Wednesday, April 27, 2011
Inside the museums Infinity goes up on trial
Mia figlia mi sta mandando degli sms. Sto facendo stage diving! Sono sul palco con la band! Oddio. E' all'Alcatraz, a vedere non so quale punk irish band. Io invece sono in uno dei posti più surreali in cui abbia mai visto un concerto. Una galleria d'arte ultra posh e ultra trendy, da qualche altra parte di Milano. Che famiglia, penso. Rovinati dalla musica.
Lei in mezzo a una baraonda punk, io a sentire un allampanato cantante texano che sembra un incrocio tra the man in black e il monaco Rasputin. Che si rifiuta anche di usare una amplificazione e obbliga il centinaio di persone sedute per terra davanti a lui al raccoglimento totale. Manco fossimo in un museo, dove l'infinito viene giudicato, o in una chiesa. Ma forse ci siamo. Perché lui sta cantando "Non è Natale, questa è Pasqua, honey bunny" e la Pasqua in effetti con un tempismo irreale è stata solo due giorni fa. Allora lui potrebbe essere una sorta di reincarnazione di una icona della resurrezione inviato qui stasera a consolare le anime di un centinaio di disperati per amore. Ain't your savior, Christ.
Che è così che gli dico quando a fine show si ferma in mezzo alla gente a parlottare. Sta parlando con qualcuno, io sono lì ad ascoltare,lui si gira di scatto verso di me e mi chiede: "Ci conosciamo già?". Non penso, Josh, o forse in un'altra vita. Time out of mind. "Dimmi una buona parola sull'amore" gli chiedo. Lui si massaggia la lunga barba si guarda in giro e esclama "Oh shit!", come dire, non ci sono buone parole per l'amore, Poi mormora qualcosa che non capisco ma meglio così, ognuno ha la sua croce da portare ed è inutile, proprio inutile, pensare che qualcun altro te la possa togliere di dosso anche per un po'.
In realtà, durante il suo concerto Josh T Pearson di croci ne ha spostate parecchie: è di una intensità al limite dell'imbarazzo. Non è sofferenza quella che esprime, è più una sorta di trascendenza. Come uno che all'inferno ci è stato ma ne è uscito vivo. Non reclama dolore, ma consolazione, la sua musica. I suoi arpeggi di chitarra sfiorati hanno l'eco di un coro pentecostale in una chiesa battista spazzata dal vento nelle dust bowl dell'Oklahoma. Lui, anche se è un man in black, più che a Johnny Cash assomiglia a uno dei fratelli Karamazov. E come Dostojevski, chiede una cosa sola: che la bellezza salvi il mondo. Oh shit!
Friday, April 22, 2011
dying and drying as I rise tonight
I see it all before me:
the days of love and torment;
the nights of rock-and-roll.
I see it all before me.
Sometimes my spirit's empty;
don't have the will to go on.
I wish someone would send me
energy.
Give me something.
Give me something to give.
Oh, God, give me something:
a reason to live.
My body is aching.
Don't want sympathy.
Come on. Come and love me.
Come on. Set me free.
Set me free.
The Lord is my shepherd. I shall not want.
He maketh me to lie down in green pastures.
He leadeth me beside the still waters.
He restoreth my soul.
He leadeth me through the path of righteousness for His name's sake.
Yea, though I walk through the valley of the shadow of death,
I will fear no evil, for Thou art with me.
Hey, Lord, I'm waitin' for you.
Oh, God, I'm waitin' for you;
waitin' to open Your ninety-eight wounds
and be Thee, be Thee.
Lead me, oh, lead me.
Leave me something.
Leave me something to live.
Oh, God, give me something:
a reason to live.
I don't want no handout;
no, not sympathy.
Come on. Come and love me.
Come on. Set me free.
Set me free.
Come on. Set me free
Set me free . . .
Oh, I'm so young, so goddamn young.
Oh, I'm so young, so goddamn young.
Oh, I'm so young, so goddamn.
Set me free.
In the presence of my enemies,
Thou anointest my head with oil.
My cup runneth over.
Surely, goodness and mercy shall follow me
all the days of my life.
And I shall dwell in the house of the Lord forever.
Ah, damn, goddamn, goddamn, goddamn.
Here I am.
the days of love and torment;
the nights of rock-and-roll.
I see it all before me.
Sometimes my spirit's empty;
don't have the will to go on.
I wish someone would send me
energy.
Give me something.
Give me something to give.
Oh, God, give me something:
a reason to live.
My body is aching.
Don't want sympathy.
Come on. Come and love me.
Come on. Set me free.
Set me free.
The Lord is my shepherd. I shall not want.
He maketh me to lie down in green pastures.
He leadeth me beside the still waters.
He restoreth my soul.
He leadeth me through the path of righteousness for His name's sake.
Yea, though I walk through the valley of the shadow of death,
I will fear no evil, for Thou art with me.
Hey, Lord, I'm waitin' for you.
Oh, God, I'm waitin' for you;
waitin' to open Your ninety-eight wounds
and be Thee, be Thee.
Lead me, oh, lead me.
Leave me something.
Leave me something to live.
Oh, God, give me something:
a reason to live.
I don't want no handout;
no, not sympathy.
Come on. Come and love me.
Come on. Set me free.
Set me free.
Come on. Set me free
Set me free . . .
Oh, I'm so young, so goddamn young.
Oh, I'm so young, so goddamn young.
Oh, I'm so young, so goddamn.
Set me free.
In the presence of my enemies,
Thou anointest my head with oil.
My cup runneth over.
Surely, goodness and mercy shall follow me
all the days of my life.
And I shall dwell in the house of the Lord forever.
Ah, damn, goddamn, goddamn, goddamn.
Here I am.
Thursday, April 21, 2011
porcomondoindie
Mi sono molto divertito a leggere una lunga intervista a una persona profondamente del settore in cui viene fuori il livello moralmente basso (per intenderci, bunga bunga anybody? almeno lì c'è la figa) di chi si propaganda indie-dipendente, artista per l'arte, di quelli insomma che manifestano poi per strada in difesa dei locali che vengono - giustamente - fatti chiudere perché vendono super alcolici senza averne la licenza - e non per oscure manovre del comune fascioreazionario di turno. C'è tanta confusione e ipocrisia sotto questo cielo, caro Orazio, e alla fine siamo tutti uguali, ma proprio tutti. Non c'è proprio più gusto: which side are you on? quello di stocazzo. In nome di che cosa dovrei sentire certe prediche, non l'ho ancora capito, eppure vedo furbi e furbetti farsi avanti da ogni parte, anche le più insospettabili. Ma lo sapevamo che finiva così, io e te: chi ci aveva mai creduto in fondo nel rock'n'roll?
