Friday, February 29, 2008

Non chiamatelo (B)Ryan

Le ristampe (dei dischi) sono la mia salvezza professionale. Se dovessi occuparmi solo di quelle che sono le novità – artisti emergenti, esordienti vari e compagnia bella, per intenderci – mi sarei già attaccato alla canna del gas. Preferirei dire “cercarmi un altro lavoro” ma con i tempi che corrono e con la mia età, il posto di lavoro che uno ha avuto la fortuna di trovare bisogna tenerselo stretto. Non che abbia intenzione di attaccami alla canna del gas per una roba come i dischi.

E a proposito di età, credo sia la prima volta che mi capiti di recensire la ristampa di un disco che avevo recensito nella sua uscita originaria. Voglio dire: di solito il reparto “vintage”, come lo chiamiamo noi di Jam, si occupa delle ristampe di album degli anni 60, 70, magari anche 80. È ovvio, sono spesso dischi ormai “fuori corso” oppure così importanti che è giusto che escano di nuovo, meglio se in edizione deluxe con brani inediti, grafica arricchita etc. Ma un disco uscito dieci anni e qualche mese fa? Questo mi fa sentire ancora più vecchio da una parte, e percepire come anche il mercato discografico sia alla canna del gas, proprio come me. Insomma, si sta grattando il fondo del barile, visto che i dischi nuovi ormai non se li compra più nessuno.

Tutta questa menata per dire che sto ascoltando la ristampa del bellissimo Strangers Almanc, la band in cui militava un certo Ryan Adams. Ecco, lo sapevo: il correttore automatico del mio programma di scrittura si è permesso ancora una volta di mettere le zampe (cibernetiche) su quello che scrivo. Di solito mi fa cose tipo “Rollino Stones” oppure – non so perché – “Francesco De Gregari”, per non dire di “cocker” invece di “rocker” o “Latrina” invece di (uragano) Katrina. Adesso invece di Ryan Adams mi ha messo Bryan Adams.

Non è vero. È che parlando del simpatico Ryan, mi viene in mente come la gente ai concerti mi fermi per dirmi che non capisco un cazzo di musica (probabilmente è anche vero) perché puntualmente stronco i suoi dischi e lo prendo in giro, come quello spettatore che una volta a un suo concerto gli gridò “Canta Summer of 69!” (il famoso brano dell’innocuo rocker canadese). Lui, Ryan, si offese talmente tanto che minacciò fisicamente lo spettatore in questione.
Freedom of speech, anyone? Quella sarebbe la prima cosa. Ma poi non è neanche vero che stronco per principio Adams: Heartbreaker lo considero un capolavoro assoluto; di Gold parlai abbastanza bene; di Love is Hell benissimo e Rock’n’roll abbastanza. Poi, in tempi non sospetti, parlavo arci-che-benissimo dei suoi Whiskeytown, senz’altro il miglior gruppo di area alternative country dei 90. Il problema è che la musica, in Italia, la si vive proprio come il calcio: guai a parlare male della squadra avversaria, anche quando la sua debolezza tecnica è palese. Se qualcuno ha deciso che R.A. è il futuro del rock’n’roll, bisognerebbe accodarsi come tanti coglioni a questa (superficiale) analisi. Dischi come Cold Roses, Jacksonville City Nights o Easy Tiger, per dirla alla Fracchia, sono delle “boiate pazzesche”, copia e incolla di classici del rock buttati lì come dire “ehi, sono il figo più figo della scena rock, so anche suonare la chitarra come Jerry Garcia”. Ma và.

Che Adams, da quando è andato solista, a parte quelli che ho citato prima,ha riempito il mercato di dischi superflui, appena sufficienti, spesso banali e noiosi. Soffre di dissenteria produttiva. Un narcisista in cerca di attenzioni (non meritate). Uno un giorno mi ha detto che scrivo male di lui perché mi da fastidio il suo modo di fare, al di là della musica. Che stronzata. Ma se mi piace Bob Dylan, che è probabilmente l’artista più antipatico della storia del rock, come potrebbe darmi fastidio l’antipatia (?) di (B)Ryan? Solamente, c’è in giro gente migliore di lui: per rimanere nei suoi paraggi, quello che è oggi il suo chitarrista, Neal Casal, è un talento cento volte maggiore del suo, come autore e come performer; lo stesso dicasi per Jesse Malin, da lui prodotto in passato. Però loro non usano la tattica-Ryan Adams (che è la stessa di Britney Spears, cioè attirare l’attenzione dei media con trovate che non centrano nulla con la musica). Famoso è l'episodio di qualche anno fa, quando un giornalista americano mise su internet la registrazione del messaggio che trovò un giorno sulla sua segreteria telefonica: avendo scritto una recensione negativa di un suo disco, si trovò la segreteria telefonica con un bel messaggio di Ryan. Pieno di insulti e minacce. Wow. Non pensiate non succeda anche dalle nsotre parti. Adams ha un collega italiano talmente coglione e presuntuoso - un po' come lui - che un giorno, dopo che una nostra giornalista aveva scritto che il suo nuovo disco non era proprio un capolavoro, le telefonò a casa per minacciarla e insultarla. Thats rock'n'roll, baby...

