Wednesday, July 30, 2014

Me and the devil

Di solito gli artisti italiani quando riescono invitano un ospite straniero a suonare in una, due canzoni del loro disco. Serve per dare maggiore robustezza alle sonorità che si intendono proporre, serve a dichiarare forte l’amore per un certo tipo di musica. Un chitarrista, un duetto vocale. Nel disco “Me and the Devil” accade invece il contrario. Inciso in Italia da una idea di Edward Abbiati , leader dei Lowlands, vede la presenza di un sostanzioso numero di musicisti americani (e che musicisti) tanto che Edward diventa quasi lui l’ospite di un progetto nato in Italia (registrato in una cascina in provincia d Pavia) ma totalmente internazionale. Una operazione coraggiosa ma che non ha una virgola fuori posto, il risultato è centrato brillantemente. Con Abbiati ecco l’ex tastierista dei Green On Red Chris Cacavas (con lui si è spartito la scrittura dei brani e della voce solista), l’ex batterista live di Bob Dylan, lo straordinario Winston Watson, e Mike Brenner al basso e alla chitarra elettrica. Ci sono anche altri validi musicisti (David Henry, Richard Hunter, Stefan Roller, Andres Villani) ma il nucleo è quello.



Il risultato? Magico. Visioni notturne, jump blues anni 40, echi di ballate folk, rockabilly anni 50, quando il rock'n'roll era ancora da immaginare. Belle canzoni. Belle voci che si sfidano e si inseguono. Bei suoni, come se fossero stati costuditi dalla notte dei tempi perché un italiano e un manipolo di americani li tirasse fuori e ce li offrisse come una visione, come una speranza, come un cuore che sanguina.

Io e il diavolo: che altro? D'altro canto la vita è così.

Tuesday, July 29, 2014

I giorni del Fillmore

Erano ottime giornate per andare in moto, erano i giorni dell’estate Indiana dalle parti di Macon, Georgia, profondo sud degli States. Il giovane baffuto e dai lunghi capelli biondi amava andare in moto, specie con quel grosso chopper Harley Davidson che aveva comprato da un ragazzo della sua città. Sembrava una di quelle moto del film Easy Rider, uscito al cinema solo un paio di anni prima, con le forcelle modificate apposta per farlo assomigliare di più alle motociclette di Peter Fonda e Dennis Hopper. Quelle forcelle però lo rendevano difficile da guidare e poi aveva bisogno di gomme nuove, aveva giusto telefonato il giorno prima a un gommista per farsele procurare.

Quel pomeriggio del 29 ottobre 1971 erano quasi le 18 e 45 quando il ragazzo sulla motocicletta cercò di superare un grosso camion che stava svoltando a sinistra davanti a lui, solo che l’autista di quel camion decise non si sa perché di fermarsi bloccando la carreggiata. Il motociclista sembrò riuscire a schivarlo con eleganza poi invece improvvisamente volò in aria perdendo il casco e sfracellandosi a terra. In qualche modo aveva sbattuto contro il grosso gancio che pendeva dietro al camion. Quando lo raccolsero respirava ancora. Lo portarono in ospedale. Alle 20 e 40 di quello stesso giorno Duane Allman, 24 anni, viene dichiarato morto.



Due mesi prima era uscito il primo disco dal vivo della sua band, il terzo della carriera della Allman Brothers Band, di cui Duane insieme al fratello Gregg era il fondatore, il leader e il chitarrista, registrato allo storico Fillmore East di New York, il locale rock per eccellenza di quegli anni. Non un chitarrista qualunque, come la ABB non era una band qualunque. Come ha detto qualcuno, quella band era americana esattamente come il rumore dei condizionatori d’aria che sono immancabili in ogni città americana, fonte di sopravvivenza alle impossibili estati afose di New York, Chicago o del profondo sud, quel profondo sud, la Georgia, da cui provenivano i fratelli Allman.

