Tuesday, October 30, 2007

I was born in a smalltown


INTRA SIESTRI E CHIAVERI S’ADIMA UNA FIUMANA BELLA...

(Dante, Purg., XIX)

Non so quante città italiane sono citate nella Divina Commedia. So che la città, Chiavari, dove ho vissuto fino ai miei vent’anni, lo è. A dire il vero, il Sommo Poeta commise una scorrettezza, quando disse che il fiume Entella (la “fiumana bella", come la chiamava lui) si trovasse tra “Siestri” (oggi Sestri Levante) e “Chiaveri” (oggi Chiavari): il fiume infatti scorre tra Chiavari e Lavagna (dove sono nato, poi passato dall’altra parte del fiume all’età di 6 anni), ma sembra che i simpatici cittadini di quel borgo non lo avessero trattato poi così bene, meritandosi dunque la clamorosa esclusione dal massimo esempio di poesia di tutti i tempi. Della serie: anche i poeti si incazzano…

Se il significato di “Lavagna” è chiaro a tutti (alcune delle maggiori cave di ardesia si trovano qui intorno), quello di “Chiavari” è ancora tema di discussione: Clavari, Clavarum, Clavarium, Clavara, Clavai, Clavaro, Clavario, Clavarii, Clavaris, Clavero, Claverim, Chiaveri. L’elenco potrebbe continuare con un simpatico “Chi” (qui) “avari”, ma siamo genovesi, perciò non chiamateci taccagni. Sembra invece che il vero significato del nome sia piuttosto “Chiave” di “Ri”: Ri è oggi una frazione della stessa Chiavari, ma nel Medio Evo era un ricco borgo collinare che trovava sbocco al mare proprio in quella che sarebbe diventata Chiavari.
(La chiesa di S. Stefano, a Lavagna)

Alzi la mano chi glie ne può fregare di meno di tutto questo. Nemmeno io. L’unica cosa che so è che oggi, 25 anni dopo essermi trasferito a Milano, la mia cittadina sul mare mi manca sempre di più. Mi mancano i suoi carrugi vecchi e scuri, mi manca l’odore del mare quando d’inverno sbatte furiosamente con onde alte sugli scogli, mi manca – e anche tanto – la focaccia genovese, che non ho mai capito come mai a Milano non c’è un cane di fornaio che la sappia fare. Sarà così difficile?
(Chiavari by night)

Quando avevo vent’anni, per dirla alla Springsteen, sognavo di andarmene da una città di perdenti in cui non capitava mai niente, per vincere altrove. Me ne sono andato e credo di non aver vinto nulla, e per dirla alla Guccini, ho capito che è proprio vero che “a vent’anni si è stupidi davvero, quante balle si ha in testa a quell’età”.
(La Baia del Silenzio, a Sestri Levante, dove ho passato più di una notte a smaltire sbornie e quant'altro...)

Mio padre era un marinaio, ma non ha mai voluto che facessi il suo lavoro. Credo ci sia un motivo per cui la vita segua un percorso invece di un altro, e in fondo quando guardo le mie figlie credo di aver, alla fine, vinto qualcosa anche io e capito perché da 25 anni sono dove sono: non ci sarà un cane di fornaio in questa città che sappia fare la focaccia, le strade invece di odorare di mare puzzano di smog e spazzatura e invece di passeggiare sulla spiaggia devo trovarmi ogni volta un giardinetto pubblico che non sia una discarica e sia appena più grande della mia camera da letto, ma qui il mio destino si è reso realtà fatta carne, avvenimento quotidiano.

E poi mia figlia ha già ripreso in mano il timone lasciato dal nonno… La dinastia è in buone mani.

Tuesday, October 23, 2007

Tremate. Le Aquile son tornate.


Dai, non facciamo i furbetti. Già vi vedo tutti quanti a ridermi in faccia e a citarmi quella scena de Il grande Leboswki, quando Drugo (il formidabile protagonista del film, interpretato da un altrettanto formidabile Jeff Bridges) si incazza perché in macchina qualcuno ha messo gli Eagles: “Butta via quella merda e metti i Creedence”, sbotta. O qualcosa del genere. Perché sì, lo so, dirsi fan del gruppo di Don Henley e Glenn Frey non è mai stato cool, non lo era trent’anni fa e tantomeno lo è oggi, che questi hanno sessant’anni anche loro e che ci fanno ancora in giro, con le loro melense melodie di una California “peace & love” che ci ha proprio rotto i coglioni.