Comunque, dieci anni e qualche mese dopo, Strangers Almanac è ancora un bellissimo disco. Pieno di grandi canzoni (Excuse Me While I Break My Own Heart Tonight è una di queste). E poi c’è il dischetto in più della deluxe edition, con la bellezza di 18 brani inediti, tra performance radiofoniche, demo della pre-produzione del disco stesso (conosciute dai fan come le Barn’s On Fire sessions) più alcuni pezzi rimasti del tutto inediti. Ma soprattutto alcune cover, che la dicono tutta del genio interpretativo di questo ragazzo. Una è Dreams, il classico dei Fleetwood Mac, che dimostra anche come Adams non abbia mai avuto la puzza sotto al naso, avendo il coraggio spesso di pescare nel repertorio di gruppi e artisti che i puri e duri del rock’n’roll considerano invece robetta commerciale (il lavoro che ha fatto come produttore con gli America per dirne un’altra è stato eccezionale, oppure lo sdoganamento di Elton John, convincendolo a tornare a fare le cose che Elton sa fare meglio, cioè scrivere grandi canzoni e non cazzate commerciali): lui sa riconoscere quando una canzone è una buona canzone, e questa resa di Dreams è a dir poco da brivido. Formidabile.
Poi c’è una versione solo voce e chitarra del classico di Johnny Cash I Still Miss Someone, straordinaria, e una bella e convincente Luxury Liner, del suo grande idolo Gram Parsons. E tante altre chicche.

Be’, questa ristampa mi farà sentire anche un po’ più vecchio, ma chissenefrega. Mi conferma che dieci anni fa non presi una cantonata scrivendo che questo era un gran disco. Lo era allora e lo è anche adesso. Bravo (B)Ryan… God bless you...

Tuesday, February 26, 2008

School of rock

Ieri sono stato in un importante liceo milanese. Alcuni ragazzi mi avevano invitato a tenere una sorta di lezione sulla musica rock. Con bene in mente il formidabile protagonista del film School of Rock, ho accolto con piacere l'invito. Avevo già fatto in passato un paio di incontri sul tema in altrettante scuole e l'esperienza mi ha sempre affascinato.

Trovarsi di fronte ragazzi nel periodo più importante della vita, quello che va appunto dai 14 ai 18 anni, in cui ciò che viene loro trasmesso rimarrà - nel bene e nel male - poi per il resto della vita, è una sfida troppo bella per rinunciarvi. Se è vero che i ragazzi di oggi, bombardati da mille suggestioni mediatiche, fanno fatica a tenere desto il livello di attenzione, è altrettanto vero che i loro sguardi spalancati e la loro curiosità sono ancora qualcosa di concreto. Così è stato.

Questo incontro si è tenuto nell'ambito della loro annuale settimana autogestita. Mentre aspettavo di entrare nell'aula, guardavo con un po' di tristezza il programma di questo evento: incontri su Milano e la mafia, incontri sulla sessualità consapevole, incontri sui problemi condominiali (!), incontri su Milano "città da cui fuggire"... insomma, quanta astrazione e quanta ideologia... Un educatore dovrebbe avere chiaro che a un ragazzo di 16 anni la cosa più importante è cercare di comunicare il gusto e la passione per il bello, se a 16 anni gli si riempie la testa che la città in cui vive è uno schifo da cui fuggire, quale fiducia nella vita gli potrà rimanere.

Dentro, c'era più del doppio degli studenti che gli organizzatori si aspettavano, e credo ci siamo divertiti parecchio. Non ho potuto fare a meno di partire con una delle mie citazioni rock favorite, quella da un brano di Bruce Springsteen: "Abbiamo imparato più da un disco di tre minuti che da tutto quello che ci hanno trasmesso a scuola", e così ho impostato la mia lezione: una canzone rock può, a volte, dire di più le esigenze del nostro cuore (felicità, desiderio di giustizia, affettività) del freddo nozionismo di un certo tipo di educazione scolastica.

Ho fatto loro vedere video dei Clash (London Calling dal vivo), Springsteen (Thunder Road), Bob Dylan (Like a Rolling Stone), Nirvana (Come as you are), qualche estratto da Monterey (California Dreamin' e My Generation degli Who) e proprio come il protagonista di School of Rock mi sarebbe piaciuto dare loro come compito di ascoltarsi tutta la discografia dei Ramones...

Visto che siamo in tema, se qualcuno di voi si trova dalle parti di Torino, magari potrà divertirsi a partecipare alla serata che con l'inarrestabile Ezio Guaitamacchi faremo questo venerdì, il 29, a Carmagnola. Titolo: Bob Dylan, il Picasso del rock. Ci sarà musica dal vivo (Ezio e la meravigliosa Brunella), io cercherò di parlare il meno possibile e gusatrmi la cucina ebraica preparata per l'occasione dallo chef. La serata infatti è nell'ambito di una rassegna musical/culinaria nata da un’idea di Eliodoro Pettiti e promossa dal Comune di Carmagnola (Torino). Presso la Cascina Vigna, Via S. Francesco di Sales (Carmagnola).