Mi rinchiudo in qualche puzzolente cantina di Philadelphia insieme a Kurt Vile e ai suoi Violators. Spero non la facciano chiudere però fino a quando avranno spaccato ben bene le loro chitarre. Smoke Ring for my Halo è un gran disco, una delle cose migliori di quest'anno. Almeno mi sembra onesto. Per adesso, poi chissà. Mi vado a rinchiudere in un bell'uovo di Pasqua.
Mi rinchiudo in qualche puzzolente cantina di Philadelphia insieme a Kurt Vile e ai suoi Violators. Spero non la facciano chiudere però fino a quando avranno spaccato ben bene le loro chitarre. Smoke Ring for my Halo è un gran disco, una delle cose migliori di quest'anno. Almeno mi sembra onesto. Per adesso, poi chissà. Mi vado a rinchiudere in un bell'uovo di Pasqua.
Thursday, April 14, 2011
Il teschio e le rose
Ci sono un sacco di artisti e band che a volte mi sogno di vedere in concerto. Perché non lo potrò mai fare, out of time. Mentre cammino per Milano con la flebo di i-pod infilata nel buco (dell'orecchia) e parte, chesso, un pezzo dei Clash, ecco che mi immagino il tour della reunion che non c'è mai stata. Immagino tutto: il tipo di scaletta (nei miei sogni a occhi aperti cominciano con Tommy Gun, mentre una enorme bandiera inglese si srotola dietro di loro), la scenografia, le luci, la gente. Elvis me lo immagino avvolto in un blu indaco con il resto del palco e dei musicati nell'oscurità che canta Can't Help Falling in Love e poi tutte le migliaia di persone che invece di mettersi ad applaudire scoppiano in lacrime. Il rumore delle lacrime. Poi mi immagino loro, i Morti Riconoscenti. Mi immagino che stanno suonando una travolgente Goin' Down the Road Feeling Bad mentre dal soffitto (tutti questi concerti me li immagino al Forum di Assago che fa cagare però dove altro avrebbero potuto suonare) cadono giù migliaia di palloncini colorati e tutti si mettono a tirarli tra di loro e sul palco un enorme scheletro posto al lato sinistro comincia a illuminarsi e a muovere le braccia verso il pubblico. Che figata. Cazzo se ne abbiamo persi di concerti fondamentali in Italia.
Allora quando sono tornato a casa e ho staccato le flebo musicali, accendo il cd player. Ormai vivo in una dimensione musicale continua non stop. A volte salgo in macchina con l'iPod a manetta, giro la chiave e parte lo stereo che avevo lasciato acceso la sera prima a tutto volume e mi spavento da solo dico eccheccazzo succede inchiodando conme un demente. Pazzia. Comunque ero rimasto che stavo mettendo su uno dei migliori dischi live della storia, sicuramente uno dei migliori dei Grateful Dead, quello del teschio e delle rose, Skull and Roses, noto così perché non ha titolo ma ha questa deliziosa immagine in copertina. Conditi come siamo con tante leggende psichedeliche, ci si dimentica che i Dead, almeno fino a quando è stato in vita lo straordinario Pig Pen, erano anche una fottutissima rock'n'roll party band. Con una dose di R&B da paura. Quando facevano Good Lovin' cadeva giù il mondo. Avevano un'anima di puro divertimento che molti non hanno mai capito - o apprezzato. Il periodo migliore per sentire questo sound, nonché il loro periodo migliore come live band per me, è quello che va dal 1970 al 1972.
Il periodo in cui non a caso fanno anche i loro due dischi in studio più belli, American Beauty e Workingman's Dead. Quando diventano una 100% all american band. Skull and Roses, ma anche il live in Inghilterra del 1972 (Steppin' Out with the Grateful Dead: England '72), sono la documentazione di tutto ciò. Strepitosi quando fanno canzoni da redneck lacrimevoli come Mama Tried (hippie di destra?), folgoranti quando la chitarra di Jerry Garcia dà fuoco alla festa con Johnny B Good, memorabili quando Pig Pen si impossessa del microfono e fa partire la festa con Big Boss Man. Jerry Garcia in questo periodo è al culmine, vocale e chitarristi: la sua chitarra è robusta, potente, garage e allo stesso tempo delicata: ci sono certi passaggi in questi due dischi da stendere un elefante.
E' una festa continua, questo album, dall'iniziale Bertha alla conclusiva scoppiettante Not Fade Away. Ovviamente quando parte l'immancabile drums solo, 18 minuti di psichedelia abusata, scatta lo skip automatico. Se un cd solo di tutta questa bonanza non vi basta, e non vi basterà, gettatevi a pesce morto su Steppin' Out with the Grateful Dead: England '72: questo è addirittura un quadruplo cd - buaaauuu - ed è letteralmente, da paura. Dico solo che la Good Lovin' che c'è qui dura venti minuti. Cosmico!
Allora quando sono tornato a casa e ho staccato le flebo musicali, accendo il cd player. Ormai vivo in una dimensione musicale continua non stop. A volte salgo in macchina con l'iPod a manetta, giro la chiave e parte lo stereo che avevo lasciato acceso la sera prima a tutto volume e mi spavento da solo dico eccheccazzo succede inchiodando conme un demente. Pazzia. Comunque ero rimasto che stavo mettendo su uno dei migliori dischi live della storia, sicuramente uno dei migliori dei Grateful Dead, quello del teschio e delle rose, Skull and Roses, noto così perché non ha titolo ma ha questa deliziosa immagine in copertina. Conditi come siamo con tante leggende psichedeliche, ci si dimentica che i Dead, almeno fino a quando è stato in vita lo straordinario Pig Pen, erano anche una fottutissima rock'n'roll party band. Con una dose di R&B da paura. Quando facevano Good Lovin' cadeva giù il mondo. Avevano un'anima di puro divertimento che molti non hanno mai capito - o apprezzato. Il periodo migliore per sentire questo sound, nonché il loro periodo migliore come live band per me, è quello che va dal 1970 al 1972.
Il periodo in cui non a caso fanno anche i loro due dischi in studio più belli, American Beauty e Workingman's Dead. Quando diventano una 100% all american band. Skull and Roses, ma anche il live in Inghilterra del 1972 (Steppin' Out with the Grateful Dead: England '72), sono la documentazione di tutto ciò. Strepitosi quando fanno canzoni da redneck lacrimevoli come Mama Tried (hippie di destra?), folgoranti quando la chitarra di Jerry Garcia dà fuoco alla festa con Johnny B Good, memorabili quando Pig Pen si impossessa del microfono e fa partire la festa con Big Boss Man. Jerry Garcia in questo periodo è al culmine, vocale e chitarristi: la sua chitarra è robusta, potente, garage e allo stesso tempo delicata: ci sono certi passaggi in questi due dischi da stendere un elefante.
E' una festa continua, questo album, dall'iniziale Bertha alla conclusiva scoppiettante Not Fade Away. Ovviamente quando parte l'immancabile drums solo, 18 minuti di psichedelia abusata, scatta lo skip automatico. Se un cd solo di tutta questa bonanza non vi basta, e non vi basterà, gettatevi a pesce morto su Steppin' Out with the Grateful Dead: England '72: questo è addirittura un quadruplo cd - buaaauuu - ed è letteralmente, da paura. Dico solo che la Good Lovin' che c'è qui dura venti minuti. Cosmico!
