden dove vive la famiglia Drake. Dopo il fallimento della sua carriera artistica e la forte crisi depressiva che lo ha colto ormai da qualche anno, è lì che si è ritirato a vivere.
Quella sera Nick si ritira in camera sua molto presto. L'ultima persona a vederlo in vita è la madre, Molly. Lo ricorda mentre lo saluta nello specchio della porta della sua stanza. Molly ricorda anche che generalmente il figlio era abituato a svegliarsi piuttosto tardi al mattino perché durante la notte aveva difficoltà a riposare. Per questo motivo nessuno, né lei né il padre, si preoccupano quando al mattino Nick non scende a far colazione.
Rodney, il pade, dirà che di solito il figlio si alzava durante la notte per scendere in cucina. La madre lo sentiva sempre passare accanto alla loro camera, si alzava e scendeva a fargli compagnia. Anche quella notte Nick si era alzato, avrebbero trovato i resti di un frugale pasto a base di cornflake il giorno dopo, ma questa volta nessuno se ne era accorto.
Verso mezzogiorno del 25, Molly decide che è ora di svegliare il figlio: “Non lo disturbavo mai. Ma era quasi mezzogiorno ed entrai in camera sua perché pensai che era ormai ora di alzarsi. Lui giaceva sul letto riverso a metà. La prima cosa che notai furono le sue gambe, le sue lunghe gambe”.
Secondo il dottore che per primo lo esamina nel pomeriggio del 25, Nick è deceduto all’incirca verso le sei del mattino o poco prima. Il fatto che si stato trovato in quel modo, riverso malamente sul letto e non in una normale posizione di riposo, indicherebbe un improvviso attacco cardiaco.
Non esiste nessuna certificazione di quante pillole di Tryptizol (il medicinale anti depressivo che gli era stato prescritto) Nick avesse effettivamente preso quella notte. La sorella Gabrielle avrebbe dichiarato anni dopo che Nick avrebbe ingerito 30 pillole, ma non esiste nessuna prova di ciò: “Personalmente” dirà la donna “preferisco pensare che Nick si sia suicidato, nel senso che preferisco pensare che morì perché fu una sua scelta piuttosto che pensare che sia stato il risultato di un tragico errore. Non posso accettare l’ipotesi di un tragico errore”.
Il giornalista Nick Kent parlando con diversi amici di Nick poco dopo la sua morte, trovò una donna che gli disse che “tre giorni prima di morire, Nick era andato nel suo appartamento e aveva detto alle persone presenti: ‘Vi ricordate di me? Vi ricordate di come ero? Ditemi come ero. Avevo un cervello, ero qualcuno. Che cosa mi è successo?”.
Il mistero di Nick Drake è ancora aperto. Il suo talento è oggi ancor più formidabile, immenso, nella sua capacità melodica di racchiudere tutto il mistero della vita. Forse quando lui se ne è andato, la musica è veramente finita per sempre. Lui, come recitava una delle sue canzoni, aveva “una pelle troppo sottile” per sopportare la difficoltà del vivere.
I was born to sail away
Into a land of forever
Not to be tied to an old stone grave
In your land of never.
I was made to love magic
(Nick Drake)
Thursday, November 15, 2007
Inseguendo un sogno
Solo il provincialismo e la cialtroneria che ci contraddistingue in materia di rock'n'roll (e non solo...) ha fatto sì che questa band sia venuta in Italia una volta sola, vent'anni fa, e sebbene avessero a disposizione un loro set in apertura serata, erano il gruppo accompagnatore di un certo Bob Dylan. Poi su di loro è calato un silenzio imbarazzante. Almeno nella nostra italiota immaginazione.
Lascio ai fan di Bruce Springsteen disquisire su quale sia la miglior rock'n'roll band del mondo e altre amenità: di certo, sono stati gli Heartbreakers di Tom Petty ad accompagnare "mostri" come Johnny Cash e Bob Dylan. Non certo la E Street Band.
Se negli anni 60 i Byrds furono l'anello di congiunzione tra Dylan e i Beatles, dieci anni dopo gli Heartbreakers sono stati l'anello di congiunzione tra il meglio dei sixties e l'era punk, forgiando una miscela incendiaria che ha ridato dignità e consapevolezza al rock'n'roll stesso.
Fuorilegge di questa musica, Tom Petty già vent'anni e più fa combatteva con le case discografiche per abbassare il prezzo di copertina, e adesso porta avanti la battaglia dell'ultimo dj.
Ovviamente nei cinema italiani non uscirà mai, e allora fareste cosa buona a non farvi sfuggire il dvd Runnin' Down a Dream, storia di questi uomini coraggiosi filmata da Peter Bogdanovich, un grande di Hollywood come loro sono stati dei grandi del rock'n'roll.
