Che il 2012 vi porti notti addormentate - io me lo auguro - e non più notti insonni
love
Saturday, December 31, 2011
Tuesday, December 27, 2011
The road goes on forever and the party never ends
I know Jesus is on that mainline
Tell Him what you want
Jesus is on that mainline
Tell Him what you want
Jesus is on that mainline
Tell Him what you want
Call Him up and tell Him what you want
(cantata al funerale di Carlo Carlini, da Angelo Leadbelly Rossi)
Quella strada percorsa milioni di volte. A ogni ora del giorno e della notte, alba, tramonto, notte fonda e pomeriggio. Con qualunque tempo, neve, ghiaccio, sole, primavera e autunno. Di corsa, perché bisognava correre quando Carlo Carlini chiamava per un nuovo concerto: “the road goes on forever and the party never ends” dicevamo, e per molti anni è stato davvero così. Quella strada che poco a poco lasciava le code e le fabbriche e puntava in mezzo ai boschi, era come svoltare ed entrare in una realtà parallela. Poi il grande fiume argentato, il Blue River, il Mississippi di noialtri con quel ponte di fero che sembrava davvero di svoltare verso New Orleans. Oggi quella strada che mi mancava da tanto tempo mi riporta in quei posti, svolto e rivedo la sala dei tanti concerti, battaglie rock infinite. Ma questa volta non c’è un concerto e devo proseguire. Mi ha detto Paola, figlia di Carlo, “vieni martedì a dare il penultimo saluto a papà”. Già è proprio così e grazie Paola per avermelo fatto capire: quando una persona cara muore non è un addio per sempre, è solo il penultimo saluto prima dell’ultimo vero saluto, quello che durerà per l’eternità. Quando ci rivedremo. Non avrebbe senso quello che abbiamo vissuto qua, altrimenti, se un funerale fosse solo l’ultimo saluto.
Il giorno prima di morire Carlo aveva postato due video sulla sua pagina Facebook, che era diventato il modo per rimanere in contatto dopo anni di lontananza. Uno era del suo grande eroe amatissimo Bob Dylan: “It’s not dark yet, but its getting there”, non è ancora buio, ma lo sta diventando. Scorre un brivido a vedere che aveva scelto proprio quella canzone, come se Carlo avesse avuto un’intuizione, che quelle erano le sue ultime ore prima che scendesse il buio. Poi ne aveva postato un altro, di quello che era il suo grande eroe e amore ancora più grande: pochi lo sapevano, Carlo adorava Elvis. Ricordo la prima volta che andai a casa sua e mi mostrò tutti quei vinili fantastici di Elvis. Il video che aveva postato erano due canzoni gospel fatte da Elvis, due preghiere rivolte a Gesù, e anche qui viene un brivido: vecchio amico, ti stavi davvero preparando al grande viaggio? Stavi cercando di farcelo capire? Eri pronto, forse?
Qua all’abbazia di San Donato c’è un sole abbagliante, che giornata meravigliosa. Ci sono un sacco di volti mai più rivisti da anni e riabbracciati con commozione. Ci sono i figli di Carlo, c’è un sacco di gente, la chiesa è gremita. Lacrime certo, ma anche tanti sorrisi e serenità: non è certo un addio, questo. Raffaella, la figlia maggiore, ha parole che spaccano ricordando Carlo, e rivelando il mistero sconosciuto ai più, ma anche facendoci sorridere: “Quando hai 4 anni e sei figlia di Carlini, non puoi non ascoltare Bob Dylan”.
E mi si spalanca un flashback doloroso, ma allo stesso tempo dolcissimo di ricordi. “Per l'amicizia profonda che ci lega, ci basterebbe guardarci negli occhi per vedere trascorrere tutti quei momenti in quegli anni passati in nome della Musica... Mio padre ti ha sempre sentito vicino”, mi ha scritto nei giorni scorsi Paola. E’ stato così, oggi, un abbraccio lungo e le nostre lacrime a mischiarsi tra di loro sulle nostre spalle reciproche. Davvero non avevamo bisogno di dirci altro. E mi rendo conto che se sono quello che sono oggi, nel bene e nel male, lo devo a persone come Carlo, che hanno contribuito a farmi diventare quello che sono rendendo concreta e vivibile una passione, quella per la musica, che sarebbe rimasta istintività adolescenziale. Davvero nella vita ci si incontra per un motivo, nulla è mai casuale, ognuno ti è messo davanti nella strada della vita per farti capire un po’ meglio il tuo destino. Lo si capisce dopo però, col tempo, mai nel momento che accade. Carlo aveva una passione, quella per la musica e dunque per la Bellezza, ma non l’ha tenuta per sé. Ha voluto condividerla con chiunque e nel fare questo ha fatto la cosa più grande che un uomo possa fare sulla terra, condividere la Bellezza. Non si può fare di più nella vita, e pochi riescono a farlo.
Quanti ricordi e quante storie potrei raccontare. Milionate. Ma se il concerto, quei concerti (Uncle Tupelo, non sapevamo manco chi fossero; Ani Di Franco alla birreria Il Glicine prima che diventasse trendy per tutti gli altri; Neal Casal, da solo e con una folgorante band; tanto per dire dei giovani che aveva l’intuizione di portare per primo in Italia. E i grandi vecchi che da copertine sbiadite di vecchi vinili improvvisamente diventavano carne e ossa. Uno dei primissimi concerti che vidi a Sesto Calende fu Richard Thompson in coppia con Danny Thompson, potete immaginare che evento) erano eventi straordinari, con Carlo l’evento cominciava sempre dopo il concerto. Oppure prima. Ricordo certe notti tornando da un concerto, Carlo che cambiava improvvisamente strada e ci portava in qualche sperduta osteria o ristorante che solo lui conosceva. Il momento più bello per lui era quello e ci teneva a fartelo capire. Insieme, pochi intimi, una tavolata allegra, conviviale, come in famiglia, buon vino rosso e cibi fantastici. E grappa naturalmente: ne abbiamo convertiti di yankee al vero liquore, eh Carlo?Amava la vita Carlo, e il calore della vita. Quei musicisti americani abituati a disgustose road house o MacDonald’s di periferia rimanevano estasiati da tutto ciò. Poi, sempre, si tirava fuori una chitarra in mezzo ad avventori stupiti nel vedere tanta felicità semplice, e si cantava e si rideva. La madre di tutti questi eventi ovviamente fu quella cena, fine dicembre 1994, ristorante La Biscia di Sesto Calende: in mezzo a noi, seduti ai tavoli, Joe Ely, Alejandro Escovedo, Eric Andersen, Luigi Grechi, Rick Danko e poi ognuno a passarsi la chitarra e condividere canzoni. Indimenticabile. Cose che voi umani non potete immaginare. Lui ce le ha fatte vivere veramente.
Ogni volta con lui era un imprevisto e una sorpresa. Ti prendeva da mezzo al pubblico dove aspettavi che cominciasse il concerto e ti diceva, fammi un favore vai in albergo a prendere John. Che era John Prine, non so se mi spiego, e io ad accompagnare John Prine sulla mia macchina insieme verso il teatro. Cazzo. Oppure mentre finiva il soundcheck, a cui permetteva sempre di assistere se lo volevi, diceva, devo andare da una parte, puoi aspettare che finisce e accompagnarlo al ristorante? E ti lasciava da solo con Steve Forbert. Cazzo. E ancora: puoi accompagnarlo all’aeroporto domattina presto? Era Ramblin’ Jack Elliott, il compagno di strada di Woody Guthrie e il maestro di Bob Dylan, e così vivevo uno scampolo privato di Rolling Thunder Revue. E gli episodi da sganasciarsi, come quando fece venire, ancora una volta primo in Italia, i Phish a suonare in una Sala Marna gremita di Pish-head, i ragazzi americani che avevano seguito la band fino nella sperduta provincia italiana. Che a mezzanotte, nell’intervallo fra un set e l’altro, si buttarono a fare il bagno nel Ticino, con l’intera stazione dei carabinieri di Sesto Calende (tre in tutto) che non sapevano cosa fare per farli uscire dall’acqua. Una scena leggendaria, degna di un film di Totò.
E Chip Taylor, il fratello di Join Voight, l’uomo da marciapiede, che martella la chitarra cantando la sua Wild Thing (uno dei cinque brani immorali della storia del rock): un ricordo fiammeggiante e indelebile. Ci credo che poi Chip scrisse una canzone per te. Tu eri una “wild thing”, Carlo. Quante volte ci siamo messi a tavolino a fare i conti per far suonare Bob Dylan a Sesto Calende, in sala Consiliare? Dunque: ci stanno cento persone, se ognuno è disposto a pagare il biglietto centomila lire… no, io sono disposto a pagarne anche 200mila… ecco allora dunque dovremmo riuscire a pagargli il cachet. Insomma, non siamo mai riusciti a concludere l’affare. Ma va bene così.