Tuesday, April 12, 2011
Chinese Rock!
Nel 1968, mentre nelle strade di mezzo mondo infuriava la rivoluzione, Bob Dylan se ne stava tranquillamente nella sua casa di campagna nei dintorni di New York, a sfornare figli uno dietro l'altro arrivando a quattro. Nel 1969, invece, quando si tenne a Woodstock (proprio perché lì vicino ci abitava lui, Dylan, che gli organizzatori volevano disperatamente e inutilmente) il leggendario festival rock più importante di tutti i tempi, come avrebbe scritto anni dopo nelle pagine della sua autobiografia, desiderava solo avere un fucile per sparare nel sedere a tutti quegli hippie capelloni che entravano di nascosto nella sua proprietà.
Copyright, foto di Paolo Brillo
Cercavano la "voce di una generazione", "l'arma segreta del 68" e quant'altro. Eppure Dylan, già anni prima, aveva dichiarato a chiare lettere che la politica era quanto di più lontano dalla sua visione delle cose. Nella canzone My Back Pages, del 1964, cantava: "Un professore troppo serio per indulgere in sciocchezze sputava che la libertà è solo uguaglianza nelle scuole, "Uguaglianza" ripetevo la parola come fosse un voto nuziale, ah ma ero molto più vecchio allora, sono molto più giovane adesso". E ancora: "Sia fatto a pezzi l'odio, io urlavo, menzogne che la vita è bianca e nera (...) In posa da soldato puntavo la mano senza tema di mutarmi in mio nemico non appena mi mettessi a predicare". In risposta, sempre nel 1964, Irwin Silber, editore di un magazine di musica folk di sinistra definiva Bob Dylan un venduto perché non scriveva più canzoni "impegnate politicamente".
I tempi non sono cambiati. Fa sorridere leggere in questi giorni le critiche irose (e infarcite anche di grossolani errori storici, come ha fatto una delle maggiori testate italiane che in un servizio da Pechino ha detto: "Bob Dylan ha dovuto rinunciare anche a suonare Hurricane!". Di fatto Bob Dylan ha suonato per l'ultima volta quella canzone nel dicembre del 1975…) che si trovano in questi giorni sui giornali di tutto il mondo a proposito dei concerti che il cantautore ha tenuto in Cina e in Vietnam.
Continua a leggere l'articolo su IlSussidiario.net
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Copyright, foto di Paolo Brillo
Cercavano la "voce di una generazione", "l'arma segreta del 68" e quant'altro. Eppure Dylan, già anni prima, aveva dichiarato a chiare lettere che la politica era quanto di più lontano dalla sua visione delle cose. Nella canzone My Back Pages, del 1964, cantava: "Un professore troppo serio per indulgere in sciocchezze sputava che la libertà è solo uguaglianza nelle scuole, "Uguaglianza" ripetevo la parola come fosse un voto nuziale, ah ma ero molto più vecchio allora, sono molto più giovane adesso". E ancora: "Sia fatto a pezzi l'odio, io urlavo, menzogne che la vita è bianca e nera (...) In posa da soldato puntavo la mano senza tema di mutarmi in mio nemico non appena mi mettessi a predicare". In risposta, sempre nel 1964, Irwin Silber, editore di un magazine di musica folk di sinistra definiva Bob Dylan un venduto perché non scriveva più canzoni "impegnate politicamente".
I tempi non sono cambiati. Fa sorridere leggere in questi giorni le critiche irose (e infarcite anche di grossolani errori storici, come ha fatto una delle maggiori testate italiane che in un servizio da Pechino ha detto: "Bob Dylan ha dovuto rinunciare anche a suonare Hurricane!". Di fatto Bob Dylan ha suonato per l'ultima volta quella canzone nel dicembre del 1975…) che si trovano in questi giorni sui giornali di tutto il mondo a proposito dei concerti che il cantautore ha tenuto in Cina e in Vietnam.
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Thursday, April 07, 2011
Cigarettes and Violets
We are the sons of no one, bastards of young
We are the sons of no one, bastards of young
The daughters and the sons
Chilometri più in là, in tanti, tantissimi sono nella gabbia d'Assago a celebrare il rito della santa chiesa della megalomania di una rock star quasi settantenne, che ha passato gli ultimi 30 anni a rimuginare sempre sullo stesso spettacolo fatto di scenografie monumentali come una cattedrale nel deserto, su i suoi incubi e paranoie assortite. Togli quelle e cosa resta? Pare anche il playback in alcune occasioni.
Loro invece si infilano nel fresco della Brianza (alcolica), padre e figlia, lui pieno di pillole antidolorifiche di ogni marca da non reggersi in piedi, lei bella solo come si può essere a 16 anni.
L'ultima volta che lui era entrato qua sarà stato 15 anni fa. La prima cosa che nota, oltre a un sacco di belle ragazze che 15 anni fa non si vedevano a questo tipo di concerti, ma non lo dice alla figlia questa cosa, è un manifesto appeso al muro. In concerto, All'Una e trentacinque circa, Chris Burroughs e Neal Casal. Con tanto di autografi. Che botta, pensa. C'era anche lui quella sera, gli spettatori erano pochi, ma che ricordi. Chris Burroughs, chissà dove è finito. L'ultima volta che si sono sentiti una decina di anni fa era a Praga. Neal Casal invece ha fatto carriera, più o meno. Quella sera lui gli fece ingoiare il suo primo bicchiere di grappa e quasi l'artista americano stramazzava al suolo. Quando si sono rivisti, un anno fa circa, Casal aveva commentato. "Come posso dimenticarmi della persona che mi ha fatto bere la mia prima grappa?".
Ma lui sta divagando, come sempre, perso nei ricordi. Ricordi anche di questo Jesse Malin che sta per salire sul palco e che, figuratevi, non ha manco mai visto in concerto. Quando nessuno in Italia ancora lo conosceva, lui, che ai tempi era un brillante giornalista rock, colpito dallo splendido primo disco di questo personaggio lo aveva raggiunto al telefono per le strade di NYC. Avevano parlato di ragazze e di Joe Strummer, che era appena morto. Poi qualche anno fa si erano anche incontrati di persona nella hall di un albergo milanese, una intervista faccia a faccia che era stato un lunghissimo monologo di Jesse. Inarrestabile. C'era anche qualcun altro quel giorno, qualcuno con cui stasera chiudere ogni conto lasciato aperto. Ci penserà Jesse Malin a chiudere quel conto. Se no ci penseranno le pillole e qualche birra.
Quando Jesse Malin e i St Marks Social salgono sul palco, sembra di vedere una band di emo di quarant'anni. Devono aver speso più soldi per la tintura di capelli, pensa, che per la droga. Lui non ha problemi di tintura di capelli. Di droga, magari sì.
