Il luogo è la discoteca più “in” di Milano. Anzi no: la discoteca per antonomasia. Qui ci viene nei weekend direttamente da Los Angeles Robert De Niro, a “cuccare” senza paura di finire nelle colonne di gossip americane. Qui ci vengono, dopo i loro concerti milanesi, star come Prince. Qui ci bazzicano i calciatori delle squadre rossonereazzure (a proposito: Mourinho, ma vaffanculo, ci hai fatti giocare per 60 minuti in nove) e le top model si sprecano.
Non ci mettevo piede da quasi vent’anni e devo dire che è rimasta un cesso come lo era vent’anni fa. Almeno i muri potevano rifarli. A proposito di cesso: vado, in quello dei maschietti, e dentro vedo una ragazza. Che cazzo. Esco e controllo sulla porta il simbolo: è quello degli ometti. Rientro è lei è sempre lì. Mi accorgo finalmente che davanti alla fila dei lavabo c’è uno vetro enorme e lei, la ragazza, è nel bagno delle donne – separato dal nostro appunto da un vetro. Bella mossa: il gabinetto è a dieci centimetri e immagino quanti storditi di alcol (e quant’altro) escano dal bagno con la patta dei pantaloni aperta mettendosi a posto il coso e si trovino davanti una fila di girls che si lavano le mani. Ah, la trasgressione…
Vabbé sono qui per ché deve arrivare Noel Gallagher a presentare il nuovo disco degli Oasis e non me lo voglio perdere. Sì gli Oasis mi piacciono un casino, hanno scritto un sacco di ottime canzoni e da quando hanno preso Zak Starkey (figlio di Ringo) alla batteria, dal vivo sono fantastici. E poi mi piace il loro modo di fare da eterni cazzoni. Entro e naturalmente mi dicono che ci sarà al suo posto Liam. Meglio, penso, il cantante è troppo figo, se ci va di culo poi qualcuno dei giornalisti gli fa una domanda idiota e si finisce in rissa.
Per dire il livello della stampa italiana: qualche anno fa Noel Gallagher si presenta a Radio RTL. Il dj di turno sciorina il suo repertorio da bravo dj e finalmente lo presenta: “Signore signori, in esclusiva qui a RTL… LIAM GALLAGHER!”. Il buon Noel con lo sguardo allibito giustamente sciorinò un rosario di "fuck off” (la scena si vede nel bel dvd Lord Don't Slow Me Down).
L’ambientazione oggi è delle migliori, d’altri tempi - c'è ache un ricco buffet, azz non lo vedevo da anni -, in questo periodo di vacche magre dove un musicista anglo-americano lo raggiungi al massimo al telefono perché le case discografiche hanno finito i soldi per pagare loro il biglietto aereo. Saremo una trentina di “journos” e una decina di fotografi che appena Liam entra fanno il classico muro da paparazzi e scattano da impazzire.
Il Gallagher cantante è estremamente cool, dal modo rilassato e amichevole che ha di rispondere si capisce che ha smesso di sniffare cocaina. Non si incazza neanche quando il solito buontempone gli chiede “Se non ci fossero stati Beatles, ci sarebbero stati gli Oasis?” (“risposta: “Ci hanno influenzato di più i Sex Pistols”).
Ma non ha perso il suo sense of humor: “Il panorama musicale inglese non mi entusiasma. Non vedo grandissimi nuovi nomi. I Coldplay? Sembrano Sting. Rimane gente come Paul Weller e Primal Scream ai quali va il mio incondizionato appoggio. Se c’è un nome da segnalare tra i nuovi direi i Kasabian”.
E poi: “C’è una bella differenza tra musica rock e rock’n’roll e noi siamo completamente rock’n’roll. Come vedete indossiamo giacche di pelle e occhiali da sole e tutto il resto”.
Faccio anche io la mia brava domanda prima che dilaghino minchiate sul calcio (“Il Manchester City conquisterà il mondo, vedrete. Altrimenti faremo in modo di comprarcelo”) anzi due, poi la press conference finisce. I colleghi si fiondano a farsi firmare autografi (la scusa è sempre quella: è per la fidanzata, no è per la mamma, è per mia sorella..). Io aspetto che ci sia un po’ di respiro, lo avvicino e gli do un bel cinque a cui lui non si sottrae: “Hey man, you are the coolest guy in the world” (sì lo penso davvero, magari non il più coolest ma il secondo o terzo). Lui mi guarda, mi punta il dito sul petto e dice: “No, you are”.
È la working class filosofia che conoscevo, ma non mi aspettavo: non è quella sul palco la rock star, sei tu.
God bless you Liam.
Monday, September 29, 2008
Wednesday, September 24, 2008
Nel Mississippi. Un giorno di troppo
Only one thing I did wrong
Stayed in Mississippi a day too long
“È la canzone più triste, ma anche la più coraggiosa, che abbia mai sentito”. Così mi scriveva qualche giorno fa un amico inglese, raccontandomi di aver ascoltato, saputa la notizia della grave malattia di un suo conoscente, a lungo la nuova versione di Mississippi (incisa originariamente durante le session del disco Time Out Of Mind, nei primi mesi del 1997)che uscirà sul BS 8 il prossimo 3 ottobre.
Quello di “canzone coraggiosa” è un sentimento che Mississippi, già nella splendida versione che apparve su Love & Theft, aveva sempre ispirato anche a me. Non so bene perché. C’è un senso di stoicità, quello di un uomo che guarda facendosi forza in faccia le avversità che lo colpiscono, che ho sempre percepito uscire da quel brano, forse per il modo veemente con cui Dylan la esegue appunto nella versione di L&T. È un urlo strozzato in gola quello che si sente durante momenti come “Got nothing for you, I had nothing before, don’t even have anything for myseeeeelf anymore” oppure “Last night I knew you, tonight I doooon’t!”.
L’immagine che affiora alla mente è quella di un uomo abbandonato da tutti, pure da Dio, e che non ha più nulla da offrire. Un uomo sulle cui tracce potrebbe esserci un demonio, per citare Robert Johnson.
E non dimentichiamoci un verso che Nostradamus avrebbe pagato per scrivere lui, in una canzone messa nei negozi l’11 settembre 2001: “Sky full of fire, pain pourin’ down”. Come non pensare alle Torri Gemelle in fiamme e a quei corpi disgraziati che da esse volavano giù, carichi di straziante dolore?
La versione che si ascolta grazie a questa outtake cambia – apparentemente – le carte in tavola. Non c’è più la banda di fieri accompagnatori che tracimano note furiose cercando di incalzare il cantante: l’immagine che Greil Marcus diede dei musicisti di The Band intenti a eseguire il brano Baby Please Don’t Do It è quanto mai calzante anche questa volta: ascolti Charlie Sexton, Larry Campbell e soci e ti sembra di vedere un gruppo di soldati ribelli malconci che vanno coraggiosamente verso il nemico, consapevoli che hanno a disposizione una sola opzione: la morte sicura.
Ci sono solo Dylan e Daniel Lanois seduti uno di fronte all’altro, questa volta. Il primo imbraccia una chitarra acustica, il secondo una elettrica. Si sente distintamente il piede di Dylan battere sul pavimento per tenere il tempo. Stanno suonando un tempo di blues, deciso e inquietante. L’immagine, adesso, è quella di Robert Johnson seduto che guarda il muro mentre incide le sue canzoni. I soldati sono andati via, o devono ancora arrivare. La guerra non è ancora scoppiata.
Se il tempo è quello di un blues (e ben si adatta a un demonio che si fa pressante, sulle tracce del protagonista), la melodia che il cantante esegue è la medesima della versione che inciderà quattro anni dopo, anche le parole sono le stesse. Dagli evidenti errori nelle parti di chitarra si desume che questa registrazione è una prova, delle tante che si fanno in studio, per immaginare poi come suonarla con la band. Da come la canta Dylan, magnificamente, senza esitazione alcuna, è invece evidente che per il cantante il pezzo è già definitivo: a differenza della sua incurabile mania di riscrivere le sue canzoni registrazione dopo registrazione, Dylan non toccherà la melodia, il tempo, neanche un verso, nei successivi quattro anni. Lui sa che va bene così.
E di cosa canta, in queste session del 1997, Bob Dylan, in quello che è definitivamente uno dei suoi capolavori assoluti di tutti i tempi, uno di quei “masterpiece” che sembrava avesse dipinto solo negli anni 60 e in qualche sparuta occasione nei 70? Ascoltatelo come modella le parole durante i versi conclusivi, “nothing you can sell me, I’ll see you arOOound”, con l’intonazione da consumato esecutore di Appalachian ballads, la stessa passionalità che aveva messo qualche anno prima nelle incisioni dei due dischi di vecchi traditional Good as I been to you e World gone Wrog. Solo che questa volta la canzone è sua, ma non fa differenza. “Se non hai quel tipo di fondamenta, se non sei ancorato nella tradizione, non andrai da nessuna parte” aveva detto una volta. Ed è così. Questa Mississippi è antica come i canti della Carter Family, ancora di più. Questa Mississippi è di una tristezza infinita, ma anche di una commozione insostenibile. Per chi sta cantando Bob Dylan?
