"And I just want to say that when I was sixteen or seventeen years old, I went to see Buddy Holly play at Duluth National Guard Armory and I was three feet away from him...and he LOOKED at me"
C’è una battuta, che circola tra gli hard core fans dylaniani: “Ero in prima fila, e Bob Dylan a un certo punto mi ha guardato dritto negli occhi! A me, proprio a me!”. È un po’ il sogno di taluni, come se un performer su di un palcoscenico prima o poi non finisca per guardare negli occhi chi si trova a pochi metri davanti a lui. È il desiderio di sentirsi guardati dal proprio idolo, di sognare che lui sia rimasto colpito in qualche modo da te. A parte che Dylan, poi, è anche miope cecato, non indossa mai le lenti a contatto e fa fatica a distinguere il volto di chi si trova a due centimetri da lui, figuriamoci quelli che sono sotto al palco. Pare però che le belle ragazze riesca a individuarle sempre. O quasi.
Tutto ciò perché la frase posta a inizio di questo post, pronunciata nel 1998 da Bob Dylan durante la consegna del Grammy, a proposito di quella volta (il 31 gennaio 1959) in cui si recò a vedere Buddy Holly, si conclude proprio come farebbe uno dei suoi tanti fan: “E mi guardò dritto negli occhi!”. Siamo tutti dei fan, in fondo.
Al Duluth National Guard Armory cinquant’anni fa, uno dei maggiori talenti della prima ondata rock’n’roll teneva uno dei suoi ultimissimi concerti. Pochi giorni dopo, il 3 febbraio, si sarebbe schiantato sull’aeroplanino che doveva portarlo a Fargo, North Dakota. Insieme a lui un altro giovanissimo talento, il rocker chicano Ritchie Valenzuela (l’autore de La bamba) e Big Bopper, un dj texano diventato anche lui un rocker. Sarebbe stato il giorno passato alla storia come quello in cui la musica morì. Lo avrebbe cantato Don McLean, anni dopo, nella sua epocale American Pie. Di fatto, se la musica rock non sarebbe morta, sarebbe morta quella affascinante, emozionante e innocente prima fase, quella che con il rockabilly di Elvis aveva dominato gli anni 50. Nello stesso periodo in cui Holly moriva, Elvis era già partito per militare, abbandonando la musica; Little Richard aveva deciso di farsi sacerdote e Jerry Lee Lewis, con il matrimonio con la cugina tredicenne, sarebbe finito nel dimenticatoio, censurato da tutti.
A pensarci bene, fu forse davvero il giorno in cui la musica morì. Niente sarebbe più sato lo stesso, nel bene e nel male. Ma un ragazzino di 18 anni, abitante a Duluth e con la testa piena di sogni di rock’n’roll, avrebbe raccolto la torcia, lanciatagli quella sera da Buddy, dal palcoscenico. Nessuno dei due ne era consapevole, ma quella sera accade uno di quei piccoli eventi pieni di magia che talvolta accadono. E sì, quella sera Buddy Holly guardò Bob Dylan dritto negli occhi.
La setlist di quella serata del 31 gennaio 1959
Gotta Travel On
That'll Be The Day
Everyday
Maybe Baby
It Doesn't Matter Anymore
True Love Ways
Heartbeat
Peggy Sue
Oh, Boy!
Brown-Eyed Handsome Man
It's So Easy
Not Fade Away (Encore)
Bo Diddley (Encore)
Rave On (Encore)
Ps: se esiste un torrent o anche un mp3 di questa serata, fatemi un fischio.
Pps: grazie a Blair Miller per le preziose documentazioni.
Saturday, January 31, 2009
Wednesday, January 28, 2009
Fly on free bird
Addio Billy Powell, pianista indimenticabile. Onorato di averti visto dal vivo, quella volta a Milano nel 1997, con la tua splendida e insuperabile band, l'orgoglio del sud. Adesso è rimasto solo Gary Rossington, troppo poco perché la bandiera del vecchio Dixie possa sventolare ancora. Fly on free bird.
Billy Powell, the only keyboardist Lynyrd Skynyrd ever had, died last night at his home near Jacksonville, Florida. He was 56. No cause of death has been announced, and a post on the official Synyrd Website reads, “A Great Loss — Beloved Pianist for the Lynyrd Skynyrd Band, Billy Powell, passed away last night. We will post more info shortly. The family and band request your respect and understanding during this difficult time. Thank you.” The band is canceling upcoming shows and directing fans to its Website for tour updates.
He had dialed 911 just before 1 a.m. complaining of difficulty breathing. Paramedics found him unresponsive in his bedroom still holding the phone. It is believed he had a heart attack, but an autopsy will be performed
Saturday, January 24, 2009
Perduto tra gli alberi
"The song is for the painter who lost both of her hands, the song is for the wanderer who never came home again, for all those with broken hearts, I know what you’re going through"
(Song for a painter)
Quell'inverno, freddo e bastardo, sembrava non finire mai. Nei suoi anni di vita che ormai si avvicinavano ai 50 non aveva mai provato tanto freddo. La neve sporca rendeva le strade della città melma liquida e dopo la neve erano venute giornate di pioggia continua e l'umidità che entrava nella macchina al mattino presto, quando lui si alzava per andare al lavoro.
Le luci al neon della grande metropoli erano come filtrate da una nebbia viziosa, presagio di cose cattive, tristi, che lui sentiva comunque nella sua anima. Oltre al volto di lei, continuava a pensare ai suoi genitori, mentre guidava mezzo tramortito dal sonno. Erano anni che non pensava più a loro, e si domandava perché adesso. Ma forse lo sapeva. Era quel cd stregato che gli faceva venire in mente certi pensieri, ne era sicuro. Quel cd che non voleva saperne di andare, nel lettore della sua scassata vettura. Faceva dei rumori strani, il cd. Le canzoni si interrompevano come se non fossero mai state finite o qualcuno avesse tolto la corrente sul più bello. E poi no, un quartetto d'archi stile Vivaldi che diavolo c'entrava in un disco che sembrava la raccolta folk degli ultimi sopravvissuti al diluvio universale sulle Appalachian Mountains.
