C’è una canzone d Enzo Jannacci, tra le moltissime che ha scritto anche in dialetto milanese, forse dimenticata dai più, che si intitola “Ti te sé no”. Chi l’ha ascoltata non l’ha certamente dimenticata. In pochi versi dolcissimi la descrizione della povertà di una famiglia, quando la povertà non diventa una scusa per rivendicare solo dei diritti, ma è espressione di tutta la dignità di essere uomini comunque: “Tu non lo sai, ma quando ti accarezzo, la tua bella faccetta, così pulita, mi pare, mi pare di essere un signore, un signore che ha la radio nuova e nell'armadio la torta per i figli, che vengono a casa da scuola, e ti tocca viziarli; per te un'altra vestina, a te ti compero le scarpe”.
Ma c’è qualcosa d’altro che fuoriesce da questa canzone: una tenerezza immensa. Fra i tanti doni e le cose che Jannacci sapeva esprimere, c’era infatti un grandissimo senso della tenerezza, intesa come serena accettazione delle cose della vita, e anche di gratitudine per la vita stessa. Jannacci era un uomo sereno e grato alla vita.
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Saturday, March 30, 2013
Thursday, March 28, 2013
Rediscovering rock'n'roll
Non hai bisogno di una chitarra per essere una rock star
- Paul Williams
La solitudine è una verità universale. La musica in tutte le sue accezioni è uno dei tentativi dell'uomo di riempire questo smarrimento. E' la ricerca di qualcosa. Deliberatamente, intelligentemente, con passione e molte volte inconsciamente: la presenza della tua assenza
- Paul Williams
A quel tempo si andava di fax. Come stai, hai sentito questo disco? Che ne pensi dell'ultimo concerto di Dylan? Che senso ha scrivere di musica rock? Internet lo usavano ancora i militari (e Al Gore, che lo ha inventato, come si sa) soltanto e basta. Così io e Paul Williams comunicavamo da una parte all'altra del mondo, io a Milano, lui dalle parti della Bay Area in California, in questo modo. Il contatto me lo aveva dato un altro grande rock writer che non c'è più, anche lui, John Bauldie.
Stasera penso: io non so se valgo qualcosa, anzi no altrimenti avrei fatto dei soldi e sarei a qualche talk show invece che nella mia cameretta disordinata sotto a una pila di cd e di libri ingialliti. Sono un fallito, ma ho incontrato grandi persone e se mai una mia riga ha avuto qualche impatto su qualcuno - a volte c'è chi mi dice di sì, ma non ci ho mai creduto - è perché sono andato a scuola da gente come Paul Williams, John Bauldie, Greil Marcus. Li ho stressati, interrogati, tradotti, esaminati, studiati a memoria. E' stata una gran bella scuola, che fortuna mi abbiano dedicato il loro tempo. Non ho mai creduto che definirsi "giornalista rock" in Italia abbia alcun significato, ma da loro, che lo erano, anzi rock writers, ho imparato che scrivere di un disco o di un concerto non significa imporre la mia opinione: io sì che ne so e voi che mi leggete imparate da me. No: loro mi hanno insegnato che scrivere di musica rock è indagare, addentrarsi in un mistero insieme al lettore e alla fine lasciare la domanda aperta. Se mai sono riuscito a fare questo, lo devo a loro tre.
Lo penso stasera che ho saputo che Paul Williams è morto dopo una lunghissima e penosa malattia durata quasi vent'anni. Aveva 64 anni: nel 1995 in bicicletta aveva avuto un incidente. Era caduto battendo la testa. Non si era più ripreso, solo parzialmente, sprofondando sempre di più nella demenza, incapace a badare a se stesso. Che sorte incredibile per una delle menti più brillanti dell'America del dopo guerra. Con lui in tutti questi anni era rimasta, sempre accanto, la deliziosa moglie, la cantautrice Cindy Lee Berrhill di cui Paul un giorno mi aveva inviato entusiasta uno dei suoi primi dischi. E' stata lei oggi a diffondere la notizia della morte di Paul: Rock-writer Paul S Williams, author and creator of CRAWDADDY magazine, (and my husband), passed away last night 10:30pm PST while his oldest son was holding his hand and by his side. It was a gentle and peaceful passing.
A 16 anni, nel 1966, stufo di leggere di musica rock su riviste per teenager, Paul aveva deciso di inventarsi un rock magazine. Così facendo aveva inventato un mestiere che ancora non esisteva, non esistevano i giornalisti e gli scrittori rock. Gli devo un lavoro, credo. Crawdaddy! fu il primo vero giornale rock, nato fotocopiato in un campus universitario ma che sin da subito potè contare su due lettori d'eccezione: Paul Simon e Bob Dylan. Quest'ultimo pochi mesi dopo, lui che era la rock star numero uno al mondo, gli concesse anche una intervista. Da Crawdaddy! passarono un po' tutti a farsi le ossa, compresi Greil Marcus e Jon Landau. Ma Paul era un autentico hippie figlio di quella cultura degli anni sessanta: quando vide che scrivere di rock stava diventando un mestiere manipolato dalle case discografiche, mollò tutto e andò a vivere nei boschi. Ed era soltanto il 1970. Nel video arci noto di John Lennon che canta a letto Give peace a chance, si vede anche Paul che canta e batte un tamburello con gioia tutta hippie.
Girò il mondo, sposò una ragazza giapponese, scrisse libri di meditazioni zen, divenne collaboratore e curatore dell'opera di Philip K. Dick (quello che da un suo libro tirarono fuori il film Blade Runner).
