Thursday, November 29, 2012

Alla fine ne rimarrà uno solo (a "music records" story)

Mi ha fatto una certa impressione leggere che a Chiavari, la mia città, è rimasto un solo negozio di dischi. Non perché sia un caso raro, è così ovunque, ma perché spalanca la porta ai ricordi e soprattutto perché su quel minuscolo negozietto non avrei mai scommesso. L'ho già detto un sacco di volte in questo blog: è il negozio di dischi dove un pomeriggio del 1978 vidi il proprietario agitare un vinile verso un ragazzo che conoscevo bene di vista che era la copia perfetta come look e come altezza di Joey Ramone, dicendogli tutto eccitato: ascolta questo, ti piacerà. E' un gruppo nuovo inglese, ma è davvero forte. Era il primo album dei Dire Straits, appena arrivato in Italia. Il Joey Ramone di Chiavari se lo comprò e qualche giorno dopo anche io riuscivo a scroccarlo da qualcuno, che allora a 16 anni comprare un disco era un impegno gravoso economicamente parlando. Più o meno come adesso. Il negozietto era uno stanzino minuscolo con un soppalco ed è così ancora oggi: Music Records ha appena compiuto 40 anni di attività, anche se si trasferì a Chiavari proprio in quel 1978, prima era a Santa Margherita. Ci passavo davanti tutti i giorni per andare a scuola: ricordo le ore complessive sommate fra di loro ad ammirare in vetrina Rust never sleeps di Neil Young, ad esempio, l'anno dopo.




Leggo che a Chiavari è rimasto solo lui. Eppure allora quando aprì di negozi di dischi ce ne erano una cifra, incredibile per una cittadina di manco 30mila abitanti, il che vuol dire che di dischi se ne vendevano parecchi. Oltre alla mitica Standa che aveva un reparto per i vinili e dove comprai il mio primo disco in assoluto, Desire di Bob Dylan, giugno 1976, costo 5mila lire (ci avrei comprato anche Long may you run della Stills-Young Band).
C'era ad esempio un bellissimo negozio, oggi una banca (argh...) nella piazza più centrale, quella del comune, sotto ai portici, dove si facevano le vasche avanti e indietro da buoni provincialotti a seguire le ragazze. Era grande, illuminato e vendeva anche strumenti musicali. In mezzo, il bancone dei vinili. Ci passavo le ore a sfogliarli uno a uno, come facevo anche negli altri negozi di dischi. Non avevo i soldi per comprarli, e come le riviste di musica che leggevo, immaginavo la musica che contenevano dai titoli, dai nomi, dalle foto di copertina. Molti in realtà facevano schifo musicalmente, col senno di poi, ma allora non importava. Era bello solo trovarsi lì dentro. Qua vidi in vetrina nell'agosto 1981 Shot of love di Dylan: non lo comprai perché la copertina mi faceva orrore, ma trovai modo ugualmente di ascoltarlo.




Nella via principale, il corso, c'era un altro negozio ancora, il più rifornito delle cose che piacevano a noi e anche il bersaglio preferito di chi allora faceva espropri proletari, cioè si fregava i dischi mettendoli sotto al giaccone. Io non ne sono mai stato capace, però aiutavo il mio amico a spostare i vinili da un punto all'altro in modo che lui potesse prendere tutti insieme quelli che gli piacevano. Qui comprai Wind on the water di Crosby and Nash, On stage di Loggins and Messina e Another side of Bob Dylan. Ricordo quanto implorai mia madre per darmi le 3mila lire per poter acquistarlo questo ultimo, santa donna.


Nel 1978 aprì anche il negozio numero uno, quello che mi sarei sarebbe aspettato sopravvivesse ancor oggi invece dell'altro. Era situato al porto, dunque in una posizione meravigliosa, ed era grande e pieno di rarità, anche i bootleg (ne comprai uno di Dylan ovviamente, del tour di Shot of love manco a farlo apposta). Quando saltavo la scuola, cioè un giorno sì e uno no, andavo sempre al porto, vicino al piccolo faro a passare le ore a fumare al sole davanti al mare a guardare le barchette dei pescatori che passavano. Poi andavo al negozio di dischi. Qua una mattina che stavo per partire per tornare a Milano dopo un weekend al mare, anni dopo, una mattina gloriosa di sole, aria salata e profumo di corde da marinai, comprai una edizione speciale di un disco del compianto Calvin Russell, con tanto di zippo compreso. Quello zippo non ha mai funzionato in realtà.



