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Thursday, April 11, 2013

Wave thou art high wave thou are music




Che ci fa quella signora un po' male in arnese, in Piazza San Pietro? Le prime foto che appaiono sui media la mostrano con lo sguardo intensamente rivolto verso una direzione precisa. Intorno a lei guardie svizzere e qualche "men in black", agenti dei servizi di sicurezza facilmente identificabili per il look e l'atteggiamento. Siamo in Piazza San Pietro, e la signora dai lunghi capelli rossastri con qualche spruzzo di bianco vestita trasandata ha il volto familiare. La foto successiva non lascia dubbi, ma ne apre altri: è Patti Smith, l'icona della musica punk, trasgressiva, ribelle, la ragazza che lanciò la rivoluzione punk di metà anni 70 salvando la vita al rock stesso, che stava morendo di auto compiacimento e noia.



Adesso non è più quella ragazza, ha superato i 60 anni, ma il volto è sempre quello di una vagabonda del punk, persa tra la Bowery e il Greenwich Village. Ha un sorriso di felicità totale, mentre stringe la mano a un signore vestito di bianco che sorride altrettanto felicemente. Rock the Pope: quando il punk incontra la Chiesa. Patti Smith stringe la mano a Papa Francesco. Scioccante per molti versi, questa immagine, ma non così tanto se si conoscono i due protagonisti di questa storica stretta di mano.

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Saturday, February 27, 2010

Clouds in my coffee

You had me several years ago
When I was still quite naive
Well, you said that we made such a pretty pair
And that you would never leave
But you gave away the things you loved
And one of them was me
I had some dreams they were clouds in my coffee
Clouds in my coffee, and

You're so vain
You probably think this song is about you
You're so vain
I'll bet you think this song is about you
Don't you? Don't you?



"Uno dei grandi misteri della musica è stato risolto", dice l'annunciatrice di questo programma televisivo, con grande enfasi. Oddio, non è che fosse poi uno di quei misteri che ci facevano perdere il sonno, per quantro intrigante.

In ogni caso, sì ci siamo chiesti tutti per decenni se il macho spezzacuori protagonista della bellissima You're so vain della ancor più bellissima (anche oggi, a 60 anni suonati) Carly Simon fosse Mick Jagger (che nel brano è anche ai cori), Cat Stevens, con cui Carly proprio in quei primissimi anni 70 aveva una love story e che le dedicò una esplicita e splendida Sweet Scarlet, Kris Kristofferson o Warren Beatty. Con i quali tutti ebbe delle love story... prima di sposare James Taylor. Da cui divorziò per una love story con il batterista della sua band, Russ Kunkel. Invece, in una nuova versione, la Simon sussurra il nome di David Geffen, il gran guru della discografia ai tempi (fondatore della Asylum, la casa discografica che come da nome dava "asilo" agli artisti esordienti troppo impegnati per essere presi dalle major 'commerciali' e che poi negli anni 80 si mise a sfornare la peggio musica da classifica, finendo per far causa a Neil Young perché faceva dischi "non sufficientemente commerciali".. oibò...), di Hollywood oggi. Che ironia della sorte è da qualche pure tempo gay dichiarato.

Se devo dire una canzone che ha segnato i miei anni 70 - non cambiato i miei anni 70, che quello lo fece Hurricane di Bob Dylan - è proprio You're so vain. Canzone melodicamente perfetta, degna dei grandi classici della musica pop, dal fascino irresistibile, cantata con una voce femminile ma maschia in modo inquietante, e che nel testo sputa simpatico disprezzo sui tanti maschietti che si pavoneggiano sciupafemmine. You're so vain è uno dei primi brillanti esempi di canzone femminista, piena di orgoglio e di baldanza (il verso "clouds in my coffee" è uno dei meglio riusciti di ogni epoca, quei versi che ritraggono in metafora momenti di realtà in modo tale che per il resto della tua vita ogni caffè che bevi in certi momenti balordi avrà per sempre nuvole dentro), da ridicolizzare tante PJ Harvey dei giorni nostri che si piangono addosso nel fare il conto degli assorbenti gettati in spazzatura.

Carly e il Gatto Stevens

Questo è quello che io posso percepire ascoltando questa canzone. Che come ogni buona canzone rock, ha dentro molte più ragioni e motivazioni. Quando la scrisse, Carly era già incinta del primo figlio avuto con James Taylor, Ben, e stava pensando a una canzone a lui dedicata. Quindi le love stories erano già cosa del passato. Inoltre, proprio il verso "clouds in my coffee" fa riferimento al disco Clouds di Joni Mitchell, altra artista di Geffen, che Carly pensava venisse promossa meglio e in modo più massiccio di quanto lo stesso Geffen stesse facendo per lei. Invidie femminili, dunque? Poco importa, perché You're so vain non perde, dopo aver saputo queste cose, un grammo del suo fascino e della sua forza.

Carly Simon non è sola la bellona di cui negli anni 70 quasi quasi compravamo i dischi perché ritratta in foto da urlo sulle copertine: figlia di quel Simon, co-proprietario della casa editrice Simon & Schuster, una delle più potenti d'America, già negli anni 60 bazzicava il Greenwich in coppia con la sorellina, cantando folk impegnato. Esplosa nei primi 70, ha portato avanti una carriera dignitosa costellata anche di dischi di alta classe ben lontani dal mondo del pop, vincendo anche una battaglia contro un tumore. La ricordo anche nel film No Nukes cantare una strepitosa The Times They Are A-Changin' insieme a Taylor, John Hall e Graham Nash.

Di You're so vain recentemente Susanna Hoffs e Matthew Sweet hanno inciso una riuscita cover, ma per me questa canzone resta uno dei molti motivi per essere orgoglioso di essere stato ragazzo negli anni 70, quando si cantavano canzoni come questa. I'm so freakin' vain!

Tuesday, February 23, 2010

Photographs & memories

Quanti ragazzini hanno tenuto in mano una chitarra come possibilità, sogno di una vita diversa, affascinante possibilità di ingresso a un mondo diverso, un altro mondo. Quanti ragazzini l'hanno a un certo punto mollata lì, da qualche parte. George Harrison già sapeva, sebbene ragazzino come tanti, che quella chitarra non l'avrebbe mollata più, fino a farla piangere.

Altri, invece di stringere una chitarra, da ragazzini già stringevano fra le braccia una ragazza. Poi la chitarra l'avrebbero presa anche loro, per cantare con essa l'amore per quella ragazza, tante, troppe altre ragazze, poi donne. Come Bob Dylan, ragazzino
Quanti, diventati ormai vecchi, si sono fermati a ripensare a quella ragazzina, a quella chitarra. Tutte e due, la chitarra e la ragazza, per sempre nel cuore.
(Foto di Jeff Bridges)

Thursday, February 11, 2010

Rockin' the White House

Come gather 'round people...

Quasi 50 anni fa, un ragazzo ebreo del Minnesota, fortunato abbastanza da essere stato invitato a esibirsi alla Marcia per i Diritti Civili a Washington organizzata da Martin Luther King, impressionato dall'evento, scrive una canzone, destinata a diventare inno e simbolo di quell'epoca storica, The Times They Are A-Changin'.
Un paio di mesi dopo il presidente degli Stati Uniti John Kennedy viene ucciso. La sera di quel tragico giorno, lo stesso ragazzo si deve esibire in concerto. Riluttante e sconvolto da quanto accaduto a Dallas quel giorno, apre lo show come faceva gni sera, con The Times They Are A-Changin' che questa sera suona ironica e svuotata di ogni suo significato.
The Times They Are A-Changin' ha certamente avuto, sin da quando venne composta, un aspetto da "inno generazionale" e sociale. Ma non è mai stata solo quello. Come ogni canzone di Bob Dylan, essa fuoriesce dal contesto storico in cui ha preso forma, e lo trascende. La ruota sta ancora girando e non è destinata a fermarsi probabilmente mai; il primo e l'ultimo, il lento e il veloce continuano a scambiarsi di posto e sempre lo faranno. Il presente, sempre, è destinato a diventare passato e l'ordine corrente delle cose domani sarà stato sostituito da un altro ordine.
Quasi cinquant'anni dopo, quel ragazzo ebreo è adesso un uomo anziano di quasi 70 anni. Per la prima volta nella sua vita è invitato a esibirsi alla Casa Bianca, davanti al presidente degli Stati Uniti, il primo presidente afro-americano. L'evento vuole celebrare proprio i giorni della Marcia per i Diritti Civili e tutti gli afro-americani che per essi si erano battuti. E' inevitabile che Bob Dylan decida di cantare The Times They Are A-Changin'. Che viene proposta in chiave intima, dolente e a tempo di valzer. No, non ha più alcuna sembianza di inno generazionale e sociale. Questa sera, questa scarna versione della canzone riflette di più la fonte a cui il ragazzo ebreo si era ispirato allora, il Libro dell'Ecclesiaste. Quella parte dell'Antico Testamento che vuole sottolineare come, sotto al sole, ogni tentativo da parte dell'uomo è cosa futile, vana, destinata a corrompersi. Per tutte le volte, negli ultimi vent'anni, che Dylan ha eseguito questa canzone in modo privo di ogni ispirazione, con le parole sbagliate, quasi a deriderla, questa sera per la prima volta da quando venne incisa, la canzone mostra tutta la sua verità, eseguita con lo stesso amore e dedizioe con cui Dylan in anni recenti ha eseguito tante canzoni di altri artisti. E' come se non gli appartenesse più, è più grande del suo stesso autore. Ogni tronfia celebrazione, seppur giustificata dalla presenza di Obama in quella Casa Bianca dove un nero, ai tempi di Martin Luther King difficilmente avrebbe potuto mettere piede, perde improvvisamente senso. Davvero questa sera The Times They Are A-Changin' diventa una canzone senza tempo, oltre il tempo, ma incisa nel tempo. E così appare Bob Dylan, nell'oscurità del piccolo palcoscenico: un uomo che appare appartenere, ora e per sempre, a un tempo immemorabile.
Chiamato inutilmente e banalmente "profeta" per tanto tempo della sua carriera, questa sera Bob Dylan è davvero un profeta. Perché i tempi cambiano, e continueranno a farlo.
Post scriptum: una ventina d'anni fa, un Bob Dylan sull'orlo dello sbandamento spirituale più totale, disgustato del mondo attorno a lui e probabilmente disgustato anche di se stesso, scriveva un contro-inno generazionale e sociale, che suonava più come uno sberleffo punk. Per la canzone Political World venne girato un video clip. Che oggi, col senno di poi, nella sua ambientazione, sembra girato nella Casa Bianca. O magari nella Casa Bianca di un film che verrà anni dopo, Masked & Anonimous.
Rockin' the White House, for the times they are a-changin'...