Ma quando sei nato nel rock'n'roll non ne rimani fuori a lungo, non ne puoi fare a meno: nei primi anni 80 si rimise ad ascolatare musica e scrisse una pietra miliare, The Map or Rediscovering Rock'n'Roll: a journey. Quel libro l'ho imparato a memoria, l'ho usato per anni per le mie citazioni e ancora oggi ogni tanti lo vado a rileggere. Si rimise anche a pubblicare Crawdaddy! ancora una volta fotocopie spedite per posta. E poi vennero altri libri, straordinari: su Bob Dylan, su Neil Young, sui Beach Boys. Per lui scrivere era la vita: partiva in tournée dietro a Bob Dylan, anche in Europa, per settimane per scrivere di ogni singolo concerto. Tanti suoi libri me li ha mandati a sue spese, così, da vero hippie. Mica come tanti suoi colleghi che ti dicono: ah sì, il mio libro lo trovi nei migliori negozi o su Amazon.
C'è una foto tristissima postata dalla moglie dove si vede Paul riverso sul suo letto disfatto, raggomitolato, in preda ai deliri della sua demenza. Chissà cosa ha pensato in questi anni che la sua coscienza andava spegnendosi. La moglie dice che andava a trovarlo in ospedale e gli faceva ascoltare musica. Ovviamente devo più che un mestiere a Paul Williams: gli devo il gusto per la vita, attraverso la musica. Gli devo l'ansia di voler scoprire ogni istante in una maledetta canzone quale sia il mistero che si sta comunicando. Ancora adesso quando vado a un concerto, sento battere dentro di me queste sue parole: "Lo scopo della poesia o della filosofia è condividere una verità. Lo scopo della musica è una salvezza spirituale. Lo scopo della rappresentazione teatrale è di lasciarci vedere noi stessi. Mettiamo le tre cose insieme e avremo una magia, il rock'n'roll, qualcosa per cui vale la pena viaggiare di città in città, sia che soldi e successo siano lì ad aspettarci sia che non ci sia nulla. Il pubblico sta pensando: arriva un altro gruppo di musicisti. I musicisti pensano: ecco un'altra città e il suo pubblico. E alla fine essi si incontrano nella notte e danzano insieme".
Avevi ragione, Paul: non c'è bisogno di una chitarra per essere una rock star. Tu eri una rock star. Ti voglio bene, miss you friend. Keep rockin', come mi scrivesti sul tuo libro.
- Paul Williams
La solitudine è una verità universale. La musica in tutte le sue accezioni è uno dei tentativi dell'uomo di riempire questo smarrimento. E' la ricerca di qualcosa. Deliberatamente, intelligentemente, con passione e molte volte inconsciamente: la presenza della tua assenza
- Paul Williams
A quel tempo si andava di fax. Come stai, hai sentito questo disco? Che ne pensi dell'ultimo concerto di Dylan? Che senso ha scrivere di musica rock? Internet lo usavano ancora i militari (e Al Gore, che lo ha inventato, come si sa) soltanto e basta. Così io e Paul Williams comunicavamo da una parte all'altra del mondo, io a Milano, lui dalle parti della Bay Area in California, in questo modo. Il contatto me lo aveva dato un altro grande rock writer che non c'è più, anche lui, John Bauldie.
Stasera penso: io non so se valgo qualcosa, anzi no altrimenti avrei fatto dei soldi e sarei a qualche talk show invece che nella mia cameretta disordinata sotto a una pila di cd e di libri ingialliti. Sono un fallito, ma ho incontrato grandi persone e se mai una mia riga ha avuto qualche impatto su qualcuno - a volte c'è chi mi dice di sì, ma non ci ho mai creduto - è perché sono andato a scuola da gente come Paul Williams, John Bauldie, Greil Marcus. Li ho stressati, interrogati, tradotti, esaminati, studiati a memoria. E' stata una gran bella scuola, che fortuna mi abbiano dedicato il loro tempo. Non ho mai creduto che definirsi "giornalista rock" in Italia abbia alcun significato, ma da loro, che lo erano, anzi rock writers, ho imparato che scrivere di un disco o di un concerto non significa imporre la mia opinione: io sì che ne so e voi che mi leggete imparate da me. No: loro mi hanno insegnato che scrivere di musica rock è indagare, addentrarsi in un mistero insieme al lettore e alla fine lasciare la domanda aperta. Se mai sono riuscito a fare questo, lo devo a loro tre.
Lo penso stasera che ho saputo che Paul Williams è morto dopo una lunghissima e penosa malattia durata quasi vent'anni. Aveva 64 anni: nel 1995 in bicicletta aveva avuto un incidente. Era caduto battendo la testa. Non si era più ripreso, solo parzialmente, sprofondando sempre di più nella demenza, incapace a badare a se stesso. Che sorte incredibile per una delle menti più brillanti dell'America del dopo guerra. Con lui in tutti questi anni era rimasta, sempre accanto, la deliziosa moglie, la cantautrice Cindy Lee Berrhill di cui Paul un giorno mi aveva inviato entusiasta uno dei suoi primi dischi. E' stata lei oggi a diffondere la notizia della morte di Paul: Rock-writer Paul S Williams, author and creator of CRAWDADDY magazine, (and my husband), passed away last night 10:30pm PST while his oldest son was holding his hand and by his side. It was a gentle and peaceful passing.
A 16 anni, nel 1966, stufo di leggere di musica rock su riviste per teenager, Paul aveva deciso di inventarsi un rock magazine. Così facendo aveva inventato un mestiere che ancora non esisteva, non esistevano i giornalisti e gli scrittori rock. Gli devo un lavoro, credo. Crawdaddy! fu il primo vero giornale rock, nato fotocopiato in un campus universitario ma che sin da subito potè contare su due lettori d'eccezione: Paul Simon e Bob Dylan. Quest'ultimo pochi mesi dopo, lui che era la rock star numero uno al mondo, gli concesse anche una intervista. Da Crawdaddy! passarono un po' tutti a farsi le ossa, compresi Greil Marcus e Jon Landau. Ma Paul era un autentico hippie figlio di quella cultura degli anni sessanta: quando vide che scrivere di rock stava diventando un mestiere manipolato dalle case discografiche, mollò tutto e andò a vivere nei boschi. Ed era soltanto il 1970. Nel video arci noto di John Lennon che canta a letto Give peace a chance, si vede anche Paul che canta e batte un tamburello con gioia tutta hippie.
