Sunday, April 25, 2010

Adventures of Natalie

Il 2010 rischia seriamente di passare alla storia come l'anno migliore - per quanto riguarda i dischi - dal 1979. Che fu l'ultimo anno in cui uscirono ancora dei grandi dischi, come sanno tutti (insert tones of Vites' sarcasm here). E deve ancora uscire il nuovo disco dei National, ah!
Leave Your Sleep della dolce Natalie Merchant è comunque il disco migliore uscito fino ad oggi fra quanti ne ho ascoltati, e uno dei migliori che ho ascoltato da sempre. Ne hanno già parlato tutti, per cui cosa ne parlo a fare ancora, se non per dire ai ritardatari come me di correre a procurarselo. Ogni modo è lecito. Difficilmente in tempi recenti, ma anche antichi, si è potuto ascoltare splamato su (doppio) cd una tale rassegna di musiche, dal folk degli Appalachi, all'Irish, dal reggae allo swing, dalla canzone d'autore all'American Songbook passando ovviamente per Tin Pan Alley. Poi c'è la voce di Natalie, una delle più belle di sempre. E io che come un deficiente ho perso la C-90 dove anni fa, per superare la noia dell'ennesima intervista (eh sì Chiarina, le interviste sono una noia mortale per chi deve subirle), si mise a cantarmi all'orecchio If I Needed Someone di George Harrison. In un disco come Leave Your Sleep, fatto per cullare i sogni, per accompagnare il bambino che è in noi lontano dalle tristezze e dall'uomo nero che si nasconde sotto al letto, ci sarebbe stata benissimo.

Wednesday, April 21, 2010

Photographs & Memories # 3

Situations have ended sad
Relationships have all been bad
Mine’ve been like Verlaine’s and Rimbaud

(Bob Dylan)

Per chi ama la poesia, o certa poesia, il ritrovamento di questa foto è un po' come quello delle foto di Robert Johnson per chi ama la musica, o certa musica. Avevo letto la notizia del ritrovamento di questa foto, ma sono riuscita a vederla finalmente solo grazie all'amico Lillo e al suo bel blog

La notizia dice soltanto: (ANSA) - PARIGI, 15 APR - Una foto inedita di Arthur Rimbaud scattata all'inizio del 1880 ad Aden - in Abissinia - è stata scoperta da due librai francesi. Si tratta dell'unico scatto che raffigura il celebre poeta 'maledetto' quando aveva una trentina d'anni. La foto, presentata al Salone del libro antico che si apre domani a Parigi, è stata trovata all'interno di un lotto con un'altra trentina di scatti acquistati dai due librai, Jacques Desse e Alban Caussè, in un mercatino.



Sarà lui o non sarà lui, come già si è dubitato delle foto di Robert Johnson. Poco importa. Io trovo questa foto straordinaria. Trent'anni, e una stanchezza cosmica sul viso. Uno che a trent'anni ha già vissuto la vita due volte, e in almeno una di esse ha passato una stagione, o forse più, all'inferno. E' un bel viso, comunque.Che ha dentro una domanda enorme.




A...Lei.

D'inverno, ce ne andremo in un piccolo vagone rosa
con i cuscini blu.
Staremo bene. Un nido di pazzi baci riposa
in qualche soffice angolo.

Tu chiuderai gli occhi, per non vedere, dai vetri
ghignare le ombre delle sere,
queste arcigne mostruosità, plebaglie
di neri démoni e neri lupi.

Poi sentirai la guancia scalfita...
Un piccolo bacio, come un ragno folle,
ti correrà per il collo...

E tu mi dirai: «Cerca!» inclinando la testa,
e perderemo tempo a cercare quella bestia
- che così tanto viaggia...

In treno, 7 ottobre [18]70.

— Arthur Rimbaud

Monday, April 19, 2010

Frutta & Verdura Day

She said heaven isn't happening,
she said heaven is a drug,
she said Heavenly were cool, I think they were from Oxford,
I only had one single, it was a song about a pure and simple love,
there's a girl on Heaven Hill,
I come up to her cabin still,
and she said Husker Du got huge,
but they started in St Paul,
till you remember that it makes no sense at all,
and heaven is the whole of the heart,
and paradise is by the dashboard light,
Utopia's a band, they sang "Love Is The Answer,"
and I think that they were probably right

(...)

