Poteva essere una cantina da qualche parte tra Juarez (ma non era il giorno di Pasqua) e il Rio Grande. Il cortile interno di un vecchio edificio ottocentesco pieno di piante, erbe rampicanti, birra a fiumi e vino bianco ghiacciato. Poteva essere il Texas, poteva essere ed è stata una serata magnifica. Dopo una settimana passata fra ospedali, centri di riabilitazione, a vomitare il sangue che usciva copioso, appena tolto il tappo, dal buco nero della mia esistenza, in mezzo a lutti e a domandarsi perché la musica non può, non sa alla fine, salvare l'anima dei più disperati, come ha detto Springsteen, "la vita non è che una tragedia intervellata da momenti di gloria".
Così è stato l'altra sera a Gallarate, nient'altro che una cantina nascosta tra Varese e Milano, tra Lubbock e Austin, un momento di gloria, da incassare e custodire gelosamente per il resto della nostra tragedia quotidiana, in modo che la vita faccia meno male possibile.
Francesco D'Acri, uno dei pochi cantautori italiani capace con solo una chitarra acustica, di attirare l'attenzione e tenerla desta con un mix di dolcezza (la versione tenerissima con cui ha aperto la serata di Seaf of Heartbreak) e il rock'n'roll furioso di Portami a ballare, ha tenuto fuori ogni tristezza di plastica della canzone d'autore italiana, quell'indie fasullo costruito a tavolino senza coraggio e senza alcun contenuto originale che abbaglia i ragazzi di oggi.
Quando poi sono entrati in scena Luca Rovini e i suoi Companeros, è stata una scossa elettrica di purissimo rock'n'roll che da Tom Petty si ricongiunge a Dough Sahm, Merito dello straordinario chitarrista americano Peter Bonta (ex Nighthawkes, i corrispondenti americani dei Nine Below Zero, la miglior bar band da Washington DC a San Francisco, capace di jammare con chiunque, anche con Gregg Allman come successe una sera di fine anni 70, e poi accompagnatore e produttore di dozzine di grandi nomi, uno per tutti Mary Chapin Carpenter) con il suo tocco ora raffinatissimo che lega tutto insieme, ora con i suoi assoli dall'imprinting country al blues, al rock più rotolante e vibrante. In mezzo una sezione ritmica basso e batteria precisa come un metronomo, mai fuori delle righe, pulsante e capace di alzare e calmare il climax come onde di oceano.
E naturalmente Luca Rovini, autore di ballate cristalline dalla vena melodica classica ma originalissima, che in veste rock'n'roll guadagnano un altro aspetto: sempre puro, sempre onesto, ma così incalzanti da non lasciare prigionieri.
E finalmente si svela quello che in Italia si insegue da decenni sempre sfiorandolo ma mai riuscendoci fino in fondo: può un italiano fare musica rock? Sì, se sono Luca Rovini e questa band. L'inserimento di un musicista americano fa il tasso di differenza, ma le canzoni sono italianissime (niente inglese, please), le storie sono le nostre, cuori spezzati e migranti rifiutati, la voce è rotonda ma incazzata. Il risultato è un mix perfetto che oggi qua da noi non ha paragoni.
Il divertimento e le lacrime si mischiano, tutti i presenti, anche chi venuto a cenare senza sapere chi si sarebbe eseguito o se si sarebbe eseguito qualcuno, si fermano ammutoliti ad ascoltare. Non è il solito bar dove ognuno si fa i cazzi suoi, e un motivo ci sarà. E dopo essersi ammutoliti girano le sedie verso chi sta suonando e non perdono una canzone, si agitano sulle sedie, ballano, si esaltano. Quando mai lo vediamo nella noia dei nostri bar da happy hour da poveracci?
La musica vola in alto, tra blues serrati e magnifiche ballate rock, e adesso siamo davvero a Juarez, and it's Easter time too.
Quando poi Peter Bonta prendeo la chitarra acustica, regalandoci un brano inciso dai Nighthawks nel 1978 e che Nils Lofgren, qualche anno dopo fece sentire a Rod Stewart che decise immediatamente di inciderlo l'anello è completo. Non siamo più americani, non siamo più italiani, siamo gente di musica, e per questo benedetti in ogni angolo del globo.
E ieri sera giuro che ho visto ridere contento sotto i baffi l'unica persona che tutti aspettavamo giungere da un momento all'altro: era lì, appoggiato al muro insieme a Townes Van Zandt, Guy Clark, Rick Danko. Perché questo era quello il posto dove bisognava esserci. Insieme all'ultimo hobo, Carlo Carlini, Dio lo benedica, a cui Rovini ha dedicato l'omonima canzone da lui scritta.
La musica è un momento di gloria in mezzo a una tragedia, ma fino a quando ci saranno gente come D'Acri e Rovini in giro da qualche parte, io ci sarò. Ho bisogno di serate di gloria. Chi invece nella stessa serata invece ha preferito andare altrove, buon per lui. Ci ha perso soltanto lui.
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Very Nice Post
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