You had me several years ago
When I was still quite naive
Well, you said that we made such a pretty pair
And that you would never leave
But you gave away the things you loved
And one of them was me
I had some dreams they were clouds in my coffee
Clouds in my coffee, and
You're so vain
You probably think this song is about you
You're so vain
I'll bet you think this song is about you
Don't you? Don't you?
"Uno dei grandi misteri della musica è stato risolto", dice l'annunciatrice di questo programma televisivo, con grande enfasi. Oddio, non è che fosse poi uno di quei misteri che ci facevano perdere il sonno, per quantro intrigante.
In ogni caso, sì ci siamo chiesti tutti per decenni se il macho spezzacuori protagonista della bellissima You're so vain della ancor più bellissima (anche oggi, a 60 anni suonati) Carly Simon fosse Mick Jagger (che nel brano è anche ai cori), Cat Stevens, con cui Carly proprio in quei primissimi anni 70 aveva una love story e che le dedicò una esplicita e splendida Sweet Scarlet, Kris Kristofferson o Warren Beatty. Con i quali tutti ebbe delle love story... prima di sposare James Taylor. Da cui divorziò per una love story con il batterista della sua band, Russ Kunkel. Invece, in una nuova versione, la Simon sussurra il nome di David Geffen, il gran guru della discografia ai tempi (fondatore della Asylum, la casa discografica che come da nome dava "asilo" agli artisti esordienti troppo impegnati per essere presi dalle major 'commerciali' e che poi negli anni 80 si mise a sfornare la peggio musica da classifica, finendo per far causa a Neil Young perché faceva dischi "non sufficientemente commerciali".. oibò...), di Hollywood oggi. Che ironia della sorte è da qualche pure tempo gay dichiarato.
Se devo dire una canzone che ha segnato i miei anni 70 - non cambiato i miei anni 70, che quello lo fece Hurricane di Bob Dylan - è proprio You're so vain. Canzone melodicamente perfetta, degna dei grandi classici della musica pop, dal fascino irresistibile, cantata con una voce femminile ma maschia in modo inquietante, e che nel testo sputa simpatico disprezzo sui tanti maschietti che si pavoneggiano sciupafemmine. You're so vain è uno dei primi brillanti esempi di canzone femminista, piena di orgoglio e di baldanza (il verso "clouds in my coffee" è uno dei meglio riusciti di ogni epoca, quei versi che ritraggono in metafora momenti di realtà in modo tale che per il resto della tua vita ogni caffè che bevi in certi momenti balordi avrà per sempre nuvole dentro), da ridicolizzare tante PJ Harvey dei giorni nostri che si piangono addosso nel fare il conto degli assorbenti gettati in spazzatura.
Carly e il Gatto Stevens
Questo è quello che io posso percepire ascoltando questa canzone. Che come ogni buona canzone rock, ha dentro molte più ragioni e motivazioni. Quando la scrisse, Carly era già incinta del primo figlio avuto con James Taylor, Ben, e stava pensando a una canzone a lui dedicata. Quindi le love stories erano già cosa del passato. Inoltre, proprio il verso "clouds in my coffee" fa riferimento al disco Clouds di Joni Mitchell, altra artista di Geffen, che Carly pensava venisse promossa meglio e in modo più massiccio di quanto lo stesso Geffen stesse facendo per lei. Invidie femminili, dunque? Poco importa, perché You're so vain non perde, dopo aver saputo queste cose, un grammo del suo fascino e della sua forza.
Carly Simon non è sola la bellona di cui negli anni 70 quasi quasi compravamo i dischi perché ritratta in foto da urlo sulle copertine: figlia di quel Simon, co-proprietario della casa editrice Simon & Schuster, una delle più potenti d'America, già negli anni 60 bazzicava il Greenwich in coppia con la sorellina, cantando folk impegnato. Esplosa nei primi 70, ha portato avanti una carriera dignitosa costellata anche di dischi di alta classe ben lontani dal mondo del pop, vincendo anche una battaglia contro un tumore. La ricordo anche nel film No Nukes cantare una strepitosa The Times They Are A-Changin' insieme a Taylor, John Hall e Graham Nash.
Di You're so vain recentemente Susanna Hoffs e Matthew Sweet hanno inciso una riuscita cover, ma per me questa canzone resta uno dei molti motivi per essere orgoglioso di essere stato ragazzo negli anni 70, quando si cantavano canzoni come questa. I'm so freakin' vain!
Saturday, February 27, 2010
Thursday, February 25, 2010
Women and country. And Mojo
Guai a dire che vi piace Jakob Dylan. E no, non si può. C'è un solo Dylan, e il suo nome fa Bob. Chissefrega. A me è sempre piaciuto, Jakob, sin dal primo disco con i suoi Wallflowers, del lontano 1992. E il suo esordio solista di due anni fa, Seeing Things, è un disco splendido che ascolto ancora oggi di continuo.
Women and Country è il nuovo episodio, in uscita fra circa un mese. E' prodotto, come il secondo dei Wallflowers, quello che vendette qualche milionata di copie, da T-Bone Burnett e a differenza di Seeing Things vede la partecipazione di un bel po' di musicisti (tra cui Neko Case e Marc Ribot), tra cui anche una sezione fiati.
A questo link una anteprima, il brano Nothin' But the Whole Wide World:
http://tiny.cc/EM5Ah
L'altra bella notizia è che più o meno in contemporanea esce anche il primo disco in studio di Tom Petty and the Heartbreakers da otto anni a questa parte. Si intitola Mojo il che è un buon viatico per finire sulla copertina dell'omonima autorevole rivista inglese. Anche di questo una anteprima, un brano spettacolare nel miglior stile degli Spezzacuori, una lunga rock ballad dai sapori psichedelici, Good Enough:
http://www.tompetty.com/news/title/listen-to-good-enough
Bene, c'è da che essere contenti di tutta questa bonanza. Ne approffitto per lanciare un SOS: c'è qualcuno dei miei appassionati lettori che se ne intende di wordpress? I layout di blogger mi sono venuti a nausea, mentre wordpress offre un sacco di potenzialità in più, di fatto di fare dei veri e propri piccoli siti, cosa di cui questo ormai vecchio blog ha sempre più bisogno. Così se c'è qualcuno meno tecnologicamente idiota di me, please si faccia avanti. Pago. In natura. Se donne, meglio.