Cavoli vostri: mi piacevano allora (ancora ricordo quando, con un amico, ascoltammo alla radio un pomeriggio del tardo 1976 per la prima volta Hotel California, saltando in giro per la stanza eccitati da quello che ci sembrava “l’assolo di chitarra più fico della storia del rock”) e mi piacciono ancora, che questo disco lo aspettavo da 28anni, tanti ne sono passati da quando uscì The Long Run. Avevo paura, questo sì, di trovarmi di fronte quel pop infarcito di synth e ritmi dance che ha caratterizzato tanta della produzione anni 80 e 90 di Henley e Frey e anche se li avevo visti nel 2001 in un concerto strepitoso, dubitavo fossero in grado di mettere giù due canzoni che fossero due di livello accettabile. Invece parte la prima traccia, No More Walks In The Wood (e vabbè che, stando ai credits, risale al 1993 ed è stata scritta dal solo Don Henley con l’apporto di un paio di collaboratori) e stento a credere a quello che ascolto: voci che armonizzano grandiosamente con un soffuso accompagnamento di chitarra acustica, quasi fosse un pezzo del primo disco di CSN. Poi quando parte How Long (e vabbè che l’ha scritta uno che non è degli Eagles, J.D. Souther, e risale al 1973, anche se lui ha scritto tanti hit degli Eagles anni 70) comincio a saltare intorno al tavolo: sembra Take It Easy, no sembra Already Gone. Cazzo, ma questi sono gli Eagles addirittura pre Hotel California, quelli country-rock che di più non si può. Henley e Frey si alternano alle strofe di un incalzante rock’n’roll intinto di California e il disco per me potrebbe già finire qui che sarei a posto così. Invece Busy Being Fabulous – terza traccia – è ancora sospesa nei 70’s, una ballatona ariosa impostata su chitarre acustiche da sogno (e questa l’hanno scritta proprio loro, Don & Glenn, come ai vecchi tempi). E si prendono anche in giro: “Sono tornato a casa e ho trovato un biglietto ‘Non aspettarmi stasera, credi non sappia che sei in giro con i tuoi amici sballatoni? Ma dove pensi di andare quando il party sarà finito, sei stato troppo impegnato a crederti favoloso per pensare a noi’”. Già, troppo impegnato a fare la rock star, una vita da scemo: “Hai fatto sempre la bella vita alle feste ma adesso amico, sei solo uno scherzo”.

Già ai tempi di Hotel California Don Henley si lamentava che tutti si scaldassero per i testi delle canzoni di Bruce Springsteen e considerassero i loro “robetta commerciale”. Peccato che in pieno 2007, la miglior canzone anti-establishment, dopo le vaccate di Neil Young e tanti colleghi “impegnati”, la scrivano proprio loro, gli Eagles, nei dieci minuti della title track. Che non solo ha le liriche più poetiche e meno qualunquiste sentite fino ad oggi in un brano che attacca Bush, la guerra in Iraq, i petrolieri, l’american way of life senza scadere nel linguaggio da pamphlet iperideologico, ma è anche una solidissima rock ballad che comincia con una melodia mediorientale e si dipana poi su robuste chitarre e un assolo da favola (Joe Walsh). Certo, questo disco poteva essere un solo cd (che a volte sfugge loro la mano e si perdono in qualche melensaggine soft rock al limite dell’overdose di saccarina, come What I Do With My Heart o I Don’t Want To Hear Any More, per non dire dell’orribile Last Good Time In Town, e tante grazie Joe Walsh per questo insulso rockaccio caraibico), ma insomma, ci hanno messo quasi tre decenni e lasciamoli sfogare.