Peter Bogdanovich's Runnin' Down A Dream
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Come disse una volta Bob Dylan: "Loro sono l'ultima grande rock'n'roll band americana".
Lascio ai fan di Bruce Springsteen disquisire su quale sia la miglior rock'n'roll band del mondo e altre amenità: di certo, sono stati gli Heartbreakers di Tom Petty ad accompagnare "mostri" come Johnny Cash e Bob Dylan. Non certo la E Street Band.
Se negli anni 60 i Byrds furono l'anello di congiunzione tra Dylan e i Beatles, dieci anni dopo gli Heartbreakers sono stati l'anello di congiunzione tra il meglio dei sixties e l'era punk, forgiando una miscela incendiaria che ha ridato dignità e consapevolezza al rock'n'roll stesso.
Fuorilegge di questa musica, Tom Petty già vent'anni e più fa combatteva con le case discografiche per abbassare il prezzo di copertina, e adesso porta avanti la battaglia dell'ultimo dj.
Ovviamente nei cinema italiani non uscirà mai, e allora fareste cosa buona a non farvi sfuggire il dvd Runnin' Down a Dream, storia di questi uomini coraggiosi filmata da Peter Bogdanovich, un grande di Hollywood come loro sono stati dei grandi del rock'n'roll.
Peter Bogdanovich's Runnin' Down A Dream
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Come disse una volta Bob Dylan: "Loro sono l'ultima grande rock'n'roll band americana".
Friday, November 09, 2007
Tom Ovans' blues
First time I heard Tom Ovans’ "Gonna Be Missing You", I thought, “this must be the best Dylan’s song Bob Dylan never wrote”. It was easy to fall under the bloody damn “a new Bob Dylan” label, but it was just for a while. Tom Ovans is his own man, as I later discovered on a series of incredibile great albums, from the majestic Tales from the Underground to the recent, new and terrific Party Girl.
To quote Neil Young, Tom Ovans is “a lonely visitor”, from the days of the Greenwich Village to Nashville and now Austin, he is here to tell us the uncofortable truth: that life might be lonely, but there is always another match to strike. His music is the sound of a desperate blues, like Robert Johnson meeting Nick Drake. And more than that.
Here from a conversation I have had with Tom recently about his new album, "Party Girl" (for more infos about him, check here http://nsr.home.texas.net)
THE NEW ALBUM
I kind of really knew the sound I was looking for when I went in the studio to record Party Girl. When I was recording my previous album Honest Abe, which was done on a 4 track, I found myself really digging back deep into my street rock, folk and blues roots. Getting back to keeping it loose and really letting the feel of where the songs come from and where they want to go come through. I was getting back to a place where I hadn't been to in a long time. Recording by myself I just felt free to do what I do and not care about whether it made sense to anybody else. In fact I didn't even know I was recording an album when I was doing it. I thought I was just making some demos but some people, and the label heard it and we decided to release it as is. For me "Party Girl" is a kind of continuation of that album and rambling spirit except that it was recorded in a proper studio with other musicians. I made a conscious decision to find a small unknown studio and work with different people to push myself harder and get out of any comfort zone I might of fallen in. I was looking to make a kind of street rock record and I think that's what we did.
Working with Larry Chaney after all these years was a great experience. He's a great player and instinctively knows how to pick up on the feel of the songs and what I'm doing singing wise. As usual I made a point not to rehearse the band before we went in. Everybody just brought what they had to the table and we let it fly and walk the high wire. So we were actually capturing the songs at the moment of their recorded creation. It's just the way I've always like to work and I know Larry and most musicians I've worked with over the years really dig just laying it on the line and getting away from all of the bullshit that can happen around the making of a record.
THE GREENWICH VILLAGE DAYS
"Both Sides of the Night" is a song that has been with me since I wrote it. I think it was back in the winter of '74 or '75. I was just a kid then living in a cheap hotel in Greenwich Village with a girl friend at the time, but she left headed for god knows where and I got this song. It's a song that has never left me and has been staring me in the face all these years. When I sing it I still feel and agree with every word. The song just fell in naturally with the rest of the songs on "Party Girl" and seems to nail the feel I was looking for on this album.
I have lots of songs from those New York City days and other periods that I've never had the chance to record. A friend of mind from that time '74, '75 had a band playing down at CBGB's trying to make it and his band use to take some of my songs and really punk them up. It was pretty cool for me to hear and made me think beyond what I was doing. I think they got as far as opening up for Television. I don't know what happen to them after that, we kind of lost track of each other.
A good song is a good song no matter when it was written. They're always alive throwing out sparks. Hopefully I'll have a chance to record more.