Tuesday, February 23, 2010
Photographs & memories
Quanti ragazzini hanno tenuto in mano una chitarra come possibilità, sogno di una vita diversa, affascinante possibilità di ingresso a un mondo diverso, un altro mondo. Quanti ragazzini l'hanno a un certo punto mollata lì, da qualche parte. George Harrison già sapeva, sebbene ragazzino come tanti, che quella chitarra non l'avrebbe mollata più, fino a farla piangere.
Altri, invece di stringere una chitarra, da ragazzini già stringevano fra le braccia una ragazza. Poi la chitarra l'avrebbero presa anche loro, per cantare con essa l'amore per quella ragazza, tante, troppe altre ragazze, poi donne. Come Bob Dylan, ragazzino
Quanti, diventati ormai vecchi, si sono fermati a ripensare a quella ragazzina, a quella chitarra. Tutte e due, la chitarra e la ragazza, per sempre nel cuore.
(Foto di Jeff Bridges)
Altri, invece di stringere una chitarra, da ragazzini già stringevano fra le braccia una ragazza. Poi la chitarra l'avrebbero presa anche loro, per cantare con essa l'amore per quella ragazza, tante, troppe altre ragazze, poi donne. Come Bob Dylan, ragazzino
Quanti, diventati ormai vecchi, si sono fermati a ripensare a quella ragazzina, a quella chitarra. Tutte e due, la chitarra e la ragazza, per sempre nel cuore.
(Foto di Jeff Bridges)
Sunday, February 21, 2010
Festival
Sanremo sostiene la musica: dal festival escono canzoni che nessuno si sognerebbe di scaricare illegalmente
(spinoza.it)
Dopo decenni mi sono sciroppato una puntata - quasi - intera del festivalone, più l'ultima parte dell'ultima serata. Motivi di lavoro. Sono rimasto così stranito dal vedere e sentire che a discapito di una Commissione Artistica (artistica, capite, e commissione pure) si sia presentata davanti alla telecamere una tale sfilata di stonati. Stonati da paura. E uno di questi stonati abbia pure vinto. Non mi lamento tanto del livello compositivo dei brani, che era pure mediamente orribile. Dico la non capacità di cantare, che una Commissione Artistica dovrebbe saper valutare. E allora? Raccomandazioni, spinte e spintoni, pressioni varie, ovvio. E lo squallido incrocio di promozioni assortite a cu si è assistito tutto il tempo, tra X Factor, Amici, Rai, Mediaset e Casa Savoia. E l'orchestra finto incazzata che butta via gli spartiti per protesta quando è solo una trovata degli autori, parte del copione. E il siparietto di politici in cerca di voto poco prima di annunciare il vincitore, il momento di massimo ascolto. Fa un po' schifo, ma come diceva un leggendario quotidianista musicale ancora sulla breccia, "un buon disco si giudica dal buffet".
Ho letto anche, da parte di chi vorrebbe chiudere il festivalone - magari ci riuscisse - robe tipo "un'operazione (l'apostrofo l'ho messo io che in originale non c'era, nda) monetaria e televisiva più vicina alla 'Ndrangheta che a Woodstock". Cazzo centra Sanremo con Woodstock. A sua scusante devo dire che il personaggio poi ha aggiunto: "Nessun giornalista musicale importante, fuori da quelli italiani collusi con le compagnie discografiche, è mai andato al Festival di Sanremo". Il che è proprio vero. Io infatti non sono mai andato a Sanremo. Però i giornalisti collusi con le case discografiche si trovano anche ai concerti di Bruce Springsteen.
Allora grazie ai Calibro 35 (yessss...) ho riscoperto una canzone meravigliosa, di quando Sanremo neanche allora era Woodstock - per fortuna - ma accidenti se sapevano cantare. C'è un tipo, meglio c'era, di canzone tutta italiana che ha - aveva - una dignità pari alle migliori canzoni rock. Modugno, ovvio, un gigante. Mina, a livello di Aretha Franklin. E questo brano che i Calibro 35, una delle due loro incisioni in cui usano un cantante, avevano aggiunto come bonus alla ristampa del primo disco. Mi sbalordisco. E vado a recuperare l'originale.
Io non so se Ornella Vanoni stesse recitando una parte, mentre cantava, fingendo benissimo. Ma sembra sul punto di scoppiare in lacrime in più di una occasione. Il modo in cui si porta la mano destra, tremante, alla fronte. Il modo in cui piega leggermente il capo e chiude gli occhi. La sofferenza balza fuori da lei e sbatte violenta su chi sta guardando. E' impossibile rimanere indifferenti, anche per quella voce così esposta, così umanamente nuda mentre dispiega il suo dolore, quasi tremante anche la voce. E' dentro, la Vanoni, totalmente dentro a ciò che sta cantando. Le bellissime parole scritte da Bruno Lauzi, che solo chi ha dato tutto se stesso per amore riesce a capire, a sentire nel cuore come una lama gelida che lo sta tagliando in due. Quel sentimento di solitudine totale pur in mezzo alla folla che a volte può prendere come un assalto di panico totale. Perché è così che siamo, soli nella folla. Quel bisogno insopprimibile che l'altro, un altro, si faccia presente. Ora e adesso. Perché io non mi basto, da solo.
E le grida, qua e là, di qualche spettatore, che non riesce a contenersi. Proprio come a un concerto rock. Urla che sembrano di contestazione, ma che rappresentano invece un legame artista-spettatore che fa paura. Una performance di nudità insopportabile. E che melodia. Una melodia che apre abissi vertiginosi nelle profondità del cuore.