Friday, January 22, 2010

Morte di un dongiovanni

Don't go home with your hard-on
It will only drive you insane
You can't shake it (or break it) with your Motown
You can't melt it down in the rain


E' vero che le canzoni rock dicono la verità, ma a volte parlano di una realtà che non ci appartiene e in cui cerchiamo forzatamente di identificarci. Voglio dire: l'amore è sempre amore a tutte le latitudini e in tutte le situazioni, ma quello di cui cantavano ad esempio i Led Zeppelin o gli Stones era frutto di esperienze che solo i "gods of rock" potevano vivere. Non sono andato in tour con loro, ma qualcosa ho visto del rock'n'roll lifestyle e comunque ne ho letto.

Mi piace Leonard Cohen per tanti motivi, uno dei quali è che lui non ha mai fatto parte di quel lifestyle, anche se ci è passato abbastanza vicino per ovvi motivi di lavoro. Lui è però uno di noi, da tutti i punti di vista. Basterebbe il look, giacca e cravatta, per farlo sembrare uno che ha appena timbrato il cartellino ed è uscito dalla banca dove va a lavorare tutti i giorni. Le sue canzoni d'amore, praticamente tutte, parlano di un amore di ogni giorno, a volte fin troppo banale (vabbé, a parte quella sera al Chelsea Hotel con Janis Joplin...), amori consumati in fretta con una moglie o un marito che aspettano a casa, niente a che vedere con groupie disperate abbandonate in qualche memory motel.

C'è un suo disco, che è normalmente considerato il suo peggiore, che invece merita ben altri riconoscimenti. Si intitola in modo appropriato Death of a Ladies' Man, morte di un dongiovanni, ricorda un po' il Morte di un commesso viaggiatore credo non a caso, ed è solo apparentemente l'opposto di quanto detto prima. Prodotto (super prodotto!) dal genio di Phil Spector, contiene tutti gli eccessi musicali che solo Spector poteva permettersi: una valanga di strumenti e di idee pazze. E' il trionfo del kitsch ma è il trionfo di una epoca storica, gli anni 70, e montagne di polvere bianca si annidano ancora tra i solchi, ogni volta che lo suonate. Che ci azzecca il tranquillo e triste signor Cohen? Ci azzecca, ci azzecca... Come il commesso viaggiatore di Arthur Miller, questo dongiovanni è un borghese piccolo piccolo.

Da un punto di vista l'ironia di questa operazione è massima, dall'altro ascoltarlo è veramente infilarsi nei panni di un qualunque brav'uomo degli anni 70. Non so voi, ma io me li ricordo questi personaggi. Camicie collo d'elefante, orribili cravattone larghe e corte quasi al mento, completi gessati di tinta pacchiana.... e belle donne con vaporosi capelli e tacchi alti intorno. Dongiovanni del bar di periferia o del lungomare. Gente dalla vita banalissima che si truccava da quello che fingeva di essere e faceva, della libertà sessuale acquisita dalle rivoluzioni degli anni 60, il proprio privato e impietoso tornaconto. Ne paghiamo oggi le conseguenze. C'è un orribile e disgustoso programma televisivo, ad esempio, su un canale satellite che ne è lo specchio perfetto: un gruppo di uomini, attoruncoli, modelli, architetti di successo, conduttori radio, trend setters vari, si ritrova a tavola ad abbuffarsi intanto discutendo del modo migliore per farsi una ragazza, se davanti o di dietro e altre amenità del genere. Roba da vergognarsi di essere uomini: ma le femministe dove sono finite? (non che ne senta poi tanto la mancanza eh).

Non è un caso che, a livello lirico, questo sia il disco meno interessante di Cohen, di solito poeta massimo, qua descrittore quasi imbarazzato di vizi e noiose love story di terza mano. Con un momento di selvaggio umorismo, però: Don't Go Home with your Hard-on, in cui fanno capolino ai cori due altri geni di ebrei, un quartetto (includendo anche Spector), anzi un poker d'assi che sconquassa tutto quanto gli anni 70, nel loro aver voluto essere politically correct, non furono: Bob Dylan e Allen Ginsberg + Cohen ovviamente. Provate a tradurre il titolo di questa canzone in italiano: peggio di un brano di Elio e le storie tese... E Cohen, che di solito sussurra, non canta, qua canta a squarciagola, come non lo avete mai sentito, inebriato di tanto cazzeggio (è il caso di dirlo).

Gli arrangiamenti di Spector comunque sono bellissimi, e il risultato - ma ci vogliono parecchi ascolti e nessun pregiudizio in mente, per apprezzarlo - è unico e stordente, divertente ed esaltante. Questo disco è il romanzo degli anni 70, la dissacrazione dell'era del soft rock, del prog rock, del country rock e finanche della disco music. O la loro singola esaltazione in parti diverse scecherate insieme.
Dicono che Cohen e Spector quasi si presero a colpi di pistola durante queste registrazioni. Niente di più possibile, sapendo che fine ha fatto l'ex grande produttore (in galera per omicidio).
Io però sogno ancora un disco di Bruce Springsteen e uno di Bob Dylan prodotti da lui. Ve li immaginate Born to Run o Blonde on Blonde con il suo wall of sound? Da paura.

Wednesday, January 20, 2010

Amelia

L'altro giorno per strada ho visto i cartelloni pubblicitari di un nuovo film. Il protagonista è Richard Gere, che credo non abbia più fatto un film decente da prima di Pretty Woman. La protagonista però l'adoro, è Hilary Swank che sebbene sia alta un metro e un tappo credo sia bellissima e mi piacciono quasi tutti i film che fa (ricordo di averne visto uno, anni fa, mai più passato alla tv, ambientato a Nashville nel mondo della musica con alcune scene girate al leggendario Blue Bird Café e in cui se non sbaglio si vedono anche camei di Townes van Zandt e qualcun altro).
Il film è dedicato alla donna che, per prima, attraversò da sola l'Atlantico in aeroplano, Amelia Earhart. Allora mi è venuto in mente che a casa ho un disco di un gruppo scomparso come scomparì Amelia, nel nulla, un bellissimo disco dei primi anni 70. Il gruppo che lo incise erano i Plainsong, e il titolo dell'album In Search of Amelia Earhart...

I Plainsong erano una band inglese, il cui membro più famoso era Ian Matthews, già fondatore dei Fairport Convention e, nel 1972, con un paio di dischi solisti sulle spalle. Inizialmente al progetto doveva partecipare anche Richard Thompson. Il gruppo, sebbene inglese, se ne uscì con un disco incantevole che guardava direttamente alla California e al country-rock. Di fatto, In Search Of Amelia Earhart è il miglior disco che gli Eagles non hanno mai fatto. Arrangiamenti acustici purissimi, armonie vocali perfette, atmosfera malinconica e crepuscolare. E un paio di canzoni dedicate alla bella e coraggiosa Amelia.
Matthews sostiene ancora oggi che il disco non è un concept album, e in effetti i brani a tema sono appunto solo due, ma la copertina, le belle foto interne, il mood generale sono inevitabilmente tutti per lei, per Amelia (per una bizzarra coincidenza, i Plainsong incidevano per la casa discografica Elektra: l'aereo di Amelia si chiamava Electra...). Nel disco, Matthews sfiora la tesi che la donna non fosse morta per un incidente quando stava tentando di fare il giro in aereo dell'intero pianeta, ma fosse stata catturata dai giapponesi mentre, con la scusa del volo, effettuava spionaggio per conto del governo americano. E' una delle tante tesi sulla fine misteriosa di Amelia, scomparsa nel 1937 sopra una isola del Pacifico. Chissà cosa sosterrà il film...