Il locale è straordinario, praticamente senza palco, sembra davvero di essere catapultati alla Bowery, CBGB's e ditorni. Quando attaccano a suonare, per lui e la figlia che sono in seconda fila dietro a delle ragazzine scatenate, sarà ancora di più così. Saranno due ore di sudato punk, ma di quello romantico, da notte sul ponte di Brooklyn a cercare Torri Gemelle che non ci sono più. Saranno momenti di tenerezza acustica, con tanto di fuck off (perché i punk non sono politically correct) a quella ragazzina là davanti che starnazza anche in un momento come questo. Sarà Jesse Malin che inventa una torrenziale Bastards of Young dei Replacements dedicata a tutti quanti là, che scende in mezzo alla gente, li invita a sedersi intorno a lui per terra, e parte raccontando storie alcoliche e quant'altro. Uno spasso. Quando la musica riattacca, è divertimento puro a altissima gradazione di volume, tra Instant Karma di John Lennon e No Fun degli Stooges.
Lui pensa a quei poveracci dentro alla gabbia di Assago e ringrazia Jesse Malin, uno che il rock'n'roll, invece di ammazzarlo, lo tiene vivo. Come dice Jesse, gli amici veri non si trovano su Face Fucking Book, la musica vera non si ascolta su Youtube,la musica e gli amici li trovi in carne e ossa in ogni santo club dalla Bowery fino a Cantù. Sulla chitarra c'ha scritto P.M.A., che vuol dire come spiega lui invitando tutti a fare altrettanto, Positive Mental Attitude e fanculo al rock triste. Pensa che gli sono spariti anche i dolori che lo avevano tormentato negli ultimi giorni mentre saltella e urla "black haired girl".
Non dovranno passare altri quindici anni prima di tornare in questo posto, pensa mentre va via. E cazzo, il rock'n'roll gli ha salvato la vita anche questa volta. Il conto è chiuso, ha pagato abbastanza.
Ps: grazie all'Una e trentacinque e a Carlo, the real thing
We are the sons of no one, bastards of young
The daughters and the sons
Chilometri più in là, in tanti, tantissimi sono nella gabbia d'Assago a celebrare il rito della santa chiesa della megalomania di una rock star quasi settantenne, che ha passato gli ultimi 30 anni a rimuginare sempre sullo stesso spettacolo fatto di scenografie monumentali come una cattedrale nel deserto, su i suoi incubi e paranoie assortite. Togli quelle e cosa resta? Pare anche il playback in alcune occasioni.
Loro invece si infilano nel fresco della Brianza (alcolica), padre e figlia, lui pieno di pillole antidolorifiche di ogni marca da non reggersi in piedi, lei bella solo come si può essere a 16 anni.
L'ultima volta che lui era entrato qua sarà stato 15 anni fa. La prima cosa che nota, oltre a un sacco di belle ragazze che 15 anni fa non si vedevano a questo tipo di concerti, ma non lo dice alla figlia questa cosa, è un manifesto appeso al muro. In concerto, All'Una e trentacinque circa, Chris Burroughs e Neal Casal. Con tanto di autografi. Che botta, pensa. C'era anche lui quella sera, gli spettatori erano pochi, ma che ricordi. Chris Burroughs, chissà dove è finito. L'ultima volta che si sono sentiti una decina di anni fa era a Praga. Neal Casal invece ha fatto carriera, più o meno. Quella sera lui gli fece ingoiare il suo primo bicchiere di grappa e quasi l'artista americano stramazzava al suolo. Quando si sono rivisti, un anno fa circa, Casal aveva commentato. "Come posso dimenticarmi della persona che mi ha fatto bere la mia prima grappa?".
Ma lui sta divagando, come sempre, perso nei ricordi. Ricordi anche di questo Jesse Malin che sta per salire sul palco e che, figuratevi, non ha manco mai visto in concerto. Quando nessuno in Italia ancora lo conosceva, lui, che ai tempi era un brillante giornalista rock, colpito dallo splendido primo disco di questo personaggio lo aveva raggiunto al telefono per le strade di NYC. Avevano parlato di ragazze e di Joe Strummer, che era appena morto. Poi qualche anno fa si erano anche incontrati di persona nella hall di un albergo milanese, una intervista faccia a faccia che era stato un lunghissimo monologo di Jesse. Inarrestabile. C'era anche qualcun altro quel giorno, qualcuno con cui stasera chiudere ogni conto lasciato aperto. Ci penserà Jesse Malin a chiudere quel conto. Se no ci penseranno le pillole e qualche birra.
Quando Jesse Malin e i St Marks Social salgono sul palco, sembra di vedere una band di emo di quarant'anni. Devono aver speso più soldi per la tintura di capelli, pensa, che per la droga. Lui non ha problemi di tintura di capelli. Di droga, magari sì.
Il locale è straordinario, praticamente senza palco, sembra davvero di essere catapultati alla Bowery, CBGB's e ditorni. Quando attaccano a suonare, per lui e la figlia che sono in seconda fila dietro a delle ragazzine scatenate, sarà ancora di più così. Saranno due ore di sudato punk, ma di quello romantico, da notte sul ponte di Brooklyn a cercare Torri Gemelle che non ci sono più. Saranno momenti di tenerezza acustica, con tanto di fuck off (perché i punk non sono politically correct) a quella ragazzina là davanti che starnazza anche in un momento come questo. Sarà Jesse Malin che inventa una torrenziale Bastards of Young dei Replacements dedicata a tutti quanti là, che scende in mezzo alla gente, li invita a sedersi intorno a lui per terra, e parte raccontando storie alcoliche e quant'altro. Uno spasso. Quando la musica riattacca, è divertimento puro a altissima gradazione di volume, tra Instant Karma di John Lennon e No Fun degli Stooges.
Lui pensa a quei poveracci dentro alla gabbia di Assago e ringrazia Jesse Malin, uno che il rock'n'roll, invece di ammazzarlo, lo tiene vivo. Come dice Jesse, gli amici veri non si trovano su Face Fucking Book, la musica vera non si ascolta su Youtube,la musica e gli amici li trovi in carne e ossa in ogni santo club dalla Bowery fino a Cantù. Sulla chitarra c'ha scritto P.M.A., che vuol dire come spiega lui invitando tutti a fare altrettanto, Positive Mental Attitude e fanculo al rock triste. Pensa che gli sono spariti anche i dolori che lo avevano tormentato negli ultimi giorni mentre saltella e urla "black haired girl".
Non dovranno passare altri quindici anni prima di tornare in questo posto, pensa mentre va via. E cazzo, il rock'n'roll gli ha salvato la vita anche questa volta. Il conto è chiuso, ha pagato abbastanza.