Lui ha detto che il pezzo ha a che fare con la Carta costituzionale degli Stati Uniti, con la dichiarazione di indipendenza e con i diritti civili (nel Mississippi, negli anni 60, si svolsero le più accese battaglie per i diritti dei neri, vedi anche il bel film Mississippi Burning); Lanois probabilmente la sentiva una dichiarazione a una donna, visto che gli chiese di inciderne una versione “più sexy”, al che Dylan lo mandò a cagare decidendo di tenere fuori questo capolavoro dal disco finito. Su Internet una volta ho letto che il protagonista del brano potrebbe essere uno schiavo di metà dell’800 che sta scappando verso la libertà, il nord, e in effetti se letto da questo punto di vista, il testo di Mississppi sembra adattarsi quasi a perfezione, inclusa l’immagine dei compagni che erano salpati sul mare insieme al protagonista, che potrebbero essere schiavi strappati via dall’Africa. E il nero che si racconta, che sogna Rosie, che vorrebbe essere nel letto di Rosie, magari è uno schiavo che ha avuto l’ardire di flirtare con un donna bianca e, condannato a morte e liberato magari da lei stessa, sta cercando di scappare al “diavolo che è nel cortile”. Immagini calzanti, se ci pensate bene. La desolazione che emerge da questa versione del 1997 può essere solo la voce di un condannato a morte.
Ma poi chi può dirlo veramente?
“Ciascuno dei dischi che ho fatto è emanato dal panorama complessivo di ciò che rappresenta l’America per me” ha detto Dylan in una intervista relativa proprio al disco L&T. “L’America per me è una marea montante che solleva tutte le navi, e non ho mai davvero cercato ispirazione in altri tipi di musica”. Mississippi è la conferma che Bob Dylan è stato la più grande voce del suo Paese, almeno dai tempi di Walt Whitman, e ancora non si vede un erede adeguato. In migliaia ci hanno provato, ma nessuno ha raggiunto le vette su cui Dylan si è seduto per scrivere un brano come questo.
Non resta che mettere questa versione del brano in repeat e ascoltarla fino allo sfinimento. Prima o poi, magari, ci svelerà il suo segreto.
Stayed in Mississippi a day too long
“È la canzone più triste, ma anche la più coraggiosa, che abbia mai sentito”. Così mi scriveva qualche giorno fa un amico inglese, raccontandomi di aver ascoltato, saputa la notizia della grave malattia di un suo conoscente, a lungo la nuova versione di Mississippi (incisa originariamente durante le session del disco Time Out Of Mind, nei primi mesi del 1997)che uscirà sul BS 8 il prossimo 3 ottobre.
Quello di “canzone coraggiosa” è un sentimento che Mississippi, già nella splendida versione che apparve su Love & Theft, aveva sempre ispirato anche a me. Non so bene perché. C’è un senso di stoicità, quello di un uomo che guarda facendosi forza in faccia le avversità che lo colpiscono, che ho sempre percepito uscire da quel brano, forse per il modo veemente con cui Dylan la esegue appunto nella versione di L&T. È un urlo strozzato in gola quello che si sente durante momenti come “Got nothing for you, I had nothing before, don’t even have anything for myseeeeelf anymore” oppure “Last night I knew you, tonight I doooon’t!”.
L’immagine che affiora alla mente è quella di un uomo abbandonato da tutti, pure da Dio, e che non ha più nulla da offrire. Un uomo sulle cui tracce potrebbe esserci un demonio, per citare Robert Johnson.
E non dimentichiamoci un verso che Nostradamus avrebbe pagato per scrivere lui, in una canzone messa nei negozi l’11 settembre 2001: “Sky full of fire, pain pourin’ down”. Come non pensare alle Torri Gemelle in fiamme e a quei corpi disgraziati che da esse volavano giù, carichi di straziante dolore?
La versione che si ascolta grazie a questa outtake cambia – apparentemente – le carte in tavola. Non c’è più la banda di fieri accompagnatori che tracimano note furiose cercando di incalzare il cantante: l’immagine che Greil Marcus diede dei musicisti di The Band intenti a eseguire il brano Baby Please Don’t Do It è quanto mai calzante anche questa volta: ascolti Charlie Sexton, Larry Campbell e soci e ti sembra di vedere un gruppo di soldati ribelli malconci che vanno coraggiosamente verso il nemico, consapevoli che hanno a disposizione una sola opzione: la morte sicura.
Ci sono solo Dylan e Daniel Lanois seduti uno di fronte all’altro, questa volta. Il primo imbraccia una chitarra acustica, il secondo una elettrica. Si sente distintamente il piede di Dylan battere sul pavimento per tenere il tempo. Stanno suonando un tempo di blues, deciso e inquietante. L’immagine, adesso, è quella di Robert Johnson seduto che guarda il muro mentre incide le sue canzoni. I soldati sono andati via, o devono ancora arrivare. La guerra non è ancora scoppiata.
Se il tempo è quello di un blues (e ben si adatta a un demonio che si fa pressante, sulle tracce del protagonista), la melodia che il cantante esegue è la medesima della versione che inciderà quattro anni dopo, anche le parole sono le stesse. Dagli evidenti errori nelle parti di chitarra si desume che questa registrazione è una prova, delle tante che si fanno in studio, per immaginare poi come suonarla con la band. Da come la canta Dylan, magnificamente, senza esitazione alcuna, è invece evidente che per il cantante il pezzo è già definitivo: a differenza della sua incurabile mania di riscrivere le sue canzoni registrazione dopo registrazione, Dylan non toccherà la melodia, il tempo, neanche un verso, nei successivi quattro anni. Lui sa che va bene così.
E di cosa canta, in queste session del 1997, Bob Dylan, in quello che è definitivamente uno dei suoi capolavori assoluti di tutti i tempi, uno di quei “masterpiece” che sembrava avesse dipinto solo negli anni 60 e in qualche sparuta occasione nei 70? Ascoltatelo come modella le parole durante i versi conclusivi, “nothing you can sell me, I’ll see you arOOound”, con l’intonazione da consumato esecutore di Appalachian ballads, la stessa passionalità che aveva messo qualche anno prima nelle incisioni dei due dischi di vecchi traditional Good as I been to you e World gone Wrog. Solo che questa volta la canzone è sua, ma non fa differenza. “Se non hai quel tipo di fondamenta, se non sei ancorato nella tradizione, non andrai da nessuna parte” aveva detto una volta. Ed è così. Questa Mississippi è antica come i canti della Carter Family, ancora di più. Questa Mississippi è di una tristezza infinita, ma anche di una commozione insostenibile. Per chi sta cantando Bob Dylan?
Lui ha detto che il pezzo ha a che fare con la Carta costituzionale degli Stati Uniti, con la dichiarazione di indipendenza e con i diritti civili (nel Mississippi, negli anni 60, si svolsero le più accese battaglie per i diritti dei neri, vedi anche il bel film Mississippi Burning); Lanois probabilmente la sentiva una dichiarazione a una donna, visto che gli chiese di inciderne una versione “più sexy”, al che Dylan lo mandò a cagare decidendo di tenere fuori questo capolavoro dal disco finito. Su Internet una volta ho letto che il protagonista del brano potrebbe essere uno schiavo di metà dell’800 che sta scappando verso la libertà, il nord, e in effetti se letto da questo punto di vista, il testo di Mississppi sembra adattarsi quasi a perfezione, inclusa l’immagine dei compagni che erano salpati sul mare insieme al protagonista, che potrebbero essere schiavi strappati via dall’Africa. E il nero che si racconta, che sogna Rosie, che vorrebbe essere nel letto di Rosie, magari è uno schiavo che ha avuto l’ardire di flirtare con un donna bianca e, condannato a morte e liberato magari da lei stessa, sta cercando di scappare al “diavolo che è nel cortile”. Immagini calzanti, se ci pensate bene. La desolazione che emerge da questa versione del 1997 può essere solo la voce di un condannato a morte.
Ma poi chi può dirlo veramente?
“Ciascuno dei dischi che ho fatto è emanato dal panorama complessivo di ciò che rappresenta l’America per me” ha detto Dylan in una intervista relativa proprio al disco L&T. “L’America per me è una marea montante che solleva tutte le navi, e non ho mai davvero cercato ispirazione in altri tipi di musica”. Mississippi è la conferma che Bob Dylan è stato la più grande voce del suo Paese, almeno dai tempi di Walt Whitman, e ancora non si vede un erede adeguato. In migliaia ci hanno provato, ma nessuno ha raggiunto le vette su cui Dylan si è seduto per scrivere un brano come questo.
Non resta che mettere questa versione del brano in repeat e ascoltarla fino allo sfinimento. Prima o poi, magari, ci svelerà il suo segreto.