Ogni volta era costretto a toglierlo perché lo infastidiva, lo provocava, e naturalmente mandava a fanculo il lettore cd. Perché quegli strani rumori, come passi nell'oscurità e una porta che si chiude, non potevano essere nel cd.
La sera tornava a casa nello stesso buio che aveva lasciato al mattino quando era uscito. Con più umidità nelle ossa e ancor più freddo nell'anima. E quelle melodie oblique nella testa. Ma a casa quel cd non voleva suonarlo. Pensava gli avrebbe fatto male. Glielo aveva regalato lei, anzi gli aveva mandato un link per scaricarlo e basta, senza note alcuna. E lui manco si ricordava quale fosse il nome della band. Era solo, a casa, una casa vuota. Pensò, con un ghigno, che se quel cd che lo perseguitava meritava un titolo, quello sarebbe stato giusto, All alone in an empty house.
Ogni mattina usciva ancora e nel buio bagnato a ogni lampione guardava il volto delle ragazze che attraversavano in fretta sperando di rivedere il suo. Lei era sparita come il link di quella e-mail. Lei era nata in primavera, ma lui era nato troppo tardi. Prenditela con una semplice svolta del destino, come diceva quello là.
Ma le canzoni... oh doveva suonarle, almeno in macchina. In quelle voci sussurate, in quelle melodie di una tristezza che si risolveva sempre con un barlume di speranza, in quell'orchestra di archi e pianoforte che per lunghissimi minuti accendevano i più nascosti reconditi di un'anima tormentata, facendogli intuire gli splendori che sono oltre la tomba, come diceva il poeta, c'era il volto di lei.
Fu così che una sera, quando pensava che troppo fosse troppo, si decise di suonare il cd a casa, nel suo impianto stereo. E la musica che ne uscì fu bellissima, come non avesse mai ascoltato quel disco. Il freddo e la pioggia sparirono, e le canzoni sembrarono nuove e allo stesso tempo antichissime, come provenire da un tempo immemorabile. Desiderio e nostalgia, ecco cosa diceva quella musica. Ed era esattamente quello che lui aveva nel cuore, desiderio e nostalgia. E fu quando il disco finì che il campanello di casa suonò. All'inizio lui pensò fosse un altro degli inquietanti trucchetti disseminati in quel cd, invece era proprio la porta.
Aprì, e si trovò davanti lei. Sorridente, gli disse: "Finalmente lo hai fatto. Finalmente lo hai ascoltato. Puoi avere anche il mio cuore adesso, ma ricordati che io non ti appartengo. Così come non ti appartiene la musica".
Il giorno dopo, un raggio di sole fece finalmente capolino sulla città ancora bagnata.
Ps: tutto questo perché non sapevo come parlare di uno dei dischi più belli, misteriosi, spiazzanti e fascinosi che abbia mai ascoltato da anni, All alone in an empty house, dei Lost in the Trees. Non è un ascolto facile, ma ne vale la pena.
http://takethesongsandrun.wordpress.com/2009/01/11/lost-in-the-trees/
http://www.lostinthetrees.com/home.htm
(Song for a painter)
Quell'inverno, freddo e bastardo, sembrava non finire mai. Nei suoi anni di vita che ormai si avvicinavano ai 50 non aveva mai provato tanto freddo. La neve sporca rendeva le strade della città melma liquida e dopo la neve erano venute giornate di pioggia continua e l'umidità che entrava nella macchina al mattino presto, quando lui si alzava per andare al lavoro.
Le luci al neon della grande metropoli erano come filtrate da una nebbia viziosa, presagio di cose cattive, tristi, che lui sentiva comunque nella sua anima. Oltre al volto di lei, continuava a pensare ai suoi genitori, mentre guidava mezzo tramortito dal sonno. Erano anni che non pensava più a loro, e si domandava perché adesso. Ma forse lo sapeva. Era quel cd stregato che gli faceva venire in mente certi pensieri, ne era sicuro. Quel cd che non voleva saperne di andare, nel lettore della sua scassata vettura. Faceva dei rumori strani, il cd. Le canzoni si interrompevano come se non fossero mai state finite o qualcuno avesse tolto la corrente sul più bello. E poi no, un quartetto d'archi stile Vivaldi che diavolo c'entrava in un disco che sembrava la raccolta folk degli ultimi sopravvissuti al diluvio universale sulle Appalachian Mountains.
Ogni volta era costretto a toglierlo perché lo infastidiva, lo provocava, e naturalmente mandava a fanculo il lettore cd. Perché quegli strani rumori, come passi nell'oscurità e una porta che si chiude, non potevano essere nel cd.
La sera tornava a casa nello stesso buio che aveva lasciato al mattino quando era uscito. Con più umidità nelle ossa e ancor più freddo nell'anima. E quelle melodie oblique nella testa. Ma a casa quel cd non voleva suonarlo. Pensava gli avrebbe fatto male. Glielo aveva regalato lei, anzi gli aveva mandato un link per scaricarlo e basta, senza note alcuna. E lui manco si ricordava quale fosse il nome della band. Era solo, a casa, una casa vuota. Pensò, con un ghigno, che se quel cd che lo perseguitava meritava un titolo, quello sarebbe stato giusto, All alone in an empty house.
Ogni mattina usciva ancora e nel buio bagnato a ogni lampione guardava il volto delle ragazze che attraversavano in fretta sperando di rivedere il suo. Lei era sparita come il link di quella e-mail. Lei era nata in primavera, ma lui era nato troppo tardi. Prenditela con una semplice svolta del destino, come diceva quello là.