Girò il mondo, sposò una ragazza giapponese, scrisse libri di meditazioni zen, divenne collaboratore e curatore dell'opera di Philip K. Dick (quello che da un suo libro tirarono fuori il film Blade Runner).
Ma quando sei nato nel rock'n'roll non ne rimani fuori a lungo, non ne puoi fare a meno: nei primi anni 80 si rimise ad ascolatare musica e scrisse una pietra miliare, The Map or Rediscovering Rock'n'Roll: a journey. Quel libro l'ho imparato a memoria, l'ho usato per anni per le mie citazioni e ancora oggi ogni tanti lo vado a rileggere. Si rimise anche a pubblicare Crawdaddy! ancora una volta fotocopie spedite per posta. E poi vennero altri libri, straordinari: su Bob Dylan, su Neil Young, sui Beach Boys. Per lui scrivere era la vita: partiva in tournée dietro a Bob Dylan, anche in Europa, per settimane per scrivere di ogni singolo concerto. Tanti suoi libri me li ha mandati a sue spese, così, da vero hippie. Mica come tanti suoi colleghi che ti dicono: ah sì, il mio libro lo trovi nei migliori negozi o su Amazon.
C'è una foto tristissima postata dalla moglie dove si vede Paul riverso sul suo letto disfatto, raggomitolato, in preda ai deliri della sua demenza. Chissà cosa ha pensato in questi anni che la sua coscienza andava spegnendosi. La moglie dice che andava a trovarlo in ospedale e gli faceva ascoltare musica. Ovviamente devo più che un mestiere a Paul Williams: gli devo il gusto per la vita, attraverso la musica. Gli devo l'ansia di voler scoprire ogni istante in una maledetta canzone quale sia il mistero che si sta comunicando. Ancora adesso quando vado a un concerto, sento battere dentro di me queste sue parole: "Lo scopo della poesia o della filosofia è condividere una verità. Lo scopo della musica è una salvezza spirituale. Lo scopo della rappresentazione teatrale è di lasciarci vedere noi stessi. Mettiamo le tre cose insieme e avremo una magia, il rock'n'roll, qualcosa per cui vale la pena viaggiare di città in città, sia che soldi e successo siano lì ad aspettarci sia che non ci sia nulla. Il pubblico sta pensando: arriva un altro gruppo di musicisti. I musicisti pensano: ecco un'altra città e il suo pubblico. E alla fine essi si incontrano nella notte e danzano insieme".
Avevi ragione, Paul: non c'è bisogno di una chitarra per essere una rock star. Tu eri una rock star. Ti voglio bene, miss you friend. Keep rockin', come mi scrivesti sul tuo libro.
Sunday, March 24, 2013
Sunday Morning Music: Mr. Murphy's night visions
Quasi una decina di anni fa invitati Elliott Murphy a esibirsi in Italia, all’interno di uno dei massimi eventi culturali italiani, nella Rimini felliniana che lui ama tanto. Con lui, oltre alla sua band, c’era la famiglia, la splendida moglie e il figlio Gaspard, un simpatico ragazzino grassottello credo tredicenne che sembrava uscito dal film I Goonies. Il padre me lo presentò come amante dell’heavy metal e lo invitò anche sul palco a suonare in un pezzo: divertente e bravo. Ma me lo ricordo però maggiormente come un ragazzino della sua età, che si divertiva da morire alle barzellette dell’allora drummer di Elliott, il bravissimo Daniel Montgomery. Così, dopo aver ascoltato il nuovo disco di Murphy “It takes a worried man”, la prima cosa che ho pensato è stata: finalmente un disco prodotto come Elliott merita. Rimango infatti dell’idea che il suo ultimo disco degno del suonome sia ancora Selling the Gold, che come questo ultimo riporta ai fasti dei giorni di gloria degli anni settanta di Murphy. Be’, sono rimasto alquanto scioccato a vedere che il disco è stato prodotto da quell’ex ragazzino paffuto, che evidentemente nel tempo è diventato un produttore e un musicista con i contro coglioni e ha saputo dare alle canzoni del padre quel suono che meritano, un orgoglioso disco autenticamente rock e molto 70s.
Quello che mancava infatti agli ultimi lavori di Murphy non erano le buone canzoni - quelle a Elliott non mancano mai - ma era la visione, e un artista senza visione è come un pittore senza pennelli o uno scrittore senza la penna. E la visione di Murphy è sempre stata, nei suoi momenti migliori, quella di celebrare lo spirito del rock’n’roll, la sua bellezza e la sua miseria, la sua gloria e la sua decadenza. Nel nuovo disco c’è tutto questo, l'ha ritrovata proprio Gaspard, che cosa buffa: dal brano che titola il disco che recupera la versione originale, quella della Carter Family, da cui Junior Parker avrebbe tirato fuori Mystery Train, il pezzo rock definitivo, al pop sontuoso di Little bit More sfuggito di mano a Phil Spector fino a uno scarto di “night visions” che sono appunto le visioni migliori di Elliott, la pianistica, in totale solitudine, Even Steven, aspra e dolorosa come trovarsi ubriachi alle cinque del mattino sulla Bowery, un’altra vita e tanti anni fa. In mezzo, tanti poderosi brani rock come la sixties e deliziosa Angelina che fanno solo bene al cuore. Oppure la strabordante I am Empty. "Welcome to Murphyland": in questo disco c'è tutta la caratura artistica di un eroe dei Seventies e dunque perché non intitolare un pezzo proprio Murphyland?