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Wednesday, July 23, 2014

siamo i giornalisti della ggente, il potere ci temono

Quanto ci divertiamo su facebook. Una cifra. Ehi sono serio. Io mi ci diverto. Si scherza, ci son quelli che sanno davvero far ridere. In molti ci provano a far ridere ma non è che ci riescano così bene. Non è obbligatorio lasciare sempre un commento o una frase, volevo dirvelo. Volevo anche dire ai signori di Wall Street che quotano in borsa il faccia libro che ho 1800 amici di cui solo il 2,5% è attivo, cioè frequenta il sito. Un altro 2,5% magari ci passa senza mai lasciare commenti e legge qualcosa ma quotare a livelli milionari facebook è una delle tante bufale della realtà virtuale che ormai si è impossessata anche dell’economia. Facebook vale un cazzo la cifra che viene valutato, sappiatelo. Ah lo sapete? Ottimo. Dunque l’economia del terzo millennio vale un cazzo pure.


Comunque ho imparato da mo’ a non tirare fuori argomenti di politica e religione su facebook che poi ne escono sempre fuori delle risse (virtuali ovviamente che in faccia nessuno avrebbe il coraggio). Mi occupo solo di musica o dei miei malanni (purtroppo non virtuali). A proposito di musica, ultimamente mi sta venendo la voglia di non andarci più su fb. Devo dirlo: sono un po’ stufo di leggere aggiornamenti quotidiani di tanti cantautori o presunti tali che ci informano in che tonalità hanno accordato oggi la chitarra, cosa hanno mangiato a pranzo che poi li ha ispirati a scrivere una canzone, come procede day by day la registrazione del loro nuovo disco, quanti soldi hanno incassato ieri grazie al crowdfunding, cosa faranno domani e perché insomma il mio disco sarà meglio del tuo. In realtà mi sono accorto di avere più amici cantautori intenti a pubblicare un nuovo disco – in media ne fanno tre all’anno – che amici ascoltatori. Non parliamo poi dei critici musicali, o anche degli scrittori. Mi sento obsoleto. E pensare che io quelle cose lì le faccio per lavoro. Ma nel tempo che ci metto a scrivere un articolo o un libro, qualcuno ha già scritto otto recensioni di dischi e pubblicato sei libri. Cazzo scrivo a fare, mi domando? Anche perché è tutto gratis oggigiorno.

Così volevo dire ai miei amici cantautori o rock band che non è così figo pubblicare ogni giorno informazioni sulle canzoni che state scrivendo o di che colore sarà la copertina del vostro disco. Lasciate un po’ di mistero. Auto promuoversi su base quotidiana non dà grandi risultati. Almeno per me. Io preferisco avere il disco fatto e finito e semmai lo ascolterò. Ho la casella postale inondata invece di demo e proto demo, pseudo demo e anti demo. Non li ascolto. E’ così bello ascoltare quello che avrete fatto quando l’avrete finito, non mi interessa sapere se quando avete registrato quella tal canzone avevate gli slip o i boxer con la faccia della Mogherini. Il mistero è tutto, nell’arte e nella vita. Coltivatelo. Fatevi scoprire, non svendetevi in anticipo. Poi non vi compra più nessuno.

Siccome poi questa sembra l’estate dei festival che nascono come i bambini sotto alle foglie di cavolo – che i bambini mica li porta la cicogna, sappiate anche questo – mi viene da dirvi che andare a un festival sponsorizzato da una rivista anche se musicale non vi fa molto del bene. Io che scrivo per altre riviste – musicali – non vedo perché dovrei parlate dopo di voi dopo che avete suonato per quel tal giornale. Non perché sia un brutto giornale, ma allora aspettatevi per tutta la vita recensioni solo da quel giornale. E’ così che funziona, ci vuole un po’ di rispetto anche in queste cose. Anche perché in quei festival c’è più gente sul palco che tra gli spettatori, se ci fate caso. E da decenni da quel buchino lì non esce niente e nessuno. Ve la cantante e ve la suonate tra di voi. Certo, vi diranno che siete incredibilmente bravi e che cazzo di rock figo fate e che siete degni di suonare in America e che l’Italia non è degna di voi e che non capiamo un cazzo, italiani di merda. Ma vi ha fatto vendere due dischi in più tutto questo? Non so, vado a mettermi le mutande con la faccia della Mogherini.