Thursday, September 18, 2008
The price you pay
Che il mondo della discografia fosse ormai in piena crisi schizofrenica è cosa assodata da tempo. Che fosse gestito da mercanti affamati di soldi invece che come un tempo da amanti della musica (basti pensare a fondatori di oggi colossi multinazionali del disco come Ahmet Ertegun, che scoprì e lanciò centinaia di talenti, diciamo soltanto Buffalo Springfield, CSN&Y e Led Zeppelin; oppure Clive Davis, che permise a Patti Smith di esordire) lo si sapeva anche. E che abbiano trascinato il mondo della musica in una crisi profonda pure, con le loro politiche dei prezzi (ci avevano detto vent'anni fa che una volta ammortizzati i costi - ma quali? - di lancio dei cd, questi sarebbero diminuiti, invece costano ancora una cifra assolutamente inadeguata rispetto al prodotto). Poi si lamentano che la gente scarichi la musica senza pagare.
Con il nuovo Bootleg Series di Bob Dylan che esce in Italia ai primi di ottobre si è adesso arrivati a un precedente che se non ci fosse da ridere, ci sarebbe da piangere.
Allora: vengono pubblicate due edizioni, una in doppio cd a un prezzo abbordabile (una quindicina di dollari) e poi un triplo cd. Questo sarebbe la versione "deluxe" perché contiene un libro con le copertine dei 45 giri di Dylan,un altro libro fotografico (tutta da verificare la qualità e la bontà di questi libri, lo potremo fare solo dopo averli comprati). Bene, questa versione si aggira sui 160 dollari (vedi amazon.com). Ma per favore. È un prodotto musicale, vuol dire che siamo interessati alla musica: ci date due cd a 15 dollari e un terzo cd a 160 dollari?? Lo giustificate perché ci mettete insieme due libretti? Ma chi ve li ha chiesti?? Noi vogliamo la musica, i libri li andiamo a prendere in libreria (semmai).
Non si può obbligare una persona a comprare quello che voi decidete di aggiungere solo perché interessata in questo caso alla musica. Come se per comprare un pacco di pasta fossi obbligato a prendere (a cifre altissime) anche due litri di olio e 4 scatole di tonno. Pazzesco. Ovvio che il terzo cd troveremo il modo di scaricarlo da Internet, di duplicarlo fra amici. Insomma i vostri libretti deluxe teneteveli. Pensano di aver scoperto l'acqua calda infilando un paio di libretti in un cofanetto di cd? Sono anni che tutti i cofanetti hanno dentro dei bellissimi booklet, ma non ti fanno pagare la differenza. Sono considerati un omaggio.
Questa volta la Sony ha messo in pratica il classico "test" di marketing: già mi immagino il brainstorming di questi geni. "Raga, i dischi non si vendono più, dobbiamo trovare nuovi sistemi". "Capo, l'unica è colpire il mercato dei fans, dei collezionisti, sa quelli che comprano di tutto a qualunque prezzo". "Giusto, inventiamoci l'edizione con un cd in più per attirare gli stupidi e infiliamoci dentro due libretti e vendiamoli a peso d'oro.Tanto quelli li comprano".
È triste che l'artista in questione, Bob Dylan, uno che dovrebbe avere un certo rispetto per i suoi fan e che ha sempre difeso l'arte, si disinteressi totalmente delle manovre di marketing della sua casa discografica. Proprio recentemente Robert Smith dei Cure ha invitato i suoi fan a non comprare l'ep della SUA band, cioè un suo prodotto (!) perché la casa discografica l'ha messo in vendita su iTunes a un prezzo secondo lui elevato, definendolo truffa nei confronti dei suoi fans.
Ehi, Bob una volta cantavi "uomini d'affari si bevono il mio sangue". Ring a bell? Ring them bells?
Bello però il video della tua nuova canzone...
Con il nuovo Bootleg Series di Bob Dylan che esce in Italia ai primi di ottobre si è adesso arrivati a un precedente che se non ci fosse da ridere, ci sarebbe da piangere.
Allora: vengono pubblicate due edizioni, una in doppio cd a un prezzo abbordabile (una quindicina di dollari) e poi un triplo cd. Questo sarebbe la versione "deluxe" perché contiene un libro con le copertine dei 45 giri di Dylan,un altro libro fotografico (tutta da verificare la qualità e la bontà di questi libri, lo potremo fare solo dopo averli comprati). Bene, questa versione si aggira sui 160 dollari (vedi amazon.com). Ma per favore. È un prodotto musicale, vuol dire che siamo interessati alla musica: ci date due cd a 15 dollari e un terzo cd a 160 dollari?? Lo giustificate perché ci mettete insieme due libretti? Ma chi ve li ha chiesti?? Noi vogliamo la musica, i libri li andiamo a prendere in libreria (semmai).
Non si può obbligare una persona a comprare quello che voi decidete di aggiungere solo perché interessata in questo caso alla musica. Come se per comprare un pacco di pasta fossi obbligato a prendere (a cifre altissime) anche due litri di olio e 4 scatole di tonno. Pazzesco. Ovvio che il terzo cd troveremo il modo di scaricarlo da Internet, di duplicarlo fra amici. Insomma i vostri libretti deluxe teneteveli. Pensano di aver scoperto l'acqua calda infilando un paio di libretti in un cofanetto di cd? Sono anni che tutti i cofanetti hanno dentro dei bellissimi booklet, ma non ti fanno pagare la differenza. Sono considerati un omaggio.
Questa volta la Sony ha messo in pratica il classico "test" di marketing: già mi immagino il brainstorming di questi geni. "Raga, i dischi non si vendono più, dobbiamo trovare nuovi sistemi". "Capo, l'unica è colpire il mercato dei fans, dei collezionisti, sa quelli che comprano di tutto a qualunque prezzo". "Giusto, inventiamoci l'edizione con un cd in più per attirare gli stupidi e infiliamoci dentro due libretti e vendiamoli a peso d'oro.Tanto quelli li comprano".
È triste che l'artista in questione, Bob Dylan, uno che dovrebbe avere un certo rispetto per i suoi fan e che ha sempre difeso l'arte, si disinteressi totalmente delle manovre di marketing della sua casa discografica. Proprio recentemente Robert Smith dei Cure ha invitato i suoi fan a non comprare l'ep della SUA band, cioè un suo prodotto (!) perché la casa discografica l'ha messo in vendita su iTunes a un prezzo secondo lui elevato, definendolo truffa nei confronti dei suoi fans.
Ehi, Bob una volta cantavi "uomini d'affari si bevono il mio sangue". Ring a bell? Ring them bells?
Bello però il video della tua nuova canzone...
Wednesday, September 17, 2008
Ciao Stè
"E domani sereno
volerò in braccio a Dio
tra i papaveri e il treno
perché là è il posto mio"
(Stefano Rosso, 1948-2008)
Ogni giorno ci lascia qualcuno. È un periodo un po' così, ma in fondo è la vita che è fatta così. Stefano Rosso non era uno di quei cantautori - del tipo Guccini, De Gregori e tanti altri - che hanno lasciato chissà quale segno incancellabile nella storia della musica italiana. Ma a noi "ragazzi del '77" piaceva perché era semplice, romantico e divertente. E a differenza di tanti cantautori storici, lui la chitarra la sapeva suonare davvero, ottimo esecutore di fingerpicking americano.
La frase memorabile rimane quella, «Che bello, due amici, una chitarra e uno spinello...» all'interno dell'arcinota Una storia disonesta, ma a me piaceva ancor di più Letto 26, delizosa folk song di casa nostra. E in Bologna 77 aveva raccontato quella che allora era la nostra realtà.
Oggi che leggo della sua morte, avrebbe compiuto 60 anni a dicembre, scopro che aveva abbandonato la musica per via di una delusione amorosa, e come uno di quei personaggi romantici dell'800 si era arruolato nella Legione Straniera. Incredibile.
Ciao Stè, sei stato un amico discreto e sincero. Chissà se in Paradiso ti faranno cantare la tua storia disonesta...
volerò in braccio a Dio
tra i papaveri e il treno
perché là è il posto mio"
(Stefano Rosso, 1948-2008)
Ogni giorno ci lascia qualcuno. È un periodo un po' così, ma in fondo è la vita che è fatta così. Stefano Rosso non era uno di quei cantautori - del tipo Guccini, De Gregori e tanti altri - che hanno lasciato chissà quale segno incancellabile nella storia della musica italiana. Ma a noi "ragazzi del '77" piaceva perché era semplice, romantico e divertente. E a differenza di tanti cantautori storici, lui la chitarra la sapeva suonare davvero, ottimo esecutore di fingerpicking americano.
La frase memorabile rimane quella, «Che bello, due amici, una chitarra e uno spinello...» all'interno dell'arcinota Una storia disonesta, ma a me piaceva ancor di più Letto 26, delizosa folk song di casa nostra. E in Bologna 77 aveva raccontato quella che allora era la nostra realtà.
Oggi che leggo della sua morte, avrebbe compiuto 60 anni a dicembre, scopro che aveva abbandonato la musica per via di una delusione amorosa, e come uno di quei personaggi romantici dell'800 si era arruolato nella Legione Straniera. Incredibile.
Ciao Stè, sei stato un amico discreto e sincero. Chissà se in Paradiso ti faranno cantare la tua storia disonesta...