AMERICA
What's happening in America now has been coming down the pike for a long time. As bad as Bush & Company are they aren't the sole reason for the way things are going. It easy to point fingers and scream he's the one to blame. Lets get rid of him and everything will be cool again and we can go back to not caring. But our problems go much deeper than someone like Bush or Bin Ladin. It's our own humanity that we need to face. I mean what are we living for? Is it all for money, greed, ego? My god is bigger and more righteous than yours. What's driving all this fear and hatred. Why can't reasonable men and women sit down and have a conversation. What's happened? Everywhere you look somebodies on the edge of war. People being killed for what. There seems to be a sense out there of the inevitable.
MYSTERY OF LIFE
It's all a mystery ain't it? I had a job driving a truck for awhile and I remember so many nights coming back into Austin from Houston and seeing these incredible Texas sunsets. All that color, beauty and mystery was enough to keep you going. I guess we all dig as deep as we need to. To find the meaning to keep going. I guess it's different for us all. I still believe in people. Most are working hard trying to do the right thing and shaking their heads at the world around them. For me and my music I just try to keep things in the moment cause that's where the magic is.It's interesting the two songs you've mentioned, "Rosalie" and "West Texas Blues", they both seem to be about getting back to something left behind. Maybe on some level we're all wandering through the desert, caught in the inferno, stumbling through the wasteland trying to get where ever the path takes us. Maybe it's the journey that keeps us going, maybe we're afraid if and when we stop it all ends. I think in some ways you've got to learn to embrace the darkness or else go crazy from the voodoo. Most times the questions are more interesting than the answers. One thing I know is that if Freddy Fender was still alive I would go and knock on his door and beg him most graciously to sing "Rosalie".
BEYOND DREAMS
“Whiskey Jar” is the first new song I wrote for the album. It kind of became the anchor for the album. It's the kind of song that goes to a place where you find yourself sometime. Beyond dreams, beyond the edge of the blues. Mortality staring you in the face. That moment when night meets day. That drunken moment when you get glimpse of some half ass broken down truth. Songs like this I can't tell you where they come from. It's got nothing to do with songwriting. One moment you're just sitting there late at night playing guitar and in the next you have this song your singing.
To quote Neil Young, Tom Ovans is “a lonely visitor”, from the days of the Greenwich Village to Nashville and now Austin, he is here to tell us the uncofortable truth: that life might be lonely, but there is always another match to strike. His music is the sound of a desperate blues, like Robert Johnson meeting Nick Drake. And more than that.
Here from a conversation I have had with Tom recently about his new album, "Party Girl" (for more infos about him, check here http://nsr.home.texas.net)
THE NEW ALBUM
I kind of really knew the sound I was looking for when I went in the studio to record Party Girl. When I was recording my previous album Honest Abe, which was done on a 4 track, I found myself really digging back deep into my street rock, folk and blues roots. Getting back to keeping it loose and really letting the feel of where the songs come from and where they want to go come through. I was getting back to a place where I hadn't been to in a long time. Recording by myself I just felt free to do what I do and not care about whether it made sense to anybody else. In fact I didn't even know I was recording an album when I was doing it. I thought I was just making some demos but some people, and the label heard it and we decided to release it as is. For me "Party Girl" is a kind of continuation of that album and rambling spirit except that it was recorded in a proper studio with other musicians. I made a conscious decision to find a small unknown studio and work with different people to push myself harder and get out of any comfort zone I might of fallen in. I was looking to make a kind of street rock record and I think that's what we did.
Working with Larry Chaney after all these years was a great experience. He's a great player and instinctively knows how to pick up on the feel of the songs and what I'm doing singing wise. As usual I made a point not to rehearse the band before we went in. Everybody just brought what they had to the table and we let it fly and walk the high wire. So we were actually capturing the songs at the moment of their recorded creation. It's just the way I've always like to work and I know Larry and most musicians I've worked with over the years really dig just laying it on the line and getting away from all of the bullshit that can happen around the making of a record.
THE GREENWICH VILLAGE DAYS
"Both Sides of the Night" is a song that has been with me since I wrote it. I think it was back in the winter of '74 or '75. I was just a kid then living in a cheap hotel in Greenwich Village with a girl friend at the time, but she left headed for god knows where and I got this song. It's a song that has never left me and has been staring me in the face all these years. When I sing it I still feel and agree with every word. The song just fell in naturally with the rest of the songs on "Party Girl" and seems to nail the feel I was looking for on this album.
I have lots of songs from those New York City days and other periods that I've never had the chance to record. A friend of mind from that time '74, '75 had a band playing down at CBGB's trying to make it and his band use to take some of my songs and really punk them up. It was pretty cool for me to hear and made me think beyond what I was doing. I think they got as far as opening up for Television. I don't know what happen to them after that, we kind of lost track of each other.