Ma la mia passione per i negozi di dischi era cominciata ben prima della passione per la musica. Quando avevo 12 anni andai con mio padre fino a Treviso, a trovare nonna, zii e cugini. Una sera mia cugina mi portò in centro in un negozio di dischi. Eravamo sotto Natale e voleva prendere un disco da regalare ai miei fratelli. Il negozio pullulava di gente e luci, era straordinariamente bello e accogliente. Era come essere su una giostra, tutto era bello e splendente. Si potevano ascoltare i dischi dalle colonnine con la cuffia, c'erano un sacco di ragazzi e ragazze, contenti, e per la prima volta in vita mia mi sentii senza essere a casa come se fossi a casa, anzi meglio che a casa. Uscimmo con un 45 giri di Demis Roussos perché, come disse mia cugina, era l'ultima moda.

Da quel giorno sono sempre voluto tornare in un negozio di dischi, anche senza comprare niente. E' sempre stato come tornare anche per cinque minuti nella casa delle meraviglie, meglio che un negozio di giocattoli. Adesso non ce ne sono più, ne è rimasto uno solo. In giro ci sono solo fantasmi, che cercano disperatamente la strada verso un negozio di dischi che ha chiuso per sempre le porte alla meraviglia, allo stupore, alla bellezza.

Tuesday, November 27, 2012

No satisfaction

"Poi udii delle voci ed ecco entrare gli Stones con Jimi Hendrix. Con Mick Taylor andai a sedermi su una panca vicino a Hendrix che pareva un po' depresso ma nell'insieme affabile. Mick Taylor gli passò la chitarra e gli chiese di suonare qualcosa (…) Nel corridoio vidi un altro dei fantasmi dell'anno successivo, Janis Joplin, che puntava verso il camerino degli Stones. La evitai, dato che avevo sentito dire che una cosa che avevo scritto su di lei l'aveva mandata in bestia".




Ecco l'atmosfera in cui si svolgono "Le vere avventure dei Rolling Stones", tra personaggi leggendari molti dei quali scomparsi e bruciati pochi mesi dopo le storie che vengono narrate. A narrarle, nel libro omonimo, lo scrittore e giornalista americano Stanley Booth. Più che avventure, queste sembrano "cronache marziane", da un altro mondo e da un'altra dimensione, oggi inimmaginabili. Basti dire che lo stesso Booth dica che Jagger e Richards non siedono più nello stesso camerino da quasi trent'anni. Per scriverle, l'autore ci ha messo la bellezza di quindici anni, e non stupisce. Queste avventure si svolgono nel corso di un tour, quello dell'autunno 1969, e Booth le ha pubblicate solo nel 1984. Rivedute e ampliate, escono finalmente anche in Italia nel cinquantesimo anniversario della nascita degli Stones, per i tipi di Feltrinelli. Il motivo per cui Stanley Booth, allora giornalista "embedded" nel tour degli Stones, ci ha messo tanto a finire questo libro è facile da capire, se si sa di cosa si sta parlando.


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Saturday, November 24, 2012

Pass in time

"Sì ho avuto un secondo bambino. L'ho avuto CON LUI!". Beth Orton indica il ragazzone sprofondato nella poltrona accanto alla sua. Che strano modo di indicare il marito, penso. Sembra quasi che voglia sottolineare che non lo ha avuto con un altro, il figlio, o che lei e il ragazzone sono ancora sposati. Li guardo con tenerezza entrambi: lei, undici anni più di lui, non è più la ragazza scontrosa, un po' punk come attitudine, ribelle e apparentemente in cerca di avventure che mi apparve la prima volta che la conobbi, in una saletta dell'Alcatraz di Milano dove in serata doveva esibirsi come supporter di Beck. La volta famosa che dopo che erano usciti tutti gli altri giornalisti rimase sulla porta a chiedermi di accendere una sigaretta (che nel linguaggio di Beth un tempo significava una cosa precisa). Oggi infatti non fuma neanche più. E' una madre di famiglia, il volto esprime la fatica di questa condizione, ma è sempre bellissima ovviamente. Lui è mezzo addormentato, non la perde di vista un momento: Beth racconta che Sam, il marito, è in piedi dalle cinque di mattina per via del figlio, appunto. Un buon padre, penso. Una bella famiglia.