Ps: grazie all'Una e trentacinque e a Carlo, the real thing
Tuesday, April 05, 2011
LA SCHIENA DI JOSH
We're the kind who will always need a Saviour
The kind who play country dumb
I come from a long line in history of dreamers
Too broke down to frankly my dear give a good god dime
Too poor in spirit to rent to own it alone
We're the kind who never take responsibility
We're the kind who start the books but who just do not finish
We're the kind who have 10,000 would-be-great, ungrateful, too-long, run-on songs
We're the kind still stuck in the past but who see well into the circle future
(Josh T. Pearson)
Durante i suoi concerti acustici del 2005, Bruce Springsteen a un certo punto eseguiva un pezzo che inevitabilmente portava alla distrazione e alla noia la maggior parte dei presenti. Anche sul disco che lo conteneva, Devils and Dust, era considerato il meno riuscito. Per chi scrive, nel contesto di un concerto comunque molto bello e sentito, quell'esecuzione era invece il momento di catarsi totale, spaccava in due l'oscurità che conteneva il cantante, seduto su uno sgabello, e riportava gli ampi palazzetti dello sport dove si teneva quel tour nell'intimità di una qualche cantina del border, tra vagabondi, alcolisti e peccatori assortiti. Il brano era The Hitter.
La scrittrice Flannery O'Connor è fonte suprema per il Bruce Springsteen acustico. Lo è anche per certe pagine di Nick Cave. Il racconto più bello e più conosciuto, sicuramente quello che più influenza gli autori rock, è certamente La schiena di Parker. "Iniziato nel 1960, La schiena di Parker ha avuto una gestazione molto lunga. Cinque anni dopo, nei suoi ultimi mesi di vita, Flannery O’Connor, continuava a ritoccare quel racconto che, più di ogni altro, ha al suo centro, in modo inequivocabile, diretto e violento, il tema dell’Incarnazione. Tutto ha inizio quando Parker, un ragazzotto «massiccio, leale, ordinario come una pagnotta», a una fiera di paese, vede un uomo coperto di tatuaggi dalla testa ai piedi. Finché non aveva visto l’uomo della fiera, non gli era mai venuto in mente che ci fosse qualcosa di straordinario, nel fatto di esistere. E non gli venne in mente neanche allora, però un singolare disagio mise radici dentro di lui. Era come un ragazzo cieco, girato con tanta delicatezza da non accorgersi che la sua destinazione era cambiata" dice la scrittrice Elena Buia Rutt. E aggiunge: "Nel tatuaggio, segno-sigillo impresso nella carne, Parker intuisce inaspettatamente un elemento di rottura, un rimando ad una dimensione altra, extra-ordinaria. Una dimensione prima di allora sconosciuta e solo ora percepita a tentoni: una conoscenza che ha a che fare con lo stupore e con la meraviglia provati dal fatto dell’essere al mondo. L’intuizione, insomma, di una trascendenza di cui carne e corpo sono il veicolo". Il tatuaggio che copre la schiena di Parker è il volto di Cristo.
Flannery O'Connor e la canzone The Hitter sono le prime due cose che vengono in mente quando ci si avvicina al disco "The Last of Country Gentleman", del texano Josh T. Pearson. Personalmente, ho dovuto girare intorno a questo disco a lungo prima di decidermi ad affrontarlo. Quando poi ho visto un video di una esibizione di Pearson all'interno di una chiesa, cominciare con il cantante che si faceva il segno della croce, ho capito che valeva la pena affidarsi alle sue canzoni.
Josh T. Pearson: chi era costui? La sua storia la trovate facilmente su Internet. Questo è il suo primo disco solista comunque, che arriva circa dieci anni dopo la sua precedente produzione. Dove è stato in questi dieci anni, il cantante? Probabilmente all'inferno. Questo disco è comunque la perfetta colonna sonora per una versione cinematografica de La schiena di Parker: l'intensità dolorosa, la tensione alla trascendenza, giocata nel corpo, nel sangue, è la medesima. Musicalmente, con i suoi brani lunghi anche dieci minuti per voce sofferente che intona nenie rubate letteralmente alla tradizione pentecostale, quella di mille canti che si alzavano in sperdute chiese, dal Nebraska all'Oklahoma, spazzate dal vento della solitudine, con sola chitarra acustica (a volte il formidabile violino di Warren Ellis dei Bad Seeds di Nick Cave) è di difficile e ostico ascolto. Ecco dove sta l'analogia con The Hitter di Springsteen: stessa difficoltà di ascolto e stesso senso di perduto afflato religioso. Stesso senso dell'America profonda, profondissima. Disco difficile, magari è consigliabile cominciare con il brano finale, Drive Her Out. Quello dove un profondo coro gospel accompagna una melodia di bellezza purissima, pur nel grido di disperazione che esprime il testo. E' duro, il contenuto delle canzoni di Josh T. Pearson (lui stesso ha detto che non avrebbero mai dovuto uscire da una stanza, perché troppo dolorose), ma è realistico e perciò conveniente. A volte sembra di risentire il Tom Waits migliore, quello degli anni 70, in particolare le conversazioni sanguinanti di un disco come Blue Valentine. Il tono è lo stesso: un uomo che cerca di giustificare alla sua donna il suo male di vivere, chiarendo peraltro di non farsi illusioni: Sweetheart I Ain't Your Christ, I ain't your Saviour or your Christ or your goddamn sacrifice.
Un disco brutale solo apparentemente: in realtà un disco che si accosta ai grandi lavori di meditazione sui rapporti affettivi, uomo e donna, come ad esempio Songs of Love and Hate di Leonard Cohen, Songs for an Absent Lover di Barzin, ma ci metterei dentro anche Pink Moon di Nick Drake, perché medesimo è il grido dell'anima che ne fuoriesce. Lascerei perdere per una volta certe scorciatoie di grana grossa mediatica della serie "peccato e redenzione", usate spesso e volentieri a sproposito da persone che del peccato se ne fottono e della redenzione pensano di non averne bisogno. Josh T. Pearson è molto più avanti di costoro. Un disco perfetto per la quaresima del cuore e dell'anima, piuttosto, come è questo mese di aprile, che si apre su squarci di sole abbagliante, ma che è in realtà è solo annuncio di qualcosa che verrà. Che stiamo aspettando. Noi, come Josh, che siamo di quella razza ancora bloccata nel passato ma che ci vede bene nel futuro. E che cominciano libri senza mai portarli a termine.
The kind who play country dumb
I come from a long line in history of dreamers
Too broke down to frankly my dear give a good god dime
Too poor in spirit to rent to own it alone
We're the kind who never take responsibility
We're the kind who start the books but who just do not finish
We're the kind who have 10,000 would-be-great, ungrateful, too-long, run-on songs
We're the kind still stuck in the past but who see well into the circle future
(Josh T. Pearson)
Durante i suoi concerti acustici del 2005, Bruce Springsteen a un certo punto eseguiva un pezzo che inevitabilmente portava alla distrazione e alla noia la maggior parte dei presenti. Anche sul disco che lo conteneva, Devils and Dust, era considerato il meno riuscito. Per chi scrive, nel contesto di un concerto comunque molto bello e sentito, quell'esecuzione era invece il momento di catarsi totale, spaccava in due l'oscurità che conteneva il cantante, seduto su uno sgabello, e riportava gli ampi palazzetti dello sport dove si teneva quel tour nell'intimità di una qualche cantina del border, tra vagabondi, alcolisti e peccatori assortiti. Il brano era The Hitter.