A good song is a good song no matter when it was written. They're always alive throwing out sparks. Hopefully I'll have a chance to record more.
AMERICA
What's happening in America now has been coming down the pike for a long time. As bad as Bush & Company are they aren't the sole reason for the way things are going. It easy to point fingers and scream he's the one to blame. Lets get rid of him and everything will be cool again and we can go back to not caring. But our problems go much deeper than someone like Bush or Bin Ladin. It's our own humanity that we need to face. I mean what are we living for? Is it all for money, greed, ego? My god is bigger and more righteous than yours. What's driving all this fear and hatred. Why can't reasonable men and women sit down and have a conversation. What's happened? Everywhere you look somebodies on the edge of war. People being killed for what. There seems to be a sense out there of the inevitable.
MYSTERY OF LIFE
It's all a mystery ain't it? I had a job driving a truck for awhile and I remember so many nights coming back into Austin from Houston and seeing these incredible Texas sunsets. All that color, beauty and mystery was enough to keep you going. I guess we all dig as deep as we need to. To find the meaning to keep going. I guess it's different for us all. I still believe in people. Most are working hard trying to do the right thing and shaking their heads at the world around them. For me and my music I just try to keep things in the moment cause that's where the magic is.It's interesting the two songs you've mentioned, "Rosalie" and "West Texas Blues", they both seem to be about getting back to something left behind. Maybe on some level we're all wandering through the desert, caught in the inferno, stumbling through the wasteland trying to get where ever the path takes us. Maybe it's the journey that keeps us going, maybe we're afraid if and when we stop it all ends. I think in some ways you've got to learn to embrace the darkness or else go crazy from the voodoo. Most times the questions are more interesting than the answers. One thing I know is that if Freddy Fender was still alive I would go and knock on his door and beg him most graciously to sing "Rosalie".
BEYOND DREAMS
“Whiskey Jar” is the first new song I wrote for the album. It kind of became the anchor for the album. It's the kind of song that goes to a place where you find yourself sometime. Beyond dreams, beyond the edge of the blues. Mortality staring you in the face. That moment when night meets day. That drunken moment when you get glimpse of some half ass broken down truth. Songs like this I can't tell you where they come from. It's got nothing to do with songwriting. One moment you're just sitting there late at night playing guitar and in the next you have this song your singing.
Tuesday, November 06, 2007
Spare Parts & Broken Hearts
"I pezzi di ricambio e i cuori spezzati fanno girare il mondo" disse una volta Bruce Springsteen in una sua canzone. Poesia spicciola intrisa di quotidianeità che ti fa capire perché certe canzoni rock siano così importanti. "Le canzoni tristi dicono tante cose" aggiunse un'altra volta Elton John, e allora in un pomeriggio passato a casa malaticcio ho recuperato tre splendidi dischi di cui mi ero dimenticato da tempo. Canzoni tristi, ma proprio per questo bellissime, perché è il senso della perdita, la constatazione che ci manca qualcosa, ciò che ci definisce come esseri umani. E allora se qualcuno ce lo canta, fa solo bene al cuore.
Nota a margine: mi stupisco del fatto che sono usciti tutti e tre tra il 2001 e il 2005, ripenso che in fondo non è vero che oggigiorno non ci siano più grandi canzoni - che questi tre album sono dei classici nel loro genere.
Sull'amico youtube ho pescato un video per ciascuno e così, senza troppe pretese, come dicono i Jayhawks, "salvateli per un giorno di pioggia. Non essere triste, c'è un'altra partita da giocare".
The Jayhwaks, Save It For a Rainy Day, da Rainy Day Music, 2003
Kasey Chambers, Not Pretty Enough, da Barricades & Brickwalls, 2001
, The Wallflowers (versione acustica del solo Jakob Dylan), Here He Comes (Confessions of a Drunken Marionette), da Rebel, Sweetheart, 2005
Nota a margine: mi stupisco del fatto che sono usciti tutti e tre tra il 2001 e il 2005, ripenso che in fondo non è vero che oggigiorno non ci siano più grandi canzoni - che questi tre album sono dei classici nel loro genere.
Sull'amico youtube ho pescato un video per ciascuno e così, senza troppe pretese, come dicono i Jayhawks, "salvateli per un giorno di pioggia. Non essere triste, c'è un'altra partita da giocare".
The Jayhwaks, Save It For a Rainy Day, da Rainy Day Music, 2003
Kasey Chambers, Not Pretty Enough, da Barricades & Brickwalls, 2001
, The Wallflowers (versione acustica del solo Jakob Dylan), Here He Comes (Confessions of a Drunken Marionette), da Rebel, Sweetheart, 2005
Tuesday, October 30, 2007
I was born in a smalltown
INTRA SIESTRI E CHIAVERI S’ADIMA UNA FIUMANA BELLA...