Tuesday, September 16, 2008
Another piper at the gates of dawn, gone
Let's drink to absent friends
How they cared and all they shared
We took our life to the edge
They still try to understand
Time is running out, you're going down
Come on, let's go wherever they may be
Make a choice
Stay behind or follow me
(Richard Wright, 1943-2008)
Non sono mai stato un fan dei Pink Floyd. Negli anni ho imparato ad apprezzare alcune delle loro musiche, in particolare due dischi, The dark side of the moon e Wish you were here.
Ma per essere un gruppo che non mi ha mai fatto impazzire, credo di aver letto più libri sulla loro vicenda artistica e umana più di qualunque altro musicista rock, con l'eccezione naturalmente di Bob Dylan.
Troppo inquietante la storia di Syd Barrett, impazzito perché aveva osato varcare le porte della percezione, troppo affascinante la loro sfida a quell'oltre che circonda l'esistenza. La pazzia, il lato oscuro della luna, la macchina tecnologica che stritola il cuore, il muro che soffoca l'anelito di libertà dell'essere umano.
Hanno messo in musica una sfida impossibile per l'uomo, e co profonda angoscia, ma con grande dignità hanno cantato la loro sconfitta, perché sondare certe parti dell'animo umano e del cosmo richiede un prezzo da pagare. Come Icaro che si bruciò le ali.
Mi sono sempre piaciuti come uomini perché hanno rifiutato ogni cliché di rock star: schivi, riservati, quasi anonimi. Nel 1993 mi trovavo a Londra in un piccolo teatro per un concerto di Bob Dylan. Dietro di me un signore anzianotto con i capelli bianchi. Distinto, tranquillo. A fine concerto alcuni amici mi vennero incontro: "Ma hai visto chi era seduto dietro di te?". Boh, e chi era? "Ma David Gilmour dei Pink Floyd!".
Così erano i Pink. Questa estate un amico mi ha mandato un sms da un'isola greca dove si trovava in vacanza: "Ehi qua al ristorante al tavolo vicino al mio c'è quello che suona le tastiere nei Pink Floyd!". Richard Wright, dico io, sapendo che da anni viveva su una nave facendo spola tra un'isola e l'altra (la più bella vita che si possa fare...).
Sì, era lui, e il mio amico forse è stato l'ultimo a vedere in vita Richard Wright, il tastierista dei Pink Floyd. Se n'è andato ieri, improvvisamente, per un tumore fulminante, a 65 anni. Di tutta la band, negli anni giovanili, specie nei 70, era sicuramente il più figo, con quel look da hippie impenitente. E poi l'autore di uno dei pochi pezzi dei Floyd che mi piaccia veramente, la formidabile Great Gig in the sky. Adesso è andato a fare anche lui "l'ultimo grande concerto nel cielo". Per sempre.
How they cared and all they shared
We took our life to the edge
They still try to understand
Time is running out, you're going down
Come on, let's go wherever they may be
Make a choice
Stay behind or follow me
(Richard Wright, 1943-2008)
Non sono mai stato un fan dei Pink Floyd. Negli anni ho imparato ad apprezzare alcune delle loro musiche, in particolare due dischi, The dark side of the moon e Wish you were here.
Ma per essere un gruppo che non mi ha mai fatto impazzire, credo di aver letto più libri sulla loro vicenda artistica e umana più di qualunque altro musicista rock, con l'eccezione naturalmente di Bob Dylan.
Troppo inquietante la storia di Syd Barrett, impazzito perché aveva osato varcare le porte della percezione, troppo affascinante la loro sfida a quell'oltre che circonda l'esistenza. La pazzia, il lato oscuro della luna, la macchina tecnologica che stritola il cuore, il muro che soffoca l'anelito di libertà dell'essere umano.
Hanno messo in musica una sfida impossibile per l'uomo, e co profonda angoscia, ma con grande dignità hanno cantato la loro sconfitta, perché sondare certe parti dell'animo umano e del cosmo richiede un prezzo da pagare. Come Icaro che si bruciò le ali.
Mi sono sempre piaciuti come uomini perché hanno rifiutato ogni cliché di rock star: schivi, riservati, quasi anonimi. Nel 1993 mi trovavo a Londra in un piccolo teatro per un concerto di Bob Dylan. Dietro di me un signore anzianotto con i capelli bianchi. Distinto, tranquillo. A fine concerto alcuni amici mi vennero incontro: "Ma hai visto chi era seduto dietro di te?". Boh, e chi era? "Ma David Gilmour dei Pink Floyd!".
Così erano i Pink. Questa estate un amico mi ha mandato un sms da un'isola greca dove si trovava in vacanza: "Ehi qua al ristorante al tavolo vicino al mio c'è quello che suona le tastiere nei Pink Floyd!". Richard Wright, dico io, sapendo che da anni viveva su una nave facendo spola tra un'isola e l'altra (la più bella vita che si possa fare...).
Sì, era lui, e il mio amico forse è stato l'ultimo a vedere in vita Richard Wright, il tastierista dei Pink Floyd. Se n'è andato ieri, improvvisamente, per un tumore fulminante, a 65 anni. Di tutta la band, negli anni giovanili, specie nei 70, era sicuramente il più figo, con quel look da hippie impenitente. E poi l'autore di uno dei pochi pezzi dei Floyd che mi piaccia veramente, la formidabile Great Gig in the sky. Adesso è andato a fare anche lui "l'ultimo grande concerto nel cielo". Per sempre.
Sunday, September 14, 2008
Cosa resta degli anni 80 - take two
Negli anni 80, se ti piaceva la musica rock, o eri springsteeniano, o eri U2... quel che l'è. Era impossibile scampare a uno o agli altri. D'altro canto erano i campioni di incasso in ogni senso, dalle milionate di dischi venduti ai concerti mega. Andavano bene a noi superstiti dei 70s, perché erano gli unici ad avvicinarsi a quel rock con cui eravamo cresciuti nel decennio passato, andavano bene ai più giovani perché erano belli, fighi e facevano videoclip accattivanti in quell'era da Mtv. Non si drogavano nemmeno, Bruce manco fumava le sigarette. Birra sì, a litri.
C'era però un sottobosco di gruppi rock di cui però in Italia arrivava solo qualche eco: Dream Syndicate, Green On Red, Blasters, Long Ryders, per dirne solo alcuni. Non erano male, alcune cose si ascoltano ancora oggi con piacere, ma la maggior parte mica tanto. Adesso il mio amico Fausto mi manderà a quel paese, ma per me il miglior gruppo uscito dalla scena del cosiddetto Paisley Underground sono state le Bangles, e non sto mica scherzando. Per farmi perdonare metto qua una foto con il suo eroe Chuck Prophet...
Comunque questi gruppi, e questa volta non per colpa delle riviste musicali italiane, li ho scoperti anch'essi quasi tutti in ritardo.
Colpa mia, perché all'incirca tra il 1983 e il 1987 per tanti motivi avevo decretato una sorta di black out musicale. Tranne Springsteen e gli U2, ma a quei due era impossibile scampare, negli anni 80.
I Del Fuegos non erano di quella scena lì, ma sono riuscito ugualmente a beccarli solo al momento del loro ultimo disco. Ma che disco. Un altro di quei (pochi) che si salva di quel decennio. Smoking In The Fields doveva essere il loro salto nell'olimpo del rock, fu invece il salto che li portò alla disfatta. Probabilmente perché era troppo bello per sfondare, nel 1989, quando uscì. E' una sorta di Exile on Main Street degli anni 80: loro pensavano di aver fatto il disco super prodotto per andare in classifica, invece fecero il più sentito e appassionante tributo al rock'n'roll dei 60s, al soul della Stax, al jingle jangle dei Byrds, al blues di Chicago, alla folk song dylaniana... Non riuscirono a contenersi e ogni brano qua dentro urla un amore troppo forte da comprimere: un rock'n'roll heart che batte con la voce sguaiata di Dan Zanes, nei riff stoniani di Move with Me Sister, nell'epicità sconfinata di Down in Allen's Mills, nel soul con tanto di orchestra dell'irripetibile I'm Inside You, nel country ubriaco di Stand by You (con Rick Danko alla voce)...
Un disco che non ha un cedimento che sia uno e che vent'anni dopo suona ancora meglio di allora. Fa piazza pulita di un decennio intero (e ci metto anche Springsteen e gli U2...).
E' un urlo, quello di Dan Zanes, che le schitarrate fangose e urticanti stentano a coprire, una affermazione che va al di là di quanto i musicisti stessi potevano immaginare mentre registravano quel disco. Come disse quello, "quando è la musica che suona attraverso i musicisti e non dei musicisti che suonano della musica".
C'era però un sottobosco di gruppi rock di cui però in Italia arrivava solo qualche eco: Dream Syndicate, Green On Red, Blasters, Long Ryders, per dirne solo alcuni. Non erano male, alcune cose si ascoltano ancora oggi con piacere, ma la maggior parte mica tanto. Adesso il mio amico Fausto mi manderà a quel paese, ma per me il miglior gruppo uscito dalla scena del cosiddetto Paisley Underground sono state le Bangles, e non sto mica scherzando. Per farmi perdonare metto qua una foto con il suo eroe Chuck Prophet...