Ma le canzoni... oh doveva suonarle, almeno in macchina. In quelle voci sussurate, in quelle melodie di una tristezza che si risolveva sempre con un barlume di speranza, in quell'orchestra di archi e pianoforte che per lunghissimi minuti accendevano i più nascosti reconditi di un'anima tormentata, facendogli intuire gli splendori che sono oltre la tomba, come diceva il poeta, c'era il volto di lei.
Fu così che una sera, quando pensava che troppo fosse troppo, si decise di suonare il cd a casa, nel suo impianto stereo. E la musica che ne uscì fu bellissima, come non avesse mai ascoltato quel disco. Il freddo e la pioggia sparirono, e le canzoni sembrarono nuove e allo stesso tempo antichissime, come provenire da un tempo immemorabile. Desiderio e nostalgia, ecco cosa diceva quella musica. Ed era esattamente quello che lui aveva nel cuore, desiderio e nostalgia. E fu quando il disco finì che il campanello di casa suonò. All'inizio lui pensò fosse un altro degli inquietanti trucchetti disseminati in quel cd, invece era proprio la porta.
Aprì, e si trovò davanti lei. Sorridente, gli disse: "Finalmente lo hai fatto. Finalmente lo hai ascoltato. Puoi avere anche il mio cuore adesso, ma ricordati che io non ti appartengo. Così come non ti appartiene la musica".
Il giorno dopo, un raggio di sole fece finalmente capolino sulla città ancora bagnata.
Ps: tutto questo perché non sapevo come parlare di uno dei dischi più belli, misteriosi, spiazzanti e fascinosi che abbia mai ascoltato da anni, All alone in an empty house, dei Lost in the Trees. Non è un ascolto facile, ma ne vale la pena.
http://takethesongsandrun.wordpress.com/2009/01/11/lost-in-the-trees/
http://www.lostinthetrees.com/home.htm
Wednesday, January 21, 2009
Italians do it better
Non scrivo praticamente mai di musica italiana, questa volta scriverò addirittura di due dischi italiani. Perché? Be’, intanto perché entrambi sono cantati in inglese e potrebbero tranquillamente essere stati prodotti negli Usa, tanto mi piace la musica italiana.
Seriously, sono due ottimi esempi di piccole e in parte auto produzioni che mostrano che a volte nel sottobosco del grande impero si muovono ed esistono realtà vive e degne.
The Beards è un gruppo dell’area veneziana, da anni attivo come cover band di The Band (e scusate, ma ci vuole una gran capacità per fare canzoni come quelle) che pubblica il primo vero disco autografo addirittura per una etichetta americana, la Ancient. Non solo: il disco esce anche in Francia (su doppio vinile) e in Argentina. Il paese sudamericano è stato scelto per la vasta comunità veneta lì emigrata in passato. E Mephisto Potato Sauce (gran titolo) è un affascinante viaggio nella memoria della cultura popolare veneta dei primi del 900, che in modo misterioso si unisce a quella nord americana dello stesso periodo. Con nel cuore il sound magnifico di The Band, i Bears ci mettono dentro anche il Tom Waits più sulfureo e anche qualche scampolo di terra veneta. Confezione lussuosa, in formato libro vintage con belle illustrazioni: http://the-beards.blogspot.com/
L’altra piacevole realtà è Marco Zanzi, da Varese, attivo da anni nella scena bluegrass e country-rock. Con la Piedmont Brothers Band ha pubblicato Bordertown, un eccellente e freschissimo tributo al sound di Flying Burrito Bros, Gram Parsons e early 70s California. Con lui alla voce in gran parte dei brani un americano, l’ottimo Ron Martin, e alcune bravissime vocalist, Rosella Cellamaro, Cecilia Zanzi e Barbara Galafassi. Il disco è suonato benissimo, con travolgenti inserti di banjo, pedal steel, chitarre scintillanti... e sembra di tornare all’epopea di album leggendari come Pickin’ up the Pieces o il primo dei Fratelli Asinelli: http://piedmontbrothersband.com/
A me piacciono. A voi no?
Seriously, sono due ottimi esempi di piccole e in parte auto produzioni che mostrano che a volte nel sottobosco del grande impero si muovono ed esistono realtà vive e degne.
The Beards è un gruppo dell’area veneziana, da anni attivo come cover band di The Band (e scusate, ma ci vuole una gran capacità per fare canzoni come quelle) che pubblica il primo vero disco autografo addirittura per una etichetta americana, la Ancient. Non solo: il disco esce anche in Francia (su doppio vinile) e in Argentina. Il paese sudamericano è stato scelto per la vasta comunità veneta lì emigrata in passato. E Mephisto Potato Sauce (gran titolo) è un affascinante viaggio nella memoria della cultura popolare veneta dei primi del 900, che in modo misterioso si unisce a quella nord americana dello stesso periodo. Con nel cuore il sound magnifico di The Band, i Bears ci mettono dentro anche il Tom Waits più sulfureo e anche qualche scampolo di terra veneta. Confezione lussuosa, in formato libro vintage con belle illustrazioni: http://the-beards.blogspot.com/
L’altra piacevole realtà è Marco Zanzi, da Varese, attivo da anni nella scena bluegrass e country-rock. Con la Piedmont Brothers Band ha pubblicato Bordertown, un eccellente e freschissimo tributo al sound di Flying Burrito Bros, Gram Parsons e early 70s California. Con lui alla voce in gran parte dei brani un americano, l’ottimo Ron Martin, e alcune bravissime vocalist, Rosella Cellamaro, Cecilia Zanzi e Barbara Galafassi. Il disco è suonato benissimo, con travolgenti inserti di banjo, pedal steel, chitarre scintillanti... e sembra di tornare all’epopea di album leggendari come Pickin’ up the Pieces o il primo dei Fratelli Asinelli: http://piedmontbrothersband.com/
A me piacciono. A voi no?