(Dante, Purg., XIX)
Non so quante città italiane sono citate nella Divina Commedia. So che la città, Chiavari, dove ho vissuto fino ai miei vent’anni, lo è. A dire il vero, il Sommo Poeta commise una scorrettezza, quando disse che il fiume Entella (la “fiumana bella", come la chiamava lui) si trovasse tra “Siestri” (oggi Sestri Levante) e “Chiaveri” (oggi Chiavari): il fiume infatti scorre tra Chiavari e Lavagna (dove sono nato, poi passato dall’altra parte del fiume all’età di 6 anni), ma sembra che i simpatici cittadini di quel borgo non lo avessero trattato poi così bene, meritandosi dunque la clamorosa esclusione dal massimo esempio di poesia di tutti i tempi. Della serie: anche i poeti si incazzano…
Se il significato di “Lavagna” è chiaro a tutti (alcune delle maggiori cave di ardesia si trovano qui intorno), quello di “Chiavari” è ancora tema di discussione: Clavari, Clavarum, Clavarium, Clavara, Clavai, Clavaro, Clavario, Clavarii, Clavaris, Clavero, Claverim, Chiaveri. L’elenco potrebbe continuare con un simpatico “Chi” (qui) “avari”, ma siamo genovesi, perciò non chiamateci taccagni. Sembra invece che il vero significato del nome sia piuttosto “Chiave” di “Ri”: Ri è oggi una frazione della stessa Chiavari, ma nel Medio Evo era un ricco borgo collinare che trovava sbocco al mare proprio in quella che sarebbe diventata Chiavari.
(La chiesa di S. Stefano, a Lavagna)
Alzi la mano chi glie ne può fregare di meno di tutto questo. Nemmeno io. L’unica cosa che so è che oggi, 25 anni dopo essermi trasferito a Milano, la mia cittadina sul mare mi manca sempre di più. Mi mancano i suoi carrugi vecchi e scuri, mi manca l’odore del mare quando d’inverno sbatte furiosamente con onde alte sugli scogli, mi manca – e anche tanto – la focaccia genovese, che non ho mai capito come mai a Milano non c’è un cane di fornaio che la sappia fare. Sarà così difficile?
(Chiavari by night)
Quando avevo vent’anni, per dirla alla Springsteen, sognavo di andarmene da una città di perdenti in cui non capitava mai niente, per vincere altrove. Me ne sono andato e credo di non aver vinto nulla, e per dirla alla Guccini, ho capito che è proprio vero che “a vent’anni si è stupidi davvero, quante balle si ha in testa a quell’età”.
(La Baia del Silenzio, a Sestri Levante, dove ho passato più di una notte a smaltire sbornie e quant'altro...)
Mio padre era un marinaio, ma non ha mai voluto che facessi il suo lavoro. Credo ci sia un motivo per cui la vita segua un percorso invece di un altro, e in fondo quando guardo le mie figlie credo di aver, alla fine, vinto qualcosa anche io e capito perché da 25 anni sono dove sono: non ci sarà un cane di fornaio in questa città che sappia fare la focaccia, le strade invece di odorare di mare puzzano di smog e spazzatura e invece di passeggiare sulla spiaggia devo trovarmi ogni volta un giardinetto pubblico che non sia una discarica e sia appena più grande della mia camera da letto, ma qui il mio destino si è reso realtà fatta carne, avvenimento quotidiano.
E poi mia figlia ha già ripreso in mano il timone lasciato dal nonno… La dinastia è in buone mani.
Tuesday, October 23, 2007
Tremate. Le Aquile son tornate.
Dai, non facciamo i furbetti. Già vi vedo tutti quanti a ridermi in faccia e a citarmi quella scena de Il grande Leboswki, quando Drugo (il formidabile protagonista del film, interpretato da un altrettanto formidabile Jeff Bridges) si incazza perché in macchina qualcuno ha messo gli Eagles: “Butta via quella merda e metti i Creedence”, sbotta. O qualcosa del genere. Perché sì, lo so, dirsi fan del gruppo di Don Henley e Glenn Frey non è mai stato cool, non lo era trent’anni fa e tantomeno lo è oggi, che questi hanno sessant’anni anche loro e che ci fanno ancora in giro, con le loro melense melodie di una California “peace & love” che ci ha proprio rotto i coglioni.