Ho un ricordo, adesso, più vivo degli altri. Dopo anni che non sentivo più fisicamente la tua voce, amico, la sento come se avessi finito di parlarmi un minuto fa. E notte fonda, fondissima, siamo fuori della casa, quella di campagna, quella pink house in mezzo ai boschi della tua Woodstock personale che era anche il nostro rifugio. Siamo tornati da un concerto e tu dici, be’ ma cosa vai a fare a casa così tardi, resta qui. Non posso Carlo, ho una moglie e dei figli a casa. Va bene ok, ma è ancora presto, prima beviamoci ancora un po’ di vino: “the road goes on forever and the party never ends”. Bere non per fare gli scemi, ma perché bere insieme è più bello, anzi è proprio bello, ti lega per la vita, e si vorrebbe sempre rimandare il momento dei saluti. Stringere il tempo, fermare il tempo, come solo possono fare le nostre canzoni.
Così ecco, questo è stato il nostro penultimo saluto in attesa di quello eterno, amico carissimo di cento battaglie. Anche il funerale è stato un evento. Scommetto che il primo a venirti incontro dentro i cancelli dell’Eden è stato Elvis, seguito da Rick Danko e poi Jesse Guitar Taylor. Ti aspettavano, avevano bisogno di un promoter come te in paradiso. Io penso alle parole di Paola, ancora una volta, e cerco di sorridere in questa tristezza che adesso che il sole meraviglioso di oggi pomeriggio è calato, mi prende con un magone insopportabile: “Che Dio ci benedica tutti”. E ci aggiungo le parole del tuo amato Bob Dylan: “Possa Dio avere pietà di tutti noi”. Grazie di tutto, Carlo, il mio debito enorme.Provo le stesse parole che Joe Henry ha scritto sulla tua pagina di Facebook: "Ricordo il mio primo tour con lui come qualcuno ricorda il suo servizio militare: davvero quel tour mi fece diventare uomo, dal punto di vista professionale". E' stato così per tutti quelli che ti hanno incontrato.
Tell Him what you want
Jesus is on that mainline
Tell Him what you want
Jesus is on that mainline
Tell Him what you want
Call Him up and tell Him what you want
(cantata al funerale di Carlo Carlini, da Angelo Leadbelly Rossi)
Quella strada percorsa milioni di volte. A ogni ora del giorno e della notte, alba, tramonto, notte fonda e pomeriggio. Con qualunque tempo, neve, ghiaccio, sole, primavera e autunno. Di corsa, perché bisognava correre quando Carlo Carlini chiamava per un nuovo concerto: “the road goes on forever and the party never ends” dicevamo, e per molti anni è stato davvero così. Quella strada che poco a poco lasciava le code e le fabbriche e puntava in mezzo ai boschi, era come svoltare ed entrare in una realtà parallela. Poi il grande fiume argentato, il Blue River, il Mississippi di noialtri con quel ponte di fero che sembrava davvero di svoltare verso New Orleans. Oggi quella strada che mi mancava da tanto tempo mi riporta in quei posti, svolto e rivedo la sala dei tanti concerti, battaglie rock infinite. Ma questa volta non c’è un concerto e devo proseguire. Mi ha detto Paola, figlia di Carlo, “vieni martedì a dare il penultimo saluto a papà”. Già è proprio così e grazie Paola per avermelo fatto capire: quando una persona cara muore non è un addio per sempre, è solo il penultimo saluto prima dell’ultimo vero saluto, quello che durerà per l’eternità. Quando ci rivedremo. Non avrebbe senso quello che abbiamo vissuto qua, altrimenti, se un funerale fosse solo l’ultimo saluto.
Il giorno prima di morire Carlo aveva postato due video sulla sua pagina Facebook, che era diventato il modo per rimanere in contatto dopo anni di lontananza. Uno era del suo grande eroe amatissimo Bob Dylan: “It’s not dark yet, but its getting there”, non è ancora buio, ma lo sta diventando. Scorre un brivido a vedere che aveva scelto proprio quella canzone, come se Carlo avesse avuto un’intuizione, che quelle erano le sue ultime ore prima che scendesse il buio. Poi ne aveva postato un altro, di quello che era il suo grande eroe e amore ancora più grande: pochi lo sapevano, Carlo adorava Elvis. Ricordo la prima volta che andai a casa sua e mi mostrò tutti quei vinili fantastici di Elvis. Il video che aveva postato erano due canzoni gospel fatte da Elvis, due preghiere rivolte a Gesù, e anche qui viene un brivido: vecchio amico, ti stavi davvero preparando al grande viaggio? Stavi cercando di farcelo capire? Eri pronto, forse?
Qua all’abbazia di San Donato c’è un sole abbagliante, che giornata meravigliosa. Ci sono un sacco di volti mai più rivisti da anni e riabbracciati con commozione. Ci sono i figli di Carlo, c’è un sacco di gente, la chiesa è gremita. Lacrime certo, ma anche tanti sorrisi e serenità: non è certo un addio, questo. Raffaella, la figlia maggiore, ha parole che spaccano ricordando Carlo, e rivelando il mistero sconosciuto ai più, ma anche facendoci sorridere: “Quando hai 4 anni e sei figlia di Carlini, non puoi non ascoltare Bob Dylan”.
E mi si spalanca un flashback doloroso, ma allo stesso tempo dolcissimo di ricordi. “Per l'amicizia profonda che ci lega, ci basterebbe guardarci negli occhi per vedere trascorrere tutti quei momenti in quegli anni passati in nome della Musica... Mio padre ti ha sempre sentito vicino”, mi ha scritto nei giorni scorsi Paola. E’ stato così, oggi, un abbraccio lungo e le nostre lacrime a mischiarsi tra di loro sulle nostre spalle reciproche. Davvero non avevamo bisogno di dirci altro. E mi rendo conto che se sono quello che sono oggi, nel bene e nel male, lo devo a persone come Carlo, che hanno contribuito a farmi diventare quello che sono rendendo concreta e vivibile una passione, quella per la musica, che sarebbe rimasta istintività adolescenziale. Davvero nella vita ci si incontra per un motivo, nulla è mai casuale, ognuno ti è messo davanti nella strada della vita per farti capire un po’ meglio il tuo destino. Lo si capisce dopo però, col tempo, mai nel momento che accade. Carlo aveva una passione, quella per la musica e dunque per la Bellezza, ma non l’ha tenuta per sé. Ha voluto condividerla con chiunque e nel fare questo ha fatto la cosa più grande che un uomo possa fare sulla terra, condividere la Bellezza. Non si può fare di più nella vita, e pochi riescono a farlo.
Quanti ricordi e quante storie potrei raccontare. Milionate. Ma se il concerto, quei concerti (Uncle Tupelo, non sapevamo manco chi fossero; Ani Di Franco alla birreria Il Glicine prima che diventasse trendy per tutti gli altri; Neal Casal, da solo e con una folgorante band; tanto per dire dei giovani che aveva l’intuizione di portare per primo in Italia. E i grandi vecchi che da copertine sbiadite di vecchi vinili improvvisamente diventavano carne e ossa. Uno dei primissimi concerti che vidi a Sesto Calende fu Richard Thompson in coppia con Danny Thompson, potete immaginare che evento) erano eventi straordinari, con Carlo l’evento cominciava sempre dopo il concerto. Oppure prima. Ricordo certe notti tornando da un concerto, Carlo che cambiava improvvisamente strada e ci portava in qualche sperduta osteria o ristorante che solo lui conosceva. Il momento più bello per lui era quello e ci teneva a fartelo capire. Insieme, pochi intimi, una tavolata allegra, conviviale, come in famiglia, buon vino rosso e cibi fantastici. E grappa naturalmente: ne abbiamo convertiti di yankee al vero liquore, eh Carlo?Amava la vita Carlo, e il calore della vita. Quei musicisti americani abituati a disgustose road house o MacDonald’s di periferia rimanevano estasiati da tutto ciò. Poi, sempre, si tirava fuori una chitarra in mezzo ad avventori stupiti nel vedere tanta felicità semplice, e si cantava e si rideva. La madre di tutti questi eventi ovviamente fu quella cena, fine dicembre 1994, ristorante La Biscia di Sesto Calende: in mezzo a noi, seduti ai tavoli, Joe Ely, Alejandro Escovedo, Eric Andersen, Luigi Grechi, Rick Danko e poi ognuno a passarsi la chitarra e condividere canzoni. Indimenticabile. Cose che voi umani non potete immaginare. Lui ce le ha fatte vivere veramente.