Che di buona musica ce n’è ancora tanta, come il rock ruvido di Somebody, il funk di Frail Grasp On The Big Picture (“Le tue fissazioni romantiche non hanno nulla a che fare con la domanda eterna: ‘Chi cazzo ha dimenticato di mettere il tappo al dentifricio?’”; “E preghiamo nostro Signore, sappiamo che Lui è americano”), lo splendido folk con tanto di pedal steel di You Are Not Alone, la grinta black con fiati incalzanti della superba Fast Company. Ad esempio. E quando Glenn Frey decide di chiudere il discorso, con il tex-mex di It’s Your World Now (scritta con Jack Tempchin, altro collaboratore degli Eagles dei tempi d’oro), sappiamo che ok, loro non saranno più i “new kid in town”, ma l’onestà di guardarsi in faccia, pochi altri “stagionati colleghi” ce l’hanno: “È il tuo mondo adesso, la mia corsa è finita, un giorno capirai quanto duramente ci abbia provato e quanto tu abbia significato per me, è il tuo mondo adesso, usa bene il tuo tempo”. Loro passano la mano: “Sii parte di qualcosa di bello, lasciati dietro qualcosa di buono, per me il sipario cala”.

Gli Eagles, alla faccia di Drugo, ne hanno lasciate di cose buone.

(da JAM 142, novembre 2007)

Wednesday, October 17, 2007

Trinity Revisited


Nel 1987 avevo smesso di ascoltare musica rock in modo serio e continuativo ormai da cinque, sei anni. Mi tenevo aggiornato – ovviamente – solo su due eroi che amavo troppo per lasciarli andare, Bob Dylan e Bruce Springsteen, anche se discograficamente erano messi male anche loro. Li andavo a vedere in concerto, naturalmente (e proprio in quel 1987 ebbi modo di vedere per la prima volta un altro eroe, Neil Young, in un concerto indimenticabile anche perché interrotto a metà da cariche di polizia e quant’altro).
Mtv non aveva ucciso solo le “radio stars”, come aveva profetizzato qualcuno, aveva anche ucciso la buona musica rock, riducendola a videoclip beoti per ragazzini storditi a base di synth e batterie elettroniche.

Nel 1987 però mi stavo anche riavvicinando alla musica rock grazie a un gruppi di amici del mio paesello natale che stavano cercando di sfondare nel mondo della musica (non ce l’avrebbero fatta, ma ci siamo divertiti un casino: no, io non suonavo, avrei dovuto essere il loro Jon Landau, ma finii la mia carriera quando li portai a suonare a un festival rock dove nessuno aveva pensato di procurare la batteria. Un giorno vi racconterò anche questo). Così sfogliando ancora con noia le riviste rock di allora, venni a leggere di questa giovanissima band canadese che aveva registrato un disco in un solo pomeriggio, e per di più dentro a una chiesa, a Toronto. Il nome era affascinante, Cowboy Junkies (“i cowboy drogati”), il titolo del disco anche, The Trinity Sessions, e poi facevano Sweet Jane dei Velvet Underground.

Lo presi, lo ascoltai, lo amai subito. Ci sarebbe voluto ancora un po’ per il mio ritorno totale alla musica rock, ma qualcosa era successo.
Era successo qualcosa anche per le acque stagnanti del rock, e pure Mtv dovette accorgersene, che si trovava a fare i conti nuovamente con una musica vera, capace di raccontare i tormenti dell’anima, le ansie dello spirito, recuperando la tradizione antica (canzoni di Hank Williams, I'm So Lonesome I Could Cry), vecchi brani popolari (Mining for Gold), dediche a fantasmi inquieti (Blue Moon Revisited (For Elvis)) e storie troppo belle per essere accantonate (quella Sweet Jane, rallentata in modo impossibile, diventava invece di un inno alla vita spericolata, una lugubre nenia che avrebbe fatto dire al suo autore, Lou Reed, “questa è la più bella versione mai fatta del mio pezzo”).
Trascendendo tempo e spazio, i Cowboy Junkies avevano fatto quello che ogni vero disco rock dovrebbe fare: si erano spinti “oltre”, mettendo in una manciata di canzoni il mondo intero.