She said heaven is whenever,
we could get together,
sit down on your floor,
and listen to those records

(The Hold Steady, Heaven is Whenever)

Anche i negozietti di frutta e verdura stanno chiudendo uno a uno, ma a nessuno è ancora venuto in mente di fare un Frutta & Verdura Day. Il fatto è che quello del Record Store Day è solo uno dei tanti romanticismi con cui si rilegge la realtà che poi di così romantico ha ben poco. Intanto il negozio di dischi è una impresa privata a rischio e pericolo di chi la intraprende come qualunque intrapresa della società capitalista, per cui non vorremmo proprio si arrivasse ai fondi governativi (tipo quelli per l'editoria o per il cinema) anche per i negozi di dischi. Che poi il vecchietto e la vecchietta che vendevano frutta e verdura erano spesso più simpatici di tanti negozianti di dischi. Che negozi di dischi come quello di High Fidelity/Alta fedeltà esistono solo nei film.


Negli anni 70 i negozi di dischi erano sì una figata, ma perché allora la musica che si vendeva (anche in Italia) era una figata. Ricordo vinili impossibili oggi da trovare anche su e-bay. I negozianti di dischi degli anni 70 invece perlopiù di musica non capivano una bega. A Chiavari il miglior negozio di dischi era di proprietà di uno che fino a poco tempo prima vendeva elettrodomestici e casalinghi, poi riciclatosi in discomane fiutato l'affare. Negli anni 80 e 90 diventò anche peggio, quando i negozi di dischi si misero ad aprirli o a gestirli gli ex acquirenti degli anni 70, tutti mediamente snob spocchiosi e tuttosapiens della musica rock che ti guardavano come una merdaccia se chiedevi se avevano un disco di Johnny Cash invece che l'ultimo di qualche sconosciuta band psychobilly del Nicaragua. Erano anche brutti i negozi di dischi di Milano, tetri minuscoli e polverosi, a parte un paio. E comunque ci trovavi sempre perlopiù quello che al negoziante o alla sua clientela "di nicchia" piaceva, non c'era mai un assortimento variegato. O altri negozi di provincia dove dovevi entrare già sapendo cosa volevi comprare o cosa il negoziante ti "consigliava" di comprare (leggi, smerciava) perché manco potevi frugare tra gli scaffali. La Casa del Disco di Varese, quello sì era un gran bel negozio con dentro gente simpatica e competente. Anche in Via Farini a Milano c'era un bel negozietto, dove andavo quasi sempre. Uno dei due che ci lavorava era un vero figo, andava a procurarsi vinili di importazione alle fiere. Ogni volta che gli compravo qualche rarità, quasi non voleva vendermela perché si lamentava, "e adesso dove lo ritrovo Dr. Byrds and Mr Hyde originale americano del 1969??". Teneva più ai dischi che ai soldi che avrebbe guadaganto. Ma i bei negozi di dischi con tanto di caffetteria inclusa l'ho trovati solo a Londra, tipo Rough Trade.


Non rimpiango questi negozietti. Mi trovo benissimo alle varie Feltrinelli di Milano (alla Fnac no, che ha un reparto dischi abbastanza penoso) che sono spaziose, eleganti, ricche di assortimento e hanno anche il bar e ti fai un drink o un caffè e dopo i dischi scendi o sali e vai a cercarti anche un bel libro. Ma il supermercato è sempre esistito, tanto è vero che nel 1976 il mio primo "ellepì" lo comprai alla Standa, figuriamoci. E poi c'è il discorso prezzi: che senso ha comprare i dischi in un negozietto (ma anche alla Feltrinelli eh) che ti fanno pagare 23 euro (!!) quando su Internet lo stesso disco lo trovi a 11 euro spese di spedizione incluse (no, non su Amazon; altrove).

