Saturday, October 29, 2011

Tutto in una notte

Sto soffocando. Non riesco a respirare. A volte mi succede, vado in apnea, colpa anche del catarro di tutti i milioni di sigarette che mi sono fumato e che a notte fonda viene su e blocca la gola. Mi alzo alla velocità della luce, ormai ho imparato come fare appena ne avverto i sintomi. Non come le prime volte che correvo gesticolando per la casa terrorizzando tutti. Passa, in pochi secondi, ma anche questa volta è stata una bella scarica di adrenalina. Non ho più sonno.

(Intendevo pregare, anche, quale mia unica attività, pregare per tutte le creature viventi; capivo che era l'unica attività decente rimasta al mondo. Arrivare in qualche letto di fiume chissà dove, o in un deserto, o sulle montagne, o in qualche capanna del Messico o in una baracca sugli Adirondack, e riposare ed essere buono senza fare nient'altro *)

Vado in cucina, metto su una tisana conchissàcosa e per buona misura ci fumo sopra una sigaretta. Accendo il televisore. A quest'ora, mancano pochi minuti alle due, passano sempre i film migliori. Sono fortunato, quando non dormo a notte fonda becco sempre dei film straordinari di cui non avevo neanche mai sentito parlare. E' così anche stanotte. C'è un film di grande bellezza, Ondine, anche se Colin Farrell è uno degli attori più improbabili si siano mai visti. E che posti meravigliosi, proprio quelli dove vorrei vivere io e vorrei anche fare il pescatore. E le canzoni che canta lei. Sigur Ròs, scopro il giorno dopo. Bene, dovrò decidermi ad ascoltarli finalmente. E' una favola, ma non è una favola e Dio sa se ho bisogno di una favola per riuscire a vivere.



Prendo l'iPhone, che come insegnano non bisogna spegnerlo mai, e controllo la posta già sapendo che sarà una operazione inutile, alle due di notte. Invece no. C'è una e-mail, vedo che è partita da pochi minuti, anche là si dorme poco. Non l'aspettavo e non doveva arrivarmi questa e-mail. Perché? Le porte nella vita non si chiudono mai, in un modo o nell'altro. Stupido pensarlo.

(O Budda la tua luna. O Cristo il tuo scintillìo di stelle sul mare, il mare, Surf, Tangair, Gaviota, il treno che andava a centotrenta l'ora e io caldo com euna caldarrosta nel mio sacco a pelo che tornavo di volo a casa mia per Natale *)

Sono le otto di mattina e mi fermo in portineria a ritirare un pacchetto. Non è più notte, ma è come se lo fosse, visto che praticamente non ho dormito. Aspetto dei dischi. Invece no, ci sono dentro due libri. Uno in particolare. Eccolo. E' tornato a casa, ci ha messo 31 anni. Trentun anni sono un bel po', sono una vita, anzi sono quasi le due vite che avevamo allora sommate insieme. Il lbro dimostra tutti quegli anni e anche di più, come se sopra di lui si fossero scaricate le onde e le sabbie e i dolori del tempo che abbiamo vissuto ciascuno in questi trentun anni. La copertina sgualcita e scolorita, le pagine gialle, giallissime. Non era così trentun anni fa quel libro. Ricordo ancora il giorno che tornai a casa dopo averlo comprato, esultante per aver trovato quella rara prima edizione italiana in rilegatura elegante per sole duemila lire. Era nuovo di pacca, allora, il libro. Poi lo diedi a lei. Metto il libro nella borsa e vado a lavorare. Lo riprendo e lo sfoglio solo alla sera, non sono riuscito a toccarlo per ore. Apro e vedo che dentro lei ci ha scritto il suo nome con il simbolo indiano che allora - ma ce lo avrà anche adesso? - si dipingeva tra le sopracciglia e il mio nome. "Da Paolo Vites". Mi commuove che abbia scritto così. Come a segnare una appartenenza, nonostante tutto: un punto di arrivo e una conferma. In realtà glielo avevo solo imprestato, ma poi come sempre ero scappato a gambe levate ed è rimasto a lei. Non doveva rimandarmelo. Era suo ormai. Eppure ogni cosa ritorna. E le relazioni non si chiudono mai veramente. Restano aperte, devono restare aperte. E' solo questione di tempo, poi tutto tornerà dove deve tornare. Libri, dvd e facce. Come la sua.