Vent’anni dopo sono tornati sulla scena del crimine, è hanno reinciso l’intero disco ancora una volta in quella chiesetta di Toronto, con alcuni ospiti: Natalie Merchant, Ryan Adams e Vic Chesnutt.
Hanno filmato tutto e il risultato è nel bellissimo dvd (con anche un cd audio) Trinity Revisited, appena uscito.
Cantano e suonano ancor meglio, ma sono rimasti sempre gli stessi “dolorosi visitatori dello spirito” che erano vent’anni fa. E finalmente possiamo vedere quella misteriosa e affascinante chiesetta dove un giorno il rock era tornato a essere la più bella e inquietante espressione dell’animo umano che questi tempi moderni hanno saputo esprimere.

Forse il segreto di questa storia bellissima è racchiuso per sempre nelle mura della chiesetta. Come dicono loro: “We came, we played and the church did the rest”.

Sunday, October 14, 2007

Mohammed's Radio is back



Click on "Launch standalone player"

(La radio di Mohammed è da oggi inserita in modo stabile a fondo pagina, in modo che quando questo post avrà voltato pagina, la radio ci sia sempre. Sarà aggiornata e la sua playlist cambiata almeno una volta alla settimana. Stay tuned.. and enjoy the music)


Thursday, October 11, 2007

SCOOP! Nel backstage con i favolosi... TAYLOR!

Ebbene sì, anche noi nel nostro piccolo riusciamo in "imprese impossibili". Come questa volta, quando grazie a una nostra inviata travestita da groupie - a cui ovviamente i favolosi... TAYLOR! hanno immediatamente aperto le porte al grido di "Cavoli, era dall'Isola di Wight nel 1970 che una ragazza non veniva a cercarci nel camerino" - siamo riusciti a immortalare il grande gruppo rock intento a prepararsi per il concerto della reunion dello scorso settembre.

Rolling Stone e New Musical Express ci hanno offerto cifre indicibili per questo scoop, ma noi, fedeli all'etica che il rock'n'roll non si svende, abbiamo rfiutato.

Ecco i favolosi... TAYLOR! in tutta la loro bellezza di sopravvissuti del rock'n'roll. Chi avrebbe mai detto che anni di abusi e di vita spericolata li avrebbero conservati così in forma?

Qui, appena giunti in camerino, Magù detto "la chitarra di Dio" riceve una telefonata dal manager dei Rolling Stones che gli chiede se è disponibile a sostituire Ron Wood nei prossimi concerti di Jagger & Richards: purtroppo problemi di udito dovuti agli anni passati accanto agli amplificatori gli impediranno di cogliere il senso della telefonata. Il cantante della band, Poldo "Da Man", sorride eccitato alla prospettiva di conoscere Keith Richards.

In questa foto il tastierista e sassofonista del gruppo scruta sospettoso un misterioso pacchetto ricevuto nel backstage: "Non vorranno mica incastraci come quella volta ad Altamont nel 1969, quando ci misero la droga in camerino?" si chiede. L'astuto batterista, "The Mighty Lambicco" chiama la zia per scoprire l'arcano:


Lui, "Poldo Da Man" è il sex symbol della band, come ogni buon cantante che si rispetti. Forma fisica perfetta, nonostante l'età avanzata, che mantiene grazie a una dieta personalizzata preparata dal medico personale di Ozzy Osbourne. La giacca bianca l'ha avuta in prestito dal fratello scemo di Bryan Ferry:


Lo chiamano "Taxi Driver", nessuno ha mai capito il motivo. È lo stantuffo ritmico della band, Ciro The Bass Player:





È il più giovane del gruppo, con i suoi 59 anni. Ma le sue doti chitarristiche hanno portato nuovi stimoli a un gruppo che sembrava incapace di rinnovarsi. Per gli amici semplicemente "L'architetto". Del suono, ovviamente:

Ci sono volute diverse ore, ma l'opera di restauro è perfettamente riuscita. Indossando la veste che usò per la prima volta all'Ed Sullivan Show quando nel 1956 accompagnò Elvis Presley alla sua prima apparizione televisiva, eccolo in tutta la sua gloria, the greatest, the maximum rock'n'roll, the immense guitar player...

MR MAGU'!

E ora sono pronti per un'altra notte di rock'n'roll, per farci sentire ancora una volta come se avessimo 16 anni perché, lo sapete...