Thursday, July 10, 2014

Teach your children

Erano i Fab Four americani. Erano i nuovi Beatles. In quell'estate del 1974 nessun altro artista rock era come loro, neppure i Rolling Stones, da anni ormai sulle vette e giustamente definiti "la più grande rock'n'roll band del mondo". Neanche i Led Zeppelin, che furoreggiavano sui palchi da anni, neppure Bob Dylan che pure nel gennaio di quello stesso anno era tornato alle scene dopo otto anni dall'ultima volta con un tour che aveva fatto registrare la più alta richiesta di biglietti della storia. I Beatles, ovviamente, si erano già sciolti. Ma nessuno prima di loro aveva fatto un tour negli stadi. Quella che oggi è la normalità, allora fu un azzardo che spostava in alto ancora una volta l'asticella di un mondo, quello del rock, che sembrava superare se stesso ogni giorno.

Erano giorni straordinari, erano quei giorni in cui, come disse qualcuno, "dei giganti camminavano sulla faccia della terra". Erano i giorni in cui tutto sembrava possibile: mandare a casa un presidente corrotto, Richard Nixon, fermare la guerra in Vietnam e loro quasi ci riuscirono e sì, come diceva una loro canzone, "cambiare il mondo". Decenni prima del "yes we can" di Barack Obama, loro cantavano "we can change the world".



Ma non tutto sarebbe stato così facile. Ogni grande storia chiede un grande prezzo, e loro stessi ne avrebbero pagato le conseguenze, in termini di ricadute, galera, amori finiti male e soprattutto la loro stessa amicizia mandata in malora. Che dietro ogni grande storia di musica ci sono innanzitutto degli amici, ma il successo, il volare troppo vicino al sole prima o poi ti schianta. C'è un limite, e pretendere di superarlo non va bene. Qualcuno lo capisce solo provandoci. Questa comunque sarebbe stata una autentica storia rock, di sesso, droga e appunto rock'n'roll. Con alcune delle più gradi performance musicali che questa storia abbia mai conosciuto.


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Wednesday, July 02, 2014

Don't let us get sick

Un disco tributo di solito si tende a farlo bello fragoroso: artisti di punta, riletture estrose delle canzoni originali, pigiando bene l'acceleratore sulla potenza sonica. In un certo senso ci sta: si vuole attirare l'attenzione sull'autore, anche se spesso si finisce per voler mettere in evidenza solo se stessi. Buon esempio è proprio il precedente tributo a Warren Zevon, uscito pochi mesi dopo la morte dell'artista californiano, infarcito di grandi nomi, pure di una star hollywoodiana come Adam Sandler che ci azzeccava come il due di picche. A parte i contributi live di Dylan e Springsteen, un tributo buono per post hippie diventati yuppie, niente di più lontano dallo spirito di Zevon.

Phil Cody ha scelto un approccio diverso. In parte perché è una sorta di fantasma anche lui. Nel 1996 aveva esordito con uno dei dischi di songwriting più belli di quel decennio, e capace di farsi mettere in fila insieme ai migliori esordi di sempre. A "The Sons of Intemperance Offering" purtroppo era seguito ben poco degno di nota, e del lontano parente di Bufalo Bill (William Cody) si erano perse le tracce.



Tracce che ritroviamo adesso grazie a un disco contenente solo canzoni di Warren Zevon, scomparso nel 2003, uno dei massimi talenti mai espressi dalla musica americana di sempre. Non sappiamo perché abbia deciso di fare questo disco, anche se istintivamente ci viene da pensare che i due abbiano più di qualcosa in comune. Non solo la capacità di scrivere splendide canzoni, ma anche una buona dose di sfiga, quel "bad karma", quella sorte da beautiful loser che sembra accomunarli, insomma la gente con il cuore grande difficilmente è a suo agio in questo mondo (e anche un po' la voce, sgangherata e spezzata in modo uguale).

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Sangue nei solchi del cuore

“Bob Dylan è in città, c’è bisogno di catturare qualcosa di magico”. La “città” è ovviamente New York, al telefono John Hammond, il più gran...

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