Il disco in questione è stato ristampato qualche anno fa in un doppio cd contenente anche il secondo album della band, Now We Are 3, meno bello ma comunque discreto. Entrambi i cd hanno una manciata di brani tratti da session radiofoniche o live, tra cui una cover della straordinaria Spanish Guitar di Gene Clark.
Dopo, i Plainsong si sarebbero sciolti con Matthews che fnalmente coronava il suo sogno, quello di volare, come Amelia, in California a tentare una carriera solista. Gli altri, a parte Andy Roberts che avrebbe suonato con tanti musicisti e scritto colonne sonore, tornavano alle loro vite ordinarie. Rimane un disco dedicato a una donna coraggiosa e una manciata di bellissime canzoni scritte e interpretate da un gruppo di ragazzi inglesi dai lunghi capelli che sognavano la California... E un mistero, quello di Amelia Earhart...

Wednesday, January 07, 2009

Maybe California

Il localino, intitolato a una canzone di Vinicio Capossela, sperduto nella Brianza (alcolica, of course) è dove li incontro, Chris Burroughs e Neal Casal. Ho arrancato nella notte fino a qui, perdendomi e ritrovandomi una mezza dozzina di volte, ma se Chris Burroughs non lo conosco ancora (avrò modo di apprezzare le sue qualità durante la serata) per la prima volta di Neal Casal in Italia faccio questo e altro.
Credo fosse il 1997, non ricordo se primavera, autunno o inverno. Propendo per la stagione fredda, dato che nell'intervallo tra i loro due set, introduco i due songwriter americani ai piaceri della grappa. Burroughs, da vero rocker abituato a tequila shots, manda giù senza mostrare particolari segni. Neal vacilla, tossisce e barcolla: "Fuck man...". Deve essergli paciuta però, perché quando dieci anni dopo ci ritroviamo (su Internet), quando gli chiedo se si ricorda di me, dice: "Come non potrei? Sei quello che mi ha fatto bere il mio primo bicchiere di grappa!".

Deve averne bevuta da allora, evidentemente. Diciamo che sono stato anche il primo giornalista italiano a intervistarlo, all'indomani dell'uscita dell'entusiasmante, formidabile, tutt'oggi bellissimo suo esordio, Fade Away Diamond Time (1995). Un disco che ci lasciò tutti a bocca aperta, con quel capolavoro assoluto che era Free to Go che sembrava arrivare dritto dritto dai solchi di Zuma di Neil Young, solo suonato e cantato ancora meglio. Non ricordo più come feci a trovarlo per intervistarlo, perché, un anno dopo quel disco che sembrava dovesse lanciarlo nel firmamento dei nuovi rocker d'America, Neal Casal era già senza contratto e casa discografica, scaricato nel corso di una battaglia legale e di tagli fra la sua etichetta, la Zoo, e la potente BMG che si rifiutò improvvisamente di distribuire il suo cd dopo una breve apparizione nei negozi. Coglioni.

Fu ciò che ne bloccò per sempre la possibilità di diventare una star, per questo ragazzo del New Jersey perdutamente innamorato della California anni 70. Ma non gli impedì di continuare a fare dischi sempre belli, anzi bellissimi, solo pubblicati per oscure etichette europee, continente nel quale continuò a esibirsi mentre negli States nessuno sapeva chi fosse. Destino comune a tanti americani in esilio, da Elliott Murphy a Wlly DeVille...
Lo avrei visto live ancora un paio di volte, anche full band in una entusiasmante serata a Sesto Calende per pochi intimi.
Tra i suoi tanti bei dischi, mi piace ricordare l'oscuro, doloroso, di purissima bellezza acustica Basement Dreams, come se Nick Drake fosse vissuto a Malibu; l'ambizioso Anytime Tomorrow, con quei rimandi agli Stones di Exile on Main Street (Willow Jane è la più bella canzone rock dai tempi di Sweet Virginia) e ai Beach Boys (Oceanview è una finestra aperta tra Pet Sounds e Smile). La divertente avventura degli Hazy Malaze, poi, due dischi intrisi di funk e rock-blues come se Sly Stone e James Brown fossero stati negli Eagles. E ancora: Rain, Wind and Speed. Poi anche un disco splendido in coppia con la bravissima (e bellissima) Shannon McNally. Quante belle storie, quante grandi canzoni. Una voce capace di armonizzare come pochissimi, un tocco di chitarra acustica da paura, degno del miglior David Crosby in acido e in open tunings...

E che fa Neal Casal, visto che i suoi dischi se li comprano pochi pazzi? Per arrotondare, visto che è un chitarrrista con le palle, prima va a suonare nella band di Lucinda Williams. Qualche anno fa gli avevano chiesto anche di unirsi ai Black Crowes. Poi approda a quella di Ryan Adams. Argh. Via e-mail, talvolta abbiamo discusso di come sia ingenerosa la vita, se uno come lui, con il suo talento un milione di volte superiore a quello di Adams, deve adattarsi a far ciò. Lui l'ha sempre messa in ridere, difendendo il Ryan, dicendo che è un genio. "You are the fucking real thing" gli ho sempre risposto io. Ma non importa, mi sembra contento e soddisfatto. E' sempre stato uno semplice e umile, Neal.
Mi ha detto, l'altro giorno, quando gli ho detto quanto mi sembri bello il suo nuovo disco, Roots and Wings: "So glad you like my new record, that means alot to me. For me, it's the best one I've ever made". God bless you Neal, and keep rockin'.

Ps: c'è anche un bel sito italiano dedicato a Casal per chi vuole saperne di più: http://www.nealcasal.it/

Friday, December 19, 2008

Un tempo immemorabile. A Seattle

The phone don't ring
And the sun refused to shine
Never thought I'd have to pay so dearly
For what was already mine
For such a long, long time
We made mad love
Shadow love
Random love
And abandoned love
Accidentally like a martyr

The hurt gets worse and the heart gets harder
The days slide by
Should have done, should have done, we all sigh
Never thought I'd ever be so lonely
After such a long, long time
Time out of mind


Nell’autunno del 2002 Bob Dylan si apprestava a riprendere la strada per una nuova serie di concerti. Non era niente di nuovo, apparentemente, solo una nuova tappa del Never Ending Tour che questa volta sarebbe cominciata da Seattle, nord California.
Niente di nuovo, ma in realtà molto di nuovo. Quella serie di concerti avrebbe segnato un nuovo, ma drammatico, cambiamento, nell’approccio live del cantautore americano. Niente di nuovo neanche qui, visto che era tutta la vita che Dylan lo faceva. Per alcuni (probabilmente solo io) l’inizio della sua parabola discendente.
La sera del 4 ottobre, a Seattle, quando sul palco si notò la presenza di un pianoforte elettrico modello Casio, tutti si chiesero se Dylan avesse assoldato un tastierista. Invece sarebbe stato lui a mettersi dietro alle tastiere. Non lo avrebbe fatto per tutta la serata, ma ben presto sì, quello sarebbe diventato il suo strumento preferito, e addio alla chitarra. Il che dura tutt’oggi, anche se nel tempo Dylan ha imparato a conoscere i vari tasti che la caratterizzano, adesso preferendo la sonorità “organo” a quella “pianoforte”. Con un solo problema: Bob Dylan non sa suonare né il pianoforte né l’organo. Il suo, quella sera, era un “plink plonk” scoordinato e fuori tempo, il più delle volte tenuto saggiamente nascosto nel mixeraggio complessivo degli strumenti dal palco.

Non era solo lo strumento del cantautore che cambiava, ma anche la voce. Nulla di nuovo ancora una volta: in quarant’anni di carriera Bob ylan aveva più volte cambiato la voce di quante volte io abbia cambiato automobile in vent’anni (e ne ho cambiate parecchie). Ogni volta, però, era una sfumatura, un approccio, un qualcosa di diverso, ma che fondamentalmente lasciava intatta la voce. Che non è mai stata bella, per gli standard di Tin Pan Alley, ma affascinante, inquietante, tagliente, sardonica, con quel fraseggio unico che nessuna ha mai avuto nel campo della musica popolare. Adesso invece era solo una voce affaticata. Che mostrava, sera dopo sera, gli inevitabili segni di un deterioramento impossibile a fermarsi. Qualche spiritoso gli affibbiò un nuovo (niente di nuovo…) soprannome: The wolfman, l’uomo lupo. A volte gli mancava il respiro, altre quella voce un tempo orgogliosa e sprezzante crollava a terra in un rantolo doloroso.

