Ci aveva lasciati, lo scorso luglio, con l'implorazione "Milano, prega con me", durante un devastante e intesissimo concerto full band, nella cornice dell'Arena Civica, tra echi di CBGB's e cover hendrixiane. È tornata, in una fredda notte a pochi giorni dal Natale, per pregare davvero insieme a noi, questa volta nella bellissima cornice di uno dei tesori architettonici di Milano, la basilica di San Vittore.
Non so se è stato perché mi trovavo seduto a un metro e mezzo da lei – una volta tanto questo dannato mestiere è servito a qualcosa – con il suo sguardo carico di passione e tensione che ogni tanto incrociava il mio, non so se è stata l'ambientazione in cui ci trovavamo - alzavi gli occhi e vedevi le meraviglie lasciate in secoli di storia da un popolo che con queste chiese rendeva reale il proprio rapporto con Dio – ma credo sia stata la più appassionante esperienza concertistica della mia vita. E ho pianto, più di una volta, per la tensione e il carisma che sprigionano da una donna, Patti Smith, e che mi investiva con quelle "wave", le onde, che solo ora, trent'anni dopo, capisco cosa lei volesse dire quando lo cantava nel brano omonimo, una donna che è in grado realmente di fare di un concerto rock un momento di preghiera e catarsi religiosa.
"Quando dicevano a Elvis che lui era il re del rock'n'roll" ha detto prima di introdurre una deliziosa e tenerissima Blue Christmas che Presley rese famosa "lui rispondeva che c'è un solo Re, e sta lassù nel cielo". Quel brano, insieme a una incredibilmente pregnante O Holy Night, è stato la misura di uno show in cui si è celebrato il mistero del Natale, una incarnazione che sì, è possibile che passi anche attraverso il rock'n'roll: anche Because The Night, stasera, non era per niente fuori contesto. Helpless, di Neil Young, è stata dedicata allo scomparso marito Fred "Sonic" Smith, perché è questo che siamo, indifesi davanti alla vita che ci porta via i nostri cari, se il Mistero non ci soccorre. Il Mistero che Patti Smith, alzando le braccia verso la volta di San Vittore, ha invocato e pregato con voce straziata nel finale di una maestosa Dancing Barefoot: "Oh God, I fell for you....".
"La notte prima che Giovanni Paolo II morì, mi trovavo in Piazza San Pietro a Roma" ha detto a un certo punto. "Chiesi alla gente perché fissavano quelle tre finestre con la luce accesa nel palazzo del Papa. Mi dissero che lì c'era lui, il Papa, e che quelle luci si sarebbero spente quando lui fosse morto. Tornai la sera dopo, e quelle luci erano spente. Allora ho scritto questa poesia per Giovanni Paolo": Three Windows for Jean Paul II, liriche di dolcezza infinita, ci ha portati di schianto ai giorni antichi di St. Mark's Church, downtown NYC, dove la poetessa Smith muoveva i suoi primi passi nei primi 70, anche allora in una chiesa. E il viaggio, per lei e per noi, è sembrato finalmente concluso, una generazione perduta che sotto quelle tre finestre si è ritrovata.
Uscendo, stordito per la performance a cui ho assistito (sul piccolo palco solo lei, il bravo Tony Shanhan chitarra, voce e tastiere, e il bravissimo violoncellista Giovanni Sollima) vedo dei ragazzi accendere delle candele davanti a una piccola statua di un santo. Non so se è il santo protettore della gioventù, sotto cui una giovane Patti Smith era solita accendere candele qualche decennio fa, a St. Patrick a New York, ma so che Patti Smith questa notte ha acceso in tutti i presenti una grande candela: quella che illumina il Mistero.
Thursday, December 20, 2007
Tuesday, December 18, 2007
In questa notte splendida
Una fredda sera d’inverno di più di dieci anni fa, periferia di Milano. Sto dirigendomi verso la sala dove fra qualche minuto inizierà il concerto. La voce, come sempre forte e squillante, mi chiama, la stretta della sua mano sul mio braccio, come sempre decisa e intransigente, mi afferra: “Vieni” mi dice “entriamo qua in questa stanzetta, devo farti sentire una canzone nuova”.
Era sempre così, Claudio Chieffo, quando aveva una canzone nuova. Per lui erano un dono, qualcosa di inaspettato e di immeritato, ma che andava condiviso subito. Come una canzone gli arrivava, doveva andare per il modo. Ricordo le sue telefonate, in ufficio, al mattino: “Ti disturbo? Solo un minuto, voglio farti sentire questo pezzo a cui sto lavorando”. E io, tra un casino e l’altro al lavoro, che andavo in balcone, per non essere disturbato mentre lui mi faceva questo regalo. Mi mancano le sue telefonate, mi mancano un casino.