Ogni volta con lui era un imprevisto e una sorpresa. Ti prendeva da mezzo al pubblico dove aspettavi che cominciasse il concerto e ti diceva, fammi un favore vai in albergo a prendere John. Che era John Prine, non so se mi spiego, e io ad accompagnare John Prine sulla mia macchina insieme verso il teatro. Cazzo. Oppure mentre finiva il soundcheck, a cui permetteva sempre di assistere se lo volevi, diceva, devo andare da una parte, puoi aspettare che finisce e accompagnarlo al ristorante? E ti lasciava da solo con Steve Forbert. Cazzo. E ancora: puoi accompagnarlo all’aeroporto domattina presto? Era Ramblin’ Jack Elliott, il compagno di strada di Woody Guthrie e il maestro di Bob Dylan, e così vivevo uno scampolo privato di Rolling Thunder Revue. E gli episodi da sganasciarsi, come quando fece venire, ancora una volta primo in Italia, i Phish a suonare in una Sala Marna gremita di Pish-head, i ragazzi americani che avevano seguito la band fino nella sperduta provincia italiana. Che a mezzanotte, nell’intervallo fra un set e l’altro, si buttarono a fare il bagno nel Ticino, con l’intera stazione dei carabinieri di Sesto Calende (tre in tutto) che non sapevano cosa fare per farli uscire dall’acqua. Una scena leggendaria, degna di un film di Totò.
E Chip Taylor, il fratello di Join Voight, l’uomo da marciapiede, che martella la chitarra cantando la sua Wild Thing (uno dei cinque brani immorali della storia del rock): un ricordo fiammeggiante e indelebile. Ci credo che poi Chip scrisse una canzone per te. Tu eri una “wild thing”, Carlo. Quante volte ci siamo messi a tavolino a fare i conti per far suonare Bob Dylan a Sesto Calende, in sala Consiliare? Dunque: ci stanno cento persone, se ognuno è disposto a pagare il biglietto centomila lire… no, io sono disposto a pagarne anche 200mila… ecco allora dunque dovremmo riuscire a pagargli il cachet. Insomma, non siamo mai riusciti a concludere l’affare. Ma va bene così.
Ho un ricordo, adesso, più vivo degli altri. Dopo anni che non sentivo più fisicamente la tua voce, amico, la sento come se avessi finito di parlarmi un minuto fa. E notte fonda, fondissima, siamo fuori della casa, quella di campagna, quella pink house in mezzo ai boschi della tua Woodstock personale che era anche il nostro rifugio. Siamo tornati da un concerto e tu dici, be’ ma cosa vai a fare a casa così tardi, resta qui. Non posso Carlo, ho una moglie e dei figli a casa. Va bene ok, ma è ancora presto, prima beviamoci ancora un po’ di vino: “the road goes on forever and the party never ends”. Bere non per fare gli scemi, ma perché bere insieme è più bello, anzi è proprio bello, ti lega per la vita, e si vorrebbe sempre rimandare il momento dei saluti. Stringere il tempo, fermare il tempo, come solo possono fare le nostre canzoni.
Così ecco, questo è stato il nostro penultimo saluto in attesa di quello eterno, amico carissimo di cento battaglie. Anche il funerale è stato un evento. Scommetto che il primo a venirti incontro dentro i cancelli dell’Eden è stato Elvis, seguito da Rick Danko e poi Jesse Guitar Taylor. Ti aspettavano, avevano bisogno di un promoter come te in paradiso. Io penso alle parole di Paola, ancora una volta, e cerco di sorridere in questa tristezza che adesso che il sole meraviglioso di oggi pomeriggio è calato, mi prende con un magone insopportabile: “Che Dio ci benedica tutti”. E ci aggiungo le parole del tuo amato Bob Dylan: “Possa Dio avere pietà di tutti noi”. Grazie di tutto, Carlo, il mio debito enorme.Provo le stesse parole che Joe Henry ha scritto sulla tua pagina di Facebook: "Ricordo il mio primo tour con lui come qualcuno ricorda il suo servizio militare: davvero quel tour mi fece diventare uomo, dal punto di vista professionale". E' stato così per tutti quelli che ti hanno incontrato.
Friday, December 23, 2011
Carlo
Carlo Carlini (2 febbraio 1949 - 23 dicembre 2011), Eric Andersen, Sesto Calende, dicembre 1994
Ha fatto diventare carne e sangue quei volti che per noi erano solo fotografie su di un vinile. Per poco, ha reso reale e possibile quello che era irreale e lontano. E' stato il padre che non avevamo mai avuto, ci ha insegnato quello che valeva la pena sapere. Grazie Carlo, non stare via troppo.Dobbiamo ancora far venire Bob Dylan a Sesto Calende.
Wednesday, December 21, 2011
Un milione di piccoli pezzi (di Natale)
Leave your home
Change your name
Live alone
Eat your cake
Vanderlyle crybaby, cry
All the borders are risin’
Still no surprisin’ you
Vanderlyle crybaby, cry
Man, it’s all been forgiven
Swan’s are a swimmin’
I’ll explain everything to the geeks
All the very best of us string ourselves up for love
(The National)
Fra sei mesi giorno più giorno meno faccio 50 anni, ma stanotte di anni addosso ne sento 5.000. Tutto il peso del mondo, in quella che è la notte più lunga dell'anno e anche la più fredda, si direbbe. Ecco perché ho tirato fuori una bottiglia di Old Grand-Dad e verso quel Kentucky Bourbon whiskey ripetutamente nel bicchiere. Era dal concerto di Paul McCartney che non toccavo alcol e quasi ci stavo dentro benone. Ma stanotte no, non è possibile.
Quando ero un ragazzotto ci trovavamno con altri sbandati a casa di questa coppia di cui credo di aver già parlato che si prendeva cura di noi cani randagi in perenne fuga. Lui, un cristone di George Harrison epoca concerto per il Bangla Desh solo alto un metro e novanta, avrà avuto allora poco più di trent'anni eppure ripeteva sempre: quando avrò 50 anni mi sparo. Lui adesso di anni ne deve avere più di 60 e io di finire la mia corsa a 50 anni ci metterei la firma. No, non è mica un caso di tendenze suicide.
E' che mi sembra di aver vissuto due o tre vite allo stesso tempo, e mi pesano tutte anche perché ognuna di esse è ben infarcita di sconfitte quotidiane. Una volta un tizio mi disse che più si invecchia e più la vita si fa dura e non fa sconti. Non ho mai avuto sconto alcuno e negli ultimi due, tre anni è stata una accelerazione compulsiva di catastrofi che spezzerebbero la schiena a un rinoceronte. Se tanto mi dà tanto, sarà un helter skelter sempre più devastante.
Ne ho fatte di tutti i colori e ne ho viste di tutti i colori: che altro mi devo aspettare dopo i 50? Quello che c'era da fare è stato fatto, quello che c'era da vedere si è visto e quello che c'era da ascoltare...
A volte giro per la casa e li vedo che mi osservano di nascosto. Sembra che abbiano degli occhietti maliziosi che mi fanno cenno nell'oscurità. Prendi me. No, prendi me. Ultimamente non prendo più nessuno. Sono i miei dischi. Sono là ovunque. Non ho più tempo per ascoltarli e sinceramente neanche tanta voglia di farlo. Però sono presenze affettuose, sono come dei cari amici che ti aspettano sempre, per offrirti ancora un magical mystery ride. Sento il loro affetto pulsante. Non si stancano mai loro. Io sì, sono stanco. Mi fermerei volentieri qui, insieme a loro. Amici che non ti tradiscono mai, nessuna pacca sulla spalla e nessun cazzo di "come stai" frase che ormai ho abolito dal mio uso e proibisco a chiunqe di rivolgermi. "Sto", risponde sempre. Come si deve stare? Si vive, dunque stiamo. Tanto non ci credo che tu stai bene. Di quante menzogne quotidiane è fatta la vita.
Quest'anno non mi riesce neanche di fare una lista di dischi migliori o di concerti più belli. Oh sì, di concerti belli ne ho visti parecchi quest'anno, alcuni davvero formidabili. Ma è come se il mio ultimo momento musicale si fosse fermato a un anno più indietro. Un concerto di bellezza e di tensione uniche. La tristezza che si fa trascendenza. Quella sera che ho visto i National e ho visto le finestre abbaglianti di luci colorate della cattedrale che si illuminavano dietro le loro canzoni. Che notte. Che concerto. E' ancora tutto intero dentro di me e me lo tengo stretto.
L'altro giorno ho trovato una frase di un grande vecchio del rock che è morto qualche anno fa, ci siamo anche incrociati alcune volte sul sentiero verso le stelle. Diceva: "La canzone è il rifugio ultimo della civiltà umana, è un luogo di riposo per un cuore solo e traduce l’anima della cultura per tutti". E' così, e tanto mi basta per affrontare altri 50 anni.