Lascia perdere - lascia perdere - hai perso la nave: torna
a san bernardino - piantala di
organizzare l'equipaggio - ogni uomo bada a
se stesso - tu sei un uomo o un te stesso? quando
la guardia costiera arriva sul posto, alzati in piedi
fieramente & dimostra chi sei - non essere un eroe - tutti
sono
degli eroi - sii diverso - non essere un conformista -
dimentica tutte quelle bettole di mare - alzati semplicemente
in piedi e dì "san bernardino" con voce profonda
& monotona... tutt riceveranno il messaggio
il tuo benefattore
Smoky Horny

(Bob Dylan, Tarantola, trentun anni dopo)

* Da I vagabondi del Dharma, Jack Kerouac

Sunday, October 23, 2011

Sunday Morning Music

Questa incompletezza è tutto ciò che abbiamo
Charles Bukowski

E curioso che Joe Henry, nelle note che pubblica nel suo nuovo disco, Reverie (che titolo meraviglioso: "fantasticheria"), parli più volte di consolazione. Se c'è un artista di cui ogni nuovo disco è sempre stato un gesto consolatorio, un momento di pura consolazione sospesa nel tempo e dentro al tempo, quello è Joe Henry. E' così anche questa volta, ma ancor di più che in precedenza, nello straordinariamente bello ultimo disco. Che ovviamente, uscendo quasi a ridosso di un nuovo disco di Tom Waits, farà passare inosservato come sempre accaduto all'uomo del Minnesota, il suo, di disco. Che rispetto a quello di Tom Waits (a proposito, ha smesso di fare rutti e altri rumori assortiti, è tornato a fare canzoni, anche se copiaincollate da tante che aveva già fatto; bei testi comunque) è decisamente meglio, per un artista che talvolta è stato accusato di riprendere appunto la lezione di Tom Waits.



Non è così ovviamente: Joe Henry viene da tutt'altro mondo sonoro e umano, e se il suono che è stato capace di inventare nel corso degli anni a qualcuno è sembrato attingere dall'artista californiano, è solo perché entrambi guardano a un tempo fuori del tempo, un tempo pre rock'n'roll. Joe Henry difatti potrebbe - e dovrebbe - produrre un disco di Tom Waits: a quest'ultimo farebbe solo bene, viste le produzioni eccelse che Henry a saputo fare nel corso degli anni (Solomon Burke, Bettye Lavette, Aimee Mann, Elvis Costello, Allen Touissant, Mose Allison e quelle per i suoi dischi, ovviamente) e che hano oscurato anche la sua discografia tanto sono geniali.

"E' una cosa bizzarra vivere con il senso di una fame inappagabile al tempo stesso della soddisfazione - paura e consolazione - che sbattono sulle tue ossa in modo uguale. Ma no, non c'è alcuna vita oltre al tremolìo, nessuno autentica consolazione per il desiderio, perché il desiderio non vuole essere consolato, solamente sostenuto e trattenuto in quel terribile e sacro stato di bisogno. Così me ne sto seduto sulla spiaggia e aspetto; fumo, rido e ricordo. E' chiaro e fa caldo ma non lo sarà per molto ancora. E tale senso di anticipazione è la sola cosa che ha mai avuto uno scopo nella completa luce del giorno" (Joe Henry)