E se vi sembra abbastanza, no, non lo è ancora. Non era finita qua. Quella sera a Seattle avrebbe mostrato altro ancora. Dopo una iniziale, rara, ma suonata recentemente anche in Europa, Solid Rock, il quarto pezzo in scaletta lasciò il pubblico a domandarsi se stesse ascoltando un inedito di Dylan. Solo quelli, là in mezzo, che conoscevano uno dei più grandi songwriter americani di sempre (a volte mi viene da pensare, il più grande – dopo Dylan naturalmente) ebbero un sussulto. Erano le note, seppur affaticate nella versione di Dylan, della straordinaria Accidentally like a Martyr. L’autore? Mister Warren Zevon.
Non sarebbe finita lì, perché nel corso della stessa serata di Zevon avrebbe eseguito anche la violenta Boom Boom Mancini e la dolcissima, tristissima Mutineer.

Che sta succedendo qui, mister Jones? Il mondo dei fan si sarebbe scatenato a cercare la risposta su Internet, per scoprire che Bob Dylan aveva deciso di omaggiare un amico morente. Warren Zevon era stato dichiarato malato terminale: il tumore che lo aveva colpito gli lasciava pochi mesi di vita. Per tutto quel tour autunnale Dyan avrebbe continuato ad omaggiarlo, senza mai perdersi in banali discorsetti dal palco sul perché e percome avesse deciso di cantare quelle canzoni: era la musica che parlava, non c’era bisogno di aggiungere altro. Come dire: queste canzoni sono troppo belle perché vadano dimenticate e se adesso il suo autore non può più cantarle, allora lo farò io, un'ultima volta. E poi, le sere dopo,inserendo altri pezzi di Zevon in scaletta, ad esempio Lawyers, Guns and Money. Mai, nella storia del rock, si era assistito a una cosa del genere. Di solito, i tributi si fanno quando l’amico è già nella cassa. Interrogato (Zevon si sarebbe recato a vederlo quando il cantautore avrebbe suonato a Los Angeles, qualche sera dopo), Warren avrebbe detto che queste esecuzioni di sue canzoni da parte di Bob Dylan erano il punto più alto della sua carriera.
Se Mutineer la si può ascoltare nel tributo su cd Enjoy Every Sandwich, fu Accidentally like a Martyr il momento più commovente di questo evento. Ogni sera Bob Dylan, cercando di recuperare ciò che restava della sua voce, avrebbe lasciato srotolare la splendida e maestosa melodia del brano, fino al punto in cui la canzone dice “time out of miiiiiiind”. Già, proprio come il titolo del suo disco di qualche anno prima, Time out of Mind. Un tempo immemorabile, dove risiedono la pietà, la bellezza, il sogno e la speranza. Della vita che non muore. Dove esiste quella “tower of song” di cui canta Leonard Cohen, Dove i poeti, i santi e i peccatori si ritrovano. In un tempo immemorabile. Dove ogni sera trovava rifugio, nel cantarla, il cuore addolorato di Bob Dylan.
Che si può ascoltare qua: http://www.box.net/shared/static/t5sjjbdc3i.mp3

Quel tour avrebbe visto Dylan, sin dalla serata di Seattle, affrontare altre cover: una sorprendente, esplosiva e virulenta Brown Sugar degli Stones; Old Man di Neil Young (che sembrava cucita apposta per lui visto l’argomento toccato…) e finanche una incredibile End of the Innocence, del cantante degli yuppie per eccellenza, Don Henley. Che nella versione di Bob Dylan diventava magnificente.

Era diventato il “cover tour”, il tour delle cover, e in modo sorprendente erano proprio questi brani altrui che Dylan eseguiva nel modo migliore, lasciando noia e routine alle sole sue canzoni. Per quando il tour avrebbe raggiunto New York, per le sue ultime date, era morto un altro grande amico, George Harrison. Nella sera del 13 novembre una nuova cover sarebbe stata aggiunta, per una sola e unica volta: Something.
Warren Zevon, invece, sarebbe morto undici mesi dopo quella sera di Seattle, il 3 settembre 2003. Nel suo ultimo disco, registrato durante la malattia e pubblicato postumo, ringraziava Bob Dylan cantando la canzone di chi si appresta al grande e ultimo viaggio, Knockin’ on Heaven’s Door.

Tuesday, December 02, 2008

Così è. Se vi pare


Alla fine l’ho fatto. Non è che i bei commenti ricevuti ultimamente su questo blog (grazie, però… troppo buoni) siano stai la ragione scatenante. Ci stavo lavorando da anni, in realtà. Poi l’ho proposto a editori grandi e piccoli e ognuno aveva la sua risposta: dovresti cambiare questo e quello, ma come facciamo a promuovere un libro così, oggi c’è la crisi… blah blah blah.
Tanto, anche se lo pubblicavo con Mondadori, un libro di storie di Paolo Vites non lo avrebbero mai messo in vetrina. Sarebbe finito a fare la polvere sotto a qualche tavolo. Per non parlare delle offerte economiche che uno scrittore esordiente si sente proporre. Anche con questo sistema del self publishing praticamente non ci guadagno niente, ma almeno non ho dovuto cambiare una virgola.

I lettori di questo blog mi perdoneranno, di fatto questo libro contiene un “best of” di quanto qui pubblicato nel corso degli anni, però rivisto, ampliato e poi anche diversi racconti inediti. In fondo io sono abbastanza vecchio da preferire ancora il buon libro su carta a un computer, che quando fai click tutto si spegne, anche quello che hai scritto. Il libro invece rimane. Lo puoi sempre portare con te al gabinetto, dove si fanno, è risaputo, le migliori letture. Il computer al gabinetto è un po’ scomodo.
Così spero che chi avrà la bontà di ordinarlo presso questo sito http://ilmiolibro.kataweb.it/ lo possa apprezzare come un diario, una riflessione, una serie di appunti sparsi che, soprattutto, ci tenevo un giorno le mie figlie potessero andare a sfogliare per sapere cose di loro padre che difficilmente avrei saputo comunicare in altro modo.

È uno sporco lavoro, ma qualcuno doveva farlo…

Tuesday, November 25, 2008

Thanksgiving, 1976

Alcuni di loro sono morti. Altri si sono ritirati dalle scene. Nessuno, comunque, è stato più in grado di superare quello che, musicalmente, questi uomini e donne avevano fatto fino a quel giorno. Che era il 25 novembre 1976, quando uno dopo l’altro sfilarono sul palco del Winterland di San Francisco i più brillanti esponenti di una generazione che con le loro canzoni avevano cantato utopie, speranze, disillusioni di un momento storico unico di quel secolo, il 900. Stavano dicendo addio, ma non lo sapevano. Ma suonarono come se fosse stata l'ultima notte della loro vita, meglio di ogni altra volta.

Fu la sera dell’ultimo valzer, quando Van Morrison scalciando come un indemoniato terrorizzò quanti lo stavano guardando. Quando Eric Clapton tornò a suonare la chitarra solista da dio, come non faceva da anni. Sembrava non volersi fermare più. Quando Neil Young si presentò sul palco con il naso impolverato di cocaina (che il regista abilmente fece scomparire, su sua richiesta, dalle immagini del film). Quando Bob Dylan con i suoi vecchi amici con cui aveva sconvolto il mondo esattamente dieci anni prima, tornò a suonare “fucking loud”, facendo riecheggiare la voce di Walt Whitman su un palcoscenico rock. E quando Ronnie Hawkins lanciò ancora una volta quell’urlo, quello del rock’n’roll. Joni Mitchell seduceva e incantava, mentre, pacioso e con lo sguardo di chi sapeva già come sarebbe andata a finire, Muddy Waters benediceva tutti e The Band mandava in scena l’ultima esibizione di un’America che era già scomparsa con i morti della Guerra di secessione.

Fu l’ultimo valzer del rock, e il regista di Taxi Driver lo coglieva con capacità a tutt’oggi insuperabile: non si vedono mai gli spettatori, nel suo film. Questa è una celebrazione di quegli uomini sul palco.
“Ecco cosa è L’ultimo valzer” dice nel film Robbie Robertson. “Sedici anni on the road. Un numero che ti fa paura. Non potrei vivere per vent’anni sulla strada. Non penso di poter neanche discutere una cosa del genere”. Avrebbe tenuto fede a quelle parole. Non sarebbe più tornato on the road.

Wednesday, November 19, 2008

One hit wonder

Non è solo il fatto di aver avuto un solo brano di successo in tutta la propria carriera. È il tipo di successo che quel brano fu, a rendere speciale la storia di Jody Reynolds, dimenticato eroe dell’era rockabilly, scomparso qualche giorno fa a 75 anni di età.
Di personaggi che in quegli anni (formidabili, ma per davvero), i '50, spuntavano dal nulla, pubblicavano un 45 giri, ne vendevano uno o due milioni di copie e poi sparivano dalle scene ce ne sono stati tanti, ad esempio Terry Clement and the Tune Tones con la sua She’s My Baby Doll che cantava, oltraggioso e pieno di humour “La ragazza ricca ha un profumo costoso, la ragazza povera fa lo stesso, la mia ragazza non ne ha nessuno, ma la puoi odorare lo stesso”. Oppure Billy Lee Riley che con i suoi marziani (The Green Men) registrò uno dei singoli più assurdi e bizzarri mai sentiti, Flying Saucers Rock’n’Roll, gli oggetti volanti del r'n'r.
“Il rockabilly fu una musica davvero speciale” scrive Greil Marcus “il solo stile del primo rock’n’roll che provò che i ragazzi bianchi potevano fare tutto: potevano essere strani, eccitanti, spaventosi e liberi come gli uomini di colore che improvvisamente stavano camminando per le onde delle radio d’America”.