Sunday, January 18, 2009
A Torno ci ritorno
(The magic trio)
Alla fine, non è tanto il gesto che fai, ma gli amici che incontri. Cioè, che aver pubblicato libriccino in questione abbia permesso una serata bella come quella di ieri sera, allora valeva la pena di scriverlo. L'attenzione si è spostata, almeno per me, dall'oggetto - il libro - al soggetto, quello che è successo ieri sera in questa bellissima cittadina sulle rive del Lago di Como. Quella parte del lago che non conoscevo, perché quella opposta alla riva più turistica e famosa, per intenderci quella dove tiene casa George "so' bello" Clooney.
L'amico Maurizio Pratelli è stato un grande padrone di casa organizzando perfettamente questa presentazione di Do you believe in magic? in questo bel locale davanti al porticciolo di Torno, dove ci si arriva solo a piedi. Un po' come essere a Portofino, scherzavamo ieri sera. Che incanto.
(Per un momento, si credette Dante Alighieri...)
In una saletta riscaldata da un camino con il fuoco scoppiettante, sono poi arrivati gli amici. Alessandro "Paramount" Maggiori è stato così gentile da portare una bottiglia magnum (non chiedetemi il nome del vino; io bevo, non leggo) dalla sua personale collezione di grandi vini; Stefano Barotti, bravissimo songwriter con due disch già alle spalle, è venuto fin da Massa, per regalarci una bellissima ripresa di De André, di Bob Marley (Redemption Song, in ricordo di Joe Strummer) e un brano suo. Francesco D'Acri (che migliora day by day) ha aperto la serata con No Surrender e l'ha chiusa con Can't Help Falling in Love With You. In mezzo, una sua composizione nuova di zecca. Che mi è anche piaciuta.
Dopo le chiacchiere sul libro, un'ottima cena con tanto di fried chicken alla texana. I saluti con gli altri amici venuti fin da Milano, un bel contingente della funk-list in gran spolvero (Raff, FF-Federico, Giorgio, Cecilia; mancava solo Nando il padrino, ma si è fatto vivo con un sms... ah... MC dov'eri?), e l'autrice della foto della copertina del libro, Cowboy Annie. E poi nuovi amici conosciuti per la prima volta. Naturalmente c'era anche il Grillo Cantante in persona.
La compagnia è bella e allora ancora qualche bicchiere e si riprendono le chitarre. Un po' come si faceva nelle coffee house di una volta, Francesco e Stefano si scambiano le canzoni, le proprie, ed è un bel sentire. Vorresti che la notte andasse avanti fino alle luci dell'alba, qui a Torno. Its a marvelous night for a moondance.
Ma la strada verso casa sta chiamando ancora una volta. A Torno, però, appena il sole di primavera farà capolino, ci torno.
Ps: attenzione, ci abbiamo preso gusto. Potremmo capitare in your local hometown e fare un'altra serata come questa. Stay tuned. Soprattutto, preparate le bottiglie.
Pps: grazie a federico per le foto.
Alla fine, non è tanto il gesto che fai, ma gli amici che incontri. Cioè, che aver pubblicato libriccino in questione abbia permesso una serata bella come quella di ieri sera, allora valeva la pena di scriverlo. L'attenzione si è spostata, almeno per me, dall'oggetto - il libro - al soggetto, quello che è successo ieri sera in questa bellissima cittadina sulle rive del Lago di Como. Quella parte del lago che non conoscevo, perché quella opposta alla riva più turistica e famosa, per intenderci quella dove tiene casa George "so' bello" Clooney.
L'amico Maurizio Pratelli è stato un grande padrone di casa organizzando perfettamente questa presentazione di Do you believe in magic? in questo bel locale davanti al porticciolo di Torno, dove ci si arriva solo a piedi. Un po' come essere a Portofino, scherzavamo ieri sera. Che incanto.
(Per un momento, si credette Dante Alighieri...)
In una saletta riscaldata da un camino con il fuoco scoppiettante, sono poi arrivati gli amici. Alessandro "Paramount" Maggiori è stato così gentile da portare una bottiglia magnum (non chiedetemi il nome del vino; io bevo, non leggo) dalla sua personale collezione di grandi vini; Stefano Barotti, bravissimo songwriter con due disch già alle spalle, è venuto fin da Massa, per regalarci una bellissima ripresa di De André, di Bob Marley (Redemption Song, in ricordo di Joe Strummer) e un brano suo. Francesco D'Acri (che migliora day by day) ha aperto la serata con No Surrender e l'ha chiusa con Can't Help Falling in Love With You. In mezzo, una sua composizione nuova di zecca. Che mi è anche piaciuta.
Dopo le chiacchiere sul libro, un'ottima cena con tanto di fried chicken alla texana. I saluti con gli altri amici venuti fin da Milano, un bel contingente della funk-list in gran spolvero (Raff, FF-Federico, Giorgio, Cecilia; mancava solo Nando il padrino, ma si è fatto vivo con un sms... ah... MC dov'eri?), e l'autrice della foto della copertina del libro, Cowboy Annie. E poi nuovi amici conosciuti per la prima volta. Naturalmente c'era anche il Grillo Cantante in persona.
La compagnia è bella e allora ancora qualche bicchiere e si riprendono le chitarre. Un po' come si faceva nelle coffee house di una volta, Francesco e Stefano si scambiano le canzoni, le proprie, ed è un bel sentire. Vorresti che la notte andasse avanti fino alle luci dell'alba, qui a Torno. Its a marvelous night for a moondance.
Ma la strada verso casa sta chiamando ancora una volta. A Torno, però, appena il sole di primavera farà capolino, ci torno.
Ps: attenzione, ci abbiamo preso gusto. Potremmo capitare in your local hometown e fare un'altra serata come questa. Stay tuned. Soprattutto, preparate le bottiglie.
Pps: grazie a federico per le foto.
Wednesday, January 14, 2009
Surprise... surprise!
Ha la “voce”, Bruce Springsteen. Una delle grandi, uniche voci della storia del rock. Come Elvis, che anche quando incideva le colonne sonore dei suoi pessimi film degli anni 60, riusciva a rendere credibili anche le peggio schifezze del mondo.