La scrittrice Flannery O'Connor è fonte suprema per il Bruce Springsteen acustico. Lo è anche per certe pagine di Nick Cave. Il racconto più bello e più conosciuto, sicuramente quello che più influenza gli autori rock, è certamente La schiena di Parker. "Iniziato nel 1960, La schiena di Parker ha avuto una gestazione molto lunga. Cinque anni dopo, nei suoi ultimi mesi di vita, Flannery O’Connor, continuava a ritoccare quel racconto che, più di ogni altro, ha al suo centro, in modo inequivocabile, diretto e violento, il tema dell’Incarnazione. Tutto ha inizio quando Parker, un ragazzotto «massiccio, leale, ordinario come una pagnotta», a una fiera di paese, vede un uomo coperto di tatuaggi dalla testa ai piedi. Finché non aveva visto l’uomo della fiera, non gli era mai venuto in mente che ci fosse qualcosa di straordinario, nel fatto di esistere. E non gli venne in mente neanche allora, però un singolare disagio mise radici dentro di lui. Era come un ragazzo cieco, girato con tanta delicatezza da non accorgersi che la sua destinazione era cambiata" dice la scrittrice Elena Buia Rutt. E aggiunge: "Nel tatuaggio, segno-sigillo impresso nella carne, Parker intuisce inaspettatamente un elemento di rottura, un rimando ad una dimensione altra, extra-ordinaria. Una dimensione prima di allora sconosciuta e solo ora percepita a tentoni: una conoscenza che ha a che fare con lo stupore e con la meraviglia provati dal fatto dell’essere al mondo. L’intuizione, insomma, di una trascendenza di cui carne e corpo sono il veicolo". Il tatuaggio che copre la schiena di Parker è il volto di Cristo.
Flannery O'Connor e la canzone The Hitter sono le prime due cose che vengono in mente quando ci si avvicina al disco "The Last of Country Gentleman", del texano Josh T. Pearson. Personalmente, ho dovuto girare intorno a questo disco a lungo prima di decidermi ad affrontarlo. Quando poi ho visto un video di una esibizione di Pearson all'interno di una chiesa, cominciare con il cantante che si faceva il segno della croce, ho capito che valeva la pena affidarsi alle sue canzoni.
Josh T. Pearson: chi era costui? La sua storia la trovate facilmente su Internet. Questo è il suo primo disco solista comunque, che arriva circa dieci anni dopo la sua precedente produzione. Dove è stato in questi dieci anni, il cantante? Probabilmente all'inferno. Questo disco è comunque la perfetta colonna sonora per una versione cinematografica de La schiena di Parker: l'intensità dolorosa, la tensione alla trascendenza, giocata nel corpo, nel sangue, è la medesima. Musicalmente, con i suoi brani lunghi anche dieci minuti per voce sofferente che intona nenie rubate letteralmente alla tradizione pentecostale, quella di mille canti che si alzavano in sperdute chiese, dal Nebraska all'Oklahoma, spazzate dal vento della solitudine, con sola chitarra acustica (a volte il formidabile violino di Warren Ellis dei Bad Seeds di Nick Cave) è di difficile e ostico ascolto. Ecco dove sta l'analogia con The Hitter di Springsteen: stessa difficoltà di ascolto e stesso senso di perduto afflato religioso. Stesso senso dell'America profonda, profondissima. Disco difficile, magari è consigliabile cominciare con il brano finale, Drive Her Out. Quello dove un profondo coro gospel accompagna una melodia di bellezza purissima, pur nel grido di disperazione che esprime il testo. E' duro, il contenuto delle canzoni di Josh T. Pearson (lui stesso ha detto che non avrebbero mai dovuto uscire da una stanza, perché troppo dolorose), ma è realistico e perciò conveniente. A volte sembra di risentire il Tom Waits migliore, quello degli anni 70, in particolare le conversazioni sanguinanti di un disco come Blue Valentine. Il tono è lo stesso: un uomo che cerca di giustificare alla sua donna il suo male di vivere, chiarendo peraltro di non farsi illusioni: Sweetheart I Ain't Your Christ, I ain't your Saviour or your Christ or your goddamn sacrifice.
Un disco brutale solo apparentemente: in realtà un disco che si accosta ai grandi lavori di meditazione sui rapporti affettivi, uomo e donna, come ad esempio Songs of Love and Hate di Leonard Cohen, Songs for an Absent Lover di Barzin, ma ci metterei dentro anche Pink Moon di Nick Drake, perché medesimo è il grido dell'anima che ne fuoriesce. Lascerei perdere per una volta certe scorciatoie di grana grossa mediatica della serie "peccato e redenzione", usate spesso e volentieri a sproposito da persone che del peccato se ne fottono e della redenzione pensano di non averne bisogno. Josh T. Pearson è molto più avanti di costoro. Un disco perfetto per la quaresima del cuore e dell'anima, piuttosto, come è questo mese di aprile, che si apre su squarci di sole abbagliante, ma che è in realtà è solo annuncio di qualcosa che verrà. Che stiamo aspettando. Noi, come Josh, che siamo di quella razza ancora bloccata nel passato ma che ci vede bene nel futuro. E che cominciano libri senza mai portarli a termine.
Sunday, April 03, 2011
Sunday Morning Music - E' troppo tardi per fermarsi, adesso
E' incredibile come uno dopo l'altro alcuni dei momenti più epici e trascendentali della storia del rock finiscano per emergere anche come documentazione filmata. Da un certo punto di vista, questi episodi rappresentano il Sacro Graal di ogni appassionato di musica rock. Quando uscì il documentario di Martin Scorsese dedicato alla vita di Bob Dylan, nessuno avrebbe mai pensato di vedere con i propri occhi il momento più drammatico e incandescente della storia del rock, lo scambio di battute fra uno spettatore e Bob Dylan sul palco della Free Trade Hall di Manchester nel 1966, e di vedere Bob Dylan dire alla propria band, "Play fucking loud!". Il grido definitivo del cuore del rock. E' accaduto, e quel filmato esiste, adesso.