Jody Reynolds era un tipo tutto a modo suo. Un giorno, nel 1956, ascoltò Elvis cantare Heartbreak Hotel. Rimase così impressionato che la ascoltò per cinque volte consecutive. Non si era mai sentito un pezzo rockabilly che invece di essere una lussuriosa carica di ritmo, era invece una tristissima nenia che sembrava suggerire un significato solo: morte.
Si mise a scrivere un pezzo: gli uscì fuori Endless Sleep, una storia ancora più oscura e misteriosa, quella di un ragazzo che va in cerca della sua fidanzata dopo che i due hanno litigato: “La notte era scura, la pioggia cadeva, cercai la mia bambina, non riuscii a trovarla, vidi le sue tracce sulla spiaggia, ebbi paura che se ne fosse andata via per sempre”.

Un brano che suggeriva l’ipotesi del suicidio non poteva essere accettato nel glamorous anni 50, e molte etichette infatti la rifiutarono. Sarà solo una coincidenza, ma a dimostrarsi interessata a pubblicarla fu una etichetta di Los Angeles che si chiamava Demon, il demonio. Ma anche loro chiesero a Reynolds di cambiare il finale e metterci un lieto fine, del tipo che vedeva la ragazza tra le onde e l’aiutava a uscirne. Jody non ne fu contento, ma il brano, nel 1958, volò al primo posto delle classifiche vendendo oltre un milione di copie. Negli anni, l'avrebbero incisa decine di altri musicisti.
Fu il suo unico successo, ma in breve Endless Sleep divenne l’apripista di un nuovo modo di scrivere le canzoni, le cosiddette “teen tragedy”, brani dove si parlava di incidenti, suicidi, morti fra fidanzati. Ad esempio Teen Angel di Ray Peterson, Tell Laura I Love Her, Ebony Eyes degli Everly Brothers e naturalmente Leader of the Pack delle Shangri-Las. E, incredibilmente, diventavano tutte dei successoni. Evidentemente, toccavano un angolo misterioso del cuore degli ascoltatori. Chi dice che la musica rock è fuga dalla realtà, si prenda un appunto: queste canzoni che avevano a tema situazioni strazianti erano comprate da milioni di ragazzi. Perché è questo che la gente vuole, sentirsi raccontare la propria vita, scontrarsi con la realtà. Bob Dylan lo aveva capito. In Chronicles cita Endless Sleep come una canzone, seppur rockabilly, autenticamente folk nei contenuti, e le canzoni folk cantavano della realtà: "C'era sempre un qualche tipo di canzone folk che spuntava fuori. Endless Sleep, la canzone di Jody Reynolds che era stata popolare anni prima, nel suo contenuto era una canzone folk".
Anche se le canzoni rock avrebbero perso presto questo carisma. Ma è un'altra storia.

Jody continuò a fare dischi per diversi anni, poi aprì un negozio di dischi e strumenti musicali a Palm Springs, California. Fra i suoi clienti anche Elvis, che usò una sua chitarra per il leggendario come back show del Natale 1968. Ogni tanto, in questi decenni, si è esibito nel circuito delle vecchie glorie. Cantando quel suo unico, grande successo. Che parlava di una ragazza morta.

Tuesday, November 11, 2008

This is the story of Glen Sherley

There are men here that don't ever worship
There are men here who scoff at the ones who pray
But I've got down on my knees in that greystone chapel
And I thank the Lord for helpin' me each day
Now there's greystone chapel here at Folsom
It has a touch of God's hand on ever stone
It's a flower of light in a field of darkness and it's givin' me the strenght to carry on
Inside the walls of prison my body may be but my Lord has set my soul free

(Greystone Chapel, Glen Sherley)

L'altra sera ho messo su distrattamente, per dovere di recensione, il dvd allegato alla nuova edizione di Folsom Prison Blues, il live di Johnny Cash registrato nel 1968 nella prigione di Folsom, uno dei grandi dischi della storia del rock. La nuova edizione ha un cd in più con il secondo concerto - inedito - e un dvd. Ok, figo, ma già sapevo che di quella leggendaria esibizione non esistevano filmati. Così comincio a vedere il dvd, la storia dei fatti, interviste, una - ennesima - storia di Cash... a un certo punto mi sono anche addormentato.

Mi sono risvegliato chissà perché quando si cominciava a parlare di Glen Sherley. Ricordavo vagamente che quella volta Cash eseguì una canzone scritta da un detenuto. Da quel momento non ho più potuto staccare gli occhi dal televisore, per seguire la drammatica storia di Glen Sherley, un detenuto per motivi poco chiari ("rapina a mano armata" dirà lui a un certo punto) che fece avere al cappellano di Folsom una sua composizione da dare a Cash. Questi, ascoltatala, la imparò la sera prima, colpito dalla sua bellezza; verso la fine del concerto, l'uomo in nero si avvicina al microfono: "Questa è la tua canzone, Glen" e attacca la sua Greystone Chapel. Sherley, all'oscuro, fa un balzo in piedi; Cash gli porge la mano, i due si incontrano e idealmente comincia una amicizia che avrà conseguenze profonde. La canzone è comunque un brano di un realismo terrificante: scritta da un prigioniero in uno dei peggiori carceri americani, è una preghiera di un uomo che solo nei mattoni grigi della cappella penitenziaria riesce a vedere uno straccio di salvezza.

Tre anni dopo,ancora in prigione, Sherley ha un altro suo brano portato al successo da un'altra country star, Eddie Arnold, con Portrait of a Woman. Cash, che nel frattempo è diventato un paladino della lotta per la riforma delle prigioni americane, lo ha preso a cuore, riconosce il suo talento e lo aiuta a registrare un intero disco, dal vivo, in prigione. Riesce anche a farlo uscire di galera, nel 1971: formidabili le immagini, nel dvd, di Cash che lo aspetta fuori di prigione.

La storia viene poi raccontata dai figli di Sherley, con immagini di concerti di un uomo che sembra aver ritrovato la redenzione. Partecipa a diversi tour con Cash, è un uomo nuovo. Ma il music business si rivela troppo duro per uno che in prigione ha visto chissà quale inferno. Il demonio torna a bussare alla sua porta, riesplode il suo lato violento, la droga è l'unico modo per lenire l'angoscia che lo assedia e si allontana da tutti, anche i figli lo sfuggono. Sparisce, nel mistero. L'11 maggio 1978 la figlia riceve una telefonata. "Mio padre è morto, vero?" dice lei. "Sì, si è ucciso".
Nel dvd si vede la donna, per ironia della sorte oggi poliziotto, aprire per la prima volta il certificato di morte del padre "Morto per colpo di pistola alla testa". Aveva solo 42 anni, ma già nelle immagini di dieci anni prima con Johnny Cash a Folsom, nel 1968, sembra un uomo molto più vecchio. Negli ultimi tempi per vivere dava da mangiare alle vacche, dicono che ne nutriva anche diecimila al giorno. Ma quel demonio che aveva segnato la sua vita lo aveva seguito da Folsom fino a là,senza lasciargli scampo.

Cash avrebbe accusato il colpo. Non avrebbe più fatto concerti nei carceri. Come dice il chitarrista Marty Stuart nel dvd a proposito dello stesso Cash, di Elvis, Jerry Lee, Carl Perkins, "questi uomini erano una sorta di predicatori mancati. Avrebbero salvato molte vite se non avessero preso la strada del rock'n'roll". O magari ne hanno salvate altre lo stesso.
Ci sono due lati per ogni storia, e questa era quella di Glen Sherley, che scrisse Greystone Chapel.

Friday, October 24, 2008

L'ultimo valzer

Fuori uno. Quelli del "club dei 27" sono usciti di scena già da tempo, appunto quando avevano 27 anni. I Jim, Jimi, Janis, Brian, Kurt, Gram. Finanche Robert (Johnson) ne aveva 27 quando morì. Leonard Cohen, ieri sera sul palco degli Arcimboldi di Milano, fresco 74enne da un mese, è stato probabilmente il primo di "quelli che sono sopravvissuti" a ballare con noi il suo ultimo valzer, prima del ritiro per limiti di età imposti da una voce che era soltanto un sussurro sulle spalle di una carriera quarantennale che è impossibile pretendere duri di più. Mi aspetto che i Jagger, i McCartney, i Dylan abbiano altrettanta dignità quando suonerà anche per loro l'inevitabile momento. Ma non ci sarà più nessuno come loro, questo è certo. Ieri sera abbiamo assistito all'addio non solo di Mr Cohen ma di una generazione, di un mondo, di una utopia. Di un grido, quello del rock.
E "dignità", commovente dignità è la parola che viene in mente dopo aver assistito allo spettacolo che questo anziano e magrissimo signore, stretto nel suo doppiopetto nero, in testa un Borsalino che si toglieva a ogni fine canzone, che si inchinava davanti ai suoi musicisti quando prendevano un assolo, che si metteva in ginocchio quando certi brani erano la preghiera di un uomo solo davanti al mistero (Anthem, Hallelujah), che gentilmente declinava il capo - togliendosi il Borsalino - quando presentava i suoi musicisti, con affetto, come dire, grazie per aver reso le mie canzoni migliori.