Così Bruce riesce a far diventare credibile e appassionante anche quello che alla fine della fiera è un mix tra la (bellissima) Rhiannon dei Fleetwood Mac e (la meno bella) I Was Made For Loving You dei Kiss (mi riferisco a Outlaw Pete).
Di Working on a Dream apprezzo la voglia di fare qualcosa di nuovo e inedito: lasciate le nostalgiche ambientazioni da classic E Street Band che avevano reso Magic alla fine un auto celebrazione di se stesso, è ripartito dal pezzo migliore di quel disco, Girls on their summer clothes, per abbandonarsi a un suono orchestrato potente, drammatico, degno di Ennio Morricone. In Working on a dream potrebbe suonare chiunque, tanto il sound è lontano da quanto Springsteen abbia mai fatto in precedenza, e questa è una cosa positiva.
Dopo diversi ascolti devo dire che per adesso salvo solo alcuni brani: Outlaw Pete, che comunque riesce a essere un pezzo abbastanza affascinante ed efficace; la splendida, romantica, coinvolgente (il crescendo finale è mozzafiato) Surprise Surprise e Queen of the supermarket, che mi fa venire in mente certi passaggi di un disco come The wild the innocent &…
Il resto mi lascia indifferente, in alcuni casi mi imbarazza (della orribile title track si è già detto da tempo).
Interessante vedere che come Bob Dylan piglia e si attribuisce classici di Muddy Waters (vedi Modern Times), anche Bruce segua quel percorso: Good Eye è Louisiana Blues. Mentre quel verso, "I come and stand at every door" in The Wrestler (un brano che mi lascia freddo) arriva dritto dritto dall’omonima canzone di Pete Seeger.
Così Bruce riesce a far diventare credibile e appassionante anche quello che alla fine della fiera è un mix tra la (bellissima) Rhiannon dei Fleetwood Mac e (la meno bella) I Was Made For Loving You dei Kiss (mi riferisco a Outlaw Pete).
Di Working on a Dream apprezzo la voglia di fare qualcosa di nuovo e inedito: lasciate le nostalgiche ambientazioni da classic E Street Band che avevano reso Magic alla fine un auto celebrazione di se stesso, è ripartito dal pezzo migliore di quel disco, Girls on their summer clothes, per abbandonarsi a un suono orchestrato potente, drammatico, degno di Ennio Morricone. In Working on a dream potrebbe suonare chiunque, tanto il sound è lontano da quanto Springsteen abbia mai fatto in precedenza, e questa è una cosa positiva.
Dopo diversi ascolti devo dire che per adesso salvo solo alcuni brani: Outlaw Pete, che comunque riesce a essere un pezzo abbastanza affascinante ed efficace; la splendida, romantica, coinvolgente (il crescendo finale è mozzafiato) Surprise Surprise e Queen of the supermarket, che mi fa venire in mente certi passaggi di un disco come The wild the innocent &…
Il resto mi lascia indifferente, in alcuni casi mi imbarazza (della orribile title track si è già detto da tempo).
Interessante vedere che come Bob Dylan piglia e si attribuisce classici di Muddy Waters (vedi Modern Times), anche Bruce segua quel percorso: Good Eye è Louisiana Blues. Mentre quel verso, "I come and stand at every door" in The Wrestler (un brano che mi lascia freddo) arriva dritto dritto dall’omonima canzone di Pete Seeger.
Sunday, January 11, 2009
Un momento "wow"
Ieri sera ho visto una cosa che non avrei mai pensato di vedere in questa vita. Il nostro amico Silvano, fan dei giradischi, probabilmente avrebbe sballato. Io l'ho fatto. Cioè, ho sballato quando l'ho visto. Ero a cena dagli amici Giorgio e Paola - fratelli, più che amici - quando lei con nonchalance ha indicato un mobiletto di legno scuro: "Guarda là dentro, sono sicura che apprezzerai".
E' stato uno di quei momenti "wow". Apertolo, dentro c'era un giradischi Viva-Tonal Columbia del 1929. Se avete Time out of Mind di Bob Dylan, ricorderete la bizzarra label che il cantautore fece stampare sul cd: "Viva-tonal Recording - Electrical Process COLUMBIA", quella dei 78 giri degli anni Venti. E funziona ancora. Gli amici hanno tirato fuori, ancora come se fosse la cosa più naturale del mondo, dei pesantissimi raccoglitori originali dell'epoca con dentro 78 giri originali Columbia. Tutta musica classica, e certo che aver avuto la possibilità di sentire un 78 di Robert Johnson sarebbe stata un'altra cosa, ma è stato incredibile lo stesso. Il giradischi si carica con una manovella, poi parte la musica gracchiante, come una nebbia che si squarcia da un "time out of mind", un tempo immemorabile, e sei fuori dal tempo, ma dentro il tempo.
Tutto perfettamente conservato: scatoline per le puntine (che sembrano dei chiodi...), spazzolini per pulire i solchi rigorosamente marcati Columbia, e il documento di vendita originale. Che il giradischi, il nonno della mia amica, se lo fece spedire direttamente da New York, nel 1929. E pure bello costoso, visto che si pagava in 15 rate da 175 lire l'una. Ora, visto che mia mamma subito dopo la guerra, per il suo primo stupendio prese mille lire, fate un po' il conto di quanto fosse costato allora questo grammofono.
Chissà se Bob Dylan ne ha uno uguale a casa sua. Sicuramente sì. Quando gira la manovella e lo suona, probabilmente escono fuori quei fantasmi inquieti che prendono vita poi nelle sue canzoni più recenti. "Metti su un disco" diceva il cantautore "e gli angeli si raccolgono lì intorno". O i fantasmi. Certo che se accendi un i-pod non ne uscirà mai niente.
Thanx Giorgio e Paola. E' stato un gran momento wow, ma non come la vostra amicizia. Che vale di più.