Monday, February 25, 2008

Ragged glory

C'erano una volta dei giganti che calpestavano questo nostro pianeta. Nessuno sa da dove fossero arrivati e chi essi in realtà fossero davvero. Vagarono su qesta terra per un po', lanciando al cielo melodie strazianti e violente rasoiate di rabbia per la nostalgia di una casa che avevano perso. Come erano venuti, sparirono e nessuno sentì più le loro voci o udì i loro passi.
Uno di questi giganti, misteriosamente, si è materializzato ieri notte nella periferia tirata a lucido della nuova Milano, e come l'Opera Star di cui cantava in uno dei suoi dischi più discussi, ha scelto la superba sede del teatro (dell'opera) degli Arcimboldi per intonare il suo ultimo canto.
Vecchio, un po' di pancetta, le movenze goffe, Neil Young aveva nello sguardo allucinato tutta la pazzia di una mente geniale ancora ben lontana dallo spegnersi. Sorta di Dr Jekill e Mr Hyde, si è seduto circondato da mezza dozzina di chitarre acustiche e anche un banjo, per affidare il canto di una generazione sconfitta a un repertorio, nel primo set acustico, a parte l'iniziale From Hank to Hendrix, interamente anni 70. Da Ambulance Blues, quasi dieci minuti in cui potevi sentire se uno spillo cadeva a terra, tanta era la tensione generata dalla stupefacente performance dell'artista di una tensione a tratti insostenibile, passando per una pianistica e formidabile A Man Needs a Maid, e poi pagine di dolcezza antica come Harvest, Dont Let it bring you Dow, Old Man, Heart of gold e, al banjo, Mellow My Mind.
Pura bellezza. La voce, lancinante, c'era tutta.
Il secondo set, ora diventato Dr Jekill, lo vedeva vestito di nero, con la band schierata in un angolo, ripartire con la convinzione che sì, la ruggine possa essere spazzata via: dall'iniziale, portentosa Mr Soul a una furibonda Down by The River -l'unico hippie che cantava "giù al fiume, ho sparato alla mia bambina...") e una Hey Hey My My con schitarrate da terrorizzarti. No Hidden Path, dall'ultimo, brutto disco, dal vivo vola invece altissima: sono le parti di chitarre più abrasive, violente, come un viaggio in LSD andato a male, mentre lui si volge alla destra del palco e sorta di Don Chischotte contro i mulini a vento, si lancia contro un riflettore giallo che lo illumina e un potentissimo ventilatore. In questa battaglia epica, la chitarra geme dolorante e lui insiste ad andare contro vento:il risultato sono quasi venti minuti di urla impazzite, nella più coinvolgente cavalcata rock mai vista su di un palcoscenico.

Se alcuni dei colleghi della sua generazione hanno scelto di arrugginire, Neil Young ha scelto di andarsene "fuori dal blu, dentro nel nero" con grazia, dignità e soprattutto gloria elettrica.

Wednesday, February 20, 2008

Run baby run


Milano, un qualche mese del 1998, sala conferenze stampa della sua casa discografica. Ci saranno cento giornalisti, Sheryl Crow è la "hot thing" della scena rock femminile degli anni 90. Io sono qua essenzialmente perché sul suo nuovo disco che sta presentando c'è un pezzo inedito di Bob Dylan, Mississippi, che il buon Zimmerman ha pensato di regalarle. Non sono ancora stato conquistato dalla sua musica, anche se l'ho vista in concerto nel 1994 e mi era piaciuto parecchio. Ma mi conquistano, pur nel casino che c'è qua, il suo fascino, la sua dolcezza, la sua onestà. Alla fine riesco a farmi autografare una sua foto. È il massimo che riesco a fare, per adesso. In breve, mi conquisterà anche la sua musica.

Milano, primavera 2002, camerini di Quelli che il calcio. Lei è evidentemente irritata dall’accoglienza tipica dei nostri presentatorini – che manco sanno due parole di inglese - e comichetti – che manco fanno ridere un gatto morto – che l’hanno martoriata durante la sua apparizione di pochi minuti prima. È qui per presentare il suo disco più glamour, il bel Come On Come On, ma di persona non è affatto glamour. Anzi. Per lei non è uno dei suoi momenti migliori, arriverà a confessarmi di essere sul punto di abbandonare il mondo della musica. Parliamo di Bob Dylan e di Joe Strummer e riesco a tirarle un po’ su il morale. In ogni caso, seppur piccolina di statura, è bellissima.

Londra, luglio 2005. Quando entra nel salottino dove sto aspettando di intervistarla, anche a un (vecchio) scafato come me, quasi cade la mascella. Non è bella (seppur piccolina di statura…), è bellissima. Radiosa e radiante gioia di vivere. Al termine dell’intervista mi dice che sta per partire a seguire il Tour de France con il suo grande amore, il ciclista americano, che l’ha resa finalmente una donna felice. Tiro fuori la mia vecchia macchina fotografica, lei è tutta contenta – mi dice – di vedere ancora qualcuno con una macchina a pellicola invece delle nuove digitali che stanno invadendo il modo. Peccato che la macchinetta non funzioni. Niente foto con Sheryl.

Milano, febbraio 2008, dieci anni dopo. Non c’è più il campione del ciclismo che davanti alla proposta di matrimonio ha pensato bene a defilarsi. Per fortuna non c’è più neanche quel tumore al seno che l’ha colpita proprio poche settimane dopo quella rottura. Un periodo difficile, di quelli tosti. Adesso c’è da presentare un nuovo, gran bel disco, Detours. Nel corridoio del lussuoso albergo, un ascensore mi si apre improvvisamente davanti mentre aspetto di incontrare e intervistare nuovamente Sheryl Crow. Come sarà, questa volta? Immagino sempre bellissima. Due “stangone” che parlano in chiaro americano attirano il mio sguardo, ovviamente, ma avverto una presenza. Un’ondata di carisma mi costringe a volgere lo sguardo e non posso fare a meno di notare anche lei, bellissima ancora una volta e con l’aria incazzosa. Intercetta il mio sguardo e siapre in un caloroso sorriso. Quando la raggiungo nel salottino, dice di avermi riconosciuto, là in corridoio. Wow.
Facciamo l’intervista. Avrà perso il grande amore, ma ne ha trovato uno migliore, e che soprattutto non finisce mai: quello di una madre per il proprio figlio. Del piccolo di pochi mesi che ha da poco adottato parliamo a lungo.
Adesso ho anche io una camera digitale ma – hey guada un po’ – non funziona neanche questa. Mi soccorre un amico della casa discografica. Il risultato è questo: la bella e la bestia…
E pensare che siamo coetanei, lei del febbraio 1962, io di giugno dello stesso anno. È proprio vero che il rock’n’roll fa bene alla salute… ‘Till the next time, Sheryl. Non smettere di correre.