C'era una volta in cui ci si poteva dire orgogliosi delle canzoni italiane.
La versione dei Calibro:
(spinoza.it)
Dopo decenni mi sono sciroppato una puntata - quasi - intera del festivalone, più l'ultima parte dell'ultima serata. Motivi di lavoro. Sono rimasto così stranito dal vedere e sentire che a discapito di una Commissione Artistica (artistica, capite, e commissione pure) si sia presentata davanti alla telecamere una tale sfilata di stonati. Stonati da paura. E uno di questi stonati abbia pure vinto. Non mi lamento tanto del livello compositivo dei brani, che era pure mediamente orribile. Dico la non capacità di cantare, che una Commissione Artistica dovrebbe saper valutare. E allora? Raccomandazioni, spinte e spintoni, pressioni varie, ovvio. E lo squallido incrocio di promozioni assortite a cu si è assistito tutto il tempo, tra X Factor, Amici, Rai, Mediaset e Casa Savoia. E l'orchestra finto incazzata che butta via gli spartiti per protesta quando è solo una trovata degli autori, parte del copione. E il siparietto di politici in cerca di voto poco prima di annunciare il vincitore, il momento di massimo ascolto. Fa un po' schifo, ma come diceva un leggendario quotidianista musicale ancora sulla breccia, "un buon disco si giudica dal buffet".
Ho letto anche, da parte di chi vorrebbe chiudere il festivalone - magari ci riuscisse - robe tipo "un'operazione (l'apostrofo l'ho messo io che in originale non c'era, nda) monetaria e televisiva più vicina alla 'Ndrangheta che a Woodstock". Cazzo centra Sanremo con Woodstock. A sua scusante devo dire che il personaggio poi ha aggiunto: "Nessun giornalista musicale importante, fuori da quelli italiani collusi con le compagnie discografiche, è mai andato al Festival di Sanremo". Il che è proprio vero. Io infatti non sono mai andato a Sanremo. Però i giornalisti collusi con le case discografiche si trovano anche ai concerti di Bruce Springsteen.
Allora grazie ai Calibro 35 (yessss...) ho riscoperto una canzone meravigliosa, di quando Sanremo neanche allora era Woodstock - per fortuna - ma accidenti se sapevano cantare. C'è un tipo, meglio c'era, di canzone tutta italiana che ha - aveva - una dignità pari alle migliori canzoni rock. Modugno, ovvio, un gigante. Mina, a livello di Aretha Franklin. E questo brano che i Calibro 35, una delle due loro incisioni in cui usano un cantante, avevano aggiunto come bonus alla ristampa del primo disco. Mi sbalordisco. E vado a recuperare l'originale.
Io non so se Ornella Vanoni stesse recitando una parte, mentre cantava, fingendo benissimo. Ma sembra sul punto di scoppiare in lacrime in più di una occasione. Il modo in cui si porta la mano destra, tremante, alla fronte. Il modo in cui piega leggermente il capo e chiude gli occhi. La sofferenza balza fuori da lei e sbatte violenta su chi sta guardando. E' impossibile rimanere indifferenti, anche per quella voce così esposta, così umanamente nuda mentre dispiega il suo dolore, quasi tremante anche la voce. E' dentro, la Vanoni, totalmente dentro a ciò che sta cantando. Le bellissime parole scritte da Bruno Lauzi, che solo chi ha dato tutto se stesso per amore riesce a capire, a sentire nel cuore come una lama gelida che lo sta tagliando in due. Quel sentimento di solitudine totale pur in mezzo alla folla che a volte può prendere come un assalto di panico totale. Perché è così che siamo, soli nella folla. Quel bisogno insopprimibile che l'altro, un altro, si faccia presente. Ora e adesso. Perché io non mi basto, da solo.
E le grida, qua e là, di qualche spettatore, che non riesce a contenersi. Proprio come a un concerto rock. Urla che sembrano di contestazione, ma che rappresentano invece un legame artista-spettatore che fa paura. Una performance di nudità insopportabile. E che melodia. Una melodia che apre abissi vertiginosi nelle profondità del cuore.
C'era una volta in cui ci si poteva dire orgogliosi delle canzoni italiane.
La versione dei Calibro:
Friday, February 19, 2010
Milano è Calibro 35
Calibro 35: Italian jam band performing golden age soundtracks and original compositions
Ci riempiamo spesso la bocca con nomi altisonanti di jam band d'oltreoceano, o ci culliamo nella memoria di certo prog rock anni 70 o addirittura andiamo a cercare con il lanternino, tra il Galles e la Cornovaglia, gli eredi di quel genere musicale per poi non accorgerci che una delle migliori jam band al mondo, attitudine prog certamente, ma soprattutto rock, gioca a casa nostra.
Io li ho visti in azione ieri sera al Circolo Magnolia - dove peraltro si servono le migliori grappe del circuito musicale, e soprattutto le signorine al bancone ancora non hanno capito che la grappa non se ne versa nel bicchiere come fosse Coca Cola, ma non saremo certo noi a farglielo osservare.
Sto parlando dei travolgenti Calibro 35, e da ieri sera Milano ha una pistola puntata alla testa, calibro 35 ovviamente, quella brandita dai formidabili Luca "Nano" Cavina - basso; Enrico Gabrielli - tastiere, sassofono e flauto traverso; Massimo Martellotta - chitarra elettrica; e l'immenso Fabio Rondanini - batteria, che quasi quasi potrebbe mettere in fila anche Kenny Aronoff. Credo sia il drummer numero uno d'Italia. Tutta gente che normalmente è impegnata in decine di altre collaborazioni musicali, ma che quando si ritrovano insieme bruciano ad altissima potenza.