Sono passati dieci anni quasi esatti dall'ultima volta che ci siamo incontrati di persona: siamo invecchiati tutti e due. Io probabilmente ero già vecchio dieci anni fa. Si ricorda di me, il che è la notizia più bella che ricevo da credo appunto dieci anni. Sono passati invece sei anni dall'ultima volta che l'ho vista su di un palcoscenico, a Dublino, poco prima che dovesse interrompere il tour mondiale per la gravidanza in arrivo. Sul palco, non è cambiato nulla invece, anzi, è ancora più incredibilmente carismatica e la voce non ha perso un grammo di quella urgenza espressiva che l'ha sempre caratterizzata. Non ha perso neanch eil suo slang londinese, quando se ne esce con un "it was a lot since I play here, it was fucking ages". Dieci anni esatti, fucking ages. Quella voce che, come mi azzardai a scrivere una volta, sa esprimere dolore senza farti sentire un coglione come fanno quasi tutti gli altri cantanti perché non stai soffrendo come loro. Questo è ancora più chiaro quando canterà una travolgente straordinaria e impareggiabile Pass in Time, il brano che racconta gli ultimi momenti di vita della madre morente, e le loro ultime parole, che stasera è idealmente dedicata allo scomparso di recente Terry Callier con cui la incise in un magico duetto. E' un dolore condiviso, quello che ci sta comunicando dal palco, e nessuno come lei sa prenderti per mano e farti sentire che il dolore non è tutto nella vita e che dopo il dolore c'è sempre un orizzonte che si dischiude.



Nel camerino dove c'è una piccola festicciola con un po' di addetti ai lavori, Beth attira l'attenzione di tutti anche senza parlare, tanto è carismatica. Qualche bicchiere di vino, la consolazione di saperla felice e appagata. Il saluto prima di andarmene: non facciamo passare altri dieci anni prima di rivederci. Sì, ok: mi ricordo di te. In fondo, è solo un passaggio del tempo e il tempo non esiste davvero. E come ha appena cantato Beth, "così tante cose rimangono sconosciute fino a quando giunge il momento, avresti mai immaginato che saresti stato così forte per poi vedere la tua paura diventare sollievo?".


Tuesday, November 20, 2012

On the road

"Ci vediamo lungo la strada, che ne siamo degni”: così mi salutò una sera Francesco De Gregori sulla porta di un camerino, anzi un “camerino già vecchio tra un lavandino e un secchio tra un manifesto e lo specchio”, per citare una delle sue canzoni più belle, perfetto ritratto della vita on the road. Per vivere sulla strada, bisogna infatti esserne degni, non è da tutti. Vivere sulla strada significa vivere con il cuore aperto, continuando a seguirne il desiderio, rinunciare a fermarsi alla prima risposta che possa appagare, perché risposte del genere non bastano mai. Siamo fatti per stare sulla strada. La vita è una strada, un cammino, verso ciò che ci completerà, “esperienza e mistero per tutta la strada” come dice lo stesso De Gregori nella canzone che intitola il disco, l’opposto di quanti dicono che siccome nulla potrà colmare i nostri bisogni allora occorre eliminare il bisogno, che è quello che la società moderna, anche quella virtuale della Rete, ci dice tutti i giorni.