Gaspard on stage with daddy Murphy
Così, bene: bravi Elliott e Gerard. Ma che bel disco. Solo la copertina è da buttare via: neanche Andy Warhol in acido avrebbe fatto qualcosa di tanto brutto. Vabbè, ma in fondo chi se ne frega. E poi a Andy Warhol avevi già dedicato una canzone, Elliott.
Quello che mancava infatti agli ultimi lavori di Murphy non erano le buone canzoni - quelle a Elliott non mancano mai - ma era la visione, e un artista senza visione è come un pittore senza pennelli o uno scrittore senza la penna. E la visione di Murphy è sempre stata, nei suoi momenti migliori, quella di celebrare lo spirito del rock’n’roll, la sua bellezza e la sua miseria, la sua gloria e la sua decadenza. Nel nuovo disco c’è tutto questo, l'ha ritrovata proprio Gaspard, che cosa buffa: dal brano che titola il disco che recupera la versione originale, quella della Carter Family, da cui Junior Parker avrebbe tirato fuori Mystery Train, il pezzo rock definitivo, al pop sontuoso di Little bit More sfuggito di mano a Phil Spector fino a uno scarto di “night visions” che sono appunto le visioni migliori di Elliott, la pianistica, in totale solitudine, Even Steven, aspra e dolorosa come trovarsi ubriachi alle cinque del mattino sulla Bowery, un’altra vita e tanti anni fa. In mezzo, tanti poderosi brani rock come la sixties e deliziosa Angelina che fanno solo bene al cuore. Oppure la strabordante I am Empty. "Welcome to Murphyland": in questo disco c'è tutta la caratura artistica di un eroe dei Seventies e dunque perché non intitolare un pezzo proprio Murphyland?
Gaspard on stage with daddy Murphy
Così, bene: bravi Elliott e Gerard. Ma che bel disco. Solo la copertina è da buttare via: neanche Andy Warhol in acido avrebbe fatto qualcosa di tanto brutto. Vabbè, ma in fondo chi se ne frega. E poi a Andy Warhol avevi già dedicato una canzone, Elliott.
Friday, March 22, 2013
Va tutto bene, mamma. Sanguino soltanto (seconda parte)
Appunti nel caos per un libro che non uscirà mai dedicato alla più grande canzone rock di sempre (seconda parte, nella quale si cominciano a tratteggiare le esecuzioni live)
Disillusioned words like bullets bark
E’ la sera di Halloween del 1964: Bob Dylan sta per eseguire It’s Alright Ma I’m Only Bleeding al pubblico colto e politicamente corretto di New York. La canzone, scritta l’estate precedente, è stata eseguita dal vivo per la prima volta pochi giorni prima, esattamente il 10 ottobre alla Philadelphia Town Hall. A New York Dylan la presenta ridacchiando e storpiandone il titolo: “Si chiama It’s Alright Ma it’s life and life only”.
Il pubblico in sala ride e lui risponde, sì è davvero una canzone divertente ridendosela anche lui. Oggi per noi a così tanti decenni di distanza da quegli eventi pare impossibile si possa ridere durante un pezzo come questo. Ma d’altro canto il pubblico americano rideva a volte anche quando Dylan eseguiva per le prime volte un pezzo come Desolation Row. Sembra impossibile oggi, ma in effetti sono pezzi che potrebbero anche apparire umoristici, se ascoltati in una chiave univoca, e cioè quella ideologica. Il pubblico di Bob Dylan quella sera del 31 ottobre 1964 ma anche durante i concerti del 1965 quando eseguirà Desolation Row è ancora per la stragrande maggioranza un pubblico composto da attivisti di sinistra e dei movimenti per i diritti civili. Dylan per loro nonostante i cambiamenti in atto è ancora il folk singer che sta spezzando le reni all’America più conservatrice e reazionaria e anche queste due canzoni, per loro, sono due canzoni di protesta. Allegoriche, un po’ strane, ma insomma, per loro sono solo accuse al sistema. It’s Alright Ma in realtà, molto più di Desolation Row, è un bel campionario di accuse al sistema capitalistico americano. Quello che a questi attivisti che se la ridono, e forse anche allo stesso Dylan, sfugge è che in questa canzone non è offerta alcuna alternativa a quel sistema odiato e odioso: non c’è via di scampo, nessun sole radioso che sorgerà sull’alba dei lavoratori. Il modo in cui Dylan la esegue quella sera è oltremodo ipnotico, quasi fastidioso, con una lentezza esasperante nel pronunciare ogni singolo verso.
E’ come se stesse cercando di imprimere nella mente degli ascoltatori quei versi, ben consapevole della potenza devastante che essi hanno.
Bob Dylan la eseguirà per tutti i suoi ultimi concerti acustici che terrà nel corso del 1965, per toglierla dal repertorio quando comincerà a esibirsi con un gruppo rock, sebbene anche in quei concerti metà dello show fosse appannaggio del folk singer solitario con chitarra acustica. L’esecuzioni saranno sempre molto sentite e professionali, come d’altro canto era professionale il Dylan degli anni 60 quando si esibiva dal vivo. Per chi conosce solo il Dylan più recente, “il massacratore” e stravolgitore dei suoi stessi pezzi, è difficile rendersi conto di come l’artista, almeno fino all’inizio del cosiddetto Never Ending Tour sia sempre stato o quasi un performer nel senso più rigoroso del termine. It’s Alright Ma ascoltata in quei concerti del 1964-65 è così: solenne e declamatoria come la si ascolta sul disco.