Comunque questi gruppi, e questa volta non per colpa delle riviste musicali italiane, li ho scoperti anch'essi quasi tutti in ritardo.
Colpa mia, perché all'incirca tra il 1983 e il 1987 per tanti motivi avevo decretato una sorta di black out musicale. Tranne Springsteen e gli U2, ma a quei due era impossibile scampare, negli anni 80.
I Del Fuegos non erano di quella scena lì, ma sono riuscito ugualmente a beccarli solo al momento del loro ultimo disco. Ma che disco. Un altro di quei (pochi) che si salva di quel decennio. Smoking In The Fields doveva essere il loro salto nell'olimpo del rock, fu invece il salto che li portò alla disfatta. Probabilmente perché era troppo bello per sfondare, nel 1989, quando uscì. E' una sorta di Exile on Main Street degli anni 80: loro pensavano di aver fatto il disco super prodotto per andare in classifica, invece fecero il più sentito e appassionante tributo al rock'n'roll dei 60s, al soul della Stax, al jingle jangle dei Byrds, al blues di Chicago, alla folk song dylaniana... Non riuscirono a contenersi e ogni brano qua dentro urla un amore troppo forte da comprimere: un rock'n'roll heart che batte con la voce sguaiata di Dan Zanes, nei riff stoniani di Move with Me Sister, nell'epicità sconfinata di Down in Allen's Mills, nel soul con tanto di orchestra dell'irripetibile I'm Inside You, nel country ubriaco di Stand by You (con Rick Danko alla voce)...
Un disco che non ha un cedimento che sia uno e che vent'anni dopo suona ancora meglio di allora. Fa piazza pulita di un decennio intero (e ci metto anche Springsteen e gli U2...).
E' un urlo, quello di Dan Zanes, che le schitarrate fangose e urticanti stentano a coprire, una affermazione che va al di là di quanto i musicisti stessi potevano immaginare mentre registravano quel disco. Come disse quello, "quando è la musica che suona attraverso i musicisti e non dei musicisti che suonano della musica".
Friday, September 12, 2008
Cosa resta degli anni 80 - take one
Nel suo viaggio di scoperte musicali, mia figlia sta facendo dei bei passi avanti. Anche se non ha ancora il coraggio di rinnegare il suo amore per i Tokio Hotel, l’ho beccata questa estate a scaricarsi mezzo catalogo dei Metallica.
Poi l’altro giorno mi ha chiesto se le compravo Appetite for Destruction dei Guns n’ Roses perché – buon sangue non mente – ha già capito che la musica è meglio ascoltarla dai dischi originali, e non con quelle ciofeche di mp3.
Erano vent’anni – uscì nel 1987 – che giravo attorno e poi mi allontanavo da quel disco dei Guns con l’aria da nerd-snob quale in fondo sono, soprattutto per colpa delle riviste musicali che ho letto in gioventù (quando in Italia scoppiò il punk, noi leggevamo di David Bromberg e bluegrass music, che per carità sono un artista e un genere favolosi, ma insomma, ho scoperto il punk quando questo era già finito). Però in fondo in fondo mi sono sempre piaciuti, i Guns, almeno quel loro primo disco. Non erano il solito gruppo di hair rock cazzuto di quel periodo. Per intenderci, non erano i Bon Jovi.
Quando vidi la prima volta il video di Paradise City pensai, sembrano una versione punk dei Lynyrd Skynyrd. Riffoni che pescavano nella tradizione rock-blues, lunghi assolo di chitarra che si rifacevano appunto alla scuola del southern rock, e un cantante fuori dalle righe, pazzo, ma con una energia che ha visto pochi paragoni. E capacità di scrivere grandi canzoni. Canzoni che disturbano, come devono essere le grandi canzoni.
Così le ho preso il cd, e l’altra sera ce lo siamo sparati a manetta. A risentirlo oggi ha certe ingenuità di suono tipiche di una produzione alquanto scarsa, ma che tiro: Welcome to the Jungle, Paradise City e Sweet Child sono tre delle migliori canzoni degli ultimi vent’anni. E tutto il disco si ascolta senza pause, dall'inizio alla fine. Altro che U2 (stiamo parlando degli anni 80, no?) che hanno sempre azzeccato due, tre canzoni a disco e basta. Rimpiango di non aver mai visto Axel e soci dal vivo.
Erano troppo tossici per durare a lungo, ed è meglio così: un solo disco memorabile, un gran botto e via. Però hanno lasciato un segno. Non so di quante band degli anni 80 oggi valga ancora la pena ascoltare un disco. Un’altra a dire il vero c’è, l’ho riscoperta questa estate, anche loro durarono pochissimo e a differenza dei Guns non se li filò quasi nessuno. Ma erano straordinari, specie il loro ultimo disco, uscito nel 1989. Stay tuned, ne riparleremo.
Poi l’altro giorno mi ha chiesto se le compravo Appetite for Destruction dei Guns n’ Roses perché – buon sangue non mente – ha già capito che la musica è meglio ascoltarla dai dischi originali, e non con quelle ciofeche di mp3.
Erano vent’anni – uscì nel 1987 – che giravo attorno e poi mi allontanavo da quel disco dei Guns con l’aria da nerd-snob quale in fondo sono, soprattutto per colpa delle riviste musicali che ho letto in gioventù (quando in Italia scoppiò il punk, noi leggevamo di David Bromberg e bluegrass music, che per carità sono un artista e un genere favolosi, ma insomma, ho scoperto il punk quando questo era già finito). Però in fondo in fondo mi sono sempre piaciuti, i Guns, almeno quel loro primo disco. Non erano il solito gruppo di hair rock cazzuto di quel periodo. Per intenderci, non erano i Bon Jovi.
Quando vidi la prima volta il video di Paradise City pensai, sembrano una versione punk dei Lynyrd Skynyrd. Riffoni che pescavano nella tradizione rock-blues, lunghi assolo di chitarra che si rifacevano appunto alla scuola del southern rock, e un cantante fuori dalle righe, pazzo, ma con una energia che ha visto pochi paragoni. E capacità di scrivere grandi canzoni. Canzoni che disturbano, come devono essere le grandi canzoni.
Così le ho preso il cd, e l’altra sera ce lo siamo sparati a manetta. A risentirlo oggi ha certe ingenuità di suono tipiche di una produzione alquanto scarsa, ma che tiro: Welcome to the Jungle, Paradise City e Sweet Child sono tre delle migliori canzoni degli ultimi vent’anni. E tutto il disco si ascolta senza pause, dall'inizio alla fine. Altro che U2 (stiamo parlando degli anni 80, no?) che hanno sempre azzeccato due, tre canzoni a disco e basta. Rimpiango di non aver mai visto Axel e soci dal vivo.
Erano troppo tossici per durare a lungo, ed è meglio così: un solo disco memorabile, un gran botto e via. Però hanno lasciato un segno. Non so di quante band degli anni 80 oggi valga ancora la pena ascoltare un disco. Un’altra a dire il vero c’è, l’ho riscoperta questa estate, anche loro durarono pochissimo e a differenza dei Guns non se li filò quasi nessuno. Ma erano straordinari, specie il loro ultimo disco, uscito nel 1989. Stay tuned, ne riparleremo.
Tuesday, September 09, 2008
Un italiano trapiantato in America
"Quello che si sa di non sapere si può sempre imparare. È quello che si crede di sapere che non si impara mai"
(Riro Maniscalco, Mi mancano solo le Hawaii)
Un libro troppo piacevole da leggere. Capitano di rado, libri così.
Cosa spinge un italiano già ben piantato nella sua cittadina natale - Pesaro - con tanto di famiglia a mollare tutto e provare la grande avventura americana? Migliorare la propria situazione economica? No. Senso dell'avventura? Non proprio. Bisogno di fuggire da una realtà troppo angusta? Nemmeno.
È piuttosto il desiderio di toccare con mano un mondo a lungo sognato da ragazzo (gli indiani, la musica blues ecc.), ma senza voli pindarici. Perché quello che Riro Maniscalco, questo italiano trapiantato a New York ormai da una quindicina di anni, racconta in questo libro è tutt'altro rispetto alle mille luci della città che non dorme mai, e manco la promised land. È la quotidianeità di un'America come nessuno la racconta: il tacchino di Evansville, ovvero come mandare una troupe televisiva a filmare un tacchino selvatico che passeggia per le strade della cittadina ("Una delle caratteristiche che accomuna la stragrande maggioranza delle cittadine del Midwest è che non succede mai nulla"); il "game day" di South Bend, Indiana, in cui una semplice partita di football diventa quasi festa nazionale. O ancora: scordatevi i grandi concerti di massa con le super star: Riro vi porta a conoscere, ad Harlem, una anziana signora di colore che ogni domenica mattina invita i migliori musicisti jazz a casa sua e offre a chi vuole un concerto entusiasmante. E New Orleans: come girare al largo dalle mete turistiche e scoprire in una stradina deserta una dance hall di autentica musica cajun accoppiata a una pista da bowling.