Canzoni che sono state eseguite con incredibile generosità, un set degno di uno Springsteen, tre ore tra le pagine antiche sfogliate al Chelsea Hotel, oppure indossando quel Famous Blue Raincoat da solo sul palco, lui e una chitarra e un fascio di luce nel buio; oppure la rabbia dell'ebreo errante che si stempera adesso nella saggezza dell'età in The Future o nella sua "lettera d'amore agli Stati Uniti", Democracy. E poi loro naturalmente, le sue donne tanto amate, Suzanne così come Joan d'Arc. E quando la voce sembra trovare un antico possente canto liberatorio, giunge il momento delle lacrime che versiamo cantando con lui addio Marianne, So long Marianne: e lui, il poeta gentile di Montreal, estrae dalla tasca della giacca un piccolo rosario con croce d'argento, lo stringe nel pugno, lo mostra al pubblico e canta come se fosse ormai in un'altra dimensione che noi comuni mortali vediamo tra la nebbia e lui già intravvede oltre la strada, oltre il muro. Ballando fino alla fine dell'amore, Dance me to the end of love nel modo in cui aveva aperto il concerto.
Sì, abbiamo preso Manhattan, poi Berlino e anche Milano. Abbiamo cercato di essere liberi come un uccello sul filo, Bird on the Wire, solo il nostro cuore può dire se ce l'abbiamo fatta. Lei ce l'ha fatta sicuramente. signor Cohen. E grazie per averci ricordato un'ultima volta che There ain't no Cure for Love, non c'è rimedio all'amore.
Quindici anni fa lei era venuto a Milano, in un altro teatro, e ci aveva lasciato il suo cuore da custodire. Ieri sera è tornato a reclamarlo, a chiederci conto di cosa ne avevamo fatto, a riportarlo là dove è giusto che stia. Nella torre della canzone, The Tower of Song. Insieme a Dio.

Sincerely, I'm your man.

Wednesday, October 01, 2008

Toccato dalla grazia sulle rive del fiume rosso

Stanotte non ho dormito quasi niente. No, non era perché assillato – come mi succede quasi ogni notte – dai debiti e dalle tante bollette che faccio fatica a pagare ogni mese. Era perché mi sono messo ad ascoltare alcuni dei brani che compongono il Bootleg Series 8. Erano decenni che canzoni di Bob Dylan non mi colpivano così. Questo disco contiene alcuni dei vertici del più grande autore di canzoni rock di tutti i tempi. In particolare le due versioni di Mississippi, Marchin’ To The City, Can’t Wait e Red River Shore. Una per una, spero, le analizzerò tutte. Questa notte però mi sono fermato sulle rive del fiume rosso.

Questi brani, che appartengono alle session del disco Time Out Of Mind rivelano molti segreti, quelli di una “restless mind” alla ricerca della bellezza. Hanno spesso dei versi che poi sono stati riciclati in altre canzoni dello stesso disco, a testimonianza di come Dylan lavora alle sue canzoni, componendole, nel 1997 come nel 1966, direttamente in studio. E come sempre, è nel grande mare della tradizione americana che il musicista va a pescare.
The Red River Shore è una antica ballata che si può trovare sull’antologia Folk Songs of North America curata dal musicologo Alan Lomax. È nella sezione “The West”, in una sottosezione chiamata “Prairie Farmers”. Canzoni dei cowboy, insomma.
È una versione aggiornata di New River Shore che risale al 1910 e la cantava una certa Minta Morgan di Bells, Texas, Forse la ragazza del fiume rosso di cui canta adesso Dylan. Nel 1965 il Kingston Trio, un popolare gurppo folk, ne fece una versione. È interessante notare come il pezzo contenga i versi: “She wrote me a letter. She wrote it so kind and in that letter these words you will find. ‘Come back to me, darling, you're the one I adore. You're the one I will marry on the Red River shore’”.
She wrote me a letter. She wrote it so kind, Dylan le avrebbe inclusi nella sua Not Dark Yet sempre su TOOM.

Il pezzo è una dolcissima nenia di stile tex-mex, la musica al confine fra Texas e Messico cantata da Dylan con una intensità da brivido. Come nelle sue migliori canzoni, sei portato fuori dalla realtà contingente per addentrarti in una realtà che probabilmente neanche il cantante ha mai visto di persona ma che lui fa in modo di rendere possibile. Il Red River esiste veramente, e si trova nel Texas. È il miracolo delle migliori canzoni rock: “Tutto il mondo è contenuto in una canzone che dura tre minuti”. Greil Marcus lo ha detto, e ha ragione. Meglio ancora se la canzone di minuti ne dura più di sei, come questa.

Stamattina ho aperto il computer e ho trovato una e-mail dell’amico Giorgio Natale. Great minds think alike. Anche lui deve aver dormito poco stanotte. Le sue parole valgono le mie, anzi meglio:
“Qualcuno spegne la luce e si affida al bagliore della luna piena”, canta Dylan. Il tono è di quelli che hanno a che fare con la morte e gli angeli.
“Di tutte le belle ragazze che mi volevano una sola ne ho mai voluta e ho provato a farne mia moglie”. Subito, di schianto, ho capito che era lei: “Più vera di un gran sogno che non so dove sia finito lei era vera alla vita, era vera a me”. E non posso più sfuggire la memoria dell’unica che adorerò per sempre: “Viviamo all'ombra dei ricordi, intrappolati nelle cose, e io ho sempre cercato di non ferire nessuno, di stare lontano dal male”.
“Ma dopo aver fatto e detto tutto, io non so quale sia il punteggio, quale sia il punto, tutto quello che so è che ogni nuovo giorno senza di lei èun giorno perso”.
“E anche se sono straniero in terre sconosciute so che quello è il mio posto, girando e vagando vicino a lei. Ma quando ho provato a tornare là, per sistemare la faccenda, la gente mi guardava senza sapere di chi parlassi”.
La grazia di un incontro così non la posso ricreare io.
“Come vorrei aver passato ogni giorno della mia vita con lei!”.
E sarà che l’unica possibilità di salvezza viene da un altro mondo (“Le carte che hai in mano non valgono niente a meno che non vengano da un altro mondo” dà un altro significato, cantava nell’epocale Series of Dreams che appare in una versione alternata in questo BS); sarà la struttura melodica che ricalca perfettamente il ritornello; o sarà che, come quella, mi ha colpito dritto al cuore, ma qui c’è qualcosa di Series Of Dreams.
E finisce: "Ho sentito di un tipo vissuto tanti anni fa, un uomo capace di tanto dolore, che se qualcuno fosse morto vicino a lui sapeva come riportarlo in vita. Non so che linguaggio usasse o se queste cose succedano ancora, a volte mi sembra che nessuno mi abbia mai guardato, mai conosciuto, tranne la ragazza sulle rive del fiume rosso”.

Wednesday, September 24, 2008

Nel Mississippi. Un giorno di troppo

Only one thing I did wrong
Stayed in Mississippi a day too long


“È la canzone più triste, ma anche la più coraggiosa, che abbia mai sentito”. Così mi scriveva qualche giorno fa un amico inglese, raccontandomi di aver ascoltato, saputa la notizia della grave malattia di un suo conoscente, a lungo la nuova versione di Mississippi (incisa originariamente durante le session del disco Time Out Of Mind, nei primi mesi del 1997)che uscirà sul BS 8 il prossimo 3 ottobre.
Quello di “canzone coraggiosa” è un sentimento che Mississippi, già nella splendida versione che apparve su Love & Theft, aveva sempre ispirato anche a me. Non so bene perché. C’è un senso di stoicità, quello di un uomo che guarda facendosi forza in faccia le avversità che lo colpiscono, che ho sempre percepito uscire da quel brano, forse per il modo veemente con cui Dylan la esegue appunto nella versione di L&T. È un urlo strozzato in gola quello che si sente durante momenti come “Got nothing for you, I had nothing before, don’t even have anything for myseeeeelf anymore” oppure “Last night I knew you, tonight I doooon’t!”.
L’immagine che affiora alla mente è quella di un uomo abbandonato da tutti, pure da Dio, e che non ha più nulla da offrire. Un uomo sulle cui tracce potrebbe esserci un demonio, per citare Robert Johnson.
E non dimentichiamoci un verso che Nostradamus avrebbe pagato per scrivere lui, in una canzone messa nei negozi l’11 settembre 2001: “Sky full of fire, pain pourin’ down”. Come non pensare alle Torri Gemelle in fiamme e a quei corpi disgraziati che da esse volavano giù, carichi di straziante dolore?