Quella sera, in quella squallida stanzetta dietro al palco, mi fece sentire un primo abbozzo di “In questa notte splendida”, una meravigliosa canzone natalizia. Fu come se quella stanza si aprisse all’infinito. Era sempre così, quando lui cantava, e il privilegio di essere io da solo unico spettatore di quel momento, è stato un dono raro.
Dieci anni e più dopo, ritrovo questa canzone nel bellissimo disco appena uscito in questi giorni, “È bella la strada”, una raccolta di 24 suoi brani pubblicato nella prestigiosa collana “Spirto Gentil” edito dalla Universal. È una sorta di demo registrato nel 1995 – dunque poco tempo dopo che Claudio me la fece ascoltare quella sera – a casa sua, solo voce e chitarra, perché voleva mandarlo subito a don Giussani (i cui commenti alle canzoni impreziosiscono questo nuovo cd), quel prete brianzolo che per primo lo aveva incoraggiato a scrivere canzoni. Dopo tanti anni, quel prete era sempre il suo punto di riferimento principale per ogni cosa importante della sua vita, ad esempio le canzoni.
È una registrazione formidabile: quella voce straordinaria che si svolge su una melodia bellissima, una melodia forte di una nostalgia positiva, come solo la nostalgia per le cose belle può essere. Quando la ascolto mi ritrovo in quella stanzetta di quel teatro di periferia e realizzo che privilegio ho avuto nella mia vita. Canzoni come queste, non capita davvero spesso di ascoltarle.
L’altro giorno ero alla recita di Natale della scuola di mia figlia. Nel modo bizzarro ma affascinante come solo la vita sa svolgersi, eravamo davanti alla stessa chiesa nella cui stanzetta del teatro dieci anni prima Claudio mi aveva fatto sentire quel pezzo in anteprima. Alla fine della recita il coro ha cantato proprio “In questa notte splendida”. E allora ho capito come le canzoni di Claudio Chieffo, nella più autentica tradizione della vera musica popolare, come voleva lui, sono andate per il mondo e hanno messo radici, sono patrimonio di un popolo, scorrono nel suo sangue, e non se ne andranno mai più, finché ci sarà una voce per cantare.
E io posso solo ringraziare per essere stato messo in questo stesso popolo. Anche se mi mancano le telefonate di Claudio, al mattino, in ufficio.
Era sempre così, Claudio Chieffo, quando aveva una canzone nuova. Per lui erano un dono, qualcosa di inaspettato e di immeritato, ma che andava condiviso subito. Come una canzone gli arrivava, doveva andare per il modo. Ricordo le sue telefonate, in ufficio, al mattino: “Ti disturbo? Solo un minuto, voglio farti sentire questo pezzo a cui sto lavorando”. E io, tra un casino e l’altro al lavoro, che andavo in balcone, per non essere disturbato mentre lui mi faceva questo regalo. Mi mancano le sue telefonate, mi mancano un casino.
Quella sera, in quella squallida stanzetta dietro al palco, mi fece sentire un primo abbozzo di “In questa notte splendida”, una meravigliosa canzone natalizia. Fu come se quella stanza si aprisse all’infinito. Era sempre così, quando lui cantava, e il privilegio di essere io da solo unico spettatore di quel momento, è stato un dono raro.
Dieci anni e più dopo, ritrovo questa canzone nel bellissimo disco appena uscito in questi giorni, “È bella la strada”, una raccolta di 24 suoi brani pubblicato nella prestigiosa collana “Spirto Gentil” edito dalla Universal. È una sorta di demo registrato nel 1995 – dunque poco tempo dopo che Claudio me la fece ascoltare quella sera – a casa sua, solo voce e chitarra, perché voleva mandarlo subito a don Giussani (i cui commenti alle canzoni impreziosiscono questo nuovo cd), quel prete brianzolo che per primo lo aveva incoraggiato a scrivere canzoni. Dopo tanti anni, quel prete era sempre il suo punto di riferimento principale per ogni cosa importante della sua vita, ad esempio le canzoni.
È una registrazione formidabile: quella voce straordinaria che si svolge su una melodia bellissima, una melodia forte di una nostalgia positiva, come solo la nostalgia per le cose belle può essere. Quando la ascolto mi ritrovo in quella stanzetta di quel teatro di periferia e realizzo che privilegio ho avuto nella mia vita. Canzoni come queste, non capita davvero spesso di ascoltarle.