Ma c'è un altro Graal che, per quanto ne so io (invito fan di Van Morrison a smentirmi, e li supplico se in possesso di adeguato dvd a mandarmene una copia: pago) ha visto la luce da poco. Su Youtube, la data di caricamento di questo filmato è il gennaio 2011. Si tratta dell'esecuzione di Cyprus Avenue, durante uno dei concerti del 1973 dai quali fu tratto uno dei più grandi dischi dal vivo di tutti i tempi, It's Too Late To Stop Now, di Van Morrison. Ebbene il titolo del disco è preso proprio dalla frase che lo straordinario Van di quei tempi là, in totale trance mistico-cocainica-musicale pronuncia al termine di una formidabile esecuzione di quel brano: è troppo tardi per fermarsi adesso!. Il grido di tutti quelli che sono stati sopraffatti dalla musica e non ne possono più farne a meno.
Ho visto Van Morrison in concerto innumerevoli volte, a partire da tre concerti nel 1991 in apertura di altrettanti show di Bob Dylan. L'ho visto nell'intimità del piccolo Rolling Stone, l'ho visto a Dublino. Ebbene, non ho praticamente nessun ricordo di questi show, a parte un Van Morrison che ghigna come un ubriaco di Grafton Street seduto sullo sgabello della batteria, al Rolling Stone. Il fatto che non ricordi praticamente nulla la dice lunga, di concerti che non mi hanno lasciato niente. Ma nel 1973 Van Morrison è il più grande performer del mondo. Impossibile immaginarsi Bruce Springsteen, ad esempio, senza questo Van Morrison. Un interprete da paura, una forza scatenata dell'anima, il più grande interprete bianco di musica soul. Questo filmato lo documenta tutto. Le interazioni con i musicisti, le improvvisazioni, le risate aperte degli stessi musicisti nessuno dei quali ha idea di dove Van Morrison voglia portarli, totalmente incapsulato nel suo viaggio musicale. La bambina, probabilmente sua figlia, che sale sul palco e tranquillamente partecipa alla performance senza che nessuno dica nulla. Lui, Van, che fuma una sigaretta, l'aria di chi sa che sta per esplodere in qualcosa di impossibile. E' troppo tardi pe fermarsi adesso.
Non c'è nente da fare. Se pensiamo che negli anni 70 sono state pubblicate documentazioni di eventi live come appunto questa, il live al Fillmore East della Allman Brothers Band, Hard Rain di Bob Dylan, e poi anche se pubblicati postumi, eventi live dei Led Zeppelin, Springsteen e altro ancora. Insomma, è evidente che qeulli sono stati gli anni definitivi della musica dal vivo. Perché quegli artisti erano giovani, certo erano ubriachi e fatti di cocaina, ma quando si è giovani quelle sostanze si portano bene e spaccano il muro della musica. Erano lì per sfidare se stessi e vedere se era possibile fermarsi, oppure no. Oggi sono tutti dei tranquilli professionisti, si sono fermati, ma soprattutto è impossibile ritrovare sul palco di chi è venuto dopo di loro lo stesso grido del cuore: è impossibile fermarsi adesso.
Ps: all'inizio il filmato, dopo circa un minuto e mezzo, riparte daccapo, ma poi la performance va avanti fino alla fine.
Pps: Della serie, in Italia si arriva sempre per ultimi. Un amico inglese mi ha detto che questo show è stato trasmesso sulla Bbc qualche tempo fa, dunque non si tratta di una scoperta archeologica di valore, nel mondo (della musica) che conta, era già noto. Si tratta di un concerto al Rainbow di Londra del 24 luglio 1973.
Ma c'è un altro Graal che, per quanto ne so io (invito fan di Van Morrison a smentirmi, e li supplico se in possesso di adeguato dvd a mandarmene una copia: pago) ha visto la luce da poco. Su Youtube, la data di caricamento di questo filmato è il gennaio 2011. Si tratta dell'esecuzione di Cyprus Avenue, durante uno dei concerti del 1973 dai quali fu tratto uno dei più grandi dischi dal vivo di tutti i tempi, It's Too Late To Stop Now, di Van Morrison. Ebbene il titolo del disco è preso proprio dalla frase che lo straordinario Van di quei tempi là, in totale trance mistico-cocainica-musicale pronuncia al termine di una formidabile esecuzione di quel brano: è troppo tardi per fermarsi adesso!. Il grido di tutti quelli che sono stati sopraffatti dalla musica e non ne possono più farne a meno.
Ho visto Van Morrison in concerto innumerevoli volte, a partire da tre concerti nel 1991 in apertura di altrettanti show di Bob Dylan. L'ho visto nell'intimità del piccolo Rolling Stone, l'ho visto a Dublino. Ebbene, non ho praticamente nessun ricordo di questi show, a parte un Van Morrison che ghigna come un ubriaco di Grafton Street seduto sullo sgabello della batteria, al Rolling Stone. Il fatto che non ricordi praticamente nulla la dice lunga, di concerti che non mi hanno lasciato niente. Ma nel 1973 Van Morrison è il più grande performer del mondo. Impossibile immaginarsi Bruce Springsteen, ad esempio, senza questo Van Morrison. Un interprete da paura, una forza scatenata dell'anima, il più grande interprete bianco di musica soul. Questo filmato lo documenta tutto. Le interazioni con i musicisti, le improvvisazioni, le risate aperte degli stessi musicisti nessuno dei quali ha idea di dove Van Morrison voglia portarli, totalmente incapsulato nel suo viaggio musicale. La bambina, probabilmente sua figlia, che sale sul palco e tranquillamente partecipa alla performance senza che nessuno dica nulla. Lui, Van, che fuma una sigaretta, l'aria di chi sa che sta per esplodere in qualcosa di impossibile. E' troppo tardi pe fermarsi adesso.
Non c'è nente da fare. Se pensiamo che negli anni 70 sono state pubblicate documentazioni di eventi live come appunto questa, il live al Fillmore East della Allman Brothers Band, Hard Rain di Bob Dylan, e poi anche se pubblicati postumi, eventi live dei Led Zeppelin, Springsteen e altro ancora. Insomma, è evidente che qeulli sono stati gli anni definitivi della musica dal vivo. Perché quegli artisti erano giovani, certo erano ubriachi e fatti di cocaina, ma quando si è giovani quelle sostanze si portano bene e spaccano il muro della musica. Erano lì per sfidare se stessi e vedere se era possibile fermarsi, oppure no. Oggi sono tutti dei tranquilli professionisti, si sono fermati, ma soprattutto è impossibile ritrovare sul palco di chi è venuto dopo di loro lo stesso grido del cuore: è impossibile fermarsi adesso.
Ps: all'inizio il filmato, dopo circa un minuto e mezzo, riparte daccapo, ma poi la performance va avanti fino alla fine.
Pps: Della serie, in Italia si arriva sempre per ultimi. Un amico inglese mi ha detto che questo show è stato trasmesso sulla Bbc qualche tempo fa, dunque non si tratta di una scoperta archeologica di valore, nel mondo (della musica) che conta, era già noto. Si tratta di un concerto al Rainbow di Londra del 24 luglio 1973.
Friday, April 01, 2011
Late Night Tales
Its nightime in the big city...