E' stato uno di quei momenti "wow". Apertolo, dentro c'era un giradischi Viva-Tonal Columbia del 1929. Se avete Time out of Mind di Bob Dylan, ricorderete la bizzarra label che il cantautore fece stampare sul cd: "Viva-tonal Recording - Electrical Process COLUMBIA", quella dei 78 giri degli anni Venti. E funziona ancora. Gli amici hanno tirato fuori, ancora come se fosse la cosa più naturale del mondo, dei pesantissimi raccoglitori originali dell'epoca con dentro 78 giri originali Columbia. Tutta musica classica, e certo che aver avuto la possibilità di sentire un 78 di Robert Johnson sarebbe stata un'altra cosa, ma è stato incredibile lo stesso. Il giradischi si carica con una manovella, poi parte la musica gracchiante, come una nebbia che si squarcia da un "time out of mind", un tempo immemorabile, e sei fuori dal tempo, ma dentro il tempo.
Tutto perfettamente conservato: scatoline per le puntine (che sembrano dei chiodi...), spazzolini per pulire i solchi rigorosamente marcati Columbia, e il documento di vendita originale. Che il giradischi, il nonno della mia amica, se lo fece spedire direttamente da New York, nel 1929. E pure bello costoso, visto che si pagava in 15 rate da 175 lire l'una. Ora, visto che mia mamma subito dopo la guerra, per il suo primo stupendio prese mille lire, fate un po' il conto di quanto fosse costato allora questo grammofono.
Chissà se Bob Dylan ne ha uno uguale a casa sua. Sicuramente sì. Quando gira la manovella e lo suona, probabilmente escono fuori quei fantasmi inquieti che prendono vita poi nelle sue canzoni più recenti. "Metti su un disco" diceva il cantautore "e gli angeli si raccolgono lì intorno". O i fantasmi. Certo che se accendi un i-pod non ne uscirà mai niente.
Thanx Giorgio e Paola. E' stato un gran momento wow, ma non come la vostra amicizia. Che vale di più.
Wednesday, January 07, 2009
Maybe California
Il localino, intitolato a una canzone di Vinicio Capossela, sperduto nella Brianza (alcolica, of course) è dove li incontro, Chris Burroughs e Neal Casal. Ho arrancato nella notte fino a qui, perdendomi e ritrovandomi una mezza dozzina di volte, ma se Chris Burroughs non lo conosco ancora (avrò modo di apprezzare le sue qualità durante la serata) per la prima volta di Neal Casal in Italia faccio questo e altro.
Credo fosse il 1997, non ricordo se primavera, autunno o inverno. Propendo per la stagione fredda, dato che nell'intervallo tra i loro due set, introduco i due songwriter americani ai piaceri della grappa. Burroughs, da vero rocker abituato a tequila shots, manda giù senza mostrare particolari segni. Neal vacilla, tossisce e barcolla: "Fuck man...". Deve essergli paciuta però, perché quando dieci anni dopo ci ritroviamo (su Internet), quando gli chiedo se si ricorda di me, dice: "Come non potrei? Sei quello che mi ha fatto bere il mio primo bicchiere di grappa!".
Deve averne bevuta da allora, evidentemente. Diciamo che sono stato anche il primo giornalista italiano a intervistarlo, all'indomani dell'uscita dell'entusiasmante, formidabile, tutt'oggi bellissimo suo esordio, Fade Away Diamond Time (1995). Un disco che ci lasciò tutti a bocca aperta, con quel capolavoro assoluto che era Free to Go che sembrava arrivare dritto dritto dai solchi di Zuma di Neil Young, solo suonato e cantato ancora meglio. Non ricordo più come feci a trovarlo per intervistarlo, perché, un anno dopo quel disco che sembrava dovesse lanciarlo nel firmamento dei nuovi rocker d'America, Neal Casal era già senza contratto e casa discografica, scaricato nel corso di una battaglia legale e di tagli fra la sua etichetta, la Zoo, e la potente BMG che si rifiutò improvvisamente di distribuire il suo cd dopo una breve apparizione nei negozi. Coglioni.
Fu ciò che ne bloccò per sempre la possibilità di diventare una star, per questo ragazzo del New Jersey perdutamente innamorato della California anni 70. Ma non gli impedì di continuare a fare dischi sempre belli, anzi bellissimi, solo pubblicati per oscure etichette europee, continente nel quale continuò a esibirsi mentre negli States nessuno sapeva chi fosse. Destino comune a tanti americani in esilio, da Elliott Murphy a Wlly DeVille...
Lo avrei visto live ancora un paio di volte, anche full band in una entusiasmante serata a Sesto Calende per pochi intimi.
Tra i suoi tanti bei dischi, mi piace ricordare l'oscuro, doloroso, di purissima bellezza acustica Basement Dreams, come se Nick Drake fosse vissuto a Malibu; l'ambizioso Anytime Tomorrow, con quei rimandi agli Stones di Exile on Main Street (Willow Jane è la più bella canzone rock dai tempi di Sweet Virginia) e ai Beach Boys (Oceanview è una finestra aperta tra Pet Sounds e Smile). La divertente avventura degli Hazy Malaze, poi, due dischi intrisi di funk e rock-blues come se Sly Stone e James Brown fossero stati negli Eagles. E ancora: Rain, Wind and Speed. Poi anche un disco splendido in coppia con la bravissima (e bellissima) Shannon McNally. Quante belle storie, quante grandi canzoni. Una voce capace di armonizzare come pochissimi, un tocco di chitarra acustica da paura, degno del miglior David Crosby in acido e in open tunings...
E che fa Neal Casal, visto che i suoi dischi se li comprano pochi pazzi? Per arrotondare, visto che è un chitarrrista con le palle, prima va a suonare nella band di Lucinda Williams. Qualche anno fa gli avevano chiesto anche di unirsi ai Black Crowes. Poi approda a quella di Ryan Adams. Argh. Via e-mail, talvolta abbiamo discusso di come sia ingenerosa la vita, se uno come lui, con il suo talento un milione di volte superiore a quello di Adams, deve adattarsi a far ciò. Lui l'ha sempre messa in ridere, difendendo il Ryan, dicendo che è un genio. "You are the fucking real thing" gli ho sempre risposto io. Ma non importa, mi sembra contento e soddisfatto. E' sempre stato uno semplice e umile, Neal.