Tenere attaccate al palco un migliaio di persone per un paio d'ore con soli pezzi strumentali la dice lunga del tiro che hanno i Calibro: riffoni frenetici di chitarra, che grondano feeling funk ed euforia rock, tastiere Hammond che sembrava di essere dalle parti di Harlem negli anni 50 e costruzioni musicali ardite, impennate musicali cosmiche, furore metropolitano che spacca. Straordinari, davvero, con la loro pazza idea di riprendere le musiche dei film polizieschi degli anni 70 e onorarle a forza di bordate musicali (che è una idea del geniale Tommaso Colliva, il loro producer).
Il loro secondo disco, Ritornano quelli di.. Calibro 35, è appena uscito. Mentre aspettate di sapere quando suoneranno nella vostra città, non fatevelo mancare. Io intanto vado a cercare il primo, che come al solito ho snobbato quando si tratta di musica made in Italy. Ma l'Italia adesso può essere orgogliosa di avere finalmente una autentica rock band.
Ci riempiamo spesso la bocca con nomi altisonanti di jam band d'oltreoceano, o ci culliamo nella memoria di certo prog rock anni 70 o addirittura andiamo a cercare con il lanternino, tra il Galles e la Cornovaglia, gli eredi di quel genere musicale per poi non accorgerci che una delle migliori jam band al mondo, attitudine prog certamente, ma soprattutto rock, gioca a casa nostra.
Io li ho visti in azione ieri sera al Circolo Magnolia - dove peraltro si servono le migliori grappe del circuito musicale, e soprattutto le signorine al bancone ancora non hanno capito che la grappa non se ne versa nel bicchiere come fosse Coca Cola, ma non saremo certo noi a farglielo osservare.
Sto parlando dei travolgenti Calibro 35, e da ieri sera Milano ha una pistola puntata alla testa, calibro 35 ovviamente, quella brandita dai formidabili Luca "Nano" Cavina - basso; Enrico Gabrielli - tastiere, sassofono e flauto traverso; Massimo Martellotta - chitarra elettrica; e l'immenso Fabio Rondanini - batteria, che quasi quasi potrebbe mettere in fila anche Kenny Aronoff. Credo sia il drummer numero uno d'Italia. Tutta gente che normalmente è impegnata in decine di altre collaborazioni musicali, ma che quando si ritrovano insieme bruciano ad altissima potenza.
Tenere attaccate al palco un migliaio di persone per un paio d'ore con soli pezzi strumentali la dice lunga del tiro che hanno i Calibro: riffoni frenetici di chitarra, che grondano feeling funk ed euforia rock, tastiere Hammond che sembrava di essere dalle parti di Harlem negli anni 50 e costruzioni musicali ardite, impennate musicali cosmiche, furore metropolitano che spacca. Straordinari, davvero, con la loro pazza idea di riprendere le musiche dei film polizieschi degli anni 70 e onorarle a forza di bordate musicali (che è una idea del geniale Tommaso Colliva, il loro producer).
Il loro secondo disco, Ritornano quelli di.. Calibro 35, è appena uscito. Mentre aspettate di sapere quando suoneranno nella vostra città, non fatevelo mancare. Io intanto vado a cercare il primo, che come al solito ho snobbato quando si tratta di musica made in Italy. Ma l'Italia adesso può essere orgogliosa di avere finalmente una autentica rock band.
Thursday, February 11, 2010
Rockin' the White House
Come gather 'round people...
Quasi 50 anni fa, un ragazzo ebreo del Minnesota, fortunato abbastanza da essere stato invitato a esibirsi alla Marcia per i Diritti Civili a Washington organizzata da Martin Luther King, impressionato dall'evento, scrive una canzone, destinata a diventare inno e simbolo di quell'epoca storica, The Times They Are A-Changin'.
Un paio di mesi dopo il presidente degli Stati Uniti John Kennedy viene ucciso. La sera di quel tragico giorno, lo stesso ragazzo si deve esibire in concerto. Riluttante e sconvolto da quanto accaduto a Dallas quel giorno, apre lo show come faceva gni sera, con The Times They Are A-Changin' che questa sera suona ironica e svuotata di ogni suo significato.
The Times They Are A-Changin' ha certamente avuto, sin da quando venne composta, un aspetto da "inno generazionale" e sociale. Ma non è mai stata solo quello. Come ogni canzone di Bob Dylan, essa fuoriesce dal contesto storico in cui ha preso forma, e lo trascende. La ruota sta ancora girando e non è destinata a fermarsi probabilmente mai; il primo e l'ultimo, il lento e il veloce continuano a scambiarsi di posto e sempre lo faranno. Il presente, sempre, è destinato a diventare passato e l'ordine corrente delle cose domani sarà stato sostituito da un altro ordine.
Quasi cinquant'anni dopo, quel ragazzo ebreo è adesso un uomo anziano di quasi 70 anni. Per la prima volta nella sua vita è invitato a esibirsi alla Casa Bianca, davanti al presidente degli Stati Uniti, il primo presidente afro-americano. L'evento vuole celebrare proprio i giorni della Marcia per i Diritti Civili e tutti gli afro-americani che per essi si erano battuti. E' inevitabile che Bob Dylan decida di cantare The Times They Are A-Changin'. Che viene proposta in chiave intima, dolente e a tempo di valzer. No, non ha più alcuna sembianza di inno generazionale e sociale. Questa sera, questa scarna versione della canzone riflette di più la fonte a cui il ragazzo ebreo si era ispirato allora, il Libro dell'Ecclesiaste. Quella parte dell'Antico Testamento che vuole sottolineare come, sotto al sole, ogni tentativo da parte dell'uomo è cosa futile, vana, destinata a corrompersi. Per tutte le volte, negli ultimi vent'anni, che Dylan ha eseguito questa canzone in modo privo di ogni ispirazione, con le parole sbagliate, quasi a deriderla, questa sera per la prima volta da quando venne incisa, la canzone mostra tutta la sua verità, eseguita con lo stesso amore e dedizioe con cui Dylan in anni recenti ha eseguito tante canzoni di altri artisti. E' come se non gli appartenesse più, è più grande del suo stesso autore. Ogni tronfia celebrazione, seppur giustificata dalla presenza di Obama in quella Casa Bianca dove un nero, ai tempi di Martin Luther King difficilmente avrebbe potuto mettere piede, perde improvvisamente senso. Davvero questa sera The Times They Are A-Changin' diventa una canzone senza tempo, oltre il tempo, ma incisa nel tempo. E così appare Bob Dylan, nell'oscurità del piccolo palcoscenico: un uomo che appare appartenere, ora e per sempre, a un tempo immemorabile.