L’altro giorno ero alla recita di Natale della scuola di mia figlia. Nel modo bizzarro ma affascinante come solo la vita sa svolgersi, eravamo davanti alla stessa chiesa nella cui stanzetta del teatro dieci anni prima Claudio mi aveva fatto sentire quel pezzo in anteprima. Alla fine della recita il coro ha cantato proprio “In questa notte splendida”. E allora ho capito come le canzoni di Claudio Chieffo, nella più autentica tradizione della vera musica popolare, come voleva lui, sono andate per il mondo e hanno messo radici, sono patrimonio di un popolo, scorrono nel suo sangue, e non se ne andranno mai più, finché ci sarà una voce per cantare.
E io posso solo ringraziare per essere stato messo in questo stesso popolo. Anche se mi mancano le telefonate di Claudio, al mattino, in ufficio.
Tuesday, December 11, 2007
Il film di Natale
“Non è quello che c’è, ma quello che rimane fuori: questo è il rock’n’roll”. Come un breve assolo che colpisce in profondo, questa frase ricorda il valore della migliore musica rock: puntare dritto a quel punto che “non torna”. Ma, in piena coerenza, la frase viene tagliata fuori dalla versione cinematografica del film.
Almost Famous (lo so, è vecchio di almeno sei anni, ma è sempre uan visione che non guasta) basato sulle esperienze realmente accadute al futuro regista Cameron Crowe, giovanissimo giornalista rock nel 1973, è la ricostruzione di un’epoca storica in cui la musica rock ancora faceva rima con innocenza e passione. Per la prima volta in un film su questa musica gli stereotipi del “sesso & droga” sono messi in secondo piano, sottolineando invece il profondo senso di mistero e di scoperta di se stessi legato alla musica rock (emblematica la scena iniziale in cui la sorella maggiore lascia al piccolo protagonista la sua collezione di vinili, con un biglietto con la scritta “Ascolta questo disco con una candela accesa e vedrai il tuo futuro"; il disco è Tommy degli Who).
Il film rappresenta benissimo l’idea che nella musica rock – di quel periodo storico, naturalmente – ci sia una tensione ideale capace di esprimere i tanti tumulti dell’animo, specialmente giovanile. Significativa in questo senso la scena in cui la figlia maggiore, durante l’ennesimo scontro con la madre, utilizza l’ascolto di una canzone di Simon & Garfunkel (America) per comunicare i suoi sentimenti.
Viene esaltato il senso di amicizia che lega gli appassionati di musica, siano essi giornalisti, musicisti o ragazze innamorate: la scena sul pullman, dopo il litigio tra il cantante e il chitarrista del gruppo, in cui tutti si uniscono a cantare una canzone di Elton John (Tiny Dancer) illumina il film con l’evidenza di un abbandono possibile alla positività cui ciascuno aspira e che resiste nelle situazioni più difficili. Ognuno lascia da parte il proprio punto di vista ammettendo che l’amicizia ti permette di dire di sì alla vita, comunque essa si presenti.
Essere in tournée, però, finisce per diventare una “realtà” che si sostituisce alla realtà della vita vera (quando Penny dice a William, che vuole tornare a casa: “Questa è la tua casa adesso”). Una utopia destinata a crollare una volta che tutti i limiti (gelosie, tradimenti amorosi, rivalità etc) delle persone vengono a galla, e per questo il film è anche un bellissimo resoconto del viaggio che porta dall’innocenza dell’adolescenza allo scontro con la realtà del diventare adulti (emblematica la frase che Penny che rivolge al protagonista: “Sei troppo buono per il rock’n’roll”).
Come caratteristica di quasi tutti i film di Cameron Crowe, un regista del "positivo", c'è un lieto fine, in cui viene sottolineato che nonostante tutto è possibile preservare la cosa più importante, e cioè l’amicizia (tra il chitarrista Russell e il giovane protagonista, che alla fine si riconciliano).
I PERSONAGGI
La bravissima Frances McDormand impersona una delle più efficaci madri mai vistesuul grande schermo. È una professoressa liberal di sinistra che vuole crescere dei figli non mediocri, ma che tende ad imporre le sue scelte di vita, una risposta parodistica allo stereotipo dell'intellettuale repressivo che non capisce il rock, visto in tanti brutti film e spot pubblicitari. La sua conversazione telefonica con il leader del gruppo è un momento formidabile di ottimo cinema.
Kate Hudson (figlia dell’attrice Goldie Hawn) è meravigliosa da ogni punto di vista, una icona di femminilità primi anni 70, apparentemente matura e misteriosa, ma in realtà fragilmente irresponsabile nel voler nascondere a se stessa la realtà, e alla fine profondamente ferita dal comportamento maschilista dei musicisti rock.