Friday, February 15, 2008

We can change the world (?)

"I think that the time when music could change the world is past. I think it would be very naive to think that in this day and age. I think the world today is a different place, and that it's time for science and physics and spirituality to make a difference in this world and to try to save the planet".
(“Credo che il tempo in cui la musica poteva cambiare il mondo sia finito. Credo che sarebbe davvero infantile pensare una cosa del genere in questa epoca. Credo che il mondo oggi sia un posto differente e che sia il tempo per la scienza, la fisica e la spiritualità di fare la differenza e cercare di salvare il pianeta”).
È interessante che Neil Young abbia detto queste cose proprio alla presentazione del suo film CSNY: Deja Vu, documentario che racconta il Freedom of Speech tour che lui e Crosby, Stills e Nash hanno tenuto nel 2006, uno degli eventi più altamente politici che la storia della musica rock recente ricordi, messo in piedi per attaccare e denunciare l’amministrazione Bush.
Aggiungendo poi: “I miei amici mi dicono di non smettere. Non smetterò. Sono convinto che questo sia il momento di operare dei cambiamenti. Ma so anche che non sarà una canzone. Forse lo era, ma oggi non lo è più. Sto cercando il carburante della gente, ciò che la spinge a vivere e a muoversi. Lo troverò? Sì. Non so nemmeno perché ho scelto di dare una mano a rivelare una cosa di tale portata. So che posso solo scrivere una canzone quando lo avrò trovato. Fino ad allora posso scrivere una canzone sulla ricerca. Ma una canzone da sola non cambierà il mondo. Eppure, continuerò a cantare”.
Personalmente non ho mai creduto che una canzone rock abbia cambiato il mondo. Non so da dove Neil Young abbia preso la nozione che in passato sia stato così. Forse da una frase che disse una volta Bob Dylan (che, come sempre, va letta in modo piuttosto ironico e cinico): “Crosby Stills Nash e Young, loro sì che hanno fermato la guerra in Vietnam con le loro canzoni”. Ho sempre pensato che una canzone di “protesta” (termine orribile) o “politica” al massimo riflettesse quello che già stava accadendo nella società. Canzoni come Ohio, appunto di Neil Young. Oppure rivelasse una visione ideologica del tutto parziale e chiusa in se stessa, come Fascist Pig dei Suicidal Tendencies. Le canzoni di protesta la maggior parte delle volte vengono ascoltate da chi è già su una certa lunghezza d’onda. Guardate il grande dispiego di mezzi che fu Il Vote for Change Tour capitanato da Bruce Springsteen nel 2004, quando un gruppo di artisti girò l’America per sostenere la candidatura di John Kerry contro quella di George Bush. Il risultato fu la vittoria di Bush. Perché a quei concerti di Springsteen & Co. ci andavano solo, ovviamente, persone che già avevano deciso di votare per Kerry. Insomma, “predicare ai convertiti”, come si usa dire.
Forse, se proprio devo pensare a canzoni rock che hanno cambiato il mondo, credo abbiano avuto più impatto brani come Tutti frutti di Little Richard, Thats Alright Mama di Elvis o Like A Rolling Stone di Bob Dylan. Canzoni che hanno avuto una forza d’urto formidabile sulla società, spingendola a muoversi verso direzioni sconosciute. Ma anche in tal caso, esse hanno riflesso dei cambiamenti che comunque erano già in atto e che probabilmente sarebbero accaduti ugualmente, magari in forma diversa.
Nessuno, in Occidente, sa o si ricorda di quella che invece è passata alla storia come la “singing revolution”, la “rivoluzione cantante”, avvenuta nei Paesi Baltici (Estonia, Lettonia e Lituania) tra il 1987 e il 1990. Nel tentativo di scrollarsi di dosso quello che era stato il brutale regime sovietico, il 14 maggio 1988 al Tartu Pop Music Festival in Estonia, vennero improvvisamente eseguite in barba alla polizia russa presente cinque canzoni patriottiche: il pubblico presente si unì in massa ai musicisti rock sul palco, unendo le loro mani, e cominciò una serie di eventi epocali. Notte dopo notte, ovunque ci fosse un concerto o anche per le strade, migliaia di cittadini si univano a musicisti rock cantando canzoni che il regime di occupazione aveva proibito per decenni. La cosa si propagò anche negli altri due Paesi vicini,fino alla vittoria (esiste anche un film su questa storia, vedi immagine in questo post).
Per dirla tutta, forse davvero alcune canzoni rock hanno (in parte) cambiato il mondo. Neil Young si scorda però di dire che erano canzoni così belle e significative – ad esempio quelle citate prima e tante altre, magari Anarchy in the UK dei Sex Pistols – che era proprio inevitabile che ottenessero risultati clamorosi. Un pezzo, scritto come semplice canzoncina ballabile per innamorati come Dancing in the Streets di Martha and the Vandellas, nel 1964 divenne il canto di migliaia di manifestanti per i diritti della gente di colore. Oggi nessuno, Neil Young incluso, sa più scrivere canzoni di tale portata.
Mi piace piuttosto che Neil Young sia ancora così appassionato alla propria musa e a ciò che essa davvero significhi: cercare l’anima del mondo, cercare di svelare il mistero della vita. Anche solo con una canzone. Le canzoni “politiche” passano come passano gli eventi di cui esse raccontano. Le grandi canzoni che osano dare un volto al mistero rimangono, almeno fino a quando il mistero non verrà svelato. O qualcuno si accorga che il mistero ha già preso un volto umano e si è fatto compagnia all’uomo già da tempo. Da circa duemila anni e poco più.