Chiamato inutilmente e banalmente "profeta" per tanto tempo della sua carriera, questa sera Bob Dylan è davvero un profeta. Perché i tempi cambiano, e continueranno a farlo.
Post scriptum: una ventina d'anni fa, un Bob Dylan sull'orlo dello sbandamento spirituale più totale, disgustato del mondo attorno a lui e probabilmente disgustato anche di se stesso, scriveva un contro-inno generazionale e sociale, che suonava più come uno sberleffo punk. Per la canzone Political World venne girato un video clip. Che oggi, col senno di poi, nella sua ambientazione, sembra girato nella Casa Bianca. O magari nella Casa Bianca di un film che verrà anni dopo, Masked & Anonimous.
Rockin' the White House, for the times they are a-changin'...
Quasi 50 anni fa, un ragazzo ebreo del Minnesota, fortunato abbastanza da essere stato invitato a esibirsi alla Marcia per i Diritti Civili a Washington organizzata da Martin Luther King, impressionato dall'evento, scrive una canzone, destinata a diventare inno e simbolo di quell'epoca storica, The Times They Are A-Changin'.
Un paio di mesi dopo il presidente degli Stati Uniti John Kennedy viene ucciso. La sera di quel tragico giorno, lo stesso ragazzo si deve esibire in concerto. Riluttante e sconvolto da quanto accaduto a Dallas quel giorno, apre lo show come faceva gni sera, con The Times They Are A-Changin' che questa sera suona ironica e svuotata di ogni suo significato.
The Times They Are A-Changin' ha certamente avuto, sin da quando venne composta, un aspetto da "inno generazionale" e sociale. Ma non è mai stata solo quello. Come ogni canzone di Bob Dylan, essa fuoriesce dal contesto storico in cui ha preso forma, e lo trascende. La ruota sta ancora girando e non è destinata a fermarsi probabilmente mai; il primo e l'ultimo, il lento e il veloce continuano a scambiarsi di posto e sempre lo faranno. Il presente, sempre, è destinato a diventare passato e l'ordine corrente delle cose domani sarà stato sostituito da un altro ordine.
Quasi cinquant'anni dopo, quel ragazzo ebreo è adesso un uomo anziano di quasi 70 anni. Per la prima volta nella sua vita è invitato a esibirsi alla Casa Bianca, davanti al presidente degli Stati Uniti, il primo presidente afro-americano. L'evento vuole celebrare proprio i giorni della Marcia per i Diritti Civili e tutti gli afro-americani che per essi si erano battuti. E' inevitabile che Bob Dylan decida di cantare The Times They Are A-Changin'. Che viene proposta in chiave intima, dolente e a tempo di valzer. No, non ha più alcuna sembianza di inno generazionale e sociale. Questa sera, questa scarna versione della canzone riflette di più la fonte a cui il ragazzo ebreo si era ispirato allora, il Libro dell'Ecclesiaste. Quella parte dell'Antico Testamento che vuole sottolineare come, sotto al sole, ogni tentativo da parte dell'uomo è cosa futile, vana, destinata a corrompersi. Per tutte le volte, negli ultimi vent'anni, che Dylan ha eseguito questa canzone in modo privo di ogni ispirazione, con le parole sbagliate, quasi a deriderla, questa sera per la prima volta da quando venne incisa, la canzone mostra tutta la sua verità, eseguita con lo stesso amore e dedizioe con cui Dylan in anni recenti ha eseguito tante canzoni di altri artisti. E' come se non gli appartenesse più, è più grande del suo stesso autore. Ogni tronfia celebrazione, seppur giustificata dalla presenza di Obama in quella Casa Bianca dove un nero, ai tempi di Martin Luther King difficilmente avrebbe potuto mettere piede, perde improvvisamente senso. Davvero questa sera The Times They Are A-Changin' diventa una canzone senza tempo, oltre il tempo, ma incisa nel tempo. E così appare Bob Dylan, nell'oscurità del piccolo palcoscenico: un uomo che appare appartenere, ora e per sempre, a un tempo immemorabile.
Chiamato inutilmente e banalmente "profeta" per tanto tempo della sua carriera, questa sera Bob Dylan è davvero un profeta. Perché i tempi cambiano, e continueranno a farlo.
Post scriptum: una ventina d'anni fa, un Bob Dylan sull'orlo dello sbandamento spirituale più totale, disgustato del mondo attorno a lui e probabilmente disgustato anche di se stesso, scriveva un contro-inno generazionale e sociale, che suonava più come uno sberleffo punk. Per la canzone Political World venne girato un video clip. Che oggi, col senno di poi, nella sua ambientazione, sembra girato nella Casa Bianca. O magari nella Casa Bianca di un film che verrà anni dopo, Masked & Anonimous.
Rockin' the White House, for the times they are a-changin'...
Monday, February 08, 2010
When love comes to town
“It’s a long way to Heaven, it’s closer to Harrisburg
And that’s still a long way from the place where we are
And if evil exists it’s a pair of train tracks
And the devil is a railroad car”
Harrisburg - Josh Ritter
"The healing has begun", la guarigione ha avuto inizio, cantava Van Morrison. Qualcun altro ha detto che la musica ha il potere di guarire. Le ferite, il dolore, il male.
