Con album che si intitolano Their Satanic Majesties’ Second Request, My Bloody Underground, Who Killed Sgt. Pepper’s (ma il nostro titolo preferito è senz’altro Thank God for Mental Illness, “grazie a Dio per la malattia mentale”), appare subito chiaro dove hanno sempre guardato i Brian Jonestown Massacre. A un revisionismo sonico che fa i conti con tutto quanto di sballato, esagerato, psichedelico è giunto a noi fin dagli anni 60. Il tutto frullato in una carica deflagrante e devastante di chitarre elettriche (alla Santeria ieri sera in alcuni brani l’assalto sonico era guidato da ben quattro di questi strumenti) che si può definire psichedelia punk o garage, fate voi. Il nome del gruppo a proposito di revisionismo la dice lunga: Brian Jones, naturalmente, il cui bel viso campeggia nel logo del gruppo sparato sullo sfondo del palco, ma anche il massacro-suicidio di massa avvenuto a Jonestown in Guyana nel 1979 di una setta comunista-religiosa americana, 917 morti tra cui molti bambini, il più grave nella storia degli Stati Uniti. Anton Newcombe d’altro canto ha sempre vissuto nel lato oscuro della vita, anche se sembra che finalmente l’abbia finita con la droga.
Il progetto musicale di un autentico freak in acido, il geniale Anton Newcombe originario non per niente di San Francisco, la patria dei viaggi musicali cosmici a base di Lsd. Un genio che se ne è sempre fregato di ogni logica commerciale, facendo (e drogandosi) solo quello che voleva e così perdendo il treno per un meritato successo di massa, ma guadagnanonde in libertà personale e artistica: dall’esordio nel 1993 a oggi ha pubblicato 17 album, cinque compilation, cinque dischi dal vivo, 13 ep, 16 singoli. Nel 2018, per non smentirsi, pubblica due cd, il primo dei quali, Something Else, già uscito.
Inutile cercare tra la formazione sul palco volti noti, a parte l’immancabile, adorabile Joel, unico che riesce a stare vicino a Newcombe sin dall’esordio (un tempo molti concerti finivano in risse tra musicisti o spettatori).
Cappellino di lana, occhiali da sole sul cappellino, tamburello o maracas tra le mani per tutto il concerto, limitandosi a qualche seconda voce, se ne sta immobile a fissare il nulla davanti o il pubblico di sotto senza mai cambiare smorfia del viso, che è di puro godimento. Genio. I BJM infatti sono un ensemble aperto che raramente ha visto gli stessi musicisti per due volte nello stesso disco o nello stesso tour. In Australia, questa estate, ad esempio, alla batteria sedeva un ragazzino, a Milano una ragazzetta (brava) di massimo vent’anni. Ma non importa. Newcombe, che adesso vive a Berlino e pare abbia smesso di ingurgitare più droghe di quanto faceva Syd Barrett è la guida di un esperimento musicale che non ha pari: questa volta è riuscito a riempire la Santeria di Milano sold out con un pubblico di ragazzetti universitari e belle ragazze che ballavano sotto al palco come a un concerto dei Grateful Dead.
Lui, che sembra ormai il fantasma di Neil Young, se ne sta sempre in disparte, davanti un muro di chitarre (tra cui una Rickenbacker dodici corde dal suono strepitoso) altri due chitarristi, poi un pazzoide al moog e ai trucchetti elettronici e talvolta chitarra. Il risultato che si ottiene è un muro del suono fragoroso ma mai disturbante, che vola in alto un po’ come facevano i Sonic Youth, per dare delle coordinate, in un trip mai noioso ma sempre carezzevole e sognante. A volte questo muro impazzisce e i tre chitarristi tenendo le stesse due note sono capaci di andare avanti quasi un quarto d’ora: tripping the live fantastic, man.
E’ il caso del brano più amato del gruppo, When Jokers Attack, un brano dall’incedere alla Byrds che esplode in deflagrazioni soniche spaventose: questa sera dura “solo” dieci minuti, altre volte supera il quarto d’ora.
Tante le gemme presentate, da What Happened to Them alla nuova Who Dreams of Cats, da That Girl Sucide a Anemone. Sul palco la definizione di cool: tutti con occhiali da sole, uno che sembra Tex Watson della Family di Charles Manson, vestiti e taglio di capelli da Beach Boys in acido, i BJM sono uno spettacolo anche solo per la vista.
Ti portano così in alto che pensi che un muro di chitarre così potrebbe coprire tutte le bestialità di Donald Trump o Matteo Salvini e farci vivere una vita migliore. Ma i concerti rock durano due ore e le canzoni non hanno mai cambiato il mondo. Per qualche ora sì, però. E va bene così.
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