Even the president of the United States sometimes must have to stand naked
It’s Alright Ma, come un lugubre segno dei tempi, come una maledizioen scagliata contro il potere, come una denuncia infamante, apparirà dal vivo nuovamente proprio quando Dylan deciderà, dopo un silenzio live durato ben otto anni, dall’estate del 1966 al gennaio del 1974, a parte poche esibizioni estemporanee, di tornare a fare concerti. E la canzone, ancor più di quanto fosse stato negli anni 60 dove era apparsa ai più fuori luogo, fuori moda, fuori tempo, insomma un incubo personale del suo autore almeno fino a quando Peter Fonda avrà l’intelligenza di inserirla nella scena finale del suo film Easy Rider anticipandone l’autentico significato, diventerà parzialmente quello che avrebbe sempre dovuto essere: l'incubo di ciascuno.
To be continued... sometime soon. or not
Disillusioned words like bullets bark
E’ la sera di Halloween del 1964: Bob Dylan sta per eseguire It’s Alright Ma I’m Only Bleeding al pubblico colto e politicamente corretto di New York. La canzone, scritta l’estate precedente, è stata eseguita dal vivo per la prima volta pochi giorni prima, esattamente il 10 ottobre alla Philadelphia Town Hall. A New York Dylan la presenta ridacchiando e storpiandone il titolo: “Si chiama It’s Alright Ma it’s life and life only”.
Il pubblico in sala ride e lui risponde, sì è davvero una canzone divertente ridendosela anche lui. Oggi per noi a così tanti decenni di distanza da quegli eventi pare impossibile si possa ridere durante un pezzo come questo. Ma d’altro canto il pubblico americano rideva a volte anche quando Dylan eseguiva per le prime volte un pezzo come Desolation Row. Sembra impossibile oggi, ma in effetti sono pezzi che potrebbero anche apparire umoristici, se ascoltati in una chiave univoca, e cioè quella ideologica. Il pubblico di Bob Dylan quella sera del 31 ottobre 1964 ma anche durante i concerti del 1965 quando eseguirà Desolation Row è ancora per la stragrande maggioranza un pubblico composto da attivisti di sinistra e dei movimenti per i diritti civili. Dylan per loro nonostante i cambiamenti in atto è ancora il folk singer che sta spezzando le reni all’America più conservatrice e reazionaria e anche queste due canzoni, per loro, sono due canzoni di protesta. Allegoriche, un po’ strane, ma insomma, per loro sono solo accuse al sistema. It’s Alright Ma in realtà, molto più di Desolation Row, è un bel campionario di accuse al sistema capitalistico americano. Quello che a questi attivisti che se la ridono, e forse anche allo stesso Dylan, sfugge è che in questa canzone non è offerta alcuna alternativa a quel sistema odiato e odioso: non c’è via di scampo, nessun sole radioso che sorgerà sull’alba dei lavoratori. Il modo in cui Dylan la esegue quella sera è oltremodo ipnotico, quasi fastidioso, con una lentezza esasperante nel pronunciare ogni singolo verso.
E’ come se stesse cercando di imprimere nella mente degli ascoltatori quei versi, ben consapevole della potenza devastante che essi hanno.
Bob Dylan la eseguirà per tutti i suoi ultimi concerti acustici che terrà nel corso del 1965, per toglierla dal repertorio quando comincerà a esibirsi con un gruppo rock, sebbene anche in quei concerti metà dello show fosse appannaggio del folk singer solitario con chitarra acustica. L’esecuzioni saranno sempre molto sentite e professionali, come d’altro canto era professionale il Dylan degli anni 60 quando si esibiva dal vivo. Per chi conosce solo il Dylan più recente, “il massacratore” e stravolgitore dei suoi stessi pezzi, è difficile rendersi conto di come l’artista, almeno fino all’inizio del cosiddetto Never Ending Tour sia sempre stato o quasi un performer nel senso più rigoroso del termine. It’s Alright Ma ascoltata in quei concerti del 1964-65 è così: solenne e declamatoria come la si ascolta sul disco.
Even the president of the United States sometimes must have to stand naked
It’s Alright Ma, come un lugubre segno dei tempi, come una maledizioen scagliata contro il potere, come una denuncia infamante, apparirà dal vivo nuovamente proprio quando Dylan deciderà, dopo un silenzio live durato ben otto anni, dall’estate del 1966 al gennaio del 1974, a parte poche esibizioni estemporanee, di tornare a fare concerti. E la canzone, ancor più di quanto fosse stato negli anni 60 dove era apparsa ai più fuori luogo, fuori moda, fuori tempo, insomma un incubo personale del suo autore almeno fino a quando Peter Fonda avrà l’intelligenza di inserirla nella scena finale del suo film Easy Rider anticipandone l’autentico significato, diventerà parzialmente quello che avrebbe sempre dovuto essere: l'incubo di ciascuno.
To be continued... sometime soon. or not
Monday, March 11, 2013
Va tutto bene mamma. Sanguino soltanto (prima parte)
Appunti nel caos per un libro che non uscirà mai dedicato alla più grande canzone rock di sempre
"Siamo fregati". Quando Captain America si rivolge all'amico Billy non si capisce esattamente il momento temporale in cui dice tale frase. Sono le ultime battute del film e i due amici sono appena stati a sballarsi di Lsd con due prostitute in un cimitero di New Orleans. La frase dunque seguendo un filo logico potrebbe esseret stata pronunciata dopo quell'esperienza, quando i due stanno tornando a casa, in California. Quella frase in realtà potrebbe essere stata detta prima di quella scena. Non importa comunque, perché quello che è evidente è che Captain America, dopo essere stato sempre ottimista e sorridente per tutto il film, incoraggiando il sempre sospettoso e paranoico Billy, adesso è cambiato. Premonizione di una fine tragica ormai imminente? O ha capito che le utopie che lo hanno tenuto in piedi fino ad adesso, fino al sognato raggiungimento di New Orleas erano tutte appunto utopie e sono state spazzate via? Ma spazzate via da cosa? Seguendo una lettura politica del film, spazzate via dai Redneck che li hanno perseguitati per quasi tutto il viaggio, e che poi li uccideranno. Ma potrebbe anche sere stata detta dopo la visita alla fatiscente comune hippie dell'inizio film, dove i giovani spargono semi sulla sabbia con l'impossibile speranza che ne cresca qualcosa. Oppure dopo l'uccisione dell'avvocato George Hanson-Jack Nicholson, il possibile anello di congiunzione tra rivoluzione hippie e società civile.
