Sono tempi duri quando la musica viene gettata in periferia, in un brutto tendone in un ancor più brutto avanzo di speculazione edilizia dimenticata. Sono tempi duri se la musica viene cacciata dai teatri del centro cittadino di quella che è - dovrebbe essere? - la capitale morale d'Italia, una delle capitali d'Europa, fra poco la capitale del mondo con il suo Expo - per metterci al suo posto i supermarket del cibo e della ristorazione trendy. Sono tempi duri per chi preferisce nutrire il cuore che lo stomaco, ma noi di questa musica non sappiamo farne a meno, ne abbiamo bisogno per sopravvivere a tanta bruttezza e ci spostiamo come un popolo di nomadi ovunque essa faccia capolino.
Sia anche un orribile tendone alle periferie esistenziali, come dice qualcuno, perché evidentemente noi siamo i nomadi del desiderio esistenziale. Sappiamo che ci aspetta qualcuno che il cuore ce lo riempirà di buon grado, anche se l'ultima offesa che ci aspetta è mettere a fianco di un evento rigorosamente acustico, solitario e intimo, un circo che fa da sottofondo con il suo vociare insistente.
Ci aspetta Damien Rice, forse il più affascinante ultimo erede della grande canzone d'autore. Ci aspetta da solo sul palco dove ci resterà per circa due ore usando tutta la sera una sola chitarra acustica e, per un pezzo soltanto, un pianoforte. Ci vuole una capacità straordinaria per fare questo senza mai annoiare e senza mai cadute di tensione. La sua attitudine, anche se davanti a quasi 5mila spettatori entusiasti, è quella del busker, il cantante di strada. Spontaneità, nessuna ricerca di estetismi tecnici, nessuno snobismo, anti divismo totale: Damien Rice è uno di noi, solo che lui sa raccontare le inquietudine del cuore meglio di noi.
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