Riro si muove freneticamente per tutti gli Stati Uniti (gli mancano solo le Hawaii), sempre in visita ad amici, come quelli di Norman, Oklahoma, il cui passatempo preferito per tutta la famiglia è andare nei campi a sparare con il fucile. E incontra uno dei tanti volti dell'America, ad esempio a Moab, Utah, la terra dei mormoni, che se ordini una birra la cameriera ti guarda come se le avessi chiesto di fare un salto nelle fiamme dell'inferno. That's America...
In mezzo i paesaggi meravigliosi dei deserti, delle foreste (ma non chiedetegli di portarvi alle cascate del Niagara), delle coste, sempre descritti con lo stupore di chi si arrende alla bellezza che lo circonda e con un sano realismo che fa piazza pulita di luoghi comuni e miti a stelle e strisce: "Ho attraversato l'oceano, ho piantato il mio tepee dapprima sulla costa occidentale, poi è iniziato 'l'infinito pellegrinaggio verso l'infinito', ho trascorso qui molte lune...".
Un diario di viaggio, di più: un diario di una esistenza. Che invidia. La domanda che mi pongo alla fine però è: ma come fa Riro ad avere tanti amici in ogni Stato americano? Gliene manca solo uno alle Hawaii...
Mi mancano solo le Hawaii, www.sefeditrice.it
Ps: Riro è anche un ottimo musicista: http://www.bluesandmercy.com/
(Riro Maniscalco, Mi mancano solo le Hawaii)
Un libro troppo piacevole da leggere. Capitano di rado, libri così.
Cosa spinge un italiano già ben piantato nella sua cittadina natale - Pesaro - con tanto di famiglia a mollare tutto e provare la grande avventura americana? Migliorare la propria situazione economica? No. Senso dell'avventura? Non proprio. Bisogno di fuggire da una realtà troppo angusta? Nemmeno.
È piuttosto il desiderio di toccare con mano un mondo a lungo sognato da ragazzo (gli indiani, la musica blues ecc.), ma senza voli pindarici. Perché quello che Riro Maniscalco, questo italiano trapiantato a New York ormai da una quindicina di anni, racconta in questo libro è tutt'altro rispetto alle mille luci della città che non dorme mai, e manco la promised land. È la quotidianeità di un'America come nessuno la racconta: il tacchino di Evansville, ovvero come mandare una troupe televisiva a filmare un tacchino selvatico che passeggia per le strade della cittadina ("Una delle caratteristiche che accomuna la stragrande maggioranza delle cittadine del Midwest è che non succede mai nulla"); il "game day" di South Bend, Indiana, in cui una semplice partita di football diventa quasi festa nazionale. O ancora: scordatevi i grandi concerti di massa con le super star: Riro vi porta a conoscere, ad Harlem, una anziana signora di colore che ogni domenica mattina invita i migliori musicisti jazz a casa sua e offre a chi vuole un concerto entusiasmante. E New Orleans: come girare al largo dalle mete turistiche e scoprire in una stradina deserta una dance hall di autentica musica cajun accoppiata a una pista da bowling.
Riro si muove freneticamente per tutti gli Stati Uniti (gli mancano solo le Hawaii), sempre in visita ad amici, come quelli di Norman, Oklahoma, il cui passatempo preferito per tutta la famiglia è andare nei campi a sparare con il fucile. E incontra uno dei tanti volti dell'America, ad esempio a Moab, Utah, la terra dei mormoni, che se ordini una birra la cameriera ti guarda come se le avessi chiesto di fare un salto nelle fiamme dell'inferno. That's America...
In mezzo i paesaggi meravigliosi dei deserti, delle foreste (ma non chiedetegli di portarvi alle cascate del Niagara), delle coste, sempre descritti con lo stupore di chi si arrende alla bellezza che lo circonda e con un sano realismo che fa piazza pulita di luoghi comuni e miti a stelle e strisce: "Ho attraversato l'oceano, ho piantato il mio tepee dapprima sulla costa occidentale, poi è iniziato 'l'infinito pellegrinaggio verso l'infinito', ho trascorso qui molte lune...".
Un diario di viaggio, di più: un diario di una esistenza. Che invidia. La domanda che mi pongo alla fine però è: ma come fa Riro ad avere tanti amici in ogni Stato americano? Gliene manca solo uno alle Hawaii...
Mi mancano solo le Hawaii, www.sefeditrice.it
Ps: Riro è anche un ottimo musicista: http://www.bluesandmercy.com/
Friday, September 05, 2008
A sonic rendezvous
I cinque di "Motor City" Detroit, gli MC5, sono stati una delle più grandi rock’n’roll band di tutti i tempi. Tre dischi soltanto – uno meglio dell’altro – BAM BAM BAM e poi via, spariti nel nulla. Dovrebbero fare così tutte le rock band, invece di trascinarsi noiosamente per 20, 30,40 anni e una miriade di dischi inutili.
Gli MC5 bruciarono in poche pagine gloriose. Troppo estremi, troppo violenti, troppo politicizzati per i loro tempi (la fine dei 60 e i primi 70). Il secondo disco glielo aveva prodotto Jon “Born to Run” Landau, cercando di ripulirli un po’, ma non era servito a niente. Gli MC5 sono stati definiti punk prima che il punk nascesse,ma se avevano la medesima carica aggressiva, avevano anche i piedi ben piantati nelle radici della musica rock, R&B e soul soprattutto, e questo li rendeva una grande band. Sapevano dove guardare per creare le loro canzoni, sapevano da dove venivano e non avevano paura di guardare avanti. Cuore del gruppo erano i due chitarristi straordinari Fred Sonic Smith (in seguito marito di Patti Smith) e Wayne Kramer: usavano le chitarre come autentici mitragliatori puntati al mondo.
Come ha detto qualcuno, gli MC5 presero i suoni di band inglesi come Who e Yardbirds e ci fusero dentro la sensibilità della Motown, di Chuck Berry, del jazz più sperimentale. Kick out the jam, motherfuckers, non è solo il titolo del loro primo disco, ma anche il manifesto della loro musica: suonare come se ogni occasione fosse l’ultima della tua vita.
Finita malamente l’avventura, Fred Sonic Smith mise in piedi una nuova band nel 1975, la Sonic Rendezvous Band che durò qualche anno e incise un solo 45 giri, City Slang. Un autentico mistero del rock. Come è possibile che un artista così taletuoso non sia riuscito a pubblicare qualcosa di più? Sfortunati ancor di più degli MC5 e come loro straordinari, come si evince da questo formidabile live che finalmente mi permette di fare la loro conoscenza, The Second Chance, registrato nel 1977. Perché come gli MC5, anche la SRB era nata essenzialmente per suoanre dal vivo,e a'fanculo le logiche discografiche. Nella band c’era anche l’ex batterista degli Stooges, Scott Asheton.
L’assalto sonico era il medesimo degli MC5, più solido e meno tendente alla improvvisazione però, come se i Led Zeppelin fossero stati un gruppo punk, con larghe parti di svisate di chitarra. Ci credo che Patti Smith impazziva per loro e per il loro leader, quel Frederick che avrebbe poco dopo sposato. Questo disco è una botta estrema, una corsa forsennata per battere il diavolo, rock’n’roll che fa paura. E c’è anche una ripresa di Like a Rolling Stone, similare alla versione di Hendrix a Monterey ’67. Dicono che quando finisse di fare un concerto, le dita delle mani di Fred sanguinassero: c’è sangue nei solchi di questo disco.Sposatisi nel 1980, Patti e Fred decisero di lasciare le loro carriere musicali per dedicarsi alla famiglia. Nel 1988 avrebbero composto insieme un bellissimo disco, Dream of Life accreditato alla Smith, ma con canzoni scritte a quattro mani, compresa l’epocale People Have the Power. Nel novembre 1994 Fred muore per attacco cardiaco. Le leggende metropolitane sulla sua fine si sprecano: c’è che dice che fosse un alcolizzato (qualche problema di alcolismo lo ammette anche Patti Smith), c’è chi dice che avesse recluso la moglie in casa invidioso del suo successo arrivando anche a picchiarla. È vero che la sua morte coincide con la decisione della cantante di tornare sulle scene, ma la verità la conoscono solo lei e i suoi figli. Ma soprattutto il chitarrista soffriva per non essere riuscito a lasciare un segno nella storia del rock.Sbagliava: lo avranno ascoltato in pochi, ma quello che ha fatto con gli MC5 e con la SRB rimane nella storia come alcune delle pagine migliori del rock.
Play this CD fuckin’ loud.