“Sulla strada” è anche il titolo del nuovo disco del cantautore romano, a quattro anni dal suo ultimo lavoro in studio, ma non quattro anni di silenzio. Perché negli ultimi quattro anni, ma come sempre nella sua carriera ultra decennale, De Gregori non è stato fermo, ma sempre “sulla strada”: tournée nei teatri più prestigiosi e nei “pub” più nascosti, concerti con l’amico che non c’è più Lucio Dalla e tanti, tantissimi da solo. E’ la sua vita, irriducibile passione per un mestiere che si fa esperienza quotidiana e non passerella occasionale, quella di cantare le sue canzoni ovunque ci sia “una città per cantare”. E allora il nuovo disco celebra un po’ tutto questo: le parole “sulla strada” fanno capolino in contesti diversi in ogni canzone.

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Saturday, November 10, 2012

Hey, Mr. D.J., won't you hear my last prayer, hey, ho, rock and roll, deliver me from nowhere

A partire da domani domenica 11 novembre sarò ospite di quattro puntate del programma radio "Juke Box 900" alla Radio Svizzera Italiana. Ecco le date: domenica 11 novembre; domenica 18 novembre; domenica 25 novembre; domenica 2 dicembre.

La prima puntata di domenica 11 è dedicata a uno specialone su Beth Orton ("Folktronica: il ritono della regina della canzone femminile"); la seconda puntata di domenica 18 sarà dedicata ai Wilco: "Kicking the Television: today best american band". La terza si intitola "Notes from the underground: dai Mumford and Sons a Tallest Man on Earth"; la quarta... surprise night...

Tutte le puntata in onda in diretta la domenica dalle 20 alle 21 a questo link cliccando poi su "ascolta la radio":

http://retedue.rsi.ch/home/networks/retedue.html

Hope we'll have fun... I love radio rock...

Tuesday, November 06, 2012

Infinite Arms in una notte a Milano

Immaginate se i Ramones, invece che uscire da quel pisciatoio sulla Bowery di New York che era il CBGB's fossero arrivati dal sud degli States, ad esempio la Georgia, tra campi di cotone e alberi di pesche. Più o meno avrebbero suonato come suonano i Band of Horses (che in realtà arrivano da Seattle, l'ex capitale del grunge, e così abbiamo fatto il giro quasi completo della geografia rock americana). L'altra sera, in un Alcatraz pieno a metà, complice forse la fine del ponte di Ognissanti, questa band ha dato sfoggio di due ore di potentissimo rock'n'roll, bruciante e deflagrante come quello dei Ramones, ma pieno di umori sudisti.



Una combinazione esplosiva, straordinariamente eccitante, che fa di questa band uno dei migliori spettacoli live del momento: dimenticata l'infausta esibizione all'Heineken Jammin' Festival di un paio di anni fa - ma si sa che i grandi festival la buona musica invece di promuoverla spesso e volentieri la uccidono - i Band of Horses non hanno fatto prigionieri. Una scarica potentissima consistente di brani dal tiro implacabile, pochi accordi e ritmo senza tregua, di chiara matrice punk, ma su cui si innestano la capacità di armonizzare e costruire melodie di altissimo livello: in poche parole, un power pop di cui si sente oggi la mancanza. Come detto, la miscela è straordinariamente efficace.
Usciti fuori dal calderone della scena indie rock degli ultimi anni, i Band of Horses sono guidati dall'instancabile folletto Ben Bridwell, sorta di incrocio tra Levon Helm di The Band e Dave Grohl dei Foo Fighters, capace di raggiungere una vocalità estrema grazie alle note altissime che riesce a toccare.