Reverie potrà ricordare invece quelle pagine scarne ed essenziali, piene di magia acustica appena sfiorata dal jazz, di un disco capolavoro come fu l'antico Shuffletown, abbandonando per un momento certo sperimentalismo. Ne esce una raccolta di canzoni che vaga dalle visioni di un Henry Fonda davanti alla Bank of America, da una camera abbandonata ad Arles dedicata a Vic Chesnutt; dalle sensazioni di un ottobre incipiente che già gela le ossa al fantasma di Odetta. Tutto in modo commovente, con una delicatezza e una gentilezza impossibili da trovare altrove, tutto in modo consolatorio appunto, per prepararci a entrare nell'inverno che ci attende. Come solo Joe Henry sa fare: un amico che non chiede niente, ma offre qualcosa. Che ci attende sempre nella sua "stanza del piccolo uomo": per offrire un bicchiere di whiskey, accenderti un sigaro, chiudere le tende e mettere su un vecchio 78 giri di un tempo nel tempo che non esiste più, ma di cui abbiamo ancora bisogno. Perché siamo fatti tutti così: con un senso di fame inappagabile e un desiderio che ha bisogno solo di essere sostenuto e non di essere spento. Mai, costo quel che costi: "Sono qui da un'ora da quando sono arrivato e sono a tre ore da dove ardo di andare, e forse due da dove ti troverò, tra il mondo e tutto quello che conosco" (JH)

Thursday, October 20, 2011

Se a piangere è Leonard Cohen

Non andartene docile in quella buona notte, vecchiaia dovrebbe ardere e infierire quando cade il giorno; infuria, infuria contro il morire della luce. Benché i saggi infine sappiano che la tenebra è giusta, poiché dalle parole loro non diramò alcun conforto, non se ne vanno docili in quella buona notte.
I buoni, che in preda all’ultima onda splendide proclamano le loro fioche imprese, avrebbero potuto danzare in una verde baia, e infuriano, infuriano contro il morire della luce. I selvaggi, che il sole al volo presero e cantarono, tardi apprendono come lo afflissero nella sua via, non se ne vanno docili in quella buona notte.
Gli austeri, vicini a morire, con cieca vista scorgono che i ciechi occhi quali meteore potrebbero brillare ed esser gai; e infuriano Infuriano contro il morire della luce.
E te, padre mio, là sulla triste altura io prego, maledicimi, feriscimi con le tue fiere lacrime. Non andartene docile in quella buona notte. Infuria!, infuria! contro il morire della luce

(Dylan Thomas)



Alleluia Mr. Cohen, adesso Principe delle Asturie. Piangi Signor Cohen nel tuo impermeabile blu. Queste sono le cose belle della vita che spezzano il cuore. La poesia, la canzone, un libro malmesso, la bellezza che si impone in ogni dove, in ogni istante. Chiudete quel mondo cialtrone fuori della porta, spegnete quei televisori bugiardi, buttate via quelle radio furfanti. Avete Leonard Cohen, avete tanti come lui per farvi toccare il cuore davvero: non ci serve altro. Non andartene docile nella notte, resta ancora un po' con noi e raccontaci del tuo famoso impermeabile blu ancora una volta e di Marianne, Mr. Cohen, Principe delle Asturie. Resta ancora un po' e mostraci quella crepa che c'è in ogni cosa, e da dove passa la luce. Alleluia.





Wednesday, October 19, 2011

Satori in Paris



Anche io a Parigi ho avuto il mio satori (buddismo: illuminazione, risveglio, calcio in un occhio). L'ho avuto rileggendo dopo anni "Satori in Paris", misconosciuto libro dell'ultimo Jack Kerouac, che tengo a casa in una teca, in quanto regalatomi dalla Nanda Pivano in prima edizione originale americana del 1968. L'anno in cui Jack morì. E' un libro straordinario, divertente e angosciante allo stesso tempo. Strano nessuno ne abbia tratto un film. E' il paura e delirio a Parigi (e Bretagna) dello scrittore americano, spassosissimo in certe pagine, quasi tutte, tristemente arguto quando profetiza la sua morte e la sua possibile redenzione, un alcolizzato che vaga di bar in bar tra Parigi e Brest alla ricerca dei suoi antenati.



Altri satori che ho avuto a Parigi: 1. Montmartre e il Quartiere latino non valgono Soho a Londra o il centro storico di Roma. 2. I francesi non hanno ancora scoperto la scala mobile, fanculo alle migliaia di gradini da fare a piedi in ogni stazione della metro. 3. I francesi fanno la fila a quaranta per volta per comprarsi un cono gelato. 5. Ci sono pochissimi tabaccai a Pariigi. Morale: aprirò una gelateria con tabaccheria a L'Isle de France. Comunque Parigi è bella, imponente, eccessiva, fin troppo grandeur. E la baguette è una delle cose più buone al mondo.