Tuesday, February 12, 2008

Il mio amico Simone

Su una collina, che sovrasta la periferia di Chiavari, appoggiato tra gli alberi di ulivo e l’autostrada (che da queste parti, così avare di spazio, nessun centimetro di terra disponibile viene sprecato) c’è un piccolo cimitero. La brezza dal mare vicino, quassù, riporta tutti i profumi di queste campagne in cui sono cresciuto, ormai tanti anni fa.
A questo cimitero ci si arriva a piedi, dalla chiesetta sottostante, inerpicandosi fra minuscoli viottoli tipici della campagna ligure e vecchie case contadine, o per un ancor più scoscesa strada semi-asfaltata. Lassù c’è un silenzio accogliente, che è bello fermarsi qua anche a lungo.
Qua, fra tombe di austeri personaggi antichi, vecchi genovesi che hanno costruito questa città, c’è ne è una su cui sono posati tanti giocattoli: macchinine, peluche, ricordi di una infanzia bella. È lì che riposa il mio amico Simone.

Di lui ho un solo ricordo, così come sempre mi capitava di vederlo, quando andavo a trovare la sua famiglia: sorridente e felice, nonostante la malattia e le durissime sofferenze sopportate nei suoi 6, brevi anni di vita. Lui ha testimoniato come la vita sia una cosa che valga sempre essere vissuta, specialmente quando hai una famiglia e tanti amici che ti accolgono così come sei, senza pretendere che tu sia diverso da come invece sei stato voluto.
In questa epoca in cui ciascuno pensa sia suo diritto decidere le regole della vita, quando questa deve cominciare e quando deve finire, pretendendo in modo osceno se un altro ha diritto di venire al mondo e in quale modo bisogna essere per poterci venire, al mondo, Simone e i suoi genitori sono stati la testimonianza che tutto ci è dato, ma nulla ci appartiene. E che non c’è istante della vita che non valga la pena essere vissuto.

Così adesso, proprio nello stesso modo con cui lo hanno accompagnato nella sua esistenza terrena, i genitori di Simone e i suoi amici hanno messo su questa cosa, che vuole far sì che la vita di tutti sia sempre accolta: si chiama Associazione Simone Tanturli, perché a quel bambino è dedicata, e lotta perché a tutti, anche ai bimbi che hanno problemi e handicap fisici, sia dato il diritto di andare a scuola, e nella scuola che i genitori pensano sia meglio per lui. Perché lo Stato italiano ancora fa discriminazione, nonostante la Costituzione dica altrimenti, a proposito della libertà di educazione. Questa Associazione cerca fondi per la sua battaglia, ed è una buona battaglia. È per i diritti dei bambini, è per il diritto alla vita, ed è per il diritto alla libertà di educazione, che senza libertà di educazione ai nostri figli si lasciano solo mostruosità ideologiche e una vita senza il senso dell'accoglienza del prossimo.

Così se passate da questo blog fateci un pensiero, e magari iscrivetevi anche voi. Per ogni info: gliamicidisimone@alice.it.
Il mio amico Simone ne sarebbe contento, ma lui contento lo era sempre.

Friday, February 08, 2008

Compagni di viaggio


E allora “il mite” Francesco De Gregori ha anche un’anima punk. Lo scopriamo verso il finale del concerto, quando, tornato sul palco per eseguire La donna cannone, mentre già partono le prime note di pianoforte, uno spettatore dalle prime file si alza per scattare alcune foto all’artista. Le prime file al Teatro Smeraldo vogliono dire che se solo allunghi un braccio puoi toccare chi è là sopra: stupisce che non ci sia in giro neanche un membro della security. De Gregori con il braccio fa “no” allo spettatore che incurante continua a scattare; si volta, Francesco, alza le braccia al cielo sconsolato per poi vedere l’accanito fotografo ancora là davanti intento all’opera. È allora che il cantautore parte di scatto verso di lui, lo afferra per un braccio e lo spintona con una certa forza. Bella lì, Francesco, ci sei piaciuto e al diavolo l’immagine del poeta che sta sulle nuvole. Insomma, questo non è esattamente un concerto dei Tokio Hotel e ci rendiamo conto quanto possa rompere le palle (e la concentrazione di chi deve cantare una canzone) certo modo di fare. Tornato al microfono, De Gregori dice “Dovete scusarlo, dovete scusarmi” e attacca applauditissimo il brano in questione.

Trent’anni e poco più dopo essere stato assalito sul palco proprio nella stessa città (ricordate il tristemente famoso processo al Palalido?) De Gregori è pronto a difendersi, ma soprattutto a fare grandissima musica. Con una band formidabile che ha superato alcune incertezze del passato, presenta un primo tempo dai toni delicati, con pedal steel, violino, mandolino, belle chitarre dai sapori jazz e bluesy a colorare le sue interpretazioni. Ma chi l’ha detto che De Gregori stravolge le sue canzoni dal vivo? Forse una volta. Oggi ha acquisito una tale maturità espressiva che non c’è più bisogno di trucchetti “dylaniani”: le interpretazioni sono fedelissime, quello che cambia – in modo magistrale – è la tessitura di fondo, il background che sfodera la sua band, raffinatissimo ensemble che pesca, questo sì, nella tavolozza dei mille colori dylaniani, specialmente quello di un disco come Blood On The Tracks.
In Raggio di sole, ad esempio, le chitarre ricamano l’arrangiamento che fu di You’re A Big Girl Now; Compagni di viaggio, come anche nel testo, è una splendida rilettura di Simple Twist Of Fate mentre Rimmel si conclude con una coda elettrica che è ovviamente Like A Rolling Stone. Da brivido, poi, l’esecuzione da solo, seduto al pianoforte, della bellissima Sempre per sempre, mentre altrettanto da brivido è la poetica La valigia dell’attore, con il testo continuamente sottolineato da scroscianti applausi.
Il secondo tempo è più ruvido e più rock, aperto da una incalzante Pezzi (in cui parole sputate con apparente nonchalance come “pezzi di opposizione, pezzi di parlamento” in questi giorni di politica impazzita suonano quanto mai attuali), proseguito con il rock-blues apocalittico di Numeri da scaricare, intramezzato da una pimpante Ilbandito e il campione in cui a un certo punto De Gregori e band inseriscono Ghosts Riders In The Sky di Johnny Cash e “portato a casa” in gloria con l’assalto blues di Buonanotte fiorellino, in cui De Gregori improvvisa lunghe parti all’armonica co grande divertimento suo e di chi ascolta.