Buon Natale, da parte di Matt Berninger dei National. Amo quest'uomo. E' quello nelle foto qua sotto con le sue bambine. La vita, credo, andrebbe affrontata così come fanno loro...
Change your name
Live alone
Eat your cake
Vanderlyle crybaby, cry
All the borders are risin’
Still no surprisin’ you
Vanderlyle crybaby, cry
Man, it’s all been forgiven
Swan’s are a swimmin’
I’ll explain everything to the geeks
All the very best of us string ourselves up for love
(The National)
Fra sei mesi giorno più giorno meno faccio 50 anni, ma stanotte di anni addosso ne sento 5.000. Tutto il peso del mondo, in quella che è la notte più lunga dell'anno e anche la più fredda, si direbbe. Ecco perché ho tirato fuori una bottiglia di Old Grand-Dad e verso quel Kentucky Bourbon whiskey ripetutamente nel bicchiere. Era dal concerto di Paul McCartney che non toccavo alcol e quasi ci stavo dentro benone. Ma stanotte no, non è possibile.
Quando ero un ragazzotto ci trovavamno con altri sbandati a casa di questa coppia di cui credo di aver già parlato che si prendeva cura di noi cani randagi in perenne fuga. Lui, un cristone di George Harrison epoca concerto per il Bangla Desh solo alto un metro e novanta, avrà avuto allora poco più di trent'anni eppure ripeteva sempre: quando avrò 50 anni mi sparo. Lui adesso di anni ne deve avere più di 60 e io di finire la mia corsa a 50 anni ci metterei la firma. No, non è mica un caso di tendenze suicide.
E' che mi sembra di aver vissuto due o tre vite allo stesso tempo, e mi pesano tutte anche perché ognuna di esse è ben infarcita di sconfitte quotidiane. Una volta un tizio mi disse che più si invecchia e più la vita si fa dura e non fa sconti. Non ho mai avuto sconto alcuno e negli ultimi due, tre anni è stata una accelerazione compulsiva di catastrofi che spezzerebbero la schiena a un rinoceronte. Se tanto mi dà tanto, sarà un helter skelter sempre più devastante.
Ne ho fatte di tutti i colori e ne ho viste di tutti i colori: che altro mi devo aspettare dopo i 50? Quello che c'era da fare è stato fatto, quello che c'era da vedere si è visto e quello che c'era da ascoltare...
A volte giro per la casa e li vedo che mi osservano di nascosto. Sembra che abbiano degli occhietti maliziosi che mi fanno cenno nell'oscurità. Prendi me. No, prendi me. Ultimamente non prendo più nessuno. Sono i miei dischi. Sono là ovunque. Non ho più tempo per ascoltarli e sinceramente neanche tanta voglia di farlo. Però sono presenze affettuose, sono come dei cari amici che ti aspettano sempre, per offrirti ancora un magical mystery ride. Sento il loro affetto pulsante. Non si stancano mai loro. Io sì, sono stanco. Mi fermerei volentieri qui, insieme a loro. Amici che non ti tradiscono mai, nessuna pacca sulla spalla e nessun cazzo di "come stai" frase che ormai ho abolito dal mio uso e proibisco a chiunqe di rivolgermi. "Sto", risponde sempre. Come si deve stare? Si vive, dunque stiamo. Tanto non ci credo che tu stai bene. Di quante menzogne quotidiane è fatta la vita.
Quest'anno non mi riesce neanche di fare una lista di dischi migliori o di concerti più belli. Oh sì, di concerti belli ne ho visti parecchi quest'anno, alcuni davvero formidabili. Ma è come se il mio ultimo momento musicale si fosse fermato a un anno più indietro. Un concerto di bellezza e di tensione uniche. La tristezza che si fa trascendenza. Quella sera che ho visto i National e ho visto le finestre abbaglianti di luci colorate della cattedrale che si illuminavano dietro le loro canzoni. Che notte. Che concerto. E' ancora tutto intero dentro di me e me lo tengo stretto.
L'altro giorno ho trovato una frase di un grande vecchio del rock che è morto qualche anno fa, ci siamo anche incrociati alcune volte sul sentiero verso le stelle. Diceva: "La canzone è il rifugio ultimo della civiltà umana, è un luogo di riposo per un cuore solo e traduce l’anima della cultura per tutti". E' così, e tanto mi basta per affrontare altri 50 anni.
Buon Natale, da parte di Matt Berninger dei National. Amo quest'uomo. E' quello nelle foto qua sotto con le sue bambine. La vita, credo, andrebbe affrontata così come fanno loro...
Sunday, December 18, 2011
The Velvet Revolution
La tragedia dell'uomo moderno non è che conosce sempre meno del significato della sua vita, ma che ne è interessato sempre di meno
Vaclav Havel (5 ottobre 1936 – 18 dicembre 2011)
Ognuno ha il governo che si merita. C'è chi ha il governo dei tecnici e dei professori, c'è chi a capo del suo governo ha avuto uno scrittore e poeta. In questo secondo caso, visto che non è stato il primo e l'unico, Vaclav Havel è stata l'eccezione alla regola che dice che gli scrittori siano dei pessimi governanti. Lui era un grande scrittore e un grande governante. Non solo: ha governato il Paese che con il suo sacrifico, la sua lunga lotta, il carcere, ha contribuito a portare alla libertà.
In un blog come questo, che si astiene per quanto può dall'entrare in politica - lo fanno già tutti - Vaclav Havel lo ricordiamo anche perché la sua concezione di politica era fortemente connessa allo spirito del rock'n'roll. Di presidenti finiti sulle copertine di riviste musicali ce ne sono stati, anche di quelli che invitano alle celebrazioni delle loro elezioni fior fiore di rock stars. Vaclav Havel, anche in questo, era diverso: lo spirito del rock'n'roll non era per lui una scusa per circondarsi di nomi noti e guadagnare i voti dei fani di quei musicisti. Per Havel, lo spirito del rock'n'roll era parte integrante del suo essere uomo, artista, politico.
A fine anni 60, durante un viaggio a New York, un amico aveva consigliato ad Havel di comprare il disco di una band definita "interessante". Quel disco era The Velvet Underground & Nico. Per Havel, un ascolto illuminante. Nel 1976, quattro artisti di Praga che appartenevano alla troupe dei Plastic People, chiaramente influenzati dai plastic people di Frank Zappa, furono arrestati e posti sotto processo perché il loro spettacolo era considerato sovversivo e "minacciavano la pace". Nel loro repertorio, figuravano anche canzoni del primo album dei Velvet Underground. Havel seguì tutto il processo contro i Plastic People: aveva capito che qualcosa stava succedendo, nel monolite stalinista che opprimeva da decenni il suo Paese. Si ricordò del disco comprato a New York anni prima. Il testo che scrisse in difesa dei quattro artisti avrebbe dato vita a quel grandioso documento, Carta 77 (l'anno del punk, una coincidenza?) che avrebbe portato Havel in carcere, ma seminato i semi della futura rivoluzione. Una rivoluzione che non a caso si chiamò Velvet Revolution.
Anni dopo, incontrando Lou Reed a Praga, da presidente di una Cecoslovacchia finalmente libera, le prime parole che Vaclav Havel disse a Reed furono: "Lo sai che sono presidente grazie a te?".
Vaclav Havel (5 ottobre 1936 – 18 dicembre 2011)
Ognuno ha il governo che si merita. C'è chi ha il governo dei tecnici e dei professori, c'è chi a capo del suo governo ha avuto uno scrittore e poeta. In questo secondo caso, visto che non è stato il primo e l'unico, Vaclav Havel è stata l'eccezione alla regola che dice che gli scrittori siano dei pessimi governanti. Lui era un grande scrittore e un grande governante. Non solo: ha governato il Paese che con il suo sacrifico, la sua lunga lotta, il carcere, ha contribuito a portare alla libertà.
In un blog come questo, che si astiene per quanto può dall'entrare in politica - lo fanno già tutti - Vaclav Havel lo ricordiamo anche perché la sua concezione di politica era fortemente connessa allo spirito del rock'n'roll. Di presidenti finiti sulle copertine di riviste musicali ce ne sono stati, anche di quelli che invitano alle celebrazioni delle loro elezioni fior fiore di rock stars. Vaclav Havel, anche in questo, era diverso: lo spirito del rock'n'roll non era per lui una scusa per circondarsi di nomi noti e guadagnare i voti dei fani di quei musicisti. Per Havel, lo spirito del rock'n'roll era parte integrante del suo essere uomo, artista, politico.