Per non parlare della tipica clientela che ogni tanto mi trovo intorno quando vado in quello che è l'unico posto a Milano dove c'è oggi un assortimento di vinili da "anni 70". Nerds (me compreso ovviamente) tra i 40 e i 50, che non guardano in faccia nessuno (il negozio di High Fidelity/Alta fedeltà con la sua clientela simpatica e balorda è proprio una cosa da film) che si sdraiano sugli scaffali con il labbro pendulo e lo sguardo bramoso quasi fossimo in un sexy shop scartabellando furiosamente tra i dischi per paura che qualcuno possa arrivare a rubargli la rarità che stanno cercando. E la simpatia dei commessi, lasciamola perdere... Roba da dire: ma sono anche io così, ecco perché mi vengono gli attacchi di depressione. No, meglio fare un bell'ordine di dischi via Internet così non mi vedo allo specchio.


Piuttosto pensavo: visto che ormai la mia generazione, che è quella che comprava e ancora compra dischi, si avvicina a grandi passi verso l'ultima sponda, cosa vogliamo farcene delle quintalate di vinile e plastica digitale che abbiamo accumulato in vita? Al mio parentame glie ne può fregare di meno. Una tomba di famiglia per metterci tutti i dischi non ce l'ho. Pensavo che potremmo fare una sorta di testamento discografico cumulativo, per chi ha voglia di unirsi, una roba bipartisan ovviamente, e donare tutto a qualche biblioteca cittadina, magari in Monrovia o in alta Brianza. Pensate: una decina di tipi come me quanti dischi si lasceranno alle spalle. Vogliamo rendere felici le prossime generazioni? Dai, partecipate alla proposta di legge per il testamento discografico, prima che sia troppo tardi e uno scioppone vi si porti al diavolo con tutta la vostra collezione di rare band post rock giapponesi.

Anzi, io proporrei di farla già in vita questa donazione. Altrimenti rischiamo di trasformarci tutti come il protagonista di questo splendido video qua sotto. Chiusi in cantina a sentire sempre i soliti dischi. Che è un po' quello che succede anche a chi fa blog. Chiusi nella propria cameretta a compiacersi di recensioni scritte anni fa di cui oggi non cambierebbero una virgola tanto sono azzeccate, a domandarsi come mai il Gazzettino di Pizzo Calabro non li assuma come capo servizio spettacoli, ad alimentare dibattiti interessantissimi con i tre lettori del proprio blog o ad accenderne di nuovi su blog di cui non gliene frega niente di quello che vi si scrive. Eh, come diceva Lui, get a life... prima che sia troppo tardi.

Tuesday, April 13, 2010

if music be the food of love, play on *

"If I should die,” said I to myself, “I have left no immortal work behind me - nothing to make my friends proud of my memory - but I have lov’d the principle of beauty in all things, and if I had had time I would have made myself remember’d"

John Keats



* W. Shakespeare

Monday, April 12, 2010

L'accolita dei rancorosi

Accolita di rancorosi
gelosi, avvelenati, sospettosi
incazzosi dentro casa
compagnoni fuori in strada
ci intendiam solo tra noi!
ringhiosi che rimangon sempre soli
gli ingrati se ne vanno
noi restiamo e ci teniamo la ragione

(Vinicio Capossela, L'accolita dei rancorosi)


Non è la prima volta che succede e non sarà l’ultima. Mi verrebbe da dire: echissenefrega? Solo che questa volta in mezzo ci han tirato un sacco di nomi e di gente, anche di amici, che nulla centrano, sparando un po’ a casaccio nel mucchio. Tutto fa brodo.

Non è la prima volta che mi succede, c’è gente che è invidiosa che fai “il giornalista musicale” (l’ho detto tante volte, in Italia è impossibile, non esiste la categoria professionale) perché avrebbero voluto, dovuto farlo loro. Loro sì che se ne capiscono di musica. Quelli che lo fanno per lavoro (infatti han tirato in ballo solo altri “professionisti” del settore) sono solo degli stupidotti che non se ne capiscono. Di musica. A parte che non sanno neanche i sacrifici e la merda che si ingoia a cercare di fare questo lavoro in Italia e forse il loro livore dovrebbero girarlo ad altri rappresentanti di questa categoria che non esiste, non quelli citati nei loro blog. Che non linko, che non chiamo per nome, visto che loro usano solo anonimità, per cui non meritano che se ne faccia il nome.