Ci incontriamo per un breve saluto, prima del concerto, nel camerino, quel “camerino già vecchio tra un lavandino e un secchio, tra un manifesto e lo specchio”. È in grandissima forma, come sempre semplice, affabile, con lo sguardo di chi è capitato lì per caso, e allo stesso tempo pronto alla sfida (“Be’, siamo a Milano, no? Bisognerà fare un grande concerto per questo pubblico allora”), parliamo del nostro comune “amico” (“Accidenti, ho visto che Dylan va a suonare in Messico, avrei proprio voluto andarci, ma devo lavorare”) e ancora una volta i nostri gusti viaggiano sulla stessa onda (“Il film di Todd Haynes…. Non mi è piaciuto per niente!”). È andato a vedere la mostra dei dipinti di Bob che è stata recentemente inaugurata in Germania, beato lui. Ma è quasi ora di andare “a vedere lo strano effetto che fa la mia faccia nei vostri occhi e quanta gente ci sta…”. E così va avanti il suo never ending tour… Goodbye, good luck, is been good to know you… Ma attento ai fotografi improvvisati…

Tuesday, February 05, 2008

"Io" è un altro


"La felicità non è reale se non è condivisa"

Into the Wild è stato una affascinante sorpresa. Mi capita di rado, con i film: in questo caso, non solo per gli splendidi scenari naturali che lo costituiscono in gran parte. Dopo aver visto sui titoli di coda che la storia era ispirata a un fatto vero, ho fatto alcune ricerche. Il film di Sean Penn (uno che deve avere una particolare ossessione per le storie che hanno a tema la perdita dei figli e il conseguente dramma dei genitori – questo ne è parzialmente ispirato, 3 giorni per la verità di cui anche era regista ne faceva il tema, ma anche 21 grammi di cui era il protagonista aveva questo terribile soggetto) è una libera adattazione della storia (vera) di Chris McCandless, giovane laureato che abbandona la società per ricercar se stesso nella natura selvaggia, ponendosi limiti estremi di sopravvivenza. Morirà di fame, senza neanche sapere che a pochi chilometri da dove si trovava c’era una autostrada perché non aveva con sé alcuna mappa (“Many Alaskans react with rage to his stupidity. You'd have to be a complete idiot, they say, to die of starvation in summer 20 miles off the Park's Highway” scriverà il giornale Anchorage Daily News all’indomani del ritrovamento del suo corpo).
Se a tratti il film (e le canzoni, peraltro musicalmente molto belle, di Eddie Vedder; una in particolare, Society, neppure scritta Vedder, delle altre piace il rimando al mistero insito nella natura - Society e Guaranteed sono state aggiunte al player in fondo al blog) sembrerebbe sottolineare soltanto la scelta “alternativa” di ribellione contro genitori malvagi e società consumistica, sottolineatura anarco-no global alquanto banale e scontata, altresì il regista è bravissimo a lasciar trasparire altri concetti.

Di fatto, nella sua fuga dalla realtà, il giovane protagonista è continuamente costretto a fare i conti con la realtà stessa, ad esempio la natura ostile (peraltro magistralmente descritta, in altri momenti, come la voce possente di "un altro", quella che più delle altre incontrate nella storia sembra suggerire al giovane che la vita non è una fuga, la voce più possente e la più inquietante, allo stesso tempo affascinante e spaventosa). Ma soprattutto gli incontri che fa di continuo, incontri in cui lui si lascia abbracciare con grande libertà, tranne sfuggirne all’ultimo momento. Ma saranno incontri che lasceranno un segno. Prima il simpatico agricoltore che gli offre lavoro, che si dimostra un affettuoso confidente; poi la coppia di hippie, che ammette candidamente che “essere un hippie non è tutto pace & amore”. Anzi. E che, perso loro stessi un figlio, rivedono in lui il figlio perduto, cercando di fargli capire quanto importante sia il rapporto figli-genitori. Quindi la ragazzina hippie che si innamora di lui e che gli si offre; con un atteggiamento quasi “monastico” (la figura stessa del protagonista ricorda in un certo modo gli antichi eremiti che fuggivano i rapporti carnali e la società) lui la rifiuta perché solo 16enne. Le propone in cambio di fare qualcosa d’altro insieme: cantare una canzone (Angel of Montgomery, di John Prine) durante le serate di festa della comune hippie dove si trovano. Come dire: costruiamo qualcosa insieme, invece di sciupare tutto.

Infine l’anziano ex ufficiale dei marines, che ha perso anch’egli la moglie e il figlio, e che commosso dal ragazzo gli chiede se possa adottarlo, non prima di avergli ricordato che “potrai avere dei problemi con la chiesa, ma ricordati che Dio ci ama tutti, così come siamo” (aggiungo con un po' di ritardo questo bellissimo passaggio, che Federico mi ha ricordato nei commenti a questo post, nella medesima scena: "Quando si perdona si ama, e quando si ama si é illuminati dalla luce di Dio." L'anziano Ron Franz (Hal Holbrook) al giovane Chrstopher McCandless (Emile Hirsch), in quel momento il cielo nuvoloso si apre e un raggio di sole li illumina).