Gli MC5 bruciarono in poche pagine gloriose. Troppo estremi, troppo violenti, troppo politicizzati per i loro tempi (la fine dei 60 e i primi 70). Il secondo disco glielo aveva prodotto Jon “Born to Run” Landau, cercando di ripulirli un po’, ma non era servito a niente. Gli MC5 sono stati definiti punk prima che il punk nascesse,ma se avevano la medesima carica aggressiva, avevano anche i piedi ben piantati nelle radici della musica rock, R&B e soul soprattutto, e questo li rendeva una grande band. Sapevano dove guardare per creare le loro canzoni, sapevano da dove venivano e non avevano paura di guardare avanti. Cuore del gruppo erano i due chitarristi straordinari Fred Sonic Smith (in seguito marito di Patti Smith) e Wayne Kramer: usavano le chitarre come autentici mitragliatori puntati al mondo.
Come ha detto qualcuno, gli MC5 presero i suoni di band inglesi come Who e Yardbirds e ci fusero dentro la sensibilità della Motown, di Chuck Berry, del jazz più sperimentale. Kick out the jam, motherfuckers, non è solo il titolo del loro primo disco, ma anche il manifesto della loro musica: suonare come se ogni occasione fosse l’ultima della tua vita.
Finita malamente l’avventura, Fred Sonic Smith mise in piedi una nuova band nel 1975, la Sonic Rendezvous Band che durò qualche anno e incise un solo 45 giri, City Slang. Un autentico mistero del rock. Come è possibile che un artista così taletuoso non sia riuscito a pubblicare qualcosa di più? Sfortunati ancor di più degli MC5 e come loro straordinari, come si evince da questo formidabile live che finalmente mi permette di fare la loro conoscenza, The Second Chance, registrato nel 1977. Perché come gli MC5, anche la SRB era nata essenzialmente per suoanre dal vivo,e a'fanculo le logiche discografiche. Nella band c’era anche l’ex batterista degli Stooges, Scott Asheton.
L’assalto sonico era il medesimo degli MC5, più solido e meno tendente alla improvvisazione però, come se i Led Zeppelin fossero stati un gruppo punk, con larghe parti di svisate di chitarra. Ci credo che Patti Smith impazziva per loro e per il loro leader, quel Frederick che avrebbe poco dopo sposato. Questo disco è una botta estrema, una corsa forsennata per battere il diavolo, rock’n’roll che fa paura. E c’è anche una ripresa di Like a Rolling Stone, similare alla versione di Hendrix a Monterey ’67. Dicono che quando finisse di fare un concerto, le dita delle mani di Fred sanguinassero: c’è sangue nei solchi di questo disco.Sposatisi nel 1980, Patti e Fred decisero di lasciare le loro carriere musicali per dedicarsi alla famiglia. Nel 1988 avrebbero composto insieme un bellissimo disco, Dream of Life accreditato alla Smith, ma con canzoni scritte a quattro mani, compresa l’epocale People Have the Power. Nel novembre 1994 Fred muore per attacco cardiaco. Le leggende metropolitane sulla sua fine si sprecano: c’è che dice che fosse un alcolizzato (qualche problema di alcolismo lo ammette anche Patti Smith), c’è chi dice che avesse recluso la moglie in casa invidioso del suo successo arrivando anche a picchiarla. È vero che la sua morte coincide con la decisione della cantante di tornare sulle scene, ma la verità la conoscono solo lei e i suoi figli. Ma soprattutto il chitarrista soffriva per non essere riuscito a lasciare un segno nella storia del rock.Sbagliava: lo avranno ascoltato in pochi, ma quello che ha fatto con gli MC5 e con la SRB rimane nella storia come alcune delle pagine migliori del rock.
Play this CD fuckin’ loud.
Wednesday, September 03, 2008
O protagonisti. O nessuno
C'è un mondo che sei abituato a vedere come sfondo e che invece possiede il profilo del protagonista: per vederlo sarebbe sufficiente smettere per un attimo di correre dentro se stessi.
(Davide Van De Sfroos, da Il mio nome è Herbert Fanucci)
Sono in coda,una coda numerosa che dura anche mezz'ora. Qua, al Meeting di Rimini (il cui titolo quest'anno era O protagonisti o nessuno), davanti all'ingresso della mostra "Vigilare e redimere" è sempre così. C'è un tipo, maglietta bianca con la scritta "Vale la pena" che parla con i primi della fila. Ha l'aria contenta, seppur un po' stanca. Dice che è un carcerato, ma che quei secondini che si vedono dietro di lui in divisa non sono i suoi "custodi", bensì i suoi "angeli custodi": "Hanno rinunciato alle ferie per passare una settimana qui mentre noi presentiamo questa mostra. Stanno con noi dalle 8 di mattina a mezzanotte tutti i giorni". Ha un bel sorriso questo carcerato. Il giorno dopo rivedo la sua faccia, un fotone in primo piano su Il Quotidiano del Meeting. E' abbracciato a una bella donna di colore. Scopro che quell'uomo che parlava serenamente con noi è un ergastolano condannato per omicidio. Mica bruscolini. La donna che è con lui è Vicky, una africana malata di Aids (la sua storia, insieme a quella di Rose, la donna che l'ha conosciuta, e di altre come loro, è narrata in un bel documentario che quest'anno ha vinto il premio speciale a Cannes, grazie a Spike Lee che l'ha voluto premiare a tutti i costi).Si stava lasciando morire, ma un'altra donna le ha detto che la sua malattia non vale quanto lei. Lei vale di più. Ha ripreso a vivere Vicky, adesso è lei ad aiutare e sostenere le donne malate, proprio come quell'ergostolano che in prigione ha trovato gente che gli ha fatto capire che la vita anche lì vale la pena essere vissuta: "Non vedo l'ora di tornare in carcere per raccontare tutte le cose belle che ho visto qui al Meeting", dice. Pazzia? No, perché si può vivere così, basta riconoscere che cosa siamo: gente che non si fa da sola.
Storie, queste e altre, di persone che hanno riscattato la propria vita, gente che il mondo e la società aveva gettato nella spazzatura. Alla faccia dei filosofi del nichilismo che ci dicono tutti i giorni che la vita è una sconfitta. Alla faccia dei politici e dei cervelloni che studiano riforme carcerarie e cure contro l'Aids. Quello di Vicky e dell'ergastolano è il ricordo più grande di questa estate. Li vedete nella foto qua sotto. Gente che si incontra solo qui. Non crediate a chi vi dice che è una kermesse di politici, questo Meeting. Alcuni politici c'erano, è vero, ma non se li è filati nessuno. Eravamo più interessati a Vicky e all'ergastolano. Dei protagonisti, senza dubbio, anche se non li vedrete mai in TV.
Prima di Rimini c'è stata la Liguria, la mia smalltown di Chiavari. Quest'anno però non è stato solo mare, che gli amici ci hanno fatto visitare luoghi pieni di fascino antico e di mistero. Come l'Abbazia di Borzone, inerpicata sulle montagne dietro al mare, il cui campanile è quello che resta di una fortezza bizantina costruita nel IV secolo dopo Cristo per fermare l'avanzata dei Longobardi che, sapete, erano un po' come i milanesi che d'estate sciamano quaggiù dalla Padania invadendo ogni angolo di spazio.
Più su dell'Abbazia, per strade che si inerpicano tra i boschi (due caprioli ci tagliano la strada!) tra gli alberi gli amici mi indicano alcune rocce. Su una, inequivocabile, spunta un volto umano. Dico che no, è solo uno scherzo delle rocce. Invece a vederlo da vicino si capisce che è proprio una scultura megalitica fatta da mani d'uomo, la più grande esistente in Europa su roccia. E' un volto di Cristo, tracciato dai monaci che trasformarono la fortezza bizantina in convento. Domina la vallata come a benedirla, proteggerla, e per secoli interi fu dimenticato, coperto dalla vegetazione, e riscoperto per caso solo nel 1965. Nella valle di Borzonasca, infatti, per secoli le abitazioni dei contadini scolpivano sui portoni un volto simile. Protagonisti anche loro, questi monaci.
Ne ho visti altri di posti belli questa estate, come la torre di Varigotti, che domina uno dei panorami più incantevoli al mondo. A me però bastava anche assaporare un tramonto nel silenzio del giardino di casa Tanturli, la famiglia che gentilmente ci ha ospitati (e sopportati) quasi per un mese. I tramonti qui sono così belli che non ho avuto bisogno di ascoltare manco un disco per tutto il mese:E poi altri, come questo sulla spiaggia di Sestri Levante:Dire che farei carte false per tornare a vivere in riva al mare, non è abbastanza. Sto meditando di tutto al proposito: aprire un agriturismo, un bed & breakfast, uno stabilimento balneare... Ma in fondo, come diceva quello, anche le bellezze più toccanti non sono nulla se non sono condivise con qualcuno.