Mi ha detto, l'altro giorno, quando gli ho detto quanto mi sembri bello il suo nuovo disco, Roots and Wings: "So glad you like my new record, that means alot to me. For me, it's the best one I've ever made". God bless you Neal, and keep rockin'.
Ps: c'è anche un bel sito italiano dedicato a Casal per chi vuole saperne di più: http://www.nealcasal.it/
Credo fosse il 1997, non ricordo se primavera, autunno o inverno. Propendo per la stagione fredda, dato che nell'intervallo tra i loro due set, introduco i due songwriter americani ai piaceri della grappa. Burroughs, da vero rocker abituato a tequila shots, manda giù senza mostrare particolari segni. Neal vacilla, tossisce e barcolla: "Fuck man...". Deve essergli paciuta però, perché quando dieci anni dopo ci ritroviamo (su Internet), quando gli chiedo se si ricorda di me, dice: "Come non potrei? Sei quello che mi ha fatto bere il mio primo bicchiere di grappa!".
Deve averne bevuta da allora, evidentemente. Diciamo che sono stato anche il primo giornalista italiano a intervistarlo, all'indomani dell'uscita dell'entusiasmante, formidabile, tutt'oggi bellissimo suo esordio, Fade Away Diamond Time (1995). Un disco che ci lasciò tutti a bocca aperta, con quel capolavoro assoluto che era Free to Go che sembrava arrivare dritto dritto dai solchi di Zuma di Neil Young, solo suonato e cantato ancora meglio. Non ricordo più come feci a trovarlo per intervistarlo, perché, un anno dopo quel disco che sembrava dovesse lanciarlo nel firmamento dei nuovi rocker d'America, Neal Casal era già senza contratto e casa discografica, scaricato nel corso di una battaglia legale e di tagli fra la sua etichetta, la Zoo, e la potente BMG che si rifiutò improvvisamente di distribuire il suo cd dopo una breve apparizione nei negozi. Coglioni.
Fu ciò che ne bloccò per sempre la possibilità di diventare una star, per questo ragazzo del New Jersey perdutamente innamorato della California anni 70. Ma non gli impedì di continuare a fare dischi sempre belli, anzi bellissimi, solo pubblicati per oscure etichette europee, continente nel quale continuò a esibirsi mentre negli States nessuno sapeva chi fosse. Destino comune a tanti americani in esilio, da Elliott Murphy a Wlly DeVille...
Lo avrei visto live ancora un paio di volte, anche full band in una entusiasmante serata a Sesto Calende per pochi intimi.
Tra i suoi tanti bei dischi, mi piace ricordare l'oscuro, doloroso, di purissima bellezza acustica Basement Dreams, come se Nick Drake fosse vissuto a Malibu; l'ambizioso Anytime Tomorrow, con quei rimandi agli Stones di Exile on Main Street (Willow Jane è la più bella canzone rock dai tempi di Sweet Virginia) e ai Beach Boys (Oceanview è una finestra aperta tra Pet Sounds e Smile). La divertente avventura degli Hazy Malaze, poi, due dischi intrisi di funk e rock-blues come se Sly Stone e James Brown fossero stati negli Eagles. E ancora: Rain, Wind and Speed. Poi anche un disco splendido in coppia con la bravissima (e bellissima) Shannon McNally. Quante belle storie, quante grandi canzoni. Una voce capace di armonizzare come pochissimi, un tocco di chitarra acustica da paura, degno del miglior David Crosby in acido e in open tunings...
E che fa Neal Casal, visto che i suoi dischi se li comprano pochi pazzi? Per arrotondare, visto che è un chitarrrista con le palle, prima va a suonare nella band di Lucinda Williams. Qualche anno fa gli avevano chiesto anche di unirsi ai Black Crowes. Poi approda a quella di Ryan Adams. Argh. Via e-mail, talvolta abbiamo discusso di come sia ingenerosa la vita, se uno come lui, con il suo talento un milione di volte superiore a quello di Adams, deve adattarsi a far ciò. Lui l'ha sempre messa in ridere, difendendo il Ryan, dicendo che è un genio. "You are the fucking real thing" gli ho sempre risposto io. Ma non importa, mi sembra contento e soddisfatto. E' sempre stato uno semplice e umile, Neal.
Mi ha detto, l'altro giorno, quando gli ho detto quanto mi sembri bello il suo nuovo disco, Roots and Wings: "So glad you like my new record, that means alot to me. For me, it's the best one I've ever made". God bless you Neal, and keep rockin'.
Ps: c'è anche un bel sito italiano dedicato a Casal per chi vuole saperne di più: http://www.nealcasal.it/
Friday, January 02, 2009
Margherita e il poeta
Fra poco più di una settimana tutta l'Italia musicale - e non - si fermerà per ricordare i dieci anni dalla scomparsa del grande genovese, il maestro dei cantautori, il poeta: Fabrizio de André. Ne parleranno tutti e allora eviterò di farlo anche io, che peraltro non ne ho neanche i numeri, avendo da sempre prestato poca attenzione alla musica italiana: il De André che ho amato io è quello del post-Rimini, perché a me contemporaneo, perché più rock, perché più ironico. Perché ha inciso una gran bella versione di un pezzo di Bob Dylan, Romance in Durango (ma lo aveva fatto anche prima con Desolation Row). E soprattutto perché ha inciso il più bel disco italiano di sempre, Creuza de ma, e non lo dico perché sono genovese anche io, ma perché è vero. Belìn.