Peter Fugit, il protagonista e giornalista di 15 anni, dal sorriso allo stesso tempo astuto e imbarazzato proprio come le situazioni in cui viene a trovarsi. Il rigore della madre lo fa partire meno sprovveduto della sua età, ma il "viaggio" che questa storia lo costringe ad affrontare per la sua passione nei confronti della musica lo porterà a diventare uomo.
Bill Crudup (il chitarrista Russell) è la rock star carismatica e attraente, il suo rapporto di odio/amore con il cantante della band ricorda i classici dualismi Jagger/Richards, diviso tra il ruolo di star e quello di persona in cerca di veri affetti e vere amicizie.
Philip Seymour Hoffmann è il famoso critico rock Lester Bangs (che sin dalle prime battute afferma che il rock è ormai morto), vero “re degli sfigati”, che ha capito tutto, cinico e disilluso, ma che incarna lo spirito positivo di Crowe. Non può esimersi dal fascino che il ragazzo gli provoca, quasi con istinto paterno. Compie un coraggioso atto di disponibilità nei confronti della realtà: la positività che attrae è più forte del cinismo desunto dalle sue esperienze passate.
CURIOSITA’
Molte scene sono tratte da avvenimenti reali: la rosa sul palcoscenico prima dell’inizio di uno spettacolo degli Stillwater, riprende esattamente l’immagine di copertina di un disco live di Neil Young, Time Fades Away, uscito proprio nel 1973; la scena in cui Russell, fatto di Lsd, vuole gettarsi dal tetto della casa urlando “Io sono un dio dorato”, ricorda quanto fece Robert Plant dei Led Zeppelin in circostanze analoghe dal tetto di un albergo di Los Angeles; le scene sul pullman degli Stillwater riprendono alcune fotografie del periodo della Allman Brothers Band, che era il gruppo che il giovane Cameron Crowe fu inviato a intervistare.
In una delle scene finali, quando William sta cercando Penny Lane, guarda dentro un taxi dove è seduto un elegante signore che legge il giornale: è Jann Wenner, direttore e fondatore di Rolling Stone.
Strictly personal: la scena in cui il gorilla della security sbatte la porta in faccia al giovane Miller lasciando entrare solo le groupie nel backstage è successa anche a me, giugno 1991, Roma, davanti alla porta del camerino di Bob Dylan: “Nel camerino di Bob Dylan entrano solo le donne”. La porta mi è stata sbattuta in faccia e la groupie è entrata.
La battuta più divertente: quando il nuovo manager cerca di spiegare alla band la realtà dello showbusiness: “Credete forse che Mick Jagger a 50 anni sculetterà ancora così su un palco?”.
PS: grazie a Giorgio Natale per gli illuminanti commenti sul film.
Almost Famous (lo so, è vecchio di almeno sei anni, ma è sempre uan visione che non guasta) basato sulle esperienze realmente accadute al futuro regista Cameron Crowe, giovanissimo giornalista rock nel 1973, è la ricostruzione di un’epoca storica in cui la musica rock ancora faceva rima con innocenza e passione. Per la prima volta in un film su questa musica gli stereotipi del “sesso & droga” sono messi in secondo piano, sottolineando invece il profondo senso di mistero e di scoperta di se stessi legato alla musica rock (emblematica la scena iniziale in cui la sorella maggiore lascia al piccolo protagonista la sua collezione di vinili, con un biglietto con la scritta “Ascolta questo disco con una candela accesa e vedrai il tuo futuro"; il disco è Tommy degli Who).
Il film rappresenta benissimo l’idea che nella musica rock – di quel periodo storico, naturalmente – ci sia una tensione ideale capace di esprimere i tanti tumulti dell’animo, specialmente giovanile. Significativa in questo senso la scena in cui la figlia maggiore, durante l’ennesimo scontro con la madre, utilizza l’ascolto di una canzone di Simon & Garfunkel (America) per comunicare i suoi sentimenti.
Viene esaltato il senso di amicizia che lega gli appassionati di musica, siano essi giornalisti, musicisti o ragazze innamorate: la scena sul pullman, dopo il litigio tra il cantante e il chitarrista del gruppo, in cui tutti si uniscono a cantare una canzone di Elton John (Tiny Dancer) illumina il film con l’evidenza di un abbandono possibile alla positività cui ciascuno aspira e che resiste nelle situazioni più difficili. Ognuno lascia da parte il proprio punto di vista ammettendo che l’amicizia ti permette di dire di sì alla vita, comunque essa si presenti.
Essere in tournée, però, finisce per diventare una “realtà” che si sostituisce alla realtà della vita vera (quando Penny dice a William, che vuole tornare a casa: “Questa è la tua casa adesso”). Una utopia destinata a crollare una volta che tutti i limiti (gelosie, tradimenti amorosi, rivalità etc) delle persone vengono a galla, e per questo il film è anche un bellissimo resoconto del viaggio che porta dall’innocenza dell’adolescenza allo scontro con la realtà del diventare adulti (emblematica la frase che Penny che rivolge al protagonista: “Sei troppo buono per il rock’n’roll”).