Ieri Milano era innondata di sole, dopo giorni di oscurità, neve, strade sporche, vite ancora pù sporche. Milano aveva bisogno di un amore che lavasse via i suoi peccati, e così ne avevo io. Perché, come ci ha fatto cantare Glen Hansard, "I was living in a devil town".
Ieri notte l'amore è arrivato in città. Come una volta i menestrelli, i trovatori, giravano di paese in paese e di castello in castello sollevando le pene della vita quotidiana con le loro ballate fatte di misteri e passioni d'amore, a volte qualcuno di essi sfida ancora le barriere del tempo per riportare nella città del diavolo l'amore.
Stanotte ho dormito tre, quattro ore. Dopo il concerto sono corso a casa per mandare il pezzo al quotidiano. Poi ho finito una bottiglia di vino (non riscaldato), ho guardato un po' il Superbowl (hanno vinto i Saints, per la cronaca, e ne sono felice), ho fumato diverse sigarette. Soprattutto ho lasciato che le note di "quelle" canzoni continuassero a riecheggiarmi in testa. Non riuscivo a placare l'adrenalina che mi scorreva nelle vene. Mi sono risvegliato alle 7 circa, e ho ricominciato a scrivere. L'adrenalina è ancora qua, una dose come questa credo di non averla più provata dai tempi del concerto di Springsteen a San Siro nel 1985.
"Take this sinking boat and point it home
We’ve still got time
Raise your hopeful voice you have a choice
You’ll make it now”
Falling Slowly - Glen Hansard
L'hanno risvegliata, questa adrenalina, Josh Ritter prima (sorriso beato e solare stampato sulla bella faccia tutto il tempo, il tempo di eseguire sei pezzi tra cui la straordinaria Harrisburg e la commovente Girl in a War, cantata senza microfono, al bordo del palco). Perché lui è un menestrello. Classe e carisma da vendere, Josh.
E menestrello autentico, direttamente da Grafton Street con tanto di shamrock, la foglia di trifoglio, appesa al bavero della giacca è l'immenso Glen Hansard. La cui chitarra acustica è bucata, spaccata, rovinata. Per questo suona come le chitarre del cuore. La voce nera, potentissima, spacca su ogni altra cosa, accompagnamento strumentale della brava band compreso. I crescendo, degni di una band come i Wilco, sono estasi pura: The Moon detta le coordinate di una notte che dimenticare è impossibile. Low Rising è appassionato celtic soul ma è If You Want Me, cantata dalla deliziosa Marketa, ad aprire le finestre su Once: durante Falling Slowly, Glen improvviserà un pezzetto di With or Without You degli amici U2, scoppiando a ridere da solo.Quando si siede sulle casse dei suoi monitor, a bordo palco, nell'oscurità, per rilasciare Say It To Me Now con tutta la disperazione che solo chi ha troppo amato sa rilasciare, è trascendenza pura. Così come in una furiosa e devastante (tanto devastante da mandare in tilt l'impianto audio) rilettura di Buzzin' Fly di Tim Buckley, in medley con Grace di Jeff, come dire, ricordiamoli tutti e due, padre e figlio morti troppo giovani. Da paura, come dice lui parlando del cibo italiano.E' una notte da paura, sì, questa in cui i menestrelli sono tornati in città. Nessuno vorrebbe finisse mai, tantomeno Glen. Dopo diversi bis e una When Your Mind's Made Up cantata e urlata guardando dolcemente la sua ex, Marketa, quasi a chiederle perdono di quello che solo loro sanno, e aver richiamato Josh Ritter sul palco per duettare con lui nella sua Come and Find Me, si conclude parlando e cantando del diavolo. Perché il diavolo esiste, lo sanno bene i menestrelli: "Ho sempre pensato che il diavolo fosse italiano. Il diavolo ha il cibo migliore. Il diavolo ha le macchine migliori. Il diavolo ha i vestiti migliori. Il diavolo ha il vino migliore. Il diavolo ha le donne migliori. Sì, il diavolo deve proprio essere italiano". E lasciati gli strumenti, ci insegna una piccola filastrocca che poi è un pezzo di Daniel Johnston: "I was living in a devil town, I didn't know it was a devil town. Oh lord it really brings me down about the devil town. All my friends were vampires, I didn't know they were vampires It turns out I was a vampire myself in the devil town...". Schioccando le dita, si canta tutti insieme senza voler smettere mai. Ormai ci siamo trasformati tutti in vampiri. Assetati di musica, di amore e di sorrisi. Ma l'amore ha vinto questa città. Adrenalina permettendo, adesso la vità è più bella.
Josh "Idaho" Ritter. Foto di Francesco D'Acri. Tutte le altre foto sono di Maurizio Pratelli
And that’s still a long way from the place where we are
And if evil exists it’s a pair of train tracks
And the devil is a railroad car”
Harrisburg - Josh Ritter
"The healing has begun", la guarigione ha avuto inizio, cantava Van Morrison. Qualcun altro ha detto che la musica ha il potere di guarire. Le ferite, il dolore, il male.
Ieri Milano era innondata di sole, dopo giorni di oscurità, neve, strade sporche, vite ancora pù sporche. Milano aveva bisogno di un amore che lavasse via i suoi peccati, e così ne avevo io. Perché, come ci ha fatto cantare Glen Hansard, "I was living in a devil town".
Ieri notte l'amore è arrivato in città. Come una volta i menestrelli, i trovatori, giravano di paese in paese e di castello in castello sollevando le pene della vita quotidiana con le loro ballate fatte di misteri e passioni d'amore, a volte qualcuno di essi sfida ancora le barriere del tempo per riportare nella città del diavolo l'amore.
Stanotte ho dormito tre, quattro ore. Dopo il concerto sono corso a casa per mandare il pezzo al quotidiano. Poi ho finito una bottiglia di vino (non riscaldato), ho guardato un po' il Superbowl (hanno vinto i Saints, per la cronaca, e ne sono felice), ho fumato diverse sigarette. Soprattutto ho lasciato che le note di "quelle" canzoni continuassero a riecheggiarmi in testa. Non riuscivo a placare l'adrenalina che mi scorreva nelle vene. Mi sono risvegliato alle 7 circa, e ho ricominciato a scrivere. L'adrenalina è ancora qua, una dose come questa credo di non averla più provata dai tempi del concerto di Springsteen a San Siro nel 1985.