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Thursday, November 01, 2012

Buon Inverno

Mi sono sentito come un hippie stagionato che entrava nella sala dove stavano suonando i Sex Pistols. O come un afro americano che entrasse dove stavano suonando i Lynyrd Skynyrd. Del tipo, ma che cazzo ci faccio qui. E anche: speriamo che qualcuno non mi metta le mani addosso. E' quello che mi è successo qualche sera fa all'Alcatraz, la mia secn da casa, il posto della mia felicità, per quelle due ore che dura un concerto. Non me ne frega niente di chi dice che all'Alcatraz si sente male e che fa schifo. Intanto non è vero, e poi ci arrivo comodo con la metro in dieci minuti e ci vado a casa in cinque. E ci ho sempre visto concerti mai meno che belli. E' il mio Fillmore West insomma e lo adoro. L'altra sera però ero a disagio. Non era la prima volta che mi trovavo in mezzo a un pubblico di giovani (gli Oasis, ad esempio, sempre all'Alcatraz), ma questa sera si esagerava. Pieno come un uovo, un sold out che qua non avevo mai visto così totale, avevano tutti dai 18 ai 25 anni al massimo. Un sacco di (belle) ragazze anche, che ai concerti rock non ci sono quasi mai o pochissime. Vabbè, i maschietti esageravano a essere vestiti come dei Bon Iver de' noiartri, camicia da boscaiolo, barba, capello unto sotto al berettone di lana. Il problema comunque non era solo che di ovre 50 saremmo stati cinque o sei (alla fine ci siamo ritrovati in un angolino in fondo, un po' depressi e spaventati, con due colleghi della stessa età, smarriti dentro e fuori e in silenzio), ma che questo pubblico ti faceva sentire come un blocco chiuso, tutti felici tra di loro e tu un intruso. Era fastidioso, ma ne capivo il senso. E ho capito anche un altro paio di cose.


La prima che la vita va avanti e ti supera come è giusto che sia. Io Bon Iver lo avevo sempre considerato uno sfigato depresso, colpevole di aver dato vita all'odiato mondo indie dei depressi sfigati-che-non-sanno-suonare-una-nota-e-sono-anche-stonati. Invece, no, le canzoni non saranno capolavori e il falsetto dopo un po' rompe, ma l'impatto sonico di quella super band è stato straordinario, roba da far concorrenza ai Wilco (no, non l'amico Wilko che un zuzzurullone che da 40 anni scrive sul massimo quotidiano italiano facendo anche l'insegnante di storia del rock ha pensato di aver sentito citare da Justin Vernon: "il mio amico Wilko dice che la musica mi ha salvato" ha scritto. In realtà Justin aveva detto "Jeff Tweedy" ma probabilmente un drink di troppo - gentilmente offerto - lo ha costretto a chiedere, ao', ma che sta' a dì? e qualcuno gli ha detto, ha citato il leader dei Wilco. E lui il giorno dopo ha scritto: il mio amico Wilko. Roba che neanche Verdone). Oddio, di sfigati finto indie il mondo ne è pieno ma non ne faccio più una colpa a Bon Iver, lui sa il fatto suo.



La seconda è che ogni generazione ha la sua musica e il suo eroe. Ed è inutile fingere che sia anche il tuo. Il modo come questi ragazzi aspettavano con ansia il concerto, e poi esplodevano in boati e standing ovation neanche ci fosse stato Springsteen, mi ha atterrito e anche fatto tenerezza. Ognuno ha il suo eroe e questa generazione ha il suo. Il fatto che sia un romantico solitario, un boscaiolo dell'anima, un ottimo musicista, bè, sono cose belle capirete. C'era una corrispondenza di cuore tra pubblico e artista talmente evidente, che capisci davvero quello che diceva Jeff Tweedy (no, non il suo amico Wilko): la musica ci salva la vita. Altre che generazione choosy: questi ragazzi sanno ancora farsi spezzare il cuore dalla bellezza. Era la loro serata, così io a un certo punto ho pensato fosse giusto togliere il disturbo, non prima di essermi preso anche per me un po' di quella bellezza che arrivava dal palco. Tutti abbiano un cuore spezzato no? Anche i cinquantenni e visto che sul palco si celebrava l'arrivo dell'inverno, con Bon Iver mi sono fatto dare un augurio di buon inverno, che ce ne ho bisogno.

La morale di questa storia è che ho dovuto affidare la recensione a uno di quei ragazzi, credo ne abbia 18 circa di anni, e ha scritto uno splendido pezzo lo trovate qui.

Ah, ho anche capito che il rock'n'roll non muore mai. L'ho visto l'altra sera, la torcia passa di artista in artista e di pubblico in pubblico. Anche quando non ci saranno più i nostri amati settantenni - sì avete capito di chi parlo - la musica non finirà. Ne sono felice. Bon Iver a tutti.

Sangue nei solchi del cuore

“Bob Dylan è in città, c’è bisogno di catturare qualcosa di magico”. La “città” è ovviamente New York, al telefono John Hammond, il più gran...

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