Come caratteristica di quasi tutti i film di Cameron Crowe, un regista del "positivo", c'è un lieto fine, in cui viene sottolineato che nonostante tutto è possibile preservare la cosa più importante, e cioè l’amicizia (tra il chitarrista Russell e il giovane protagonista, che alla fine si riconciliano).
I PERSONAGGI
La bravissima Frances McDormand impersona una delle più efficaci madri mai vistesuul grande schermo. È una professoressa liberal di sinistra che vuole crescere dei figli non mediocri, ma che tende ad imporre le sue scelte di vita, una risposta parodistica allo stereotipo dell'intellettuale repressivo che non capisce il rock, visto in tanti brutti film e spot pubblicitari. La sua conversazione telefonica con il leader del gruppo è un momento formidabile di ottimo cinema.
Kate Hudson (figlia dell’attrice Goldie Hawn) è meravigliosa da ogni punto di vista, una icona di femminilità primi anni 70, apparentemente matura e misteriosa, ma in realtà fragilmente irresponsabile nel voler nascondere a se stessa la realtà, e alla fine profondamente ferita dal comportamento maschilista dei musicisti rock.
Peter Fugit, il protagonista e giornalista di 15 anni, dal sorriso allo stesso tempo astuto e imbarazzato proprio come le situazioni in cui viene a trovarsi. Il rigore della madre lo fa partire meno sprovveduto della sua età, ma il "viaggio" che questa storia lo costringe ad affrontare per la sua passione nei confronti della musica lo porterà a diventare uomo.
Bill Crudup (il chitarrista Russell) è la rock star carismatica e attraente, il suo rapporto di odio/amore con il cantante della band ricorda i classici dualismi Jagger/Richards, diviso tra il ruolo di star e quello di persona in cerca di veri affetti e vere amicizie.
Philip Seymour Hoffmann è il famoso critico rock Lester Bangs (che sin dalle prime battute afferma che il rock è ormai morto), vero “re degli sfigati”, che ha capito tutto, cinico e disilluso, ma che incarna lo spirito positivo di Crowe. Non può esimersi dal fascino che il ragazzo gli provoca, quasi con istinto paterno. Compie un coraggioso atto di disponibilità nei confronti della realtà: la positività che attrae è più forte del cinismo desunto dalle sue esperienze passate.
CURIOSITA’
Molte scene sono tratte da avvenimenti reali: la rosa sul palcoscenico prima dell’inizio di uno spettacolo degli Stillwater, riprende esattamente l’immagine di copertina di un disco live di Neil Young, Time Fades Away, uscito proprio nel 1973; la scena in cui Russell, fatto di Lsd, vuole gettarsi dal tetto della casa urlando “Io sono un dio dorato”, ricorda quanto fece Robert Plant dei Led Zeppelin in circostanze analoghe dal tetto di un albergo di Los Angeles; le scene sul pullman degli Stillwater riprendono alcune fotografie del periodo della Allman Brothers Band, che era il gruppo che il giovane Cameron Crowe fu inviato a intervistare.
In una delle scene finali, quando William sta cercando Penny Lane, guarda dentro un taxi dove è seduto un elegante signore che legge il giornale: è Jann Wenner, direttore e fondatore di Rolling Stone.
Strictly personal: la scena in cui il gorilla della security sbatte la porta in faccia al giovane Miller lasciando entrare solo le groupie nel backstage è successa anche a me, giugno 1991, Roma, davanti alla porta del camerino di Bob Dylan: “Nel camerino di Bob Dylan entrano solo le donne”. La porta mi è stata sbattuta in faccia e la groupie è entrata.
La battuta più divertente: quando il nuovo manager cerca di spiegare alla band la realtà dello showbusiness: “Credete forse che Mick Jagger a 50 anni sculetterà ancora così su un palco?”.
PS: grazie a Giorgio Natale per gli illuminanti commenti sul film.
Sunday, December 09, 2007
Tuesday, December 04, 2007
Introducing... The Felice Brothers
“La tradizione è una cosa che malgrado tutto non scompare. Le vecchie canzoni folk, la musica country, i cantautori degli anni 70 che abbiamo ascoltato sin da ragazzini, sono cose che si tramandano, si passano di generazione in generazione. Naturalmente puoi rifiutare tutto ciò. Noi abbiamo deciso di raccogliere questa tradizione e cerchiamo di portarla avanti a modo nostro. La bellezza della musica tradizionale è che è fatta di storie, e adesso è il nostro turno di raccontare delle storie” (Simone Felice, the drummer)
"Barnstorming and brilliant"
The Guardian
"The next generation of Americana heroes."