A fine anni 60, durante un viaggio a New York, un amico aveva consigliato ad Havel di comprare il disco di una band definita "interessante". Quel disco era The Velvet Underground & Nico. Per Havel, un ascolto illuminante. Nel 1976, quattro artisti di Praga che appartenevano alla troupe dei Plastic People, chiaramente influenzati dai plastic people di Frank Zappa, furono arrestati e posti sotto processo perché il loro spettacolo era considerato sovversivo e "minacciavano la pace". Nel loro repertorio, figuravano anche canzoni del primo album dei Velvet Underground. Havel seguì tutto il processo contro i Plastic People: aveva capito che qualcosa stava succedendo, nel monolite stalinista che opprimeva da decenni il suo Paese. Si ricordò del disco comprato a New York anni prima. Il testo che scrisse in difesa dei quattro artisti avrebbe dato vita a quel grandioso documento, Carta 77 (l'anno del punk, una coincidenza?) che avrebbe portato Havel in carcere, ma seminato i semi della futura rivoluzione. Una rivoluzione che non a caso si chiamò Velvet Revolution.
Anni dopo, incontrando Lou Reed a Praga, da presidente di una Cecoslovacchia finalmente libera, le prime parole che Vaclav Havel disse a Reed furono: "Lo sai che sono presidente grazie a te?".
Tuesday, December 13, 2011
After Midnight
Paris in the morning is beautiful,
Paris in the afternoon is charming,
Paris in the evening is enchanting,
but Paris after midnight… Is magic.
Midnight in Paris
Il giochino alla fine è fin troppo facile. Ad esempio, lo ha già fatto la mia amica Manu "Blue Eyes" sul suo status di Facebook: "Dodici rintocchi... e... arriva un taxi nero con su Dylan e John Lennon, che mi invitano a salire, mi offrono un joint e si va ad una festa dove ci sono Allen Ginsberg, Gregory Corso, Donovan e The Band al completo…". E' il giochino che viene spontaneo appena si esce dalla visione dello straordinariamente bello ultimo film di Woody Allen, Midnight in Paris. Anche io ho voluto provarlo subito appena uscito dalla sala, ma come quasi sempre succede, mia moglie non mi ha capito mentre blateravo. In realtà, grazie al non avermi capito, mi sono fermato un attimo dubbioso perché non saprei neanche io in quale epoca avrei voluto andare a finire nello spassoso - ma emozionante - viaggio indietro nel tempo che ogni sera a mezzanotte il protagonista del film va a fare, sorta di Cenerentola back to the future. Il primo pensiero è stato: gli anni 70, alle serate dei Led Zeppelin o degli Stones, backstage con Andy Warhol e groupie assortite, al Max Kansas City di New York. Però io negli anni 70 ci ho vissuto veramente, anche se da ragazzino e in zone meno interessanti di quelle.
Midnight in Paris è un film incantevole. Soprattutto perché per la prima volta dopo decenni Woody Allen lascia perdere quel suo cinismo ossessivo "la vita è una merda" che onestamente aveva un po' rotto le palle. Ad esempio nel, per me noioso e davvero brutto Basta che funzioni (Whatever Works). Sono infatti rimasto sbigottito quando il protagonista del film a un certo punto dice: "La vita è un mistero". E la tipa risponde: "Questo è il presente: è un po' insoddisfacente perché la vita è insoddisfacente". Cioè nulla basta a soddisfarci in questa vita terrena, eppure è un mistero che ci cattura. Tutto il film si gioca infatti nel desiderio di sfuggire il presente per un passato giudicato meglio di quanto si sta vivendo. Avanti e indietro nel tempo, per scoprire che ogni passato rimanda a un altro passato, e alla fine quello che conta è il presente. Con la speranza di un cambiamento possibile, come avviene nell'ultima scena conclusiva. Rarissimo in un film di Woody Allen.
Un film incantevole che esalta tutta la bellezza e la magia di Parigi, ed essendoci appena stato mi sono divertito a rivedere tutti i luoghi che avevo attraversato. La frase migliore però rimane quella che il protagonista rivolge alla ragazza che è l'amante di tutti i personaggi della Parigi anni 20, da Picasso a Modigliani: "Con te le groupie fanno un salto di qualità". Lei ovviamente non capisce. Genio di Woody Allen.
Ripensandoci, alla fine però c'è un'epoca in cui vorrei recarmi, qualche sera, dopo lo scoccare della mezzanotte. Memphis, Tennesse, studi della Sun Records. A sentire e guardare Johnny Cash, Elvis e Jerry Lee Lewis che registrano i loro capolavori. E dopo andare con loro in un juke joint ad ascoltare vecchi bluesmen e bere Bourbon. Sì, mi piacerebbe davvero guardare in faccia Elvis e come il protagonista del film rimanere incantato dal privilegio di un incontro così. Non sarà Hemingway, o Salvator Dalì, o Picasso, o Gertrude Stein, ma che diavolo, ognuno ha il suo dopo mezzanotte che si merita.
Paris in the afternoon is charming,
Paris in the evening is enchanting,
but Paris after midnight… Is magic.
Midnight in Paris
Il giochino alla fine è fin troppo facile. Ad esempio, lo ha già fatto la mia amica Manu "Blue Eyes" sul suo status di Facebook: "Dodici rintocchi... e... arriva un taxi nero con su Dylan e John Lennon, che mi invitano a salire, mi offrono un joint e si va ad una festa dove ci sono Allen Ginsberg, Gregory Corso, Donovan e The Band al completo…". E' il giochino che viene spontaneo appena si esce dalla visione dello straordinariamente bello ultimo film di Woody Allen, Midnight in Paris. Anche io ho voluto provarlo subito appena uscito dalla sala, ma come quasi sempre succede, mia moglie non mi ha capito mentre blateravo. In realtà, grazie al non avermi capito, mi sono fermato un attimo dubbioso perché non saprei neanche io in quale epoca avrei voluto andare a finire nello spassoso - ma emozionante - viaggio indietro nel tempo che ogni sera a mezzanotte il protagonista del film va a fare, sorta di Cenerentola back to the future. Il primo pensiero è stato: gli anni 70, alle serate dei Led Zeppelin o degli Stones, backstage con Andy Warhol e groupie assortite, al Max Kansas City di New York. Però io negli anni 70 ci ho vissuto veramente, anche se da ragazzino e in zone meno interessanti di quelle.
Midnight in Paris è un film incantevole. Soprattutto perché per la prima volta dopo decenni Woody Allen lascia perdere quel suo cinismo ossessivo "la vita è una merda" che onestamente aveva un po' rotto le palle. Ad esempio nel, per me noioso e davvero brutto Basta che funzioni (Whatever Works). Sono infatti rimasto sbigottito quando il protagonista del film a un certo punto dice: "La vita è un mistero". E la tipa risponde: "Questo è il presente: è un po' insoddisfacente perché la vita è insoddisfacente". Cioè nulla basta a soddisfarci in questa vita terrena, eppure è un mistero che ci cattura. Tutto il film si gioca infatti nel desiderio di sfuggire il presente per un passato giudicato meglio di quanto si sta vivendo. Avanti e indietro nel tempo, per scoprire che ogni passato rimanda a un altro passato, e alla fine quello che conta è il presente. Con la speranza di un cambiamento possibile, come avviene nell'ultima scena conclusiva. Rarissimo in un film di Woody Allen.
Un film incantevole che esalta tutta la bellezza e la magia di Parigi, ed essendoci appena stato mi sono divertito a rivedere tutti i luoghi che avevo attraversato. La frase migliore però rimane quella che il protagonista rivolge alla ragazza che è l'amante di tutti i personaggi della Parigi anni 20, da Picasso a Modigliani: "Con te le groupie fanno un salto di qualità". Lei ovviamente non capisce. Genio di Woody Allen.
Ripensandoci, alla fine però c'è un'epoca in cui vorrei recarmi, qualche sera, dopo lo scoccare della mezzanotte. Memphis, Tennesse, studi della Sun Records. A sentire e guardare Johnny Cash, Elvis e Jerry Lee Lewis che registrano i loro capolavori. E dopo andare con loro in un juke joint ad ascoltare vecchi bluesmen e bere Bourbon. Sì, mi piacerebbe davvero guardare in faccia Elvis e come il protagonista del film rimanere incantato dal privilegio di un incontro così. Non sarà Hemingway, o Salvator Dalì, o Picasso, o Gertrude Stein, ma che diavolo, ognuno ha il suo dopo mezzanotte che si merita.
Tuesday, December 06, 2011
Vagabondi del Dharma. Per sempre
- perché il cielo è blu?
- perché il cielo è blu
- voglio sapere perché il cielo è blu
- il cielo è blu perché tu vuoi sapere perché il cielo è blu
Dharma Bums, J.K.