La versione che si ascolta grazie a questa outtake cambia – apparentemente – le carte in tavola. Non c’è più la banda di fieri accompagnatori che tracimano note furiose cercando di incalzare il cantante: l’immagine che Greil Marcus diede dei musicisti di The Band intenti a eseguire il brano Baby Please Don’t Do It è quanto mai calzante anche questa volta: ascolti Charlie Sexton, Larry Campbell e soci e ti sembra di vedere un gruppo di soldati ribelli malconci che vanno coraggiosamente verso il nemico, consapevoli che hanno a disposizione una sola opzione: la morte sicura.
Ci sono solo Dylan e Daniel Lanois seduti uno di fronte all’altro, questa volta. Il primo imbraccia una chitarra acustica, il secondo una elettrica. Si sente distintamente il piede di Dylan battere sul pavimento per tenere il tempo. Stanno suonando un tempo di blues, deciso e inquietante. L’immagine, adesso, è quella di Robert Johnson seduto che guarda il muro mentre incide le sue canzoni. I soldati sono andati via, o devono ancora arrivare. La guerra non è ancora scoppiata.
Se il tempo è quello di un blues (e ben si adatta a un demonio che si fa pressante, sulle tracce del protagonista), la melodia che il cantante esegue è la medesima della versione che inciderà quattro anni dopo, anche le parole sono le stesse. Dagli evidenti errori nelle parti di chitarra si desume che questa registrazione è una prova, delle tante che si fanno in studio, per immaginare poi come suonarla con la band. Da come la canta Dylan, magnificamente, senza esitazione alcuna, è invece evidente che per il cantante il pezzo è già definitivo: a differenza della sua incurabile mania di riscrivere le sue canzoni registrazione dopo registrazione, Dylan non toccherà la melodia, il tempo, neanche un verso, nei successivi quattro anni. Lui sa che va bene così.
E di cosa canta, in queste session del 1997, Bob Dylan, in quello che è definitivamente uno dei suoi capolavori assoluti di tutti i tempi, uno di quei “masterpiece” che sembrava avesse dipinto solo negli anni 60 e in qualche sparuta occasione nei 70? Ascoltatelo come modella le parole durante i versi conclusivi, “nothing you can sell me, I’ll see you arOOound”, con l’intonazione da consumato esecutore di Appalachian ballads, la stessa passionalità che aveva messo qualche anno prima nelle incisioni dei due dischi di vecchi traditional Good as I been to you e World gone Wrog. Solo che questa volta la canzone è sua, ma non fa differenza. “Se non hai quel tipo di fondamenta, se non sei ancorato nella tradizione, non andrai da nessuna parte” aveva detto una volta. Ed è così. Questa Mississippi è antica come i canti della Carter Family, ancora di più. Questa Mississippi è di una tristezza infinita, ma anche di una commozione insostenibile. Per chi sta cantando Bob Dylan?
Lui ha detto che il pezzo ha a che fare con la Carta costituzionale degli Stati Uniti, con la dichiarazione di indipendenza e con i diritti civili (nel Mississippi, negli anni 60, si svolsero le più accese battaglie per i diritti dei neri, vedi anche il bel film Mississippi Burning); Lanois probabilmente la sentiva una dichiarazione a una donna, visto che gli chiese di inciderne una versione “più sexy”, al che Dylan lo mandò a cagare decidendo di tenere fuori questo capolavoro dal disco finito. Su Internet una volta ho letto che il protagonista del brano potrebbe essere uno schiavo di metà dell’800 che sta scappando verso la libertà, il nord, e in effetti se letto da questo punto di vista, il testo di Mississppi sembra adattarsi quasi a perfezione, inclusa l’immagine dei compagni che erano salpati sul mare insieme al protagonista, che potrebbero essere schiavi strappati via dall’Africa. E il nero che si racconta, che sogna Rosie, che vorrebbe essere nel letto di Rosie, magari è uno schiavo che ha avuto l’ardire di flirtare con un donna bianca e, condannato a morte e liberato magari da lei stessa, sta cercando di scappare al “diavolo che è nel cortile”. Immagini calzanti, se ci pensate bene. La desolazione che emerge da questa versione del 1997 può essere solo la voce di un condannato a morte.
Ma poi chi può dirlo veramente?

“Ciascuno dei dischi che ho fatto è emanato dal panorama complessivo di ciò che rappresenta l’America per me” ha detto Dylan in una intervista relativa proprio al disco L&T. “L’America per me è una marea montante che solleva tutte le navi, e non ho mai davvero cercato ispirazione in altri tipi di musica”. Mississippi è la conferma che Bob Dylan è stato la più grande voce del suo Paese, almeno dai tempi di Walt Whitman, e ancora non si vede un erede adeguato. In migliaia ci hanno provato, ma nessuno ha raggiunto le vette su cui Dylan si è seduto per scrivere un brano come questo.
Non resta che mettere questa versione del brano in repeat e ascoltarla fino allo sfinimento. Prima o poi, magari, ci svelerà il suo segreto.

Wednesday, April 02, 2008

Superpinkymandy

“Se un tizio mi interessa davvero e voglio avvicinarlo, non c’è mezzo migliore del vecchio solito sistema: chiedergli se ha da accendere” disse una volta Beth Orton.
Il breve incontro con i giornalisti sta ormai finendo, nella stanzetta del piano elevato dell’Alcatraz di Milano e io non penso certo a quella sua frase quando, dopo i saluti, ci stiamo tutti dirigendo all’uscita. Ultimo della fila, quasi a non voler porre fine a quei momenti magici passati con la cantante che mi aveva – e tutt’ora fa lo stesso effetto – fatto riscoprire il gusto stesso di ascoltare la musica –, me la trovo davanti che si fruga le tasche della sua giacca nera di pelle e ne tira fuori una sigaretta: “Hai da accendere?” mi chiede Beth Orton.

Era l’anno 2000, e alla sera – con pessima scelta di chi aveva organizzato quella serie di concerti – avrebbe fatto da opener, in ridotta formazione acustica, nientemeno che a Beck, che loro due saranno anche amici, ma per tutta la durata del suo set a malapena riuscivi ad ascoltare la sua voce divina nel vociare imbecille del pubblico accorso lì tutto per ascoltare il biondo folletto californiano. Il quale fece comunque un bellissimo concerto, ma la mia “prima volta” con la cantante inglese non fu granché, e non certo per colpa sua.

Un paio di anni dopo e siamo a Verona. Questa volta si faranno solo interviste singole, grazie a Dio. Mentre aspetto il mio turno faccio due passi e mi trovo sotto al balcone di Romeo e Giulietta; Verona è la città dell’amore, d’altro canto. Quando entro nel salottino della sua stanza le chiedo perché, fra tante città di tutta Europa dove presentare il nuovo disco abbia scelto proprio Verona: “Coz is fuckin’ beautiful” dice con il suo sorriso disarmante. C’è bisogno di chiedere altro, stupido giornalista?
Circa un mese dopo sarà a Milano per fare uno show. Il posto è il più sudicio e desolante club cittadino che andrà bene per i gruppi punk, ma non per una come lei, che questa volta si presenta addirittura con viola e violoncello. Concerto stupendo, nonostante il posto, comunque, con una travolgente The Best Bit da mandare a memoria. Sono invitato all’after show party e questa volta, mentre lei mi offre una birra, le chiedo io se ha da accendere.

Da allora niente più concerti italiani per Beth (anche se lo scorso settembre venne a Milano, una dell’innumerevole sfilza di artisti che eseguirono per intero Sgt. Pepper’s dei Beatles all’orribile fiera di Rho; inutile dire che fu la migliore del lotto, con Lucy in the Sky with Diamonds), tanto che nel 2006 sono volato fino a Dublino per non perdere la prima del nuovo tour. La cornice finalmente è adeguata, lo splendido Vicar Street, con posto a sedere conquistato senza fatica due file sotto il palco. Una serata di classe assassina, conclusa con una versione da sola della sua incisione che amo di più, nonostante sia un pezzo non scritto da lei, I Wish I Never Saw The Sunshine. Nessun essere vivente sa esprimere maggiormente di Beth Orton il senso di perdita e concludere con un sorriso sulle labbra.

Una intervista telefonica prevista qualche giorno dopo salterà all’ultimo momento, per ragioni che ignoro. Solo qualche mese dopo scopro che Beth è in dolce attesa e che per problemi legati alla gravidanza non si è sentita di farla. Sto ancora aspettando di recuperare l’intervista, ma è più importante sapere che adesso ha una bella bambina, Nancy, di 15 mesi, che l’ha tenuta felicemente occupata. Proprio ieri sera si è esibita a New York nell’ambito di una manciata di date americane che segnano il suo ritorno all’attività musicale. Mi ha detto un amico – fortunato – che era presente a questo show che a un certo punto dopo aver spiegato il motivo della lunga assenza, ha commentato: “And now I love music more than I ever have".

Ne sono felice. Della bambina, che chi conosce la storia di Beth e i suoi problemi di salute capirà che significato possa avere per lei, e del suo ritorno alla musica. Anche se adesso non mi chiederà più di accenderle una sigaretta.

Post scriptum: prima di scatenarvi con i commenti, quello per Beth è solo un amore platonico.