Uncut Magazine
"The Felice Brother's Catskills Folk is rough around the edges and intoxicating.....Ryan Adams: eat your heart out."
Metroland/Best Of 2007
Li trovate qui: www.myspace.com/thefelicebrothers
Saturday, December 01, 2007
Il caso Springsteen: come un paio di belle chiappe hanno salvato la mia vita
L'altra sera sono andato a vedere il concerto di Bruce Springsteen And The E Street Band. Ogni volta che viene in Italia non me lo perdo da quando lo vidi per la prima volta quel 21 giugno 1985 allo stadio di San Siro, a volte anche più di un concerto nel medesimo tour. Di quella notte, resteranno per sempre stampate nel mio cuore una Badlands così devastante nella sua epicità e una Can't Help Falling In Love With You, così commovente nella sua intimità, da avermi fatto intravedere da vicino la terra promessa, la promised land dove i sogni di rock'n'roll sembrano farsi realtà.
Negli anni ho imparato che la promised land, o è qualcosa che puoi vivere tutti i giorni e non solo nello spazio di due, tre ore che dura un concerto, o è una menzogna. Qualcosa del genere lo ha detto anche Springsteen, credo nella sua The River.
Così un concerto di Springsteen non mi impressiona oggi più di tanto. Ho amato, e tantissimo, quelli visti con la Seeger Sessions Band, credo il suo apice massimo come musicista e performer. Ero prevenuto all'idea di una reunion della E Street Band, ma Magic mi era piaciuto abbastanza. L'altra sera sono invece rimasto deluso dalla pochezza che le nuove canzoni mostrano in concerto; per di più, dopo quasi un mese di tour la E Street Band non ha ancora imparato a suonarle (la mia amatissima I'll Work For Your Love è stata imbarazzante), dimostrando una stanchezza e una svogliatezza che evidentemente a una certa età colpisce tutti.
Ma a un concerto di Sprigsteen, si sa, si va per lui, il Boss. Che se non ha esaltato nei pezzi nuovi, gli è bastato infilare una Reason to Believe strepitosa (inizio bluesy e tormentato, esplosione secca rock'n'roll e ritorno di nuovo nella terra del Delta, fra Robert Johnson e diavoletti vari) e una Incident on 57th Street da strapparti il cuore nella sua meravigliosa e suprema poesia notturna, per rendere il viaggio fino allo stramaledetto e infame Datch Forum di Assago un viaggio che ne valeva la pena.
Ma ancora una volta, quello che colpisce è il pubblico. Il pubblico italiano. Ieri mi sono prontamente scaricato il cocnerto e sono rimasto ancor più sconvolto da questo pubblico incredibile, che è come un secondo Springsteen con 12mila teste e 12mila gole che cantano a tratti anche meglio di lui - che poverino era raffreddato - e 12mila cuori che battono più forte della batteria. L'esplosione di voci durante il ritornello di The Ties That Bind è qualcosa di incredibile. Terrorizza. Ci sono americani che vengono a avedere Bruce in Italia per godersi questo spettacolo. Non vengono per Springsteen, vengono per vedere il pubblico italiano in azione. Ci sarà un motivo. Dal 1985 ad oggi dovrei essermi abituati a questo pubblico, eppure non è così.
Personalmente vado ai concerti per due motivi: "to get wasted", come dice un mio amico inglese, cioè per andare fuori di testa, o come diceva una volta Bob Dylan, "to forget about today until tomorrow", dimenticarmi per un paio d'ore della realtà. Ma anche in quei casi, succede sempre (quando il concerto è buono) quello che è l'altro motivo per cui vado a sentire musica dal vivo, o l'ascolto a casa mia: il performer mi ispira, mi comunica qualcosa, mi spaventa e mi pone delle domande. Non mi lascia tranquillo e mi suggerisce che la vita è più grande di me, va in mille direzioni ed è, alla fine, un mistero. Lui però non mi tende una mano, mi dice solo "alza il culo e fa' la tua parte, la mia l'ho fatta satsera sul palco, adesso tocca a te". Succede di raro, con la musica che gira oggigiorno, ma tantè. Qualche sera fa ho visto il formidabile Marc Ford in concerto, ex chitarrista di Black Crowes e Ben Haprer. C'erano una quarantina di sparuti spettatori, ma lui ha suonato come se fosse stata l'ultima volta della sua vita, incurante di chi ci fosse davanti a lui, gli occhi chiusi e una potenza musicale da far paura. Se n'è andato come era venuto, nella notte, senza dire una parola. E anche noi, ma toccati da qualcosa di grande.