Di fatto, siamo fregati, tutti quanti. Hippie, avvocati, redneck, sognatori e conservatori.
Darkness at the break of noon
Torniamo alla gita al cimitero di New Orleans, quando i due protagonisti del film e le due prostitute vi si recano completamente strafatti di acido. Non è un bel trip a giudicare dalle immagini di sofferenza espresse da tutti e quattro. Morte, complessi di Edipo, paura della vita, dolore, angoscia: in una parola l’orrore. “Siamo fregati”: un viaggio all’Lsd che ha strappato via ogni maschera – d’altro canto siamo durante il carnevale – a ogni utopia e sogno.
E’ interessante notare come, per un decennio che tutt’oggi viene ricordato come quello della massima speranza, del cambiamento, delle libertà civili e sessuali, insomma un autentico bengodi, tre canzoni dei tre artisti più significativi di quel decennio invece esprimano paura e delirio. Non riesco a trovare alcuna soddisfazione, non ci trovo alcun gusto, cantano incazzosi gli Stones; aiuto! implorano i Beatles; va tutto bene mamma, sanguino soltanto, commenta laconico Dylan. Curiosamente, tutte e tre le canzoni escono nel 1965, quando invece tutto il mondo giovanile si sta dirigendo a grande velocità verso l’estate dell’amore.
In un certo senso per questi tre artisti gli ani 60 erano già finiti in quel 1965: d’altro canto, si sa, gli artisti hanno antenne per vedere più lontano dei comuni mortali. Oppure, per un attimo sconosciuto a loro stessi, in quei momenti di profonda identificazione e unità del proprio io, quando le aspirazioni e i desideri più grandi si chiarificano in una visione, in un “enlightment” cosmico, hanno potuto, dono degli dei, diventare canali di qualcosa di più grande che si è comunicato a loro. Qualunque cosa sia stata, delle tante canzoni, anche di loro stessi, che hanno esaltato e glorificato il decennio dell’amore e della speranza, queste tre canzoni rimangono ancor più di tante altre ancora oggi vitali, pulsanti, sanguinanti. Anche tra quelle del loro stesso repertorio. Come un urlo, come un incubo, come una profezia. Come la testimonianza di una umanità ferita e implorante una redenzione. Siamo fregati, mamma: aiuto, non c’è alcuna soddisfazione in questa vita.
Stones e Dylan si dichiarano annichiliti dalla società dei consumi che offre loro Gesù Cristi di plastica che si illuminano al buio o programmi tv scadenti, coppie limitate nel sesso che impongono morali castranti e quant'altro. Il problema è però che né Dyan né gli Stones offrono alcuna via di uscita a questo carnevale del male. I Beatles – meglio, John Lennon – sono già oltre: la via d’uscita, l’alternativa rock alla società dei consumi ha già fallito. Essere una rock star e aver incarnato lo stile di vita alternativo a quello borghese non ha prodotto alcun risultato positivo. Anzi. D’altro canto, “per vivere fuori della legge devi essere onesto”.
Captain America e Billy sono in motocicletta diretti lontano da New Orleans, sembra quasi che ne stiano scappando. Non viaggiano più affiancati e sorridenti come li avevamo visti fare per tutto il film. Fuggono. Fino a quando irrompe, banale, sciocca ma inevitabile, la morte. Fino a quel momento, fino agli spari di fucile dei due idioti redneck, li aveva accompagnati la voce monotona ed estranea a quanto stava accadendo, di Roger McGuinn. Sta cantando It’s Alright Ma, I’m Only Bleeding.
E’ il 1969 quando esce nei cinema Easy Rider, è l’estate di Woodstock e di una rivoluzione che sembra nulla riesca più a fermarla. La canzone era stata scritta ben cinque anni prima e aveva già previsto tutto. Anche l’alba livida di sangue di Altamont, che in quello stesso 1969 avrebbe chiuso il decennio delle speranze nella morte. Proprio come il film. Proprio come la canzone di Bob Dylan lasciava supporre.
So don’t fear if you hear
A foreign sound to your ear
It’s alright, Ma, I’m only sighing
To be continued. Forse
"Siamo fregati". Quando Captain America si rivolge all'amico Billy non si capisce esattamente il momento temporale in cui dice tale frase. Sono le ultime battute del film e i due amici sono appena stati a sballarsi di Lsd con due prostitute in un cimitero di New Orleans. La frase dunque seguendo un filo logico potrebbe esseret stata pronunciata dopo quell'esperienza, quando i due stanno tornando a casa, in California. Quella frase in realtà potrebbe essere stata detta prima di quella scena. Non importa comunque, perché quello che è evidente è che Captain America, dopo essere stato sempre ottimista e sorridente per tutto il film, incoraggiando il sempre sospettoso e paranoico Billy, adesso è cambiato. Premonizione di una fine tragica ormai imminente? O ha capito che le utopie che lo hanno tenuto in piedi fino ad adesso, fino al sognato raggiungimento di New Orleas erano tutte appunto utopie e sono state spazzate via? Ma spazzate via da cosa? Seguendo una lettura politica del film, spazzate via dai Redneck che li hanno perseguitati per quasi tutto il viaggio, e che poi li uccideranno. Ma potrebbe anche sere stata detta dopo la visita alla fatiscente comune hippie dell'inizio film, dove i giovani spargono semi sulla sabbia con l'impossibile speranza che ne cresca qualcosa. Oppure dopo l'uccisione dell'avvocato George Hanson-Jack Nicholson, il possibile anello di congiunzione tra rivoluzione hippie e società civile.