Sunday, March 09, 2008

Notes from the underground


I was born at the right time, I know that, because I fell in love with the guitar and rock and roll and I have walked on this planet in the shadow of Elvis Presley and the footsteps of Bob Dylan
(Elliott Murphy)

Se vi capita di essere a Parigi per assistere a un concerto di Bruce Springsteen,non perdete tempo a fare una scommessa. E' sicuro, come è sicuro che è successo ogni volta negli ultimi dieci anni più o meno, forse anche di più, che verso a un certo punto salirà sul palco Elliott Murphy. A dire il vero è successo anche una volta in Italia, a Bologna. Era il 2002 e io ero in ospedale ad aspettare che nascesse la mia seconda figlia. La mattina dopo quel concerto, quando aprì il cellulare, lo trovai intasato da almeno una dozzina di sms che i miei amici springsteeniani mi avevano mandato quella notte, del tipo "ELLIOTT... BRUCE... STANOTTE... SUL PALCO...". Sapete, il livello di conversazione più o meno quello di E.T. ("TELEFONO... CASA..."). Ma questi sono gli effetti che il rock'n'roll pùò avere sugli animi particolarmente sensibili, li capisco bene. Comunque, chiamai subito Elliott al cellulare, fingendo incazzatura:"Ehi, ma la prossima volta che pensi di salire sul palco con Bruce, fammi il favore di avvertirmi, così oltre a non perdermi il duetto magari me lo presenti anche". Se c'è una cosa che Mr Murphy non sa fare, è mentire. D'altro canto nelle liner notes di un disco live dei Velvet Undeground, una volta aveva scritto uno dei più bei pensieri a proposito di questa musica, "il rock'n'roll è una l'unica cosa onesta rimasta in giro", e lui di rock'n'roll sa una cosa o due.
Be', con la voce piena di stupore lui stesso mi rispose: "Shit, man... neanche io so quando riesco a salire sul palco con Bruce!".

Partiti da una città di perdenti più o meno nello stesso periodo e più o meno nella stessa zona, Elliott non ha avuto la stessa fortuna del suo amico Springsteen, ma oggi non se ne fa più un cruccio. Fa i suoi dischi (uno nuovo è in uscita proprio in questi giorni, come sempre con un titolo ricco di fascino, che è po lo stesso di questo post, Notes from the Underground), fa i suoi tour (sarà in Italia dal 12 al 16 marzo, non perdetevelo se siete nei paraggi di dove suona; le date le trovate sulla sua pagina MySpace, dove si può ascoltare anche un pezzo del nuovo disco, http://www.myspace.com/elliottmurphy ), scrive - benissimo - anche dei libri. L'ultimo, un romanzo western, è uscito da poco anche in Italia. E poi ha inciso no sfracello di grandi dischi che gli valgono una pensione dorata nel grande libro del rock, i miei preferiti se a qualcuno interessa sono senz'altro Night Visions e Selling the Gold (in quest'ultimo c'è anche un gran bel duetto proprio con Bruce).


La prima volta che l'ho conosciuto di persona, fu a un convegno di poeti e cantanti, dalle parti di Venezia, più di dieci anni fa. Era piuttosto incazzato perché gli organizzatori lo avevano lasciato ad aspettare tutto il giorno alla stazione di Venezia e quando era finalmente arrivato,aveva scoperto che Allen Ginsberg, con la cui promessa che sarebbe stato presente alla serata lo avevano allettato a venire appositamente da Parigi, non c'era. Welcome to Italy, Elliott... Nonostante questo aveva rilasciato, da par suo, una splendida performance.

Nel 2002 fu così carino da venire apposta, sempre da Parigi (città in cui vive ormai da parecchi anni, con una splendida moglie e un simpatico figlio che va pazzo per la musica heavy metal), per la presentazione del mio libro su Bob Dylan, per cui aveva scritto una splendida introduzione. Il libro non importa se non lo avete letto, che non è nulla di che, ma la sua introduzione se ve la siete persa la potete trovare qui, ne vale la pena: http://www.elliottmurphy.com/writings/dylan.html
Il pomeriggio prima della presentazione, in cui diede vita a un formidabile set acustico di brani dylaniani e suoi, tra cui una travolgente esecuzione acustica di Like a Rolling Stone impreziosita da una delle sue mitiche introduzioni che io trovo più spassose ed epiche di quelle di Bruce Springsteen, eravamo seduti in un bar di Milano. Vicino al nostro tavolo erano sedute due belle ragazze che continuavano a lanciarci occhiate. Da vecchi sopravvissuti del rock'n'roll, io ed Elliott eravamo piuttosto lusingati. A un certo punto una delle due si avvicina e timidamente mi chiede: "Mi scusi, ma il suo amico è Tom Waits?? Sa, sono una grande fan...". Elliott non voleva crederci, quasi cascò giù dalla seggiola per le risate. "No, non è Tom Waits, ma scrive canzoni belle come le sue". Sia io che Elliott rimanemmo un po' male nel vedere, alla fine della serata, che le due non si erano fatte vive nonostante il nostro invito...
Ah, il concerto che fece quella sera si trova - ancora, credo - da scaricare sul sito dimeadozen. E' davvero carino, anche se di qualità approsimativa. Ogni volta che lo riascolto, mi vengono i brividoni a sentire Elliott che dal palco dice "grazie a Paolo, che con i suoi libri tiene vivo l'amore per il rock'n'roll". Mi sento un po' come se fossi stato ammesso anche io nella Rock'n'roll Hall of Fame.

Nel 2004 ebbi il piacere di portarlo a suonare al Meeting di Rimini. Non gli capita spesso di suonare su un palco vero e proprio davanti a qualche migliaio di spettatori, e quella sera fu un evento formidabile, una roba d'altri tempi, per uno che negli anni 70 aveva suonato con i migliori musicisti della scena rock e registrato con i migliori produttori. Elliott, chiamato il "nuovo Bob Dylan", sembrava proprio dovesse diventare ancora più grande di Springsteen. E' andata diversamente e oggi non gli capita spesso una cosa così: spesso deve esibirsi in scalcinati club da quattro soldi. A un certo punto del concerto, un centinaio di ragazzi si buttarono sotto al palco a saltare come se fossimo stati a uno show dei Green Day. Alcuni di loro si facevano passare uno sopra l'altro, sapete, come si fa ai concerti dei gruppi punk. Elliott mi confessò dopo che per un istante era stato tentato di buttarsi giù dal palco sulla folla, ma gli era sembrato un po' troppo una cosa tipo Spinal Tap.

Che sia un gran palco o un piccolo club, un suo concerto è sempre una cosa che non si domentica. Lui suona sempre come se fosse l'ultima occasione della sua vita, e la dice lunga dell'amore che ha ancora per la musica: "Scrivere libri è la mia passione, ma il rock'n'roll è la mia religione" ha detto una volta. Un anno fa, o forse, due, sempre in questo periodo di Pasqua, venne a suonare nella sperduta provincia di Pavia. Per colpa di un amico troppo eccitato, arrivammo lì alle nove e il concerto cominciava alle undici. Elliott beve solo acqua ormai da anni, ha superato con successo le brutte abitudini del rock'n'roll, io invece ancora no. Per quando il concerto era cominciato, ero ormai così ubriaco che dopo un paio di canzoni dovetti andare a sedermi in macchina perché rischiavo di crollare a terra. In qualche modo, ancora non so come, riuscii a tornare a casa. Elliott mi chiamò preoccupato il giorno dopo: "Hey man, are you alive? Non ti ho più visto a un certo punto".Gli spiegai le vicende e da gran signore come lo è sempre, mi disse di raggiungerlo la sera dopo al concerto successivo. Il mio nome sarebbe stato ancora sulla guest list.
Nel 2006, a Pistoia, ebbe l'onore, per la prima volta nella sua carriera, di fare da opener a Bob Dylan. Abbiamo provato tutti e due a cercare di andare a salutarlo, ma poi visto che lui se ne stava blindato nel suo bus, abbiamo preferito andarcene a mangiare in una ottima trattoria toscana. C'è di meglio, nella vita. Fui io, questa volta, a cercarlo dopo il concerto. "Elliott, dove cazzo sei? Magari adesso passa di qui Bob". "Uh" mi rispose dalla sua camera d'albergo con la voce assonata. "Me ne sono andato dopo le prime due canzoni... Non mi sembrava che stesse cantando granché bene...". Non potei dargli torto.

Non mi ha ancora presentato Bruce, ma non ci dispero. Comunque non importa. Le storie di rock'n'roll che mi ha raccontato e i suoi concerti che ho visto mi bastano e mi avanzano. C'è un nuovo disco in uscita, e sebbene la mia canzone preferita di Elliott Murphy rimanga un pezzo che scrisse negli anni 70, la bellissima Diamonds By the Yards, un autentico poema rock'n'roll, una di quelle canzoni che danno un significato a questa musica , ogni suo disco è come un libro che vale la pena fermarsi a meditare a lungo.
Ma non offritemi un drink, al prossimo concerto di Elliott. I'm too old for rock'n'roll, but too young to retire...

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