Riprendere in mano libri letti 30 o più anni fa è cosa bella. Provoca sentimenti bizzarri. Rileggere Jack Kerouac, che per la mia vita fu devastatante tanto quanto un disco di Bob Dylan nel senso che mi diede la struttura e l'apertura necessarie con cui affrontare la vita, conferma che anche nelle letture, come con le canzoni, non ci si finisce per caso, ma si è destinati ad andarci a sbattere. Trenta e più anni dopo posso dire che Truman Capote aveva abbastanza ragione, ad esempio: Kerouac non era un grande scrittore. In italiano poi perde parecchio: ne ho letti un paio, di suoi libri, in inglese, è il risultato è molto diverso, è senz'altro più affascinante per la musicalità intrinseca in quella lingua. Rileggere oggi The Dharma Bums - I vagabondi del Dharma, trovo una prosa fastidiosamente spontanea, senza alcuna cura nel linguaggio, come ascoltare qualcuno che ti parla a raffica davanti agli occhi. Ma questo era il Kerouac del flusso di coscienza: non gliene fregava un tubo della forma, perché aveva cose da raccontare. E quelle cose affascinano ancora oggi.
Rileggere oggi I vagabondi del Dharma, trovo angolature e sentimenti che ai tempi non avevo percepito. In quella lotta continua, tra desiderio di pace cosmica e fuga dai vizi e dagli eccessi e il continuo ricadere nel vizio, c'è tutta la realtà dell'uomo e ciò che avrebbe portato Kerouac a morire così malamente. Non solo l'alcolismo, effetto della morte stessa, ma il dolore di non riuscire ad accettare la realtà nonostante lo sforzo di adeguarsi ad essa. E un continuo duello, quello che fa lo scrittore in queste pagine, tra la percezione di un infinito buono a cui affidarsi ricercato nell'annullamento zen di una sbornia mistica e la impossibilità di essere fedeli a questo desiderio. Tutto è vano e corrutibile, nulla è fedele a quanto ci era apparso essere. Una umanità, quella di Kerouac, così immensamente vera e realista, che per forza di cose doveva soccombere a se stessa.
Poi a un tratto ebbi il più terribile impeto di pietà per gli esseri umani, quali che fossero, le loro facce, le bocche dolenti, caratteri, tentativi di essere gai, piccole impertinenze, il sentirsi perduti, le loro cupe e vuote spiritosaggini così presto dimenticate: Oh, a che scopo? Sapevo che il suono del silenzio era dovunque e perciò tutto dovunque era silenzioso. E se dovessimo svegliarci all'improvviso e vedere che quel che credevamo questo e quello, non è per niente né questo né quello? Salii barcollando la collina, salutato dagli uccelli e guardai tutte quelle figure raggomitolate assopite sul pavimento. Chi erano tutti quegli strani fantasmi abbarbicati insieme a me alla breve sciocca avventura terrena? E io chi ero?
Ma ci sono pagine, la prima metà, ancora così straordinariamente intense e meravigliosamente ispirative. La descrizione della scalata delle montagne californiane ti fa essere realmente lì, con i pazzi santi boddisatva che insieme a lui sfidano le altezze per inebriarsi della bellezza: ogni sassolino, ogni filo d'erba, ogni panorama e ogni orizzonte si schiude davanti a te che leggi con un realismo e una vividezza che ammutolisce. Ricordo quando, dopo aver letto questo libro la prima volta, credo adi aver avuto 16 o 17 anni, con alcuni amici andammo a passare delle giornate nel casolare antichissimo della famiglia di uno di essi, sui monti dell'entroterra della mia città di mare. Un giorno decidemmo di scalare una montagna lì vicino (che non era il Matterhorn Peak nella Sierra Nevada che scalavano Kerouac e i suoi amici, ma molto più conforme a noi si chiamava Monte Porcile...). Ricordo ogni istante di quella giornata ancora oggi: l'aria purificata dalla brezza montana, l'immensa distesa di erba verde luccicante, la mandria di cavalli selvaggi incontrati a metà salita a cui demmo da mangiare dele fette di salame, la vetta e il panorma stordente da lassù da cui si poteva vedere in fondo distendersi il mare blu, la discesa correndo a perdifiato finendo in un bosco fitto e per puro caso alle fonti di un'acqua minerale che manco sapevamo fosse lì.
Matterhorn Peak
Pura bellezza zen cosmica e totale che ha nutrito la mia anima e il mio cuore a tutt'oggi ("Non si può cadere da una montagna" è il proverbio zen che bisognerebbe stamparsi in mente, come lo coniò Kerouac da quelle vette)e che tutt'oggi mi permette di sopravvivere nella decadenza che ogni giorno si impossessa sempre più di me, del mio corpo e della mia mente. E senza questo libro, non avrei mai gustato quei momenti di totale infinito che vissi quel giorno e che porto ancora con me, a cui affidarsi per non impazzire nell'oggi. Perciò, siamo vagabondi del Dharma ancora oggi. Per sempre. Da qualche parte, un giorno salirò di nuovo su quella montanga, e allora la mia corsa stanca sarà finita per sempre. Non si può cadere da una montagna. Fino ad allora, siamo vagabondi del Dharma.
Nel profumo etereo, misteriosamente antico, vidi che la mia vita era una immensa luminosa pagina bianca e che potevo fare qualsiasi cosa volessi
- perché il cielo è blu
- voglio sapere perché il cielo è blu
- il cielo è blu perché tu vuoi sapere perché il cielo è blu
Dharma Bums, J.K.
Riprendere in mano libri letti 30 o più anni fa è cosa bella. Provoca sentimenti bizzarri. Rileggere Jack Kerouac, che per la mia vita fu devastatante tanto quanto un disco di Bob Dylan nel senso che mi diede la struttura e l'apertura necessarie con cui affrontare la vita, conferma che anche nelle letture, come con le canzoni, non ci si finisce per caso, ma si è destinati ad andarci a sbattere. Trenta e più anni dopo posso dire che Truman Capote aveva abbastanza ragione, ad esempio: Kerouac non era un grande scrittore. In italiano poi perde parecchio: ne ho letti un paio, di suoi libri, in inglese, è il risultato è molto diverso, è senz'altro più affascinante per la musicalità intrinseca in quella lingua. Rileggere oggi The Dharma Bums - I vagabondi del Dharma, trovo una prosa fastidiosamente spontanea, senza alcuna cura nel linguaggio, come ascoltare qualcuno che ti parla a raffica davanti agli occhi. Ma questo era il Kerouac del flusso di coscienza: non gliene fregava un tubo della forma, perché aveva cose da raccontare. E quelle cose affascinano ancora oggi.
Rileggere oggi I vagabondi del Dharma, trovo angolature e sentimenti che ai tempi non avevo percepito. In quella lotta continua, tra desiderio di pace cosmica e fuga dai vizi e dagli eccessi e il continuo ricadere nel vizio, c'è tutta la realtà dell'uomo e ciò che avrebbe portato Kerouac a morire così malamente. Non solo l'alcolismo, effetto della morte stessa, ma il dolore di non riuscire ad accettare la realtà nonostante lo sforzo di adeguarsi ad essa. E un continuo duello, quello che fa lo scrittore in queste pagine, tra la percezione di un infinito buono a cui affidarsi ricercato nell'annullamento zen di una sbornia mistica e la impossibilità di essere fedeli a questo desiderio. Tutto è vano e corrutibile, nulla è fedele a quanto ci era apparso essere. Una umanità, quella di Kerouac, così immensamente vera e realista, che per forza di cose doveva soccombere a se stessa.
Poi a un tratto ebbi il più terribile impeto di pietà per gli esseri umani, quali che fossero, le loro facce, le bocche dolenti, caratteri, tentativi di essere gai, piccole impertinenze, il sentirsi perduti, le loro cupe e vuote spiritosaggini così presto dimenticate: Oh, a che scopo? Sapevo che il suono del silenzio era dovunque e perciò tutto dovunque era silenzioso. E se dovessimo svegliarci all'improvviso e vedere che quel che credevamo questo e quello, non è per niente né questo né quello? Salii barcollando la collina, salutato dagli uccelli e guardai tutte quelle figure raggomitolate assopite sul pavimento. Chi erano tutti quegli strani fantasmi abbarbicati insieme a me alla breve sciocca avventura terrena? E io chi ero?