Un altro satori: il Pére Lachaise, cimitero dove riposano alcuni dei più grandi uomini e donne della storia è tenuto da schifo. Sporco, malandato, le tombe diroccate e spalancate all'incuria. In una tomba tipo cappellina ci sono anche entrato dentro per vedere cosa si prova a giacere in quel cimitero. E' arrivato Jim Morrison a farmi sloggiare quasi subito. Doveva farsi un goccio insieme a Oscar Wilde. Sono andato da Abelardo ed Eloisa che gentilmente mi hanno accolto con amore. D'altro canto all'ingresso la loro tomba è segnalata come quella degli amanti leggendari. E gli amanti non ti mandano mai via.







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Thursday, October 13, 2011

Gambadilegno a Parigi

Guardalo come cammina
Lazzaro di Notre Dame
Come sta dritto nella tempesta
alla fermata del tram
Chiama un tassì si mette avanti
dai Campi Elisi alla Grande Arche

Portami via da questa terra
da questa pubblica città
Da questo albergo tutto fatto a scale
da questa umidità
Dottoressa chiamata Aprile
che conosci l'inferno
Portami via da questo inverno
portami via da qua

(De Gregori, Gambadilegno a Parigi)

Il programma è presto fatto: visita alla tomba di Oscar Wilde, il poeta più cool di tutti i tempi, ma anche un po' sfigato; visita alla tomba di Eloisa e Abelardo, quelli di Eternal sunshine of the spotless mind; visita alla tomba di Jim Morrison, quello di tutto il resto che sono quarant'anni che ci è sepolto dentro (pare, non ne sono poi così sicuri). Qualche altra tomba se capita.

Vado a Parigi, con la mia gamba di legno, per la prima volta. I francesi già mi stanno sul cazzo ancora prima di partire: quelli del B&B dove devo andare parlano solo francese o spagnolo. Già lo so che passerò quattro giorni a mandarli in quel posto che non è Parigi. Sono un po' di giorni poi che sui tram mi sbattono in faccia la facciona di Massimo Boldi che dice "matrimonio a Parigi". Bah.



Ovviamente ci metto dentro anche il concerto di Mark Knopfler e Bob Dylan, così vi anticipo tutti di un mese. Se riesco, prendo un caffè con Elliott Murphy che lui se ne intende di bistrot parigini visto che ha scritto un libro che si intitola "Note al caffè".

Poi mi metterò anche a ballare a notte fonda sulla rive gauche della Senna come faceva Woody Allen in quel suo bellissimo film ambientato a Parigi. Perché non ci vado da solo, ci vado con la signora Vites, sono vent'anni quest'anno. Vent'anni di matrimonio sono un bel po'. Soprattutto mi sembra impossibile che qualcuno abbia avuto il coraggio di passare vent'anni vicino a me, ci vuole un coraggio ultraterreno. Solo le donne ce l'hanno. Fosse per noi, non sapremmo stare un minuto con un altro e manco con noi stessi, se non ci fosse un altro che da vent'anni tutte le mattine ti dice: svegliati. Coglione, ci aggiungo io. Adesso che il passato è andato per sempre.

You turn the tide on me each day and teach my eyes to see
Just bein’ next to you is a natural thing for me
And I could never let you go, no matter what goes on
‘Cause I love you more than ever now that the past is gone

(Bob Dylan, Wedding Song)

Saturday, October 08, 2011

The Rolling Trastevere Revue


L'odore del palcoscenico ho imparato a riconoscerlo e amarlo da un tempo immemorabile. Lontano, un po' più vicino, ancora più vicino, sopra quelle assi che hanno visto passare battaglie memorabili. La torcia che indica il percorso con le strisce di nastro adesivo sulle assiverso il camerino anche. Dietro quella porta, dietro quelle tende, sotto a quei fari, l'unica cosa onesta che c'è ancora al mondo, che è sempre stata. La musica. Mi ha salvato la vita e ancora continua a farlo. Potrò mai rinnegarla? Mai. Mi scorre nel sangue, mi pulsa nelle vene, mi dà ossigeno ai polmoni. Uccide la malinconia e tutte le cose brutte della vita. Fa risorgere a vita nuova ogni volta e ogni volta ancora.






