Morire sulla tazza del gabinetto non è esattamente una morte da re. Morire perché da giorni non riesci ad evacuare, e lo sforzo è tale da procurare un arresto cardiaco, rimanendo disteso sul pavimento del bagno per molto tempo perché nessuno si accorge di quello che sta succedendo non è una morte da re. Ma fu questa, così banale, la morte di un re, quello del rock'n'roll, Elvis Presley.
In mano gli resta il libro che stava leggendo, (The Scientifc Search For The Face Of Jesus di Frank Adams). In quei suoi ultimi giorni portava al collo una croce, una stella di davide e una mezza luna islamica. Non si sa mai, scherzava, meglio essere pronti per qualunque Dio ci aspetti. Ginger, la sua fidanzata è a letto, sono circa le otto del mattino ed Elvis non ha chiuso occhio come sempre, ingoiando sonniferi e medicinali vari tutta la notte. Alle 19 di quel 16 agosto ha un aereo che lo aspetta per portarlo a Cleveland dove comincerà un'altra serie infinita di concerti, cosa che lui odia. E' annoiato a morte di quella manfrina che sono diventati i suoi concerti. Tutti uguali, le stesse canzoni, i grandi successi che il suo pubblico, di mezza età anche loro, gli ex ragazzini che lo adoravano negli anni 50 ormai diventati ricchi borghesi della midlle class vogliono sentire. E lui che si deve vestire sempre come un cretino, con tanto di mantello. Perché lui è il re, del rock'n'roll.
Sono circa le due del pomeriggio quando Ginger lo scopre a pancia in giù nel bagno. La corsa in ospedale è inutile: alle 15 e 30 viene dichiarato morto. Accanto a lui c'è il dottor Nick, un medico senza scrupoli (esattamente come quello che lasciò morire Michael Jackson) che lo segue dal 1970, lo ha fatto diventare una discarica chimica. Nel solo ultimo anno di vita, otto mesi, gli ha prescritto diecimila dosi di medicinali: eccitanti per tirarsi su, sonniferi per scendere giù. Elvis aveva problemi di ipertensione, un’arteriosclerosi coronarica, danni al fegato. C'è chi dice che avesse anche problemi al colon ma che avesse rifiutato di farsi operare per vergogna.
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