Dicono che io censuro. A parte che il blog è mio, non è un servizio pubblico, per cui ci sta anche che faccio quello che voglio. Ma io censuro solo gli insulti. Gratuiti e senza alcun desiderio di “dialogo”, come dicono loro. Questa persona che non nomino perché se ne va in giro per tutti i blog della Rete a spargere insulti si firma con un nome finto, per cui non merita. Lo ha fatto, spargendo insulti gratuiti e senza possibilità di replica, di dialogo, in perfetto clima beppegrillista come si usa oggi,nel mio post su Massimo Priviero. E io li ho eliminati. All’inizio avevo anche risposto, essendo io uno che crede nel dialogo. Poi sono arrivati altri insulti. E allora via tutto. Il blog è mio, non è un servizio pubblico. Pure gratuito è.

Dà anche fastidio, a queste anonime entità, che tanti lascino commenti positivi sul mio blog. Perché le cose buone, che contribuiscono a creare un po’di bellezza in un mondo già tanto schifoso, danno fastidio. Imbarazzano anche a me, intendiamoci, tanti commenti positivi. Perché so di non meritarli, ma che male fanno? Nessuno E’ meglio sputare insulti, far credere che tutto sia uno schifo. Un po’ come fanno i telegiornali. Quello che è positivo, che tenta di costruire qualcosa di buono, va sempre attaccato e possibilmente infangato. Ma lo diceva già il grande TS Eliot: questa è una wasted land. Tenetevela. Io sogno ancora una Promised Land.

Friday, April 09, 2010

Rock in Italia. Dal Parco Lambro al Rolling Stone

Era la tarda primavera del 1989. Per la prima volta mi stavo recando al Parco Lambro, di cui le leggende parlavano di fantasiosi festival rock nell’era (glaciale) dei Seventies e di cui adesso la gente diceva che era meglio non andarci di notte (come consigliava già l’Art Garfunkel di A Heart in New York quando diceva lo stesso del Central Park…).
Andavo a vedere uno dei grandi uomini della mia adolescenza, che mi aveva scaldato il cuore in tante sere di solitudine, che mi aveva insegnato a rollare le prime canne (non è vero non ho mai imparato troppo difficile), che mi aveva spalancato le porte della percezione e ci aveva insegnato tutti a far sventolare alta la nostra bandiera freak. Se solo potessi ricordare il suo nome… Oh yes I can!. Che adesso capirete da dove arriva lo slogan del Barack Obama, e cioè dal secondo disco solista di David Crosby. Che era appena uscito in quei giorni di tarda primavera del 1989. E insomma stavo andando a vedere David Crosby. If I could only remember my name, ancora oggi uno dei cinque più grandi dischi di tutti i tempi. Quanta droga consumata su qui solchi per cercare di carpire il segreto di quel disco, la magnificenza sonora, le celestiali armonie vocali, quei suoni scintillanti di chitarre acustiche, quelle canzoni senza parole. Al monte Tamalpais ci feci anche una sosta, quando mi trovai un girono a San Francisco, ma non ero “high”. Non ce n’era bisogno, nella Bay Area sei high di natura. Droga o no, impossibile rubare il segreto degli angeli. Quel disco rimaneva uno scrigno chiuso a cui ancor oggi ci si avvicina con mistica devozione.

Comunque il concerto non fu granché (della serie, si è appena disintossicato: la droga rende le canzoni rock migliori?). David aveva anche un bel raffreddore e la sua voce d’angelo era piuttosto rosicata. Prima di lui aprivano la serata due rocker di casa nostra. Cosa che allora – come mi succederebbe oggi – non mi rendeva felice. Fu una bella sorpresa. Il primo dei due era un bel ragazzo biondo, dai modi gentili. Si chiamava Alessandro Bono e circa un anno prima aveva cominciato a imperversare sui canali musicali con una canzone che spiccava nello schifume generale della musica italiota degli anni 80. La canzone si chiamava Gesù Cristo e lui sapeva cantare. Se n’è andato Alessandro Bono qualche anno dopo. A differenza di Crosby, a lui la droga presa in gioventù non l’ha lasciato ricominciare mai un’altra vita. In quella canzone chiedeva a Gesù Cristo di tornare. Evidentemente, stanco di aspettare, aveva deciso di andare lui da Gesù Cristo. Sono contento di averlo visto esibirsi. Lo ricordo come un bell’angelo biondo quella fredda sera di tarda primavera del 1989, al Parco Lambro.