Springsteen sfugge a queste due categorie e appunto per questo non capisco il suo pubblico. Springsteen è evidentemente il padre, il fratello, il marito, la moglie, il figlio che non hanno mai avuto. Il Dio che qualcuno ha ucciso? Celebrano un rito (Jeff Tweedy una volta mi disse che un concerto rock, per lui che non va in chiesa, è quanto di più simile all'esperienza di chi in chiesa ci va, è una liturgia che forgia una comunità, una sorta di fede laica che unisce le persone - destinata a finire quando tutti sono usciti dal locale e si sono dispersi per le loro strade private, aggiungo però io), si uniscono sudati tra di loro come a cercare il "riparo dalla tempesta" che c'è lì fuori, forgiano per due, tre ore un popolo che balla, si affidano a Sringsteen perché li consoli, dia loro la forza di andare avanti, insieme a lui irrigidiscono i muscoli perché, come ho letto su Internet, abbiamo la forza di andare avanti fino al prossimo suo concerto. Credo che Springsteen comunichi una positività e un senso dela speranza che probabilmente non hanno uguali nel panorama odierno della musica rock e pochi paragoni ha avuto in passato. Non solo le sue canzoni, ma il suo porsi sul palco. L'altra sera a un certo punto ha fatto un piccolo siparietto di carattere politico, che quasi nessuno degli spettatori si è filato ignorandolo bellamente, perché erano tutti lì per cantare e ballare, non per sentire un comizio. Be', lui si è messo a ridere mentre leggeva quelle frasi, come dire: "Scusate, il mio senso civico mi costringe a dire queste cose, ma me ne frega poco anche a me. Ricominciamo a ballare".
Stamattina ascoltavo una compilation di gruppi doo wop anni 50, e in quelle meravigliose canzoni c'è un tale senso di innocenza, un tale sentimento di speranza e di bellezza della vita, che mi sono venute in mente certe canzoni di Springsteen. Non tutte, non quelle del disco nuovo (a parte la mia amata I'll Work for your Love), ma certamente quelle che tutti aspettano a un concerto di Bruce, come l'altra sera Thunder Road o Born to Run.
Eppure, non capisco perché solo il pubblico italiano è sensibile a questi aspetti, abbia bisogno di questo uomo come nessun altro pubblico al mondo ha bisogno. Forse non ci hano ancora riempito la testa di spazzatura mediatica e di certo marketing di alto bordo come in altri Paesi, e siamo ancora sensibili a un desiderio di pienezza e di felicità che altrove non troviamo. E' un caso irrisolto, quello di Springsteen.
Oppure, come mi ha detto l'altra sera una mia amica, è solo perché "a quasi sessant'anni, Bruce ha il miglior paio di chiappe al mondo". La copertina di Born in The Usa, evidentemente, è stata un ottimo investimento promozionale a lungo termine.
Negli anni ho imparato che la promised land, o è qualcosa che puoi vivere tutti i giorni e non solo nello spazio di due, tre ore che dura un concerto, o è una menzogna. Qualcosa del genere lo ha detto anche Springsteen, credo nella sua The River.
Così un concerto di Springsteen non mi impressiona oggi più di tanto. Ho amato, e tantissimo, quelli visti con la Seeger Sessions Band, credo il suo apice massimo come musicista e performer. Ero prevenuto all'idea di una reunion della E Street Band, ma Magic mi era piaciuto abbastanza. L'altra sera sono invece rimasto deluso dalla pochezza che le nuove canzoni mostrano in concerto; per di più, dopo quasi un mese di tour la E Street Band non ha ancora imparato a suonarle (la mia amatissima I'll Work For Your Love è stata imbarazzante), dimostrando una stanchezza e una svogliatezza che evidentemente a una certa età colpisce tutti.
Ma a un concerto di Sprigsteen, si sa, si va per lui, il Boss. Che se non ha esaltato nei pezzi nuovi, gli è bastato infilare una Reason to Believe strepitosa (inizio bluesy e tormentato, esplosione secca rock'n'roll e ritorno di nuovo nella terra del Delta, fra Robert Johnson e diavoletti vari) e una Incident on 57th Street da strapparti il cuore nella sua meravigliosa e suprema poesia notturna, per rendere il viaggio fino allo stramaledetto e infame Datch Forum di Assago un viaggio che ne valeva la pena.