ROCK'N'ROLL CAN NEVER DIE

Saturday, October 06, 2007

Just across the borderline


Vabbè. Doveva succedere prima o poi, e ben mi sta. Per uno come me che sono anni che va in giro sbandierando ai quattro venti che il rock è morto, che è dai tempi di Nevermind - 1991 - che non esce più un disco rock degno di questo nome, eccomi qua, a giocherellare incredulo con fra le mani il cd di questo benemerito sconosciuto (fino ad oggi - Tale Ryan Bingham, provenienza da qualche parte là nel Texas, là sul confine fra Messico e Stati Uniti). Mescalito è il titolo di questo disco, non il suo primo, ma il primo per una major (e poi dicono ancora che è la musica indipendente a fare la differenza - ma per favore), prodotto da un fenomeno come Marc Ford, già chitarrista dei Black Crowes e di Ben Harper.
Un disco che puzza lontano un miglio di cantine fumose al sapor di tequila, che ha il "Blood on the Tracks" di dylaniana memoria, l'"Exile on Main Street" degli Stones e la disperazione springsteeniana di "The Wild, the Innocent and the E Street Shuffle" nei cromosomi. Così come l'anima antica di un Joe Ely e di un Terry Allen a far compagnia. Hank Williams, nel paradiso delle country star, sorride compiaciuto, ovviamente.

25 anni, sopravvissuto a due genitori che l'hanno cresciuto in mezzo a bottiglie di alcol e dosi di eroina ("Perdere la fede nella mia famiglia mi ha fatto uscire di testa", canta in "Southside Of heaven"; per chi ancora predica che un mondo liberato dalla zavorra della famiglia è un mondo migliore...), Ryan Bingham è qua a raccontarci come ci si può attaccare lo stesso alla vita, e che - già -: "rock'n'roll never die". Ma lo fa con un banjo che lotta con una slide bastarda, e con la dolcezza di una notte messicana piena di stelle. Una voce fumata, bevuta, straziata che manco Tom Waits quando non era ancora la macchietta che è diventato oggi.

Un disco che nasce là, da qualche parte fra la "Boracho Station" e una "Long Way From Georgia".
Fine delle comunicazioni - Texas, the Lone Star State - the music is alive. Don't you dare miss it

www.myspace.com/ryanbingham

God bless.

Tuesday, October 02, 2007

Sulla spiaggia - come sopravvivere agli anni 60

I am a lonely visitor
I came too late to cause a stir
Though I campaigned all my life
towards that goal
I hardly slept the night you wept
Our secret's safe and still well kept
Where even Richard Nixon has got soul
Even Richard Nixon has got
Soul

(Neil Young, Campaigner)
C’era una volta una generazione che aveva sognato di cambiare il mondo. Non era tanto un problema di sistemi politici in cambio di altri. Era piuttosto uno stile di vita contro l’altro. C’è una scena magnifica, nel bel – seppur dimenticato – Taking Off, film che Milos Forman girò appena giunto negli Stati Uniti, fuggito dall’occupazione sovietica della sua Cecoslovacchia, che coglie meglio di quanto hanno fatto molti americani quello che succedeva proprio negli Stati Uniti alla fine dei 60. Una ragazza convince i genitori a invitare a cena il suo fidanzato. Quando gli aprono la porta, trovano il classico hippie dai capelli e dalla barba lunga da cui avevano sperato di tenere lontano la figlia. La cena procede nel massimo imbarazzo e freddezza, fino a quando il padre chiede al giovane che lavoro faccia. Questi dice di avere uno studio dove si registrano i dischi di musica rock. Il padre sorride, come dire, ecco qui bambina mia, te lo avevo detto che si tratta di balordi senza una lira. Gli chiede, sogghignando, quanto guadagna in un anno. Lui risponde pensieroso diverse decine di migliaia di dollari. Praticamente il doppio o forse anche più di quello che il pover’uomo guadagna con la sua onesta professione di assicuratore o impiegato di banca.
Della serie: c’è un tipo nuovo in città, i tempi sono cambiati.