Di fatto, siamo fregati, tutti quanti. Hippie, avvocati, redneck, sognatori e conservatori.
Darkness at the break of noon
Torniamo alla gita al cimitero di New Orleans, quando i due protagonisti del film e le due prostitute vi si recano completamente strafatti di acido. Non è un bel trip a giudicare dalle immagini di sofferenza espresse da tutti e quattro. Morte, complessi di Edipo, paura della vita, dolore, angoscia: in una parola l’orrore. “Siamo fregati”: un viaggio all’Lsd che ha strappato via ogni maschera – d’altro canto siamo durante il carnevale – a ogni utopia e sogno.
E’ interessante notare come, per un decennio che tutt’oggi viene ricordato come quello della massima speranza, del cambiamento, delle libertà civili e sessuali, insomma un autentico bengodi, tre canzoni dei tre artisti più significativi di quel decennio invece esprimano paura e delirio. Non riesco a trovare alcuna soddisfazione, non ci trovo alcun gusto, cantano incazzosi gli Stones; aiuto! implorano i Beatles; va tutto bene mamma, sanguino soltanto, commenta laconico Dylan. Curiosamente, tutte e tre le canzoni escono nel 1965, quando invece tutto il mondo giovanile si sta dirigendo a grande velocità verso l’estate dell’amore.
In un certo senso per questi tre artisti gli ani 60 erano già finiti in quel 1965: d’altro canto, si sa, gli artisti hanno antenne per vedere più lontano dei comuni mortali. Oppure, per un attimo sconosciuto a loro stessi, in quei momenti di profonda identificazione e unità del proprio io, quando le aspirazioni e i desideri più grandi si chiarificano in una visione, in un “enlightment” cosmico, hanno potuto, dono degli dei, diventare canali di qualcosa di più grande che si è comunicato a loro. Qualunque cosa sia stata, delle tante canzoni, anche di loro stessi, che hanno esaltato e glorificato il decennio dell’amore e della speranza, queste tre canzoni rimangono ancor più di tante altre ancora oggi vitali, pulsanti, sanguinanti. Anche tra quelle del loro stesso repertorio. Come un urlo, come un incubo, come una profezia. Come la testimonianza di una umanità ferita e implorante una redenzione. Siamo fregati, mamma: aiuto, non c’è alcuna soddisfazione in questa vita.
Stones e Dylan si dichiarano annichiliti dalla società dei consumi che offre loro Gesù Cristi di plastica che si illuminano al buio o programmi tv scadenti, coppie limitate nel sesso che impongono morali castranti e quant'altro. Il problema è però che né Dyan né gli Stones offrono alcuna via di uscita a questo carnevale del male. I Beatles – meglio, John Lennon – sono già oltre: la via d’uscita, l’alternativa rock alla società dei consumi ha già fallito. Essere una rock star e aver incarnato lo stile di vita alternativo a quello borghese non ha prodotto alcun risultato positivo. Anzi. D’altro canto, “per vivere fuori della legge devi essere onesto”.
Captain America e Billy sono in motocicletta diretti lontano da New Orleans, sembra quasi che ne stiano scappando. Non viaggiano più affiancati e sorridenti come li avevamo visti fare per tutto il film. Fuggono. Fino a quando irrompe, banale, sciocca ma inevitabile, la morte. Fino a quel momento, fino agli spari di fucile dei due idioti redneck, li aveva accompagnati la voce monotona ed estranea a quanto stava accadendo, di Roger McGuinn. Sta cantando It’s Alright Ma, I’m Only Bleeding.
E’ il 1969 quando esce nei cinema Easy Rider, è l’estate di Woodstock e di una rivoluzione che sembra nulla riesca più a fermarla. La canzone era stata scritta ben cinque anni prima e aveva già previsto tutto. Anche l’alba livida di sangue di Altamont, che in quello stesso 1969 avrebbe chiuso il decennio delle speranze nella morte. Proprio come il film. Proprio come la canzone di Bob Dylan lasciava supporre.
So don’t fear if you hear
A foreign sound to your ear
It’s alright, Ma, I’m only sighing
To be continued. Forse
Saturday, March 09, 2013
L'istante
We drink too much, smoke too much, spend too recklessly, laugh too little, drive too fast, get too angry, stay up too late, get up too tired, read too little, watch TV too much, and pray too seldom. We have multiplied ourpossessions, but reduced our values.
We talk too much, love too seldom, and hate too often.
— Bob Moorehead
La spiaggia è deserta. Il pezzo di una vecchia imbarcazione giace scomposto più in là. Il vento che soffia da ponente spazza via le ultime cartacce lasciate dall’ultimo bambino corso via dietro ai genitori incamminatisi pensando già alle valigie da preparare per il ritorno in città. Mozziconi di sigarette, una ciabatta rotta abbandonata durante chissà quale festa di fine estate, davanti a resti di legni bruciati. Le nuvole si accumulano sopra il monte, dove il sole sta tramontando. Devo fare presto, pensa, perché quando le nuvole sono sopra il monte vuol dire pioggia. Ma anche no, si affretta a pensare. Chissenefrega della pioggia, anzi.
Si riempie i polmoni di quell’aria salata che viene dal mare, dalle sue onde. E’ tutta la vita che fa il bagno tra quelle onde. Quel pezzetto di mare potrebbe dire la sua vita meglio di qualunque donna, di qualunque amico, moglie, sorella, fratello o figlio.