Ma ci sono pagine, la prima metà, ancora così straordinariamente intense e meravigliosamente ispirative. La descrizione della scalata delle montagne californiane ti fa essere realmente lì, con i pazzi santi boddisatva che insieme a lui sfidano le altezze per inebriarsi della bellezza: ogni sassolino, ogni filo d'erba, ogni panorama e ogni orizzonte si schiude davanti a te che leggi con un realismo e una vividezza che ammutolisce. Ricordo quando, dopo aver letto questo libro la prima volta, credo adi aver avuto 16 o 17 anni, con alcuni amici andammo a passare delle giornate nel casolare antichissimo della famiglia di uno di essi, sui monti dell'entroterra della mia città di mare. Un giorno decidemmo di scalare una montagna lì vicino (che non era il Matterhorn Peak nella Sierra Nevada che scalavano Kerouac e i suoi amici, ma molto più conforme a noi si chiamava Monte Porcile...). Ricordo ogni istante di quella giornata ancora oggi: l'aria purificata dalla brezza montana, l'immensa distesa di erba verde luccicante, la mandria di cavalli selvaggi incontrati a metà salita a cui demmo da mangiare dele fette di salame, la vetta e il panorma stordente da lassù da cui si poteva vedere in fondo distendersi il mare blu, la discesa correndo a perdifiato finendo in un bosco fitto e per puro caso alle fonti di un'acqua minerale che manco sapevamo fosse lì.
Matterhorn Peak
Pura bellezza zen cosmica e totale che ha nutrito la mia anima e il mio cuore a tutt'oggi ("Non si può cadere da una montagna" è il proverbio zen che bisognerebbe stamparsi in mente, come lo coniò Kerouac da quelle vette)e che tutt'oggi mi permette di sopravvivere nella decadenza che ogni giorno si impossessa sempre più di me, del mio corpo e della mia mente. E senza questo libro, non avrei mai gustato quei momenti di totale infinito che vissi quel giorno e che porto ancora con me, a cui affidarsi per non impazzire nell'oggi. Perciò, siamo vagabondi del Dharma ancora oggi. Per sempre. Da qualche parte, un giorno salirò di nuovo su quella montanga, e allora la mia corsa stanca sarà finita per sempre. Non si può cadere da una montagna. Fino ad allora, siamo vagabondi del Dharma.
Nel profumo etereo, misteriosamente antico, vidi che la mia vita era una immensa luminosa pagina bianca e che potevo fare qualsiasi cosa volessi
Sunday, December 04, 2011
Se a piangere sono i ministri
Cosa vuol dire cosa è successo stasera, lo capiremo solo fra qualche anno. Quello che fa piangere veramente, è che nessuno ci ha ancora detto di chi è la colpa per quello che sarà questo futuro di sacrifici, che non saranno semplicemente sacrifici, ma peggio, molto peggio. E sacrifici per cosa, non ce lo dicono nemmeno, probabilmente perché hanno paura a dircelo, come hanno paura a dirci i nomi di chi ci ha messo in questa situazione. Sacrifici per ricostruire quel sistema malato, marcio, quella finanza ignobile che governa il mondo occidentale ormai da almeno vent'anni e che questi sacrifici serviranno a renderla efficiente e dominatrice anche per le prossime generazioni.
E' una sconfitta, totale, per tutti. Qualcuno ne uscirà fuori sano e salvo, gli amici di chi ci ha ridotti così: "Some people never worked a day in their life, don't know what work even means". Gente che non ha mai lavorato nella loro vita, gente che non sa nemmeno cosa voglia dire lavorare. Lo diceva Bob Dylan già cinque anni fa, e nessuno capiva di cosa stesse parlando: "The buyin' power of the proletariat's gone down, Money's gettin' shallow and weak, Well, the place I love best is a sweet memory, It's a new path that we trod, They say low wages are a reality, If we want to compete abroad". Adesso lo sappiamo, e non è un bel sapere. No, non lo è per niente.
There's an evenin' haze settlin' over town
Starlight by the edge of the creek
The buyin' power of the proletariat's gone down
Money's gettin' shallow and weak
Well, the place I love best is a sweet memory
It's a new path that we trod
They say low wages are a reality
If we want to compete abroad
My cruel weapons have been put on the shelf
Come sit down on my knee
You are dearer to me than myself
As you yourself can see
While I'm listening to the steel rails hum
Got both eyes tight shut
Just sitting here trying to keep the hunger from
Creeping it's way into my gut
Meet me at the bottom, don't lag behind
Bring me my boots and shoes
You can hang back or fight your best on the frontline
Sing a little bit of these workingman's blues
Well, I'm sailin' on back, ready for the long haul
Tossed by the winds and the seas
I'll drag 'em all down to hell and I'll stand 'em at the wall
I'll sell 'em to their enemies
I'm tryin' to feed my soul with thought
Gonna sleep off the rest of the day
Sometimes no one wants what we got
Sometimes you can't give it away
Now the place is ringed with countless foes
Some of them may be deaf and dumb
No man, no woman knows
The hour that sorrow will come
In the dark I hear the night birds call
I can feel a lover's breath
I sleep in the kitchen with my feet in the hall
Sleep is like a temporary death
Well, they burned my barn, and they stole my horse
I can't save a dime
I got to be careful, I don't want to be forced
Into a life of continual crime
I can see for myself that the sun is sinking
How I wish you were here to see
Tell me now, am I wrong in thinking
That you have forgotten me?
Now they worry and they hurry and they fuss and they fret
They waste your nights and days
Them I will forget
But you I'll remember always
Old memories of you to me have clung
You've wounded me with your words
Gonna have to straighten out your tongue
It's all true, everything you've heard
In you, my friend, I find no blame
Wanna look in my eyes, please do
No one can ever claim
That I took up arms against you
All across the peaceful sacred fields
They will lay you low
They'll break your horns and slash you with steel
I say it so it must be so
Now I'm down on my luck and I'm black and blue
Gonna give you another chance
I'm all alone and I'm expecting you
To lead me off in a cheerful dance
I got a brand new suit and a brand new wife
I can live on rice and beans
Some people never worked a day in their life
Don't know what work even means
Meet me at the bottom, don't lag behind
Bring me my boots and shoes
You can hang back or fight your best on the frontline
Sing a little bit of these workingman's blues
E' una sconfitta, totale, per tutti. Qualcuno ne uscirà fuori sano e salvo, gli amici di chi ci ha ridotti così: "Some people never worked a day in their life, don't know what work even means". Gente che non ha mai lavorato nella loro vita, gente che non sa nemmeno cosa voglia dire lavorare. Lo diceva Bob Dylan già cinque anni fa, e nessuno capiva di cosa stesse parlando: "The buyin' power of the proletariat's gone down, Money's gettin' shallow and weak, Well, the place I love best is a sweet memory, It's a new path that we trod, They say low wages are a reality, If we want to compete abroad". Adesso lo sappiamo, e non è un bel sapere. No, non lo è per niente.
There's an evenin' haze settlin' over town
Starlight by the edge of the creek
The buyin' power of the proletariat's gone down
Money's gettin' shallow and weak
Well, the place I love best is a sweet memory
It's a new path that we trod
They say low wages are a reality
If we want to compete abroad
My cruel weapons have been put on the shelf
Come sit down on my knee
You are dearer to me than myself
As you yourself can see
While I'm listening to the steel rails hum
Got both eyes tight shut
Just sitting here trying to keep the hunger from
Creeping it's way into my gut
Meet me at the bottom, don't lag behind
Bring me my boots and shoes
You can hang back or fight your best on the frontline
Sing a little bit of these workingman's blues
Well, I'm sailin' on back, ready for the long haul
Tossed by the winds and the seas
I'll drag 'em all down to hell and I'll stand 'em at the wall
I'll sell 'em to their enemies
I'm tryin' to feed my soul with thought
Gonna sleep off the rest of the day
Sometimes no one wants what we got
Sometimes you can't give it away
Now the place is ringed with countless foes
Some of them may be deaf and dumb
No man, no woman knows
The hour that sorrow will come
In the dark I hear the night birds call
I can feel a lover's breath
I sleep in the kitchen with my feet in the hall
Sleep is like a temporary death
Well, they burned my barn, and they stole my horse
I can't save a dime
I got to be careful, I don't want to be forced
Into a life of continual crime
I can see for myself that the sun is sinking
How I wish you were here to see
Tell me now, am I wrong in thinking
That you have forgotten me?