Di fatto, quella generazione con i suoi sogni e utopie stava veramente cambiando il mondo. Avevano eclissato il concetto di matrimonio, proclamando l’amore libero e lo scambio di coppia, anche i rapporti a tre, come li cantò David Crosby nella sua Triad, e ad esso opponevano la vita nelle comuni; avevano superato le porte della percezione decretando il potere delle droghe come superamento delle leggi fisiche e del concetto di realtà come fino allora era conosciuto; avevano inventato una poesia sonica, che non si leggeva più nei libri, ma si ascoltava dai dischi e nei concerti; stavano fermando una guerra, quella in Vietnam, con le marce nelle strade.
Credevano fermamente nell’idea di pace & amore universali e quando a Woodstock, in un campo di patate trasformato in una immensa latrina di fango, si contarono e videro che erano un milione e più, pensarono di aver vinto.
Durò poco, però. Solo pochi mesi dopo le belle vibrazioni di Woodstock, a un altro festival, ad Altamont, uno del servizio d’ordine decise che per calmare i turbolenti spiriti di uno spettatore ci volesse una bella coltellata nella schiena. Come si inaugurò il nuovo decennio, poco dopo quel festival, cominciarono a cadere giù come pere molli da un albero uno dopo l’altro quegli eroi che avevano infiammato gli spiriti, e grazie a quella cosa che sembrava averli liberati da ogni costrizione delle passate generazioni: la droga. Janis, Jimi e infine Jimi, nel giro di un anno alcune delle menti migliori di quella generazione, erano dei cadaveri, belli come quando si muore giovani, ma pur sempre cadaveri, Li aveva preceduti un altro Mister J, Brian dei Rolling Stones. A dare il colpo di grazia ci pensò uno di loro, un hippie fondatore di una vivace comune, che pensò che bisognasse uccidere tutti i ricchi per far trionfare il mondo nuovo. Con una strage di esagerata crudeltà, gli adepti di Charles Manson un bel giorno massacrarono gli ospiti della bella attrice Sharon Tate, moglie del regista Roman Polanski, e lei stessa, nonostante il pancione in cui stava portando un figlio. Sulla pancia squartata scrissero “pig”, maiale, e sui muri con il sangue delle vittime scrissero Helter Skelter, che era il titolo di una bella canzone dei Beatles.

Adesso rock’n’roll non faceva più rima con pace & amore, adesso era sangue & morte. Da gran saggio come era, il buon John Lennon capì che i tempi erano cambiati, di nuovo. Mentre i Beatles – che avevano incarnato lo spirito stesso degli anni 60 con tutto ciò che di bello aveva rappresentato – se ne andavano per quattro strade diverse, dichiarò sommesso: “The dream is over”. Il sogno è finito.
Qualcuno fece spallucce e cominciò a meditare di tornare nel sistema. Altri se la presero a male e ci misero anni per tirarsi fuori da tutto questo catafascio morale che aveva ucciso i loro sogni più belli.

C’è un disco, uno solo, che racconta tutto questo trauma. Lo fa in modo crudo, fastidioso, cinico, a tratti suonato in modo sconclusionato, in altri cantato con la voce impastata di chi ha bevuto troppo per dimenticare, ma lo fa in modo onesto. Sin dalla copertina, un signore a metà strada tra un hippie (i capelli lunghi) e il turista per caso di buona borghesia (la giacca, i pantaloni eleganti) a sottolineare l’incertezza per quale identità indossare, adesso che il sogno è finito. Intorno a lui oggetti balordi (un missile, un ombrellone) a sottolineare il caos in cui si dibatte, sta di spalle su una spiaggia deserta e dai colori lividi. Disperazione che poi, nel disco, si toccherà a piene mani. C’è Charles Manson, in Revolution Blues (“Ho sentito dire che il Laurel Canyon è pieno di star famose, ma le odio più della lebbra e le ucciderò tutte”), c’è il rapporto di coppia, pensato perfetto, che invece va in pezzi, in Motion Pictures; c’è – nella title-track - la rock star abbattuta e incapace di guardarsi davanti che durante una intervista radiofonica vede il suo interlocutore addormentarsi davanti a lui per aver fumato uno spinello di troppo(episodio veramente accaduto a Neil Young), tanto è ormai l’interesse che questi musicisti rock sanno destare. Mentre la realtà stessa sfugge di mano (“Il mondo sta girando, spero non scappi via”), insicuro ormai del suo stesso ruolo (“Ho bisogno della gente, ma non sono capace di affrontarli giorno dopo giorno”).
Già nel primo pezzo, l’apparentemente ottimistica Walk On (“tira dritto”) aveva denunciato la separazione avvenuta fra l’uomo-artista e quelli che fino a poco prima lo avevano osannato come portavoce di una generazione: “Sento certa gente parlare male di me, tirano fuori il mio nome, lo fanno circolare, non fanno menzione dei bei tempi”. Poi l’ammissione di umana incapacità a dare delle risposte a chi se le attende, mentre tutto scivola nel disfacimento: “È difficile cambiare tutto ciò, non sono in grado di dire loro come debbano sentirsi, alcuni vanno fuori di testa, altri si comportano in modo strano, ma prima o poi, tutto diventa reale”.
Accettare il reale sembra l’unica coraggiosa opzione, perché in Vampire Blues lo dice chiaramente: “I bei tempi stanno arrivando, lo sento dire ovunque, ma sicuramente ci stanno mettendo un bel po’”. Troppo tempo, la vita non aspetta.