Sono sempre più stanco, ogni sera che torno a casa. Ieri notte mi è anche venuto un crampo diabolico al polpaccio sinistro che mi hanno sentito urlare fino a all'inferno andata e ritorno. E dire che passo 11 ore al giorno seduto a una scrivania. Ma non sono vecchio. Come dice Fiorello e come mi ha ricordato oggi un amico che non vedo di persona da 28 anni, sono diversamente giovane.
La notte mi ha sempre fatto paura. Adesso mi angoscia. Si finisce di fare i fenomeni, quando cala l'oscurità. Stasera dopo essermi trascinato dentro casa mia, ho trovato il pacchettino play.com, la mia gioia. Dentro, i racconti di notte fonda consigliati dai Midlake. Che meraviglia. Ci sono un sacco di canzoni da notte fonda, quando io non dormo mai. Adesso so con chi passare quelle ore.
La notte scopre ogni ferita, e ne crea di nuove. Per fortuna il mattino dopo ci si può vestire e nasconderle bene, tutte quante.
Certo, ci sono tanti modi per far passare quelle ore, li ho provati tutti o quasi. Adesso scorro la lista che ascolterò a notte fonda. Uh quanti nomi sconosciuti... Bob Carpenter, Bread, Love and Dreams, Jimmy Spheeris, Jan Duindam... Anche nomi che mi sono cari da una vita... Fairport Convention, The Band, Sandy Denny, Flying Burrito Bros... Sono tutti dei fantasmi, mi sa, vecchi e nuovi.. Terranno via gli incubi che mi bussano al bordo del letto ogni notte? Ho anche una bottiglia di quello buono, sempre carica, al mio fianco, sul comodino, anche se cerco di starne lontano in questi ultimi tempi. Ma è lì, e mi fissa. Oh e naturalmente c'è un brano che i Midlake hanno registrato appositamente. Am I Going Insane - allora non sono il solo che sta diventando pazzo di questi tempi - una cover dei Black Sabbath. Ha!
WTF just happened inside my brain on a molecular level with regard to the consumption of ethanol-based alcohol
Dentro c'è un libretto, ogni singola canzone con cura e dettagli ma noi diversamente giovani dobbiamo cominciare a pensare a un buon paio di lenti... E che bella foto, i Midlake seduti sui banchi di una chiesa, una vetrata con un San Giovanni che battezza il Cristo colorata e illuminante. Uno solo di loro la sta guardando, se non ricordo male è quel figaccione del bass player. Mi viene in mente un altro incubo, dove salivo le scale di un teatro della vecchia Londra e la fien di quelle scale non arrivava mai. Solo un'ombra, in cima.
E’ facilissimo reagire con freddezza alle cose durante il giorno, ma di notte è tutto un altro discorso.
E' notte fonda ormai. E' tempo di infilare il dischetto nell'apposito strumento. Ho bisogno di sentire racconti, storie gentili. Ah c'è anche Rodriguez vedo. Cazzo. Ok, tutto quello che va torna indietro e se ne va ancora. Ma ricordatevelo. Tutti vogliono il nostro bene. Non fatevelo portar via.
All'alba ho trovato la chiave di ingresso. La notte più fredda dell'anno passerà, ma questa canzone resterà. Totale. Grazie Midlake
Per colmare un vuoto devi inserire ciò che l’ha causato.Se lo riempi con altro, ancora di più spalancherà le fauci. Non si chiude un abisso con l’aria
Con special thanx to Emily Dickinson, E. Hemingway e qualcun altro.
Sono sempre più stanco, ogni sera che torno a casa. Ieri notte mi è anche venuto un crampo diabolico al polpaccio sinistro che mi hanno sentito urlare fino a all'inferno andata e ritorno. E dire che passo 11 ore al giorno seduto a una scrivania. Ma non sono vecchio. Come dice Fiorello e come mi ha ricordato oggi un amico che non vedo di persona da 28 anni, sono diversamente giovane.
La notte mi ha sempre fatto paura. Adesso mi angoscia. Si finisce di fare i fenomeni, quando cala l'oscurità. Stasera dopo essermi trascinato dentro casa mia, ho trovato il pacchettino play.com, la mia gioia. Dentro, i racconti di notte fonda consigliati dai Midlake. Che meraviglia. Ci sono un sacco di canzoni da notte fonda, quando io non dormo mai. Adesso so con chi passare quelle ore.
La notte scopre ogni ferita, e ne crea di nuove. Per fortuna il mattino dopo ci si può vestire e nasconderle bene, tutte quante.
Certo, ci sono tanti modi per far passare quelle ore, li ho provati tutti o quasi. Adesso scorro la lista che ascolterò a notte fonda. Uh quanti nomi sconosciuti... Bob Carpenter, Bread, Love and Dreams, Jimmy Spheeris, Jan Duindam... Anche nomi che mi sono cari da una vita... Fairport Convention, The Band, Sandy Denny, Flying Burrito Bros... Sono tutti dei fantasmi, mi sa, vecchi e nuovi.. Terranno via gli incubi che mi bussano al bordo del letto ogni notte? Ho anche una bottiglia di quello buono, sempre carica, al mio fianco, sul comodino, anche se cerco di starne lontano in questi ultimi tempi. Ma è lì, e mi fissa. Oh e naturalmente c'è un brano che i Midlake hanno registrato appositamente. Am I Going Insane - allora non sono il solo che sta diventando pazzo di questi tempi - una cover dei Black Sabbath. Ha!
WTF just happened inside my brain on a molecular level with regard to the consumption of ethanol-based alcohol
Dentro c'è un libretto, ogni singola canzone con cura e dettagli ma noi diversamente giovani dobbiamo cominciare a pensare a un buon paio di lenti... E che bella foto, i Midlake seduti sui banchi di una chiesa, una vetrata con un San Giovanni che battezza il Cristo colorata e illuminante. Uno solo di loro la sta guardando, se non ricordo male è quel figaccione del bass player. Mi viene in mente un altro incubo, dove salivo le scale di un teatro della vecchia Londra e la fien di quelle scale non arrivava mai. Solo un'ombra, in cima.
E’ facilissimo reagire con freddezza alle cose durante il giorno, ma di notte è tutto un altro discorso.
E' notte fonda ormai. E' tempo di infilare il dischetto nell'apposito strumento. Ho bisogno di sentire racconti, storie gentili. Ah c'è anche Rodriguez vedo. Cazzo. Ok, tutto quello che va torna indietro e se ne va ancora. Ma ricordatevelo. Tutti vogliono il nostro bene. Non fatevelo portar via.
All'alba ho trovato la chiave di ingresso. La notte più fredda dell'anno passerà, ma questa canzone resterà. Totale. Grazie Midlake
Per colmare un vuoto devi inserire ciò che l’ha causato.Se lo riempi con altro, ancora di più spalancherà le fauci. Non si chiude un abisso con l’aria
Con special thanx to Emily Dickinson, E. Hemingway e qualcun altro.
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