Pensava, struscicando le scarpe da tennis malconce sulla sabbia, “l’irreale è meglio del reale perché nella realtà nulla è perfetto come noi lo immaginiamo, desideriamo. Le pietre rotolano, gli alberi bruciano e la gente muore. Niente di più vero”. Guardò il mare grigio, ombroso, misterioso: “Il mare però è sempre lì. Se non è reale il mare, che cosa lo è”. Certo, è più facile rifugiarsi nei sogni nei pensieri nelle leggende. Fa meno male.
Trascina le scarpe tra quel poco di sabbia e quei tanti sassi di tutte le grandezze. Sente il vento sul viso. Sente i raggi timidi del sole che penetrano a fatica tra le nuvole. Sente le prime gocce di pioggia. Gli viene ancora da pensare “Io invidio il vento invidio il sole invidio la pioggia”. Perché il vento le sussurra nelle orecchie, le scompiglia i capelli,la fa rabbrividire quando l’inverno scuote le tenebre. Perché il sole le riscalda il corpo e la stringe nel suo calore. Perché la pioggia le scivola tra collo e schiena le fa sciogliere il rimmel. Loro, l’avranno per sempre. Lui l’ha perduta. Ma dopo essersi posati su di lei, la pioggia il sole il vento passeranno anche da lui, e viceversa.
Questo momento contiene tutti i momenti. Questo momento è già accaduto. Questo è l’istante dell’amore perfetto.
We talk too much, love too seldom, and hate too often.
— Bob Moorehead
La spiaggia è deserta. Il pezzo di una vecchia imbarcazione giace scomposto più in là. Il vento che soffia da ponente spazza via le ultime cartacce lasciate dall’ultimo bambino corso via dietro ai genitori incamminatisi pensando già alle valigie da preparare per il ritorno in città. Mozziconi di sigarette, una ciabatta rotta abbandonata durante chissà quale festa di fine estate, davanti a resti di legni bruciati. Le nuvole si accumulano sopra il monte, dove il sole sta tramontando. Devo fare presto, pensa, perché quando le nuvole sono sopra il monte vuol dire pioggia. Ma anche no, si affretta a pensare. Chissenefrega della pioggia, anzi.
Si riempie i polmoni di quell’aria salata che viene dal mare, dalle sue onde. E’ tutta la vita che fa il bagno tra quelle onde. Quel pezzetto di mare potrebbe dire la sua vita meglio di qualunque donna, di qualunque amico, moglie, sorella, fratello o figlio.
Pensava, struscicando le scarpe da tennis malconce sulla sabbia, “l’irreale è meglio del reale perché nella realtà nulla è perfetto come noi lo immaginiamo, desideriamo. Le pietre rotolano, gli alberi bruciano e la gente muore. Niente di più vero”. Guardò il mare grigio, ombroso, misterioso: “Il mare però è sempre lì. Se non è reale il mare, che cosa lo è”. Certo, è più facile rifugiarsi nei sogni nei pensieri nelle leggende. Fa meno male.
Trascina le scarpe tra quel poco di sabbia e quei tanti sassi di tutte le grandezze. Sente il vento sul viso. Sente i raggi timidi del sole che penetrano a fatica tra le nuvole. Sente le prime gocce di pioggia. Gli viene ancora da pensare “Io invidio il vento invidio il sole invidio la pioggia”. Perché il vento le sussurra nelle orecchie, le scompiglia i capelli,la fa rabbrividire quando l’inverno scuote le tenebre. Perché il sole le riscalda il corpo e la stringe nel suo calore. Perché la pioggia le scivola tra collo e schiena le fa sciogliere il rimmel. Loro, l’avranno per sempre. Lui l’ha perduta. Ma dopo essersi posati su di lei, la pioggia il sole il vento passeranno anche da lui, e viceversa.
Questo momento contiene tutti i momenti. Questo momento è già accaduto. Questo è l’istante dell’amore perfetto.
Monday, March 04, 2013
Ziggy si sveglia a mezzanotte
Non deve essere facile alzarsi al mattino, guardarsi allo specchio e vedervi riflessa la faccia di David Bowie. Non deve essere facile per nessuna star che arriva a sessant’anni di età, in un campo, la musica rock, dove è obbligatorio rimanere giovani per sempre. Per David Bowie, che per decenni è stato una sorta di Dorian Gray del rock, deve essere stato così difficoltoso che per dieci anni è sparito completamente dalle scene, rifiutando di fare dischi o concerti tanto che i soliti ben informati lo davano malato terminale e altre cose simpatiche del genere. Ci sono stati anche dei paparazzi che lo hanno beccato con la borsa della spesa e un’aria spaesata per le strade di New York dove vive da tempo. Poi, il giorno del suo 66esimo emblematico compleanno, lui con noncuranza ha messo sul suo sito ufficiale il video di un nuovo brano e il mondo si è fermato per un istante: Ziggy Stardust era tornato. In realtà tutti si sono chiesti "chi" fosse tornato: un uomo evidentemente anziano, appesantito dal carico dei ricordi e della nostalgia, come appariva in quel malinconico video.
La copertina di “The Next Day” , il nuovo disco dopo appunto un decennale silenzio, è anch’essa emblematica: è quella del suo capolavoro anni 70 “Heroes”, su cui grava un quadratone bianco con il titolo del disco, a coprire appunto quella faccia giovanile che forse oggi per Bowie è diventato difficile guardare.
CLICCA SU QUESTO LINK PER CONTINUARE A LEGGERE LA RECENSIONE
La copertina di “The Next Day” , il nuovo disco dopo appunto un decennale silenzio, è anch’essa emblematica: è quella del suo capolavoro anni 70 “Heroes”, su cui grava un quadratone bianco con il titolo del disco, a coprire appunto quella faccia giovanile che forse oggi per Bowie è diventato difficile guardare.
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