E poi c’è uno dei massimi esempi di canzone rock mai incisi, un autentico documentario in diretta, un piccolo guerra & pace della sopravvivenza hippie. Con alcune delle accuse più taglienti mai rivolte agli altri, a se stessi, alla propria inadeguatezza di vivere.
Ambulance Blues (e il titolo fa già pensare a uno che deve star proprio male) comincia ricordando i bei giorni in cui tutti i sogni erano interi, e la giovinezza sembrava sconfiggere ogni cosa, ma poi qualcuno si è approfittato della bella Isabella (la sua generazione?) e l’ha fatta a pezzi.
Fa capolino Mother Goose, personaggio delle fiabe per bambini, ma anche lei adesso che si è diventati adulti non può più consolare nessuno. “È difficile dire il significato di questa canzone” si chiede a un certo punto lo stesso Neil Young, ed è una ammissione feroce e coraggiosa, per uno che cantava di cambiare il mondo. Adesso non sa neanche più di cosa canta. “È facile seppellirsi nel passato quando cerchi di far durare una bella cosa”. Poi alza la testa, in un moto d’orgoglio, davanti a quei soloni, a quei maitre de pensiere che lo stanno attaccando per aver abbandonato la canzone militante: “E voi critici, sedetevi da soli, voi non siete migliori di me per quello che mostrate, potremmo metterci tutti insieme a fare un po’ di cazzate”, un film dell’assurdo che è diventata la vita. Ma quali utopie, quali ideologie, sembra dire quest’uomo che sta vedendo morire di eroina i suoi migliori amici come il chitarrista della sua band, Danny Whitten.
Poi, con un colpa di coda che sfodera un ultimo scorcio di umorismo tagliente ma efficacissimo, il nostro si gira, lo immaginiamo con il ghigno devastante che capeggia nelle foto del disco successivo, il lugubre canto di morte Tonight’s The Night, e ci dice tutto quello che c’è da dire: “Lo sento ancora che dice: state tutti pisciando nel vento. E non c’è nulla come un amico che vi dice che state pisciando al vento”. Con buona pace di chi voleva cambiare il mondo, la vita è più grande di noi, ci supera da ogni parte ogni volta che pensiamo di possederla: stiamo solo pisciando nel vento.

Resta, alla fine, un barlume di speranza, nelle accorate parole della bella See The Sky About to Rain: “Guada il cielo quando sta per piovere. Alcuni sono destinati alla felicità, alcuni alla gloria, alcuni a vivere con meno. Ma chi può dire il tuo destino?”.
Mai, in un disco rock, la domanda di significato della vita era stata espressa in modo più coraggioso. E mai più lo sarà.


On The Beach, Neil Young (Reprise, luglio 1974). Un capolavoro (da ascoltare obbligatoriamente tra Times Fade Away e Tonight’s The Night, una trilogia indissolubile)

Sangue nei solchi del cuore

“Bob Dylan è in città, c’è bisogno di catturare qualcosa di magico”. La “città” è ovviamente New York, al telefono John Hammond, il più gran...

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