"Ha detto che non si può vivere senza il mare, per questo lascia la musica". "Può darsi. Ma io ti dico: come si fa a vivere senza la musica'". Eh no non si può. Lo sa bene il cantautore che stasera per la centomilionesima volta si prepara ad arrendersi ad essa. E io con lui, da dietro le tende sul palco. Cosa altro ci resta in questo mondo sporco e bastardo? Abbiamo bisogno di miracoli, che si vada a cominciare.



"Ti lascio il camerino, De Gregori se ne va in albergo. E' tutto tuo, ci vediamo allo show time". Sound check finito, baci e abbracci pure, see you later. Ci penso io a fare buona guardia al camerino: piccolo, sporco, anche un po' puzzolente ma questo è il Pubs and Clubs Tour, va bene così, anche le parolacce e le bestemmie scritte sul muro, "Ligabue fa cagare" e "C'erano 1500 persone ma non eravamo noi". Stsaera 1500 persone ci saranno tutte, schiacciate sul palco là davanti: io, da dietro i tendoni, vedo le facce godenti e felici di quelli appoggiati al palco. La musica che arriva dal palcoscenico li investe come un'onda, uno tsunami rock, e torna indietro, la sente il cantautore, la sente la band, la sento io. Ho fatto buona guardia al tuo camerino amico, solo credo di aver finito le due bottiglie di vino rosso che c'erano.



Sono un gruppo di amici, sono la Rolling Trastevere Revue: c'è anche una Scarlet Rivera di Massa Carrara adesso in questa band straordinaria che non ha paragoni in Italia. E' tutto perfetto adesso. Anche una Buonanotte fiorellino che comincia con le inconfondibili note di Rainy Day Women, anzi è diventata Rainy Day Women. E "questa è una canzone di Bob Dylan, io l'ho tradotta e Bob Dylan l'ha usata per un suo film": non dirle che è così, sole giallo che va giù luna bianca che viene su. Anche questa sera, fuori del Fillmore, la luna grande e tonda sta salendo alta nel cielo. E Alice stasera è proprio come una donna: anche il giro di accordi che lega il ritornello alle strofe è quello, e così sia. Ogni cosa è perfetta, anche Rimmel che comincia con l'ukulele e diventa una cavalcata reggae. Fausto Leali? Perché no: A chi è Louisiana Blues coniugato al canto italiano. Tutto perfetto. Una band di amici che si lancia occhiate divertite e stupite, sorride a chi sta dietro nei camerini, fa cerchio intorno al loro comandante, un sessantenne che si diverte come un pazzo, su quel palco.



Come si fa a vivere senza musica? Forse si può vivere senza il mare, ma non senza la musica. No non si può. "Ci vediamo lungo la strada che ne siamo degni": agli ordini, compagno di viaggio. Cercola strada giù dal palcoscenico, cerco la strada verso casa e verso un'altra notte di musica.

Wednesday, October 05, 2011

Gillian, Tennessee girl

It's beef steak when I'm working
Whiskey when I'm dry
Sweet heaven when I die

Now I've tried drinking rye and gamblin'
Dancing with damnation is a ball
But of all the little ways I've found to hurt myself
Well you might be my favorite one of all


(Gillian Welch, Tennessee)



Vorrei Gillian Welch adesso, stasera, a casa mia nel mio salotto. No, non perché è una donna bellissima - lo è -, siamo sposati tutti e due e non mi permetterei mai. La vorrei a farmi un house concert, ma uno vero, solo per me e una dozzina di bottiglie di whiskey del Tennesse come quelle di cui lei canta sempre. Ma grazie a Dio ho i suoi dischi, ho il suo ultimo (lo so è uscito da mesi, ma l'ho scoperto l'altra notte) e allora l'house concert a casa mia con Gillian Welch me lo posso fare ugualmente.