"Take this sinking boat and point it home
We’ve still got time
Raise your hopeful voice you have a choice
You’ll make it now”
Falling Slowly - Glen Hansard
L'hanno risvegliata, questa adrenalina, Josh Ritter prima (sorriso beato e solare stampato sulla bella faccia tutto il tempo, il tempo di eseguire sei pezzi tra cui la straordinaria Harrisburg e la commovente Girl in a War, cantata senza microfono, al bordo del palco). Perché lui è un menestrello. Classe e carisma da vendere, Josh.
E menestrello autentico, direttamente da Grafton Street con tanto di shamrock, la foglia di trifoglio, appesa al bavero della giacca è l'immenso Glen Hansard. La cui chitarra acustica è bucata, spaccata, rovinata. Per questo suona come le chitarre del cuore. La voce nera, potentissima, spacca su ogni altra cosa, accompagnamento strumentale della brava band compreso. I crescendo, degni di una band come i Wilco, sono estasi pura: The Moon detta le coordinate di una notte che dimenticare è impossibile. Low Rising è appassionato celtic soul ma è If You Want Me, cantata dalla deliziosa Marketa, ad aprire le finestre su Once: durante Falling Slowly, Glen improvviserà un pezzetto di With or Without You degli amici U2, scoppiando a ridere da solo.Quando si siede sulle casse dei suoi monitor, a bordo palco, nell'oscurità, per rilasciare Say It To Me Now con tutta la disperazione che solo chi ha troppo amato sa rilasciare, è trascendenza pura. Così come in una furiosa e devastante (tanto devastante da mandare in tilt l'impianto audio) rilettura di Buzzin' Fly di Tim Buckley, in medley con Grace di Jeff, come dire, ricordiamoli tutti e due, padre e figlio morti troppo giovani. Da paura, come dice lui parlando del cibo italiano.E' una notte da paura, sì, questa in cui i menestrelli sono tornati in città. Nessuno vorrebbe finisse mai, tantomeno Glen. Dopo diversi bis e una When Your Mind's Made Up cantata e urlata guardando dolcemente la sua ex, Marketa, quasi a chiederle perdono di quello che solo loro sanno, e aver richiamato Josh Ritter sul palco per duettare con lui nella sua Come and Find Me, si conclude parlando e cantando del diavolo. Perché il diavolo esiste, lo sanno bene i menestrelli: "Ho sempre pensato che il diavolo fosse italiano. Il diavolo ha il cibo migliore. Il diavolo ha le macchine migliori. Il diavolo ha i vestiti migliori. Il diavolo ha il vino migliore. Il diavolo ha le donne migliori. Sì, il diavolo deve proprio essere italiano". E lasciati gli strumenti, ci insegna una piccola filastrocca che poi è un pezzo di Daniel Johnston: "I was living in a devil town, I didn't know it was a devil town. Oh lord it really brings me down about the devil town. All my friends were vampires, I didn't know they were vampires It turns out I was a vampire myself in the devil town...". Schioccando le dita, si canta tutti insieme senza voler smettere mai. Ormai ci siamo trasformati tutti in vampiri. Assetati di musica, di amore e di sorrisi. Ma l'amore ha vinto questa città. Adrenalina permettendo, adesso la vità è più bella.
Josh "Idaho" Ritter. Foto di Francesco D'Acri. Tutte le altre foto sono di Maurizio Pratelli
Wednesday, February 03, 2010
The drug don't work
Stamattina era un po' più depresso del solito. Nottataccia da schifo,ieri. Allora sono sceso al negozietto all'angolo a cercarmi una bottiglia di vino rosso. Dopo aver discusso del prezzo un quarto d'ora con la signora peruviana che lo gestisce, mi sono portato via una Bonarda qualunque. Siccome i negozietti oggi non hanno più riscaldamento, probabilmente per risparmiare vista la crisi, la bottiglia era gelida, che lo sanno tutti che il vino rosso freddo fa schifo. L'ho messa a riscaldare in una pentola d'acqua, l'ho lasciata sul fuoco e sono tornato al computer, dove da ieri sera sto portando avanti una dozzina di discussioni in contemporanea per via di un mio articoletto sul "caso Morgan" (http://www.ilsussidiario.net/News/Musica/2010/2/3/SANREMO-2010-Musica-e-crack-Morgan-escluso-dal-Festival/64903/) in cui vengo bollato di essere pro-droga e soprattutto - orrore - pro-Morgan.
Così preso dalle piacevoli facezie, ho dimenticato il vino fino a quando ho sentito un botto là in cucina. Cazzo, la bottiglia. Era partito solo il tappo, per fortuna, ma adesso la Bonarda era diventata vin brulè, uno schifo. Allora l'ho messa in frigo e sono tornato al computer.
Non sono né pro-droga né pro-Morgan. Solo mi fanno sorridere tutti questi neo moralisti che si scandalizzano per il messaggio depravato lanciato dal Castoldi. Che parla, piuttosto, di depressione e di un padre morto suicida. In un mondo dove decine di milioni di persone vanno avanti grazie a medicinali anti depressivi, non mi stupisce, ma apprezzo la franchezza piuttosto, che Morgan fumi coca per tenere lontano il black dog, la depressione che annoverava fra i tanti anche gente come Winston Churchill. Così come è un dato di fatto che i migliori dischi rock si siano fatti grazie ad abbondanti dosi di droga e che gli stessi artisti, una volta smesso di drogarsi, abbiano prodotto spesso gran schifezze su vinile e su cd. La genialità si nutre della sofferenza, e la sofferenza è la nostra realtà quotidiana, artisti e non. E se Mozart fosse vissuto nel Novecento, sarebbe stato senz'altro un cocainomane. Credo.