Fast forward. Avete mai visto un secondino suonare il tamburello e cantare insieme ai suoi carcerati? Al Meeting abbiamo visto anche questo, in una grande festa finale l'ultima notte.Io poi ho visto e incontrato anche Lou Marini, uno dei Blues Brothers originali, con cui abbiamo presentato il fantastico disco della BB Band che uscirà a Natale. Sarà uno degli eventi dell'anno: canzoni popolari italiane, dalle Alpi alla Sicilia, arrangiate in chiave R&B. Poi ho incontrato John Waters, una delle penne più prestigiose del rock magazine irlandese Hot Press negli anni 80, ex compagno di Sinéad O'Connor, oggi columnist dell'Irish Times.Insieme abbiamo presentato un libro che ho scritto insieme ad alcuni amici. Trovate maggiori dettagli qui: www.risonanza.net oppure qui http://www.itacalibri.it/Template/detailArticoli.asp?LN=IT&IDFolder=144&IDOggetto=33322 Attenzione, questo libro è hard to handle, non è la solita sciacquetta sulla musica rock. Non so se abbiamo centrato il bersaglio in modo equilibrato, ma sicuramente, come ha detto John, "questo libro è una guida al cuore del rock".
Al Meeting ho ritrovato anche un vecchio amico, Davide Van De Sfroos. Prima di suonare davanti a circa 4mila scatenati spettatori (sembrava di essere a un concerto dei Ramones) lo abbiamo sottoposto a qualche domandina davanti a circa un migliaio di ragazzi che hanno fatto la fila per fargli anche loro qualche domanda. Nella foto qua sotto sto cercando di convincerlo a incidere un disco in dialetto genovese.Grande concerto, dicevo, con un medley incredibile: La canzone del sole / La poma / Buona domenica / Whole lotta love. Un protagonista, senza dubbio.
Ne avrei ancora da raccontare. Basta così. La vita quotidiana già reclama la sua dose di impegno super. Ieri mattina in una mattinata sola sono andato ad ascoltare il nuovo Bootleg Series di Bob Dylan (bello, bello...) e il nuovo degli Oasis (sballoso, sballoso...), mia figlia grande vuole che la iscriva a una scuola di musica, l'altra sta per cominciare la prima elementare...
Allora è così, o protagonisti, o nessuno. Buona ripresa a tutti.
Peace and rock'n'roll.
(Davide Van De Sfroos, da Il mio nome è Herbert Fanucci)
Sono in coda,una coda numerosa che dura anche mezz'ora. Qua, al Meeting di Rimini (il cui titolo quest'anno era O protagonisti o nessuno), davanti all'ingresso della mostra "Vigilare e redimere" è sempre così. C'è un tipo, maglietta bianca con la scritta "Vale la pena" che parla con i primi della fila. Ha l'aria contenta, seppur un po' stanca. Dice che è un carcerato, ma che quei secondini che si vedono dietro di lui in divisa non sono i suoi "custodi", bensì i suoi "angeli custodi": "Hanno rinunciato alle ferie per passare una settimana qui mentre noi presentiamo questa mostra. Stanno con noi dalle 8 di mattina a mezzanotte tutti i giorni". Ha un bel sorriso questo carcerato. Il giorno dopo rivedo la sua faccia, un fotone in primo piano su Il Quotidiano del Meeting. E' abbracciato a una bella donna di colore. Scopro che quell'uomo che parlava serenamente con noi è un ergastolano condannato per omicidio. Mica bruscolini. La donna che è con lui è Vicky, una africana malata di Aids (la sua storia, insieme a quella di Rose, la donna che l'ha conosciuta, e di altre come loro, è narrata in un bel documentario che quest'anno ha vinto il premio speciale a Cannes, grazie a Spike Lee che l'ha voluto premiare a tutti i costi).Si stava lasciando morire, ma un'altra donna le ha detto che la sua malattia non vale quanto lei. Lei vale di più. Ha ripreso a vivere Vicky, adesso è lei ad aiutare e sostenere le donne malate, proprio come quell'ergostolano che in prigione ha trovato gente che gli ha fatto capire che la vita anche lì vale la pena essere vissuta: "Non vedo l'ora di tornare in carcere per raccontare tutte le cose belle che ho visto qui al Meeting", dice. Pazzia? No, perché si può vivere così, basta riconoscere che cosa siamo: gente che non si fa da sola.
Storie, queste e altre, di persone che hanno riscattato la propria vita, gente che il mondo e la società aveva gettato nella spazzatura. Alla faccia dei filosofi del nichilismo che ci dicono tutti i giorni che la vita è una sconfitta. Alla faccia dei politici e dei cervelloni che studiano riforme carcerarie e cure contro l'Aids. Quello di Vicky e dell'ergastolano è il ricordo più grande di questa estate. Li vedete nella foto qua sotto. Gente che si incontra solo qui. Non crediate a chi vi dice che è una kermesse di politici, questo Meeting. Alcuni politici c'erano, è vero, ma non se li è filati nessuno. Eravamo più interessati a Vicky e all'ergastolano. Dei protagonisti, senza dubbio, anche se non li vedrete mai in TV.
Prima di Rimini c'è stata la Liguria, la mia smalltown di Chiavari. Quest'anno però non è stato solo mare, che gli amici ci hanno fatto visitare luoghi pieni di fascino antico e di mistero. Come l'Abbazia di Borzone, inerpicata sulle montagne dietro al mare, il cui campanile è quello che resta di una fortezza bizantina costruita nel IV secolo dopo Cristo per fermare l'avanzata dei Longobardi che, sapete, erano un po' come i milanesi che d'estate sciamano quaggiù dalla Padania invadendo ogni angolo di spazio.
Più su dell'Abbazia, per strade che si inerpicano tra i boschi (due caprioli ci tagliano la strada!) tra gli alberi gli amici mi indicano alcune rocce. Su una, inequivocabile, spunta un volto umano. Dico che no, è solo uno scherzo delle rocce. Invece a vederlo da vicino si capisce che è proprio una scultura megalitica fatta da mani d'uomo, la più grande esistente in Europa su roccia. E' un volto di Cristo, tracciato dai monaci che trasformarono la fortezza bizantina in convento. Domina la vallata come a benedirla, proteggerla, e per secoli interi fu dimenticato, coperto dalla vegetazione, e riscoperto per caso solo nel 1965. Nella valle di Borzonasca, infatti, per secoli le abitazioni dei contadini scolpivano sui portoni un volto simile. Protagonisti anche loro, questi monaci.
Ne ho visti altri di posti belli questa estate, come la torre di Varigotti, che domina uno dei panorami più incantevoli al mondo. A me però bastava anche assaporare un tramonto nel silenzio del giardino di casa Tanturli, la famiglia che gentilmente ci ha ospitati (e sopportati) quasi per un mese. I tramonti qui sono così belli che non ho avuto bisogno di ascoltare manco un disco per tutto il mese:E poi altri, come questo sulla spiaggia di Sestri Levante:Dire che farei carte false per tornare a vivere in riva al mare, non è abbastanza. Sto meditando di tutto al proposito: aprire un agriturismo, un bed & breakfast, uno stabilimento balneare... Ma in fondo, come diceva quello, anche le bellezze più toccanti non sono nulla se non sono condivise con qualcuno.
Fast forward. Avete mai visto un secondino suonare il tamburello e cantare insieme ai suoi carcerati? Al Meeting abbiamo visto anche questo, in una grande festa finale l'ultima notte.Io poi ho visto e incontrato anche Lou Marini, uno dei Blues Brothers originali, con cui abbiamo presentato il fantastico disco della BB Band che uscirà a Natale. Sarà uno degli eventi dell'anno: canzoni popolari italiane, dalle Alpi alla Sicilia, arrangiate in chiave R&B. Poi ho incontrato John Waters, una delle penne più prestigiose del rock magazine irlandese Hot Press negli anni 80, ex compagno di Sinéad O'Connor, oggi columnist dell'Irish Times.Insieme abbiamo presentato un libro che ho scritto insieme ad alcuni amici. Trovate maggiori dettagli qui: www.risonanza.net oppure qui http://www.itacalibri.it/Template/detailArticoli.asp?LN=IT&IDFolder=144&IDOggetto=33322 Attenzione, questo libro è hard to handle, non è la solita sciacquetta sulla musica rock. Non so se abbiamo centrato il bersaglio in modo equilibrato, ma sicuramente, come ha detto John, "questo libro è una guida al cuore del rock".
Al Meeting ho ritrovato anche un vecchio amico, Davide Van De Sfroos. Prima di suonare davanti a circa 4mila scatenati spettatori (sembrava di essere a un concerto dei Ramones) lo abbiamo sottoposto a qualche domandina davanti a circa un migliaio di ragazzi che hanno fatto la fila per fargli anche loro qualche domanda. Nella foto qua sotto sto cercando di convincerlo a incidere un disco in dialetto genovese.Grande concerto, dicevo, con un medley incredibile: La canzone del sole / La poma / Buona domenica / Whole lotta love. Un protagonista, senza dubbio.
Ne avrei ancora da raccontare. Basta così. La vita quotidiana già reclama la sua dose di impegno super. Ieri mattina in una mattinata sola sono andato ad ascoltare il nuovo Bootleg Series di Bob Dylan (bello, bello...) e il nuovo degli Oasis (sballoso, sballoso...), mia figlia grande vuole che la iscriva a una scuola di musica, l'altra sta per cominciare la prima elementare...
Allora è così, o protagonisti, o nessuno. Buona ripresa a tutti.
Peace and rock'n'roll.
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