Cavoli vostri: mi piacevano allora (ancora ricordo quando, con un amico, ascoltammo alla radio un pomeriggio del tardo 1976 per la prima volta Hotel California, saltando in giro per la stanza eccitati da quello che ci sembrava “l’assolo di chitarra più fico della storia del rock”) e mi piacciono ancora, che questo disco lo aspettavo da 28anni, tanti ne sono passati da quando uscì The Long Run. Avevo paura, questo sì, di trovarmi di fronte quel pop infarcito di synth e ritmi dance che ha caratterizzato tanta della produzione anni 80 e 90 di Henley e Frey e anche se li avevo visti nel 2001 in un concerto strepitoso, dubitavo fossero in grado di mettere giù due canzoni che fossero due di livello accettabile. Invece parte la prima traccia, No More Walks In The Wood (e vabbè che, stando ai credits, risale al 1993 ed è stata scritta dal solo Don Henley con l’apporto di un paio di collaboratori) e stento a credere a quello che ascolto: voci che armonizzano grandiosamente con un soffuso accompagnamento di chitarra acustica, quasi fosse un pezzo del primo disco di CSN. Poi quando parte How Long (e vabbè che l’ha scritta uno che non è degli Eagles, J.D. Souther, e risale al 1973, anche se lui ha scritto tanti hit degli Eagles anni 70) comincio a saltare intorno al tavolo: sembra Take It Easy, no sembra Already Gone. Cazzo, ma questi sono gli Eagles addirittura pre Hotel California, quelli country-rock che di più non si può. Henley e Frey si alternano alle strofe di un incalzante rock’n’roll intinto di California e il disco per me potrebbe già finire qui che sarei a posto così. Invece Busy Being Fabulous – terza traccia – è ancora sospesa nei 70’s, una ballatona ariosa impostata su chitarre acustiche da sogno (e questa l’hanno scritta proprio loro, Don & Glenn, come ai vecchi tempi). E si prendono anche in giro: “Sono tornato a casa e ho trovato un biglietto ‘Non aspettarmi stasera, credi non sappia che sei in giro con i tuoi amici sballatoni? Ma dove pensi di andare quando il party sarà finito, sei stato troppo impegnato a crederti favoloso per pensare a noi’”. Già, troppo impegnato a fare la rock star, una vita da scemo: “Hai fatto sempre la bella vita alle feste ma adesso amico, sei solo uno scherzo”.
Già ai tempi di Hotel California Don Henley si lamentava che tutti si scaldassero per i testi delle canzoni di Bruce Springsteen e considerassero i loro “robetta commerciale”. Peccato che in pieno 2007, la miglior canzone anti-establishment, dopo le vaccate di Neil Young e tanti colleghi “impegnati”, la scrivano proprio loro, gli Eagles, nei dieci minuti della title track. Che non solo ha le liriche più poetiche e meno qualunquiste sentite fino ad oggi in un brano che attacca Bush, la guerra in Iraq, i petrolieri, l’american way of life senza scadere nel linguaggio da pamphlet iperideologico, ma è anche una solidissima rock ballad che comincia con una melodia mediorientale e si dipana poi su robuste chitarre e un assolo da favola (Joe Walsh). Certo, questo disco poteva essere un solo cd (che a volte sfugge loro la mano e si perdono in qualche melensaggine soft rock al limite dell’overdose di saccarina, come What I Do With My Heart o I Don’t Want To Hear Any More, per non dire dell’orribile Last Good Time In Town, e tante grazie Joe Walsh per questo insulso rockaccio caraibico), ma insomma, ci hanno messo quasi tre decenni e lasciamoli sfogare.
Che di buona musica ce n’è ancora tanta, come il rock ruvido di Somebody, il funk di Frail Grasp On The Big Picture (“Le tue fissazioni romantiche non hanno nulla a che fare con la domanda eterna: ‘Chi cazzo ha dimenticato di mettere il tappo al dentifricio?’”; “E preghiamo nostro Signore, sappiamo che Lui è americano”), lo splendido folk con tanto di pedal steel di You Are Not Alone, la grinta black con fiati incalzanti della superba Fast Company. Ad esempio. E quando Glenn Frey decide di chiudere il discorso, con il tex-mex di It’s Your World Now (scritta con Jack Tempchin, altro collaboratore degli Eagles dei tempi d’oro), sappiamo che ok, loro non saranno più i “new kid in town”, ma l’onestà di guardarsi in faccia, pochi altri “stagionati colleghi” ce l’hanno: “È il tuo mondo adesso, la mia corsa è finita, un giorno capirai quanto duramente ci abbia provato e quanto tu abbia significato per me, è il tuo mondo adesso, usa bene il tuo tempo”. Loro passano la mano: “Sii parte di qualcosa di bello, lasciati dietro qualcosa di buono, per me il sipario cala”.