Now they worry and they hurry and they fuss and they fret
They waste your nights and days
Them I will forget
But you I'll remember always
Old memories of you to me have clung
You've wounded me with your words
Gonna have to straighten out your tongue
It's all true, everything you've heard
In you, my friend, I find no blame
Wanna look in my eyes, please do
No one can ever claim
That I took up arms against you
All across the peaceful sacred fields
They will lay you low
They'll break your horns and slash you with steel
I say it so it must be so
Now I'm down on my luck and I'm black and blue
Gonna give you another chance
I'm all alone and I'm expecting you
To lead me off in a cheerful dance
I got a brand new suit and a brand new wife
I can live on rice and beans
Some people never worked a day in their life
Don't know what work even means
Meet me at the bottom, don't lag behind
Bring me my boots and shoes
You can hang back or fight your best on the frontline
Sing a little bit of these workingman's blues
Thursday, December 01, 2011
La chiesa del Sacro Cuore Sanguinante di Gesù, situata da qualche parte a Los Angeles, California
Black girls just wanna get fucked all night
(Some Girls, The Rolling Stones)
Ops, Mick, l'hai combinata grossa. Ti sei comportato in modo politicamente scorretto ancor prima che fosse inventata la definizione di politicamente corretto. Genio. Che altro è il rock'n'roll se non l'attitudine a essere politicamente scorretti. Gli Stones del disco Some Girls lo sapevano ancora bene, questo. Di Fatto, Some Girls che esce in questi giorni in edizione deluxe con tanto di abbondanti brani inediti aggiuntivi. è l'ultimo grande disco della band inglese. Dopo, seguirà tanto mestiere, qualche canzone ancora piacevolmente interessante, ma niente di che oltre ai dei cliché abusati e strabuzzati. Come mi disse una decina di anni fa John Mellencamp, "Gli Stones di Satisfaction mettevano paura. Oggi non saprei dire che cosa comunicano". Some Girls, se non mette paura, mette fastidio, provoca, e soprattutto eccita parecchio.
Si dice che Some Girls sia il disco di Mick Jagger, e il testo della canzone che dà il titolo all'album lo confermerebbe: chi altri può dire certe cose delle donne? Keith Richards, allora, era più impegnato a entrare e uscire dalle aule di tribunale per problemi di droga, "prima che lo facessero correre", ma in realtà alla fine questo è un grandissimo disco degli Stones. Si dice anche che sia venuto così per reazione alla scena punk che prendeva in giro proprio loro (e i Beatles), dinosauri del passato. Chissà. Certo è che quasi 35 anni dopo Some Girls suona pimpante, fresco e divertente come i grandi classici del gruppo, come il miglior rock'n'roll dovrebbe essere. C'è una energia, una potenza di fuoco, una necessità impellente di comunicare e di comunicarsi che stupisce tutt'oggi, che annichilisce ed esalta allo stesso tempo. Chitarre sporche, rumorose, ritmica sferragliante e incalzante, e un Mick Jagger esaltante come non mai, dall'inizio alla fine. Anche un classico della black music come Just My Imagination diventa un irresistibile rock'n'roll grezzo e spumeggiante. Ma per capire un disco come Some Girls bisogna sapere cosa furono gli anni 70 per questa band, un libro come quello di Chet Flippo, On the road with the Rolling Stones lo potrà permettere di fare, se lo trovate ancora in giro. Ad esempio la poesia tutta country di Far Away Eyes, così intrisa di una americanità che gli Stones dell'epoca avevano assorbito completamente, e che testimonia una delle verità fondamentali della vita: "Se la tua fortuna se n'è andata, e non riesci ad armonizzare, se sei completamente disgustato, e la tua vita non vale un centesimo, trovati una ragazza dallo sguardo sperso nel vuoto". Certe ragazze, si sa, possono salvare la vita nei momenti più disgraziati. Certe ragazze.
Se Some Girls venne definito la risposta punk degli Stones a Sex Pistols e compagnia, in realtà le radici punk degli Stones vanno cercate ben prima di questo disco. Ad esempio in un concerto tenuto a Bruxelles nell'anno di gloria 1973, l'anno di Almost Famous, uno degli anni più gloriosi di questa storia. Con geniale coincidenza, dagli archivi della band esce una sorta di boootleg series, inaugurata proprio con un concerto in Belgio di quell'anno. Maximun rock'n'roll, quello che si ascolta in questo disco che per forza di cose insieme al live del 1969 vola subito nella top five dei migliori album dal vivo della band. Una potenza devastante, un tiro micidiale dall'inizio alla fine, che ridicolizza i recenti pur belli concerti degli Stones. Certo, la cocaina e lo speed fornivano carburante sufficiente a quei tempi per giustificare tanta energia, ma un Mick Jagger così cialtrone, così sguaiato, così rock'n'roll non si ricordava più. Altro che gruppi punk. Charlie Watts, con buona pace del simpatico settantenne che conosciamo oggi, era di una forza ritmica impressionante, così Richards che grazie allo straordinario Mick Taylor poteva permettersi di sostenere tutto con una mitragliatrice spara riff incandescente. Un disco che brucia di calore vivo, hard to handle, difficile da maneggiare, ma tutto da godere. Da ascoltare immediatamente prima di Some Girls per avere le coordinate giuste con cui muoversi. Il resto, si sa, è solo divertimento: it's only rock'n'roll, but we like it.
(Some Girls, The Rolling Stones)
Ops, Mick, l'hai combinata grossa. Ti sei comportato in modo politicamente scorretto ancor prima che fosse inventata la definizione di politicamente corretto. Genio. Che altro è il rock'n'roll se non l'attitudine a essere politicamente scorretti. Gli Stones del disco Some Girls lo sapevano ancora bene, questo. Di Fatto, Some Girls che esce in questi giorni in edizione deluxe con tanto di abbondanti brani inediti aggiuntivi. è l'ultimo grande disco della band inglese. Dopo, seguirà tanto mestiere, qualche canzone ancora piacevolmente interessante, ma niente di che oltre ai dei cliché abusati e strabuzzati. Come mi disse una decina di anni fa John Mellencamp, "Gli Stones di Satisfaction mettevano paura. Oggi non saprei dire che cosa comunicano". Some Girls, se non mette paura, mette fastidio, provoca, e soprattutto eccita parecchio.
Si dice che Some Girls sia il disco di Mick Jagger, e il testo della canzone che dà il titolo all'album lo confermerebbe: chi altri può dire certe cose delle donne? Keith Richards, allora, era più impegnato a entrare e uscire dalle aule di tribunale per problemi di droga, "prima che lo facessero correre", ma in realtà alla fine questo è un grandissimo disco degli Stones. Si dice anche che sia venuto così per reazione alla scena punk che prendeva in giro proprio loro (e i Beatles), dinosauri del passato. Chissà. Certo è che quasi 35 anni dopo Some Girls suona pimpante, fresco e divertente come i grandi classici del gruppo, come il miglior rock'n'roll dovrebbe essere. C'è una energia, una potenza di fuoco, una necessità impellente di comunicare e di comunicarsi che stupisce tutt'oggi, che annichilisce ed esalta allo stesso tempo. Chitarre sporche, rumorose, ritmica sferragliante e incalzante, e un Mick Jagger esaltante come non mai, dall'inizio alla fine. Anche un classico della black music come Just My Imagination diventa un irresistibile rock'n'roll grezzo e spumeggiante. Ma per capire un disco come Some Girls bisogna sapere cosa furono gli anni 70 per questa band, un libro come quello di Chet Flippo, On the road with the Rolling Stones lo potrà permettere di fare, se lo trovate ancora in giro. Ad esempio la poesia tutta country di Far Away Eyes, così intrisa di una americanità che gli Stones dell'epoca avevano assorbito completamente, e che testimonia una delle verità fondamentali della vita: "Se la tua fortuna se n'è andata, e non riesci ad armonizzare, se sei completamente disgustato, e la tua vita non vale un centesimo, trovati una ragazza dallo sguardo sperso nel vuoto". Certe ragazze, si sa, possono salvare la vita nei momenti più disgraziati. Certe ragazze.
Se Some Girls venne definito la risposta punk degli Stones a Sex Pistols e compagnia, in realtà le radici punk degli Stones vanno cercate ben prima di questo disco. Ad esempio in un concerto tenuto a Bruxelles nell'anno di gloria 1973, l'anno di Almost Famous, uno degli anni più gloriosi di questa storia. Con geniale coincidenza, dagli archivi della band esce una sorta di boootleg series, inaugurata proprio con un concerto in Belgio di quell'anno. Maximun rock'n'roll, quello che si ascolta in questo disco che per forza di cose insieme al live del 1969 vola subito nella top five dei migliori album dal vivo della band. Una potenza devastante, un tiro micidiale dall'inizio alla fine, che ridicolizza i recenti pur belli concerti degli Stones. Certo, la cocaina e lo speed fornivano carburante sufficiente a quei tempi per giustificare tanta energia, ma un Mick Jagger così cialtrone, così sguaiato, così rock'n'roll non si ricordava più. Altro che gruppi punk. Charlie Watts, con buona pace del simpatico settantenne che conosciamo oggi, era di una forza ritmica impressionante, così Richards che grazie allo straordinario Mick Taylor poteva permettersi di sostenere tutto con una mitragliatrice spara riff incandescente. Un disco che brucia di calore vivo, hard to handle, difficile da maneggiare, ma tutto da godere. Da ascoltare immediatamente prima di Some Girls per avere le coordinate giuste con cui muoversi. Il resto, si sa, è solo divertimento: it's only rock'n'roll, but we like it.
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