Il suo ultimo disco, The Harrow & The Heart, potrebbe essere il disco dell'anno, il disco di sempre. Le ho sempre girato attorno, a Gillian, mai convinto veramente delle sue doti. Ma una che ci mette otto anni a fare un disco nuovo merita ascolto. E ogni pregiudizio scivola via ascoltando il nuovo cd. Bellezza totale. Purezza completa. Magia invincibile. E soprattutto realismo da spaccare le ossa al più impenitente bastardo.



Una voce, due chitarre acustiche, un'armonica e un banjo, tutto qua. Musica pre rock'n'roll, musica che non è mai finita, musica che non ha bisogno di risorgere ogni volta perché è musica che semplicemente "sta". Ricorda tanto The Tallest Man on Earth nel suo approccio spartano, e come lui è una voce quella che conta e butta giù ogni muro. Come 50 anni fa, quando Dylan andava freewheelin', c'è più forza rivoluzionaria qua dentro che in un milione di chitarre elettriche e basso e batteria e voci sguaiate. E' un disco politico, durissimo, senza alcuna canzone politica. Mai questi tempi di nuova grande depressione sono stati rappresentati così perfettamente. E' l'anello di congiunzione, via cosmica e galattica, diretto con le dust bowl ballads di Guthrie. Ma è il disco della piccola intimità, del dolce meditare sulle cose del quotidiano, del peccato e della redenzione: Betsy Johnson s’è comprata una fattoria ed è finita a farsi d’eroina. E se danzare con la dannazione è divertente, di tutti i modi che si possono trovare per farsi del male, tu sei il migliore di tutti. Alla fine resta una bella bistecca per quando lavoro, del whisky quando ho sete e il dolce paradiso quando morirò. Il resto, lasciamolo pure fuori della porta. Le canzoni di Gillian Welch, quella sua voce così autoritaria, che non ha da chiedere nulla a nessuno e si impone, semplicemente si impone, quelle ce le teniamo a lungo.

Tuesday, October 04, 2011

Non si esce vivi da questo mondo

E' la mattina del primo gennaio 1953. Una mattina grigia, fredda a Oak Hill, sperduto paesino della Virginia Occidentale. Un uomo che indossa un elegante cappello da cowboy esce barcollando dall'Andrew Johnston Hotel. Si dirige verso una macchina, una Cadillac. Un ragazzetto di 17 anni gli apre la porta della vettura e lo fa salire. È il suo autista. L'uomo entra, si butta sul sedile posteriore, si cala il cappello sugli occhi e ricomincia a dormire. Il volo che doveva portarlo quel giorno a Canton nell'Ohio è stato cancellato per il maltempo. Ci penserà la vecchia Cadillac a portarlo a destinazione, pensa mentre chiude gli occhi. Quegli occhi, Hank Williams non li aprirà mai più. Alcune ore dopo, verso sera, l'autista si accorge che il suo passeggero non risponde alla sua voce. Guarda da vicino: è morto. Prima di uscire dal suo hotel quella mattina si era iniettato una dose di eroina, di cui faceva uso da tempo. Hank Williams era il più popolare e amato cantante della country music dell'epoca, una super star.



Da qualche tempo il vizio dell'alcol e della droga lo avevano allontanato dalla grande ribalta, si era ridotto a esibirsi in scalcinati locali di provincia. Aveva 29 anni, proprio più dei Jim Morrison, i Jimi Hendrix, Janis Jolpin, Kurt Cobain, Amy Winehouse, quelli del "club dei 27", le rock star morte alla stessa maledetta età. La sua ultima canzone, con amara profezia, si intitolava I'll Never Get Out of This World Alive, non uscirò vivo da questo mondo. Hank Williams, di fatto, è stata la prima rock star, ma non perché ha inaugurato la scia dei morti di droga, ma per la qualità immensa delle sue canzoni che sopravvivono tutt'oggi come alcuni dei massimi capolavori della musica americana moderna e la cui influenza è stata decisiva sulla musica rock a venire.


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