Gli Eagles, alla faccia di Drugo, ne hanno lasciate di cose buone.
(da JAM 142, novembre 2007)
Wednesday, October 17, 2007
Trinity Revisited
Nel 1987 avevo smesso di ascoltare musica rock in modo serio e continuativo ormai da cinque, sei anni. Mi tenevo aggiornato – ovviamente – solo su due eroi che amavo troppo per lasciarli andare, Bob Dylan e Bruce Springsteen, anche se discograficamente erano messi male anche loro. Li andavo a vedere in concerto, naturalmente (e proprio in quel 1987 ebbi modo di vedere per la prima volta un altro eroe, Neil Young, in un concerto indimenticabile anche perché interrotto a metà da cariche di polizia e quant’altro).
Mtv non aveva ucciso solo le “radio stars”, come aveva profetizzato qualcuno, aveva anche ucciso la buona musica rock, riducendola a videoclip beoti per ragazzini storditi a base di synth e batterie elettroniche.
Nel 1987 però mi stavo anche riavvicinando alla musica rock grazie a un gruppi di amici del mio paesello natale che stavano cercando di sfondare nel mondo della musica (non ce l’avrebbero fatta, ma ci siamo divertiti un casino: no, io non suonavo, avrei dovuto essere il loro Jon Landau, ma finii la mia carriera quando li portai a suonare a un festival rock dove nessuno aveva pensato di procurare la batteria. Un giorno vi racconterò anche questo). Così sfogliando ancora con noia le riviste rock di allora, venni a leggere di questa giovanissima band canadese che aveva registrato un disco in un solo pomeriggio, e per di più dentro a una chiesa, a Toronto. Il nome era affascinante, Cowboy Junkies (“i cowboy drogati”), il titolo del disco anche, The Trinity Sessions, e poi facevano Sweet Jane dei Velvet Underground.
Lo presi, lo ascoltai, lo amai subito. Ci sarebbe voluto ancora un po’ per il mio ritorno totale alla musica rock, ma qualcosa era successo.
Era successo qualcosa anche per le acque stagnanti del rock, e pure Mtv dovette accorgersene, che si trovava a fare i conti nuovamente con una musica vera, capace di raccontare i tormenti dell’anima, le ansie dello spirito, recuperando la tradizione antica (canzoni di Hank Williams, I'm So Lonesome I Could Cry), vecchi brani popolari (Mining for Gold), dediche a fantasmi inquieti (Blue Moon Revisited (For Elvis)) e storie troppo belle per essere accantonate (quella Sweet Jane, rallentata in modo impossibile, diventava invece di un inno alla vita spericolata, una lugubre nenia che avrebbe fatto dire al suo autore, Lou Reed, “questa è la più bella versione mai fatta del mio pezzo”).
Trascendendo tempo e spazio, i Cowboy Junkies avevano fatto quello che ogni vero disco rock dovrebbe fare: si erano spinti “oltre”, mettendo in una manciata di canzoni il mondo intero.
Vent’anni dopo sono tornati sulla scena del crimine, è hanno reinciso l’intero disco ancora una volta in quella chiesetta di Toronto, con alcuni ospiti: Natalie Merchant, Ryan Adams e Vic Chesnutt.
Hanno filmato tutto e il risultato è nel bellissimo dvd (con anche un cd audio) Trinity Revisited, appena uscito.
Cantano e suonano ancor meglio, ma sono rimasti sempre gli stessi “dolorosi visitatori dello spirito” che erano vent’anni fa. E finalmente possiamo vedere quella misteriosa e affascinante chiesetta dove un giorno il rock era tornato a essere la più bella e inquietante espressione dell’animo umano che questi tempi moderni hanno saputo esprimere.
Forse il segreto di questa storia bellissima è racchiuso per sempre nelle mura della chiesetta. Come dicono loro: “We came, we played and the church did the rest”.
Sunday, October 14, 2007
Mohammed's Radio is back
Thursday, October 11, 2007
SCOOP! Nel backstage con i favolosi... TAYLOR!
Ebbene sì, anche noi nel nostro piccolo riusciamo in "imprese impossibili". Come questa volta, quando grazie a una nostra inviata travestita da groupie - a cui ovviamente i favolosi... TAYLOR! hanno immediatamente aperto le porte al grido di "Cavoli, era dall'Isola di Wight nel 1970 che una ragazza non veniva a cercarci nel camerino" - siamo riusciti a immortalare il grande gruppo rock intento a prepararsi per il concerto della reunion dello scorso settembre.
Rolling Stone e New Musical Express ci hanno offerto cifre indicibili per questo scoop, ma noi, fedeli all'etica che il rock'n'roll non si svende, abbiamo rfiutato.