Piuttosto mi fanno incazzare parole come queste: "Davvero può credere (Morgan) che la cocaina lenisca il mal di vivere? A cosa gli è servito il suo talento, se non sa che il corpo è un tempio da rispettare e che per sfondare la corazza di dolore che ci impedisce di entrare in contatto con la nostra anima non servono le sostanze psicotrope, ma il desiderio innato in ogni uomo di trovare un punto di equilibrio interiore, senza scappare all’inseguimento di emozioni superficiali, amori distruttivi e gesti fintamente provocatori? In un mondo di cervelli addormentati - dalla droga, dalla paura, da certa tv - la vera provocazione, oggi, consiste nel «farsi» di vita". (http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/hrubrica.asp?ID_blog=41)
Vorrei tanto che il giornalista ci spiegasse di che vita lui si faccia, dove ha trovato la formula e se la posso comprare al negozietto qua all'angolo, insieme a una bottiglia di (freddo) vino rosso. E come si arriva a contatto con la nostra anima? E dove lo trovo il mio punto di equilibrio?
Siamo (sono) stanchi di super eroi che si alzano sopra le folle a dirci che siamo dei coglioni, noi depressi del cazzo (sì un po' lo sono anche io, ormai lo avrete capito). O ci dite dove si incontra la vita che vale la pena di essere vissuta, ce lo mostrate prendendoci per mano e facendoci fare amicizia con lei, "la vita" o ci lasciate alle prese con il Morgan di turno.
Intanto la mia Bonarda / brulè è diventata qualcosa di mai assaggiato prima. Non so manco se fa più schifo. Sono cose che capitano a chi non ha ancora trovato il suo punto di equilibrio. Però ho ritrovato dove avevo messo il disco dei Great Lake Swimmers e torno a sentirlo, assaggiando questo vino non identificato.
Music is my drug. Sorry.
Così preso dalle piacevoli facezie, ho dimenticato il vino fino a quando ho sentito un botto là in cucina. Cazzo, la bottiglia. Era partito solo il tappo, per fortuna, ma adesso la Bonarda era diventata vin brulè, uno schifo. Allora l'ho messa in frigo e sono tornato al computer.
Non sono né pro-droga né pro-Morgan. Solo mi fanno sorridere tutti questi neo moralisti che si scandalizzano per il messaggio depravato lanciato dal Castoldi. Che parla, piuttosto, di depressione e di un padre morto suicida. In un mondo dove decine di milioni di persone vanno avanti grazie a medicinali anti depressivi, non mi stupisce, ma apprezzo la franchezza piuttosto, che Morgan fumi coca per tenere lontano il black dog, la depressione che annoverava fra i tanti anche gente come Winston Churchill. Così come è un dato di fatto che i migliori dischi rock si siano fatti grazie ad abbondanti dosi di droga e che gli stessi artisti, una volta smesso di drogarsi, abbiano prodotto spesso gran schifezze su vinile e su cd. La genialità si nutre della sofferenza, e la sofferenza è la nostra realtà quotidiana, artisti e non. E se Mozart fosse vissuto nel Novecento, sarebbe stato senz'altro un cocainomane. Credo.
Piuttosto mi fanno incazzare parole come queste: "Davvero può credere (Morgan) che la cocaina lenisca il mal di vivere? A cosa gli è servito il suo talento, se non sa che il corpo è un tempio da rispettare e che per sfondare la corazza di dolore che ci impedisce di entrare in contatto con la nostra anima non servono le sostanze psicotrope, ma il desiderio innato in ogni uomo di trovare un punto di equilibrio interiore, senza scappare all’inseguimento di emozioni superficiali, amori distruttivi e gesti fintamente provocatori? In un mondo di cervelli addormentati - dalla droga, dalla paura, da certa tv - la vera provocazione, oggi, consiste nel «farsi» di vita". (http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/hrubrica.asp?ID_blog=41)
Vorrei tanto che il giornalista ci spiegasse di che vita lui si faccia, dove ha trovato la formula e se la posso comprare al negozietto qua all'angolo, insieme a una bottiglia di (freddo) vino rosso. E come si arriva a contatto con la nostra anima? E dove lo trovo il mio punto di equilibrio?
Siamo (sono) stanchi di super eroi che si alzano sopra le folle a dirci che siamo dei coglioni, noi depressi del cazzo (sì un po' lo sono anche io, ormai lo avrete capito). O ci dite dove si incontra la vita che vale la pena di essere vissuta, ce lo mostrate prendendoci per mano e facendoci fare amicizia con lei, "la vita" o ci lasciate alle prese con il Morgan di turno.
Intanto la mia Bonarda / brulè è diventata qualcosa di mai assaggiato prima. Non so manco se fa più schifo. Sono cose che capitano a chi non ha ancora trovato il suo punto di equilibrio. Però ho ritrovato dove avevo messo il disco dei Great Lake Swimmers e torno a sentirlo, assaggiando questo vino non identificato.
Music is my drug. Sorry.
Monday, February 01, 2010
Che cosa è un santo
Un santo è qualcuno che ha raggiunto una remota possibilità umana. Un santo non dissolve il caos. Se potesse farlo, il mondo sarebbe già cambiato tanto tempo fa. Non credo neanche che il santo possa dissolvere il caos per se stesso.
Ben lontano dal volare con gli angeli, egli traccia con la fedeltà della puntina di un sismografo lo stato del sanguinante orizzonte.
La sua casa è pericolosa e definita, ma lui si sente a casa sua nel mondo. Sa amare le varie forme dell’umanità, le belle e confuse forme del cuore. E’ una cosa bella avere in mezzo a noi tali uomini, tali mostri dell’amore che sanno come bilanciare la realtà.
Leonard Cohen, vincitore del Special Lifetime Achievement Grammy, 30 gennaio 2010
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