Il mio amico Mark Harris sta preparando una serata tributo che andrà in onda l'11 gennaio appunto, durante il programma di Fazio: c'è molta curiosità al proposito anche perché per ragioni cotnrattuali non ha potuto rivelare i nomi dei partecipanti. Sicuramente sarà l'evento musicale in ricordo di De André da vedere e ascoltare.
Non avendo neanche mai incontrato di persona Fabrizio (il più vicino che ci sono andato fu una sera che ero a casa di Massimo Bubola, poco prima di un Natale di metà anni 90; squillò il telefono ed era "il grande vecchio", come lo chiamava lui, che chiamava per fare gli auguri. Ricordo che l'atteggiamento, sempre simpaticamente spavaldo e sicuro di sé di Massimo, cambiò per farsi improvvisamente umile e filiale) non ho proprio i numeri per scrivere di lui. Dirò allora due parole su sua moglie Dori. Spesso (sempre?) ci si dimentica che per essere la compagna di un artista, di un genio, ci vogliono un coraggio e una forza incredibili. Spesso ci si dimentica la fatica che fanno le donne di questi uomini; spesso ci si dimentica di loro. Dori Ghezzi l'ho incontrata, una volta. Eravamo a un mega party dedicato a Peter Gabriel (potete immaginare il mio interesse... peraltro ci mise ore ad arrivare e io per quando lui si degnò di giungere me ne ero già andato a casa) quando al colmo della noia svoltai in una saletta riservata. Vidi dall'ingresso la Nanda, la carissima Fernanda Pivano, e andai verso di lei per salutarla. Mentre ci baciavamo, scorsi a fianco a lei una bellissima donna di cui non mi ero accorto da lontano. La Nanda ci presentò, era Dori Ghezzi. Come sempre, facendomi immeritati complimenti sul mio ruolo di pseudo esperto dylaniano. Rimasi però scioccato quando Dori esclamò: "Ma certo, Paolo Vites! Chiunque sia appassionato di Bob Dylan in Italia non può che leggere quello che scrive lui". O qualcosa del genere.
Non riuscii a spiccicare parola, al massimo mormorando mentalmente un "sti....". Pensare che Dori Ghezzi avesse mai letto qualcosa di mio era emozionante; pensare che in casa De André fosse giunto qualcuno dei miei scarabocchi dylaniani lo era ancora di più. Pensare che Fabrizio lo avesse letto anche lui, era... wow. Cercai di pensare se non avessi mai scritto qualche corbelleria su di lui, ma se anche lo avessi fatto, evidentemente ero stato perdonato.
Comunque Dori, quella sera, era bellissima. Ancora lo è. Ha fatto compagnia a un grande artista, e tanto basta. E ha interpretato una canzone che a me piace tantissimo. Credo che uscì poco dopo che avevo finito la scuola, ma delle ragazze che incontravo a scuola tra la fine dei 70 e i primi 80 quella canzone incarnava benissimo la confusione, lo smarrimento, la passione. Ragazze come Dori, che guardavano alla vita con malinconia e desiderio. Ragazze come Margherita.
Il mio amico Mark Harris sta preparando una serata tributo che andrà in onda l'11 gennaio appunto, durante il programma di Fazio: c'è molta curiosità al proposito anche perché per ragioni cotnrattuali non ha potuto rivelare i nomi dei partecipanti. Sicuramente sarà l'evento musicale in ricordo di De André da vedere e ascoltare.
Non avendo neanche mai incontrato di persona Fabrizio (il più vicino che ci sono andato fu una sera che ero a casa di Massimo Bubola, poco prima di un Natale di metà anni 90; squillò il telefono ed era "il grande vecchio", come lo chiamava lui, che chiamava per fare gli auguri. Ricordo che l'atteggiamento, sempre simpaticamente spavaldo e sicuro di sé di Massimo, cambiò per farsi improvvisamente umile e filiale) non ho proprio i numeri per scrivere di lui. Dirò allora due parole su sua moglie Dori. Spesso (sempre?) ci si dimentica che per essere la compagna di un artista, di un genio, ci vogliono un coraggio e una forza incredibili. Spesso ci si dimentica la fatica che fanno le donne di questi uomini; spesso ci si dimentica di loro. Dori Ghezzi l'ho incontrata, una volta. Eravamo a un mega party dedicato a Peter Gabriel (potete immaginare il mio interesse... peraltro ci mise ore ad arrivare e io per quando lui si degnò di giungere me ne ero già andato a casa) quando al colmo della noia svoltai in una saletta riservata. Vidi dall'ingresso la Nanda, la carissima Fernanda Pivano, e andai verso di lei per salutarla. Mentre ci baciavamo, scorsi a fianco a lei una bellissima donna di cui non mi ero accorto da lontano. La Nanda ci presentò, era Dori Ghezzi. Come sempre, facendomi immeritati complimenti sul mio ruolo di pseudo esperto dylaniano. Rimasi però scioccato quando Dori esclamò: "Ma certo, Paolo Vites! Chiunque sia appassionato di Bob Dylan in Italia non può che leggere quello che scrive lui". O qualcosa del genere.
Non riuscii a spiccicare parola, al massimo mormorando mentalmente un "sti....". Pensare che Dori Ghezzi avesse mai letto qualcosa di mio era emozionante; pensare che in casa De André fosse giunto qualcuno dei miei scarabocchi dylaniani lo era ancora di più. Pensare che Fabrizio lo avesse letto anche lui, era... wow. Cercai di pensare se non avessi mai scritto qualche corbelleria su di lui, ma se anche lo avessi fatto, evidentemente ero stato perdonato.
Comunque Dori, quella sera, era bellissima. Ancora lo è. Ha fatto compagnia a un grande artista, e tanto basta. E ha interpretato una canzone che a me piace tantissimo. Credo che uscì poco dopo che avevo finito la scuola, ma delle ragazze che incontravo a scuola tra la fine dei 70 e i primi 80 quella canzone incarnava benissimo la confusione, lo smarrimento, la passione. Ragazze come Dori, che guardavano alla vita con malinconia e desiderio. Ragazze come Margherita.
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