Nella solitudine totale dei boschi dell’Alaska che lui aveva sognato lungamente, convinto di trovare l’autentica libertà, libero da ogni rapporto, libero da ogni regola e costrizione, ispirato dalle letture anarco-libertarie di Henry David Thoreau, e del suo scrittore favorito, Jack London, Chris capisce alla fine l’unica verità che conta: è attraverso i rapporti con “un altro” che ci definiamo come persone. La bellissima frase che scrive sul suo diario è il momento di ritrovata unità con il mondo: “La felicità non è reale se non è condivisa”. Troppo tardi, però. La natura lo ha imprigionato in quel finto mondo perfetto e non ne uscirà più.
I cacciatori che lo troveranno un paio di settimane dopo la morte, leggeranno questo drammatico biglietto fuori del bus in cui viveva (quello che si vede nel film è proprio quello dove McCandless aveva vissuto per mesi e trovato la morte, oggi meta di pellegrinaggio di molti giovani): "S.O.S. I need your help. I am injured, near death, and too weak to hike out of here. I am all alone, this is no joke. In the name of God, please remain to save me. I am out collecting berries close by and shall return this evening. Thank you, Chris McCandless. August?".

Non importa: le sue ultime parole saranno colme di gratitudine nei confronti della vita:
"I HAVE HAD A HAPPY LIFE AND THANK THE LORD. GOODBYE AND MAY GOD BLESS ALL!".

(Due immagini prese conl'autoscatto del vero Chris McCandless, vicino al "Magic Bus" dove venne trovato morto)

Sunday, February 03, 2008

Il fuoco della poesia

C'erano una volta i profeti,uomini coraggiosi e solitari che incuranti delle conseguenze alzavano forte la loro voce per rivelare tutto l'orrore e le storture contro cui correvano i loro fratelli. Oggi che il nostro mondo è gettato a capofitto nell'orrore nelle storture, Davide Rondoni - a cui non so se piaccia farsi chiamare profeta, ma poeta sicuramente sì, e lui lo è un poeta e anche bravo - alza forte la sua voce coraggiosa e irata (nell'elenco di link qui a fianco, trovate anche quelo relativo al suo sito personale). Il fuoco della poesia, suo ultimo libro, non è una antologia della poesia commentata. E' di più: è un viaggio nella nostra vita moderna e nella società in cui ci troviamo, società i cui maestri del pensiero e della politica hanno annientato il senso del bello e il gusto stesso di vivere, dandoci in cambio nichilismo e vuoti a rendere di ideologie di terza mano. Di fronte a denunce come "l'Italia è il Paese più vecchio d'Europa. Nella classifica mondiale gli italiani sono superati solo dai giapponesi", lui risponde con "un uomo che non appartiene a nulla di più grande di sé" - dice Rondoni - "difficilmente trova l'energia per donare la vita. Si intorciglia in ragionamenti, in paure, in scetticismi spesso mascherati da buon senso, ma che nascondono poca disponibilità al sacrifico e al coraggio". Profeta, voce nel deserto.

Rondoni ci conduce in modo unico, richiamando al valore della bellezza come unica possibilità contro il nulla che ci attanaglia. La sua arma è la poesia e "una frequentazione, una familiarità, una scandalosa, continua educazione al senso del bello e del giusto" scrive. E ancora: "I poeti sanno quella commozione di fronte a qualcosa di vero.La commozione dinanzi a qualcosa di bello, di giusto, rende quella cosa cara. Tale capacità di commuoversi è motore di civiltà, è la cosa più concreta, più operativa che ci sia nel mondo degli uomini. Concreta e in lotta con le altre forze operative: il desiderio di potere, di sfruttamento, di vanità".
Oppore la bellezza al potere, al nichilismo e allo strapotere imbecille del Grande Fratello: tante sono le poesie, anche sue, e poi quelle di TS Eliot, di Mario Luzi, di Baudelaire, di Leopardi, che troviamo in questo libro: "C'è una diseducazione imperante, vasta, piovresca, che sta allontanando la percezione dei nostri giovani da ciò che ci ha fatti almeno qualche volta esultare e commuovere".

Quando andavo a scuola, i miei insegnanti mi hanno fatto odiare le poesie. Ho dovuto rifugiarmi nella loro versione a scartamento ridotto che erano le canzoni rock, e lì vi ho trovato quelle cose di cui parla Rondoni. Sono stato fortunato, ma oggi nessuno fa ascoltare ai ragazzi non dico le poesie, ma nemmeno le buone canzoni rock. E allora che bello sentirsi dire che "la poesia non nasce in strani laboratori della lingua, tra amanti di libri polverosi. Nasce per la strada e ovunque quando un tizio che può avere una vita normale o speciale o una vita così così, poco importa, si lascia colpire dal continuo avvenimento dell'esistenza".
E' una sfida per la vita: "Non c'è niente di peggio, diceva il grande Péguy, che avere un'anima bell'e e fatta. Un'anima confezionata. La poesia rompe le confezioni".

Saturday, February 02, 2008

Canzoni dell'esperienza

C'è un disco che mi ossessiona, sin da quando uscì, 31 anni fa. Uno di quelli che ho ascoltato in tempo reale e ancora non ho smesso, oggi più che mai, di ascoltare. Non è necessariamente il più bello, musicalmente, che questi tre signori hanno fatto. Perché il loro esordio, ad esempio, uscito nel 1969 resta insuperabile, non solo per loro, ma anche per tanti blasonati colleghi.