Ma ancora una volta, quello che colpisce è il pubblico. Il pubblico italiano. Ieri mi sono prontamente scaricato il cocnerto e sono rimasto ancor più sconvolto da questo pubblico incredibile, che è come un secondo Springsteen con 12mila teste e 12mila gole che cantano a tratti anche meglio di lui - che poverino era raffreddato - e 12mila cuori che battono più forte della batteria. L'esplosione di voci durante il ritornello di The Ties That Bind è qualcosa di incredibile. Terrorizza. Ci sono americani che vengono a avedere Bruce in Italia per godersi questo spettacolo. Non vengono per Springsteen, vengono per vedere il pubblico italiano in azione. Ci sarà un motivo. Dal 1985 ad oggi dovrei essermi abituati a questo pubblico, eppure non è così.
Personalmente vado ai concerti per due motivi: "to get wasted", come dice un mio amico inglese, cioè per andare fuori di testa, o come diceva una volta Bob Dylan, "to forget about today until tomorrow", dimenticarmi per un paio d'ore della realtà. Ma anche in quei casi, succede sempre (quando il concerto è buono) quello che è l'altro motivo per cui vado a sentire musica dal vivo, o l'ascolto a casa mia: il performer mi ispira, mi comunica qualcosa, mi spaventa e mi pone delle domande. Non mi lascia tranquillo e mi suggerisce che la vita è più grande di me, va in mille direzioni ed è, alla fine, un mistero. Lui però non mi tende una mano, mi dice solo "alza il culo e fa' la tua parte, la mia l'ho fatta satsera sul palco, adesso tocca a te". Succede di raro, con la musica che gira oggigiorno, ma tantè. Qualche sera fa ho visto il formidabile Marc Ford in concerto, ex chitarrista di Black Crowes e Ben Haprer. C'erano una quarantina di sparuti spettatori, ma lui ha suonato come se fosse stata l'ultima volta della sua vita, incurante di chi ci fosse davanti a lui, gli occhi chiusi e una potenza musicale da far paura. Se n'è andato come era venuto, nella notte, senza dire una parola. E anche noi, ma toccati da qualcosa di grande.
Springsteen sfugge a queste due categorie e appunto per questo non capisco il suo pubblico. Springsteen è evidentemente il padre, il fratello, il marito, la moglie, il figlio che non hanno mai avuto. Il Dio che qualcuno ha ucciso? Celebrano un rito (Jeff Tweedy una volta mi disse che un concerto rock, per lui che non va in chiesa, è quanto di più simile all'esperienza di chi in chiesa ci va, è una liturgia che forgia una comunità, una sorta di fede laica che unisce le persone - destinata a finire quando tutti sono usciti dal locale e si sono dispersi per le loro strade private, aggiungo però io), si uniscono sudati tra di loro come a cercare il "riparo dalla tempesta" che c'è lì fuori, forgiano per due, tre ore un popolo che balla, si affidano a Sringsteen perché li consoli, dia loro la forza di andare avanti, insieme a lui irrigidiscono i muscoli perché, come ho letto su Internet, abbiamo la forza di andare avanti fino al prossimo suo concerto. Credo che Springsteen comunichi una positività e un senso dela speranza che probabilmente non hanno uguali nel panorama odierno della musica rock e pochi paragoni ha avuto in passato. Non solo le sue canzoni, ma il suo porsi sul palco. L'altra sera a un certo punto ha fatto un piccolo siparietto di carattere politico, che quasi nessuno degli spettatori si è filato ignorandolo bellamente, perché erano tutti lì per cantare e ballare, non per sentire un comizio. Be', lui si è messo a ridere mentre leggeva quelle frasi, come dire: "Scusate, il mio senso civico mi costringe a dire queste cose, ma me ne frega poco anche a me. Ricominciamo a ballare".
Stamattina ascoltavo una compilation di gruppi doo wop anni 50, e in quelle meravigliose canzoni c'è un tale senso di innocenza, un tale sentimento di speranza e di bellezza della vita, che mi sono venute in mente certe canzoni di Springsteen. Non tutte, non quelle del disco nuovo (a parte la mia amata I'll Work for your Love), ma certamente quelle che tutti aspettano a un concerto di Bruce, come l'altra sera Thunder Road o Born to Run.
Eppure, non capisco perché solo il pubblico italiano è sensibile a questi aspetti, abbia bisogno di questo uomo come nessun altro pubblico al mondo ha bisogno. Forse non ci hano ancora riempito la testa di spazzatura mediatica e di certo marketing di alto bordo come in altri Paesi, e siamo ancora sensibili a un desiderio di pienezza e di felicità che altrove non troviamo. E' un caso irrisolto, quello di Springsteen.
Oppure, come mi ha detto l'altra sera una mia amica, è solo perché "a quasi sessant'anni, Bruce ha il miglior paio di chiappe al mondo". La copertina di Born in The Usa, evidentemente, è stata un ottimo investimento promozionale a lungo termine.
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