Ecco i favolosi... TAYLOR! in tutta la loro bellezza di sopravvissuti del rock'n'roll. Chi avrebbe mai detto che anni di abusi e di vita spericolata li avrebbero conservati così in forma?
Qui, appena giunti in camerino, Magù detto "la chitarra di Dio" riceve una telefonata dal manager dei Rolling Stones che gli chiede se è disponibile a sostituire Ron Wood nei prossimi concerti di Jagger & Richards: purtroppo problemi di udito dovuti agli anni passati accanto agli amplificatori gli impediranno di cogliere il senso della telefonata. Il cantante della band, Poldo "Da Man", sorride eccitato alla prospettiva di conoscere Keith Richards.
In questa foto il tastierista e sassofonista del gruppo scruta sospettoso un misterioso pacchetto ricevuto nel backstage: "Non vorranno mica incastraci come quella volta ad Altamont nel 1969, quando ci misero la droga in camerino?" si chiede. L'astuto batterista, "The Mighty Lambicco" chiama la zia per scoprire l'arcano:
Lui, "Poldo Da Man" è il sex symbol della band, come ogni buon cantante che si rispetti. Forma fisica perfetta, nonostante l'età avanzata, che mantiene grazie a una dieta personalizzata preparata dal medico personale di Ozzy Osbourne. La giacca bianca l'ha avuta in prestito dal fratello scemo di Bryan Ferry:
Lo chiamano "Taxi Driver", nessuno ha mai capito il motivo. È lo stantuffo ritmico della band, Ciro The Bass Player:
È il più giovane del gruppo, con i suoi 59 anni. Ma le sue doti chitarristiche hanno portato nuovi stimoli a un gruppo che sembrava incapace di rinnovarsi. Per gli amici semplicemente "L'architetto". Del suono, ovviamente:
Ci sono volute diverse ore, ma l'opera di restauro è perfettamente riuscita. Indossando la veste che usò per la prima volta all'Ed Sullivan Show quando nel 1956 accompagnò Elvis Presley alla sua prima apparizione televisiva, eccolo in tutta la sua gloria, the greatest, the maximum rock'n'roll, the immense guitar player...
MR MAGU'!
E ora sono pronti per un'altra notte di rock'n'roll, per farci sentire ancora una volta come se avessimo 16 anni perché, lo sapete...
ROCK'N'ROLL CAN NEVER DIE
Rolling Stone e New Musical Express ci hanno offerto cifre indicibili per questo scoop, ma noi, fedeli all'etica che il rock'n'roll non si svende, abbiamo rfiutato.
Ecco i favolosi... TAYLOR! in tutta la loro bellezza di sopravvissuti del rock'n'roll. Chi avrebbe mai detto che anni di abusi e di vita spericolata li avrebbero conservati così in forma?
Qui, appena giunti in camerino, Magù detto "la chitarra di Dio" riceve una telefonata dal manager dei Rolling Stones che gli chiede se è disponibile a sostituire Ron Wood nei prossimi concerti di Jagger & Richards: purtroppo problemi di udito dovuti agli anni passati accanto agli amplificatori gli impediranno di cogliere il senso della telefonata. Il cantante della band, Poldo "Da Man", sorride eccitato alla prospettiva di conoscere Keith Richards.
In questa foto il tastierista e sassofonista del gruppo scruta sospettoso un misterioso pacchetto ricevuto nel backstage: "Non vorranno mica incastraci come quella volta ad Altamont nel 1969, quando ci misero la droga in camerino?" si chiede. L'astuto batterista, "The Mighty Lambicco" chiama la zia per scoprire l'arcano:
Lui, "Poldo Da Man" è il sex symbol della band, come ogni buon cantante che si rispetti. Forma fisica perfetta, nonostante l'età avanzata, che mantiene grazie a una dieta personalizzata preparata dal medico personale di Ozzy Osbourne. La giacca bianca l'ha avuta in prestito dal fratello scemo di Bryan Ferry:
Lo chiamano "Taxi Driver", nessuno ha mai capito il motivo. È lo stantuffo ritmico della band, Ciro The Bass Player:
È il più giovane del gruppo, con i suoi 59 anni. Ma le sue doti chitarristiche hanno portato nuovi stimoli a un gruppo che sembrava incapace di rinnovarsi. Per gli amici semplicemente "L'architetto". Del suono, ovviamente:
Ci sono volute diverse ore, ma l'opera di restauro è perfettamente riuscita. Indossando la veste che usò per la prima volta all'Ed Sullivan Show quando nel 1956 accompagnò Elvis Presley alla sua prima apparizione televisiva, eccolo in tutta la sua gloria, the greatest, the maximum rock'n'roll, the immense guitar player...
MR MAGU'!
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