Sto parlando di Crosby, Stills e Nash, che nel 1977 fecero uscire quello che era a tutti gli effetti solo il loro secondo disco come trio, a otto anni di distanza dal primo CSN, avventure con Neil Young a parte. In piena era punk, ecco quelli che allora venivano già descritti come "dinosauri rock" farsi ritrarre belli serafici a bordo di un lussuoso yacht di alto bordo appartenente a David Crosby.
Per la cronaca, l'lp originale aveva una foto leggermente diversa, con i tre colti in atteggiamento serioso; il cd li vede invece sghignazzare beotamente. Ai tempi, nelle recensioni, solo la foto di copertina faceva gridare allo scandalo. La si paragonava con quella dell'album del 1969, dove i tre, capello lungo e vestitacci consunti da hippie, sedevano su un malconcio divano. Ecco, dicevano i moralisti del rock, adesso sono tre ingrassati miliardari che si fanno ritrarre su uno yacht. Tempi tristi, i 70...

Musicalmente, CSN II, come venne chiamato, è il disco dell'inglese: Graham Nash, a confronto con l'intellettuale Croz (Crosby) e il formidabile chitarrista Stills, era sempre stato considerato l'anello debole, il lato pop della band. Qui, invece, sfodera forse le più belle composizioni della carriera, e sicuramente le migliori del disco, mostrando una classe e unamaturità di livello altisismo: quasi tutte meste esecuzioni al pianoforte, ecco la maestosa e lisergica Cathedral; le malinconiche e superbamente tenui Carried Away e Cold Rain; il country-rock di alto pregio di Just a Song Before You Go.
Crosby e Stills si distinguono solo in due brani; il primo nella magica e inusuale per lui acustica In My Dreams; il secondo in una autentica perla anch'essa solo voci - dispiegate in modo oserei dire sinfonico - e chitarra acustica, See the Changes. Il resto è robina un po' light jazz, come si usava nei tardi anni 70 in California, e un po' rock-blues e un po' latinoamericana; di Stills piace anche I Give You I Give Blind, molto alla Paul McCartney del periodo, grintosa e con curioso accompagnamento d'archi.

Allora perché questo disco mi ossessiona? Perché combina melodie inusuali e testi tra i più belli e intelligenti della storia del rock. Avrei potuto metterlo nel post che ho dedicato a Blood on the Tracks e a Tunnel of Love, tanto questo album è similare a quelli per contenuti e visione. Anch'essi superata la soglia dei trenta, si trovano "nel mezzo del cammin di nostra vita" e si pongono domande pressanti:"guarda i cambiamenti", come dice Stills. La rock star matura si ferma a riflettere sula sua vita vorticosa: "Dieci anni cantando a voce alta, non ho mai guardato se qualcuno stava ascoltando, poi sono caduto da una nuvola, ho picchiato terra e ho notato che mancava qualcosa. Adesso ho qualcuno, lei mi ha visto cambiare e diventa più difficile man mano che invecchi. E non conosco la risposta e si allontana sempre più, man mano che ti avvicini". Parole forti, coraggiose, di autodenuncia, di chi torna alla realtà dopo essersi perso nella nebbia del divismo rock.

Gli fa eco Crosby con l'affascinante e ipnotica Shadow Captain, dove si pone le domande fondamentali della vita, chi siamo, dove stiamo andando e chi ci guida per il nostro cammino, domande che raramente si trovano così lucidamente esposte in un disco rock. Chiedendo al capitano misterioso, avvertito in modo inevitabile, che finalmente si mostri: "Chi guida questa nave sognante attraverso i mari, che gira e si volta a seconda di come tu vuoi; parlami, ho bisogno di vederti in volto, capitano ombra in uno spazio oscuro. Potremmo fermarci e cercare me stesso tra quelli che giocano sul molo?"

Graham Nash cerca di attaccarsi a volti conosciuti e poi persi nella folla, nella tenue e deliziosa Cold Rain, mentre sente la vita scivolargli sotto ai piedi: "Pioggia gelata sul mio viso, il lavoro è finito, ecco la corsa, la gente se ne va a casa. Aspetta un secondo! Non ci conosciamo? Assomigli a qualcuno che conoscevo, viveva qui ma se ne è andato, quando ha creduto di trovare di più". La pioggia gelata la tocchiamo fin nelle nostre ossa, mentre Nash dipana questa fragile meolodia e rimane lì, nella solitudine immensa che si tocca anche nella bella Carried Away. E poi la superba Cathedral, tre cambi di tempo in crescendo mentre si racconta della visita in acido nella cattedrale inglese di Winchester e anche qui si pongono domande pressanti: "E adesso sono in piedi sulla tomba di un soldato morto nel 1799 e il giorno in cui morì era un compleanno e ho notato che era il mio e la mia testa non sa più chi io sia".

Ci sono ancora tante bei momenti in questo disco. Che non sarà il migliore di CSN, ma certamente è il più onesto, a cominciare dalla bistrattata foto di copertina. Scopriteli da soli, questi momenti, se ne avete voglia. Attenzione però a non rimanere ossessionati anche voi da questo disco per i prossimi trent'anni...

A questo link troverete una lunga intervista con i tre CSN, fatta ai tempi dell'uscita del disco dal mitico Cameron Crowe (già, il regista di Almost Famous). Consigliata.
http://crosbystillsnash.tripod.com/page26.html

Sangue nei solchi del cuore

“Bob Dylan è in città, c’è bisogno di catturare qualcosa di magico”. La “città” è ovviamente New York, al telefono John Hammond, il più gran...

I più letti