Va in scena un atto unico, la morte dell’artista davanti al pubblico adorante. C’è un elemento di morte in ogni performance artistica, perché l’arte evoca vita e morte in ugual misura, a volte più una che l’altra. Nel caso di Sixto Rodriguez la morte trascende la performance stessa e si incarna nella figura dell’artista stesso. E’ lui la morte che si presenta nuda e sfrontata davanti al pubblico, quasi a deriderlo e a cercare una sorta di vendetta: guardate come mi avete ridotto. Ingmar Bergman e William Shakespeare stasera sono ospiti d’onore in prima fila e sorridono compiaciuti.
Non è un concerto in realtà, è un commosso tributo a un uomo che ha vissuto due, tre vite, perdendo quasi sempre secondo l’ottica umana, non in quella sovrumana. La gente che riempie il lussuoso teatro Arcimboldi e che ha sborsato soldi non da poco per esserci lo sa e non è qui davvero per la musica: è qui per vedere se Sugar Man esiste davvero e per pagare il suo debito. Nel vero senso della parola: uno dei massimi geni della popular music del secolo scorso derubato di ogni centesimo, derubato della sua arte, derubato di tutto ma non del cuore e dell’anima merita che gli si ridia indietro almeno qualcosa. Nonostante il concerto sia di qualità musicale molto scarsa (colpa, più che di Rodriguez, di una band di scalzacani improvvisata probabilmente il giorno prima e che non conosce l’abc della musica) al pubblico non importa. Sono standing ovation continue, la gente applaude fragorosa e gli invia tutto il suo amore. Per l’uomo. E che uomo.
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