Poi arrivò sul palco un altro tizio. Anche di lui si sentiva da mesi un tormentone radio e tv – e che bel tormentone – una splendida rock ballad dal bel titolo di San Valentino. Per un romanticone come me, un invito a nozze. Che voce aveva questo. Non ce ne erano – e probabilmente non ce ne sono ancora – di voci così in Italia. E che bel rock per essere in Italia. Rock in Italia, come avrebbe intitolato un suo disco anni dopo. Lui era Massimo Priviero e grazie a Dio è ancora con noi. Priviero e Bono avevano aperto una porta. Si poteva finalmente parlare di rock anche da noi. Ricordo in quanti ci buttammo nelle cantine – io in quelle di Chiavari, nell’impossibile tentativo di portare al successo i Rolling Stones italiani, ma questa è un’altra storia – perché in quell’ultimo squarcio di anni 80 sembrava davvero che i tempi stessero cambiando. Che fosse arrivato il momento dei glory days un po’ per tutti. Non è andata così, ma non importa. Ci siamo divertiti molto, credo anche Massimo Priviero.


Vent’anni dopo e sto andando in una sera che piove che Dio la manda al Rolling Stone di Milano. Il locale cult della musica rock italiana sta chiudendo i battenti ma noi stasera siamo qui per celebrare la musica rock. Siamo qui per celebrare uno che non si è arreso mai. Nessuna resa mai, come canta lui. Massimo Priviero è sempre lo stesso di vent’anni fa. La voce è tutta intatta, e le sue canzoni sono diventate sempre più belle. Lui poi è anche identico fisicamente. E’ proprio vero che il rock’n’roll fa bene, anche al fisico. E’ una gran serata questa, il modo migliore per dire addio al Rolling Stone ma non a Priviero e alle sue canzoni. Dove saremo fra vent’anni, Massimo? Tu, credo, su qualche altro palco, io, credo, ancora davanti a quel palco. God bless, Massimo. E’ stata una lunga strada dal Parco Lambro a qui, ma ne è valsa la pena. Adesso mi godo il bellissimo dvd di quella sera, tanto per fare quello che solo le migliori canzoni sanno fare: fermare il tempo. Che è il sogno di tutti. Perché il tempo non deve mai volare via. Il tempo è dalla nostra parte. Chi lo cantava? Se solo potessi ricordare il loro nome… Oh yes, I can!

Monday, April 05, 2010

Springtime music


Vi siete mai chiesti quali sono i rumori, i suoni,le voci di un ospedale psichiatrico? Se proprio volete saperlo, buttatevi in un viaggio cosmico nella pazzia e nella musica che dalla pazzia può scaturire. E' il bellissimo nuovo disco di Roky Erikson, True Love Cast Out All Evil, indimenticato leader di quella che probabilmente fu la prima band" acida" e psichedelica, i texani 13th Floor Elevators. Come Syd Barrett, qualche pasticca di troppo portò Roky a schizzare in orbite proibite, ma a differenza di Syd, Roky in qualche modo è riuscito a tornare alla musica. A differenza del pur bello All That May Do My Rhyme che nel 1995, prodotto da un "certo" Charlie Sexton lo vide effettuare un primo timido comeback, questo True Love Cast Out All Evil che esce questo mese è un disco totale, da paura. Lo accompagnano gli straordinari Okkerville River come backing band, e il suono che insieme producono sembra quello della crew di Phil Spector sotto dosi abbondanti di LSD. Un suono cosmico, un wall of sound all'acido, e un Roky che canta come non avremmo mai pensato. In mezzo, tra una canzone e l'altra, inquietanti registrazioni effettuate nell'ospedale psichiatrico dove Erickson si trovava nei primi anni 70: grida, gemiti, strascichi, canzoni alla chitarra acustica che sembrano provenire dall'inferno della mente malata. Un disco da paura, appunto, ma anche pieno di dolcezza, di poesia e di belle canzoni saltate direttamente fuori dai 60s.

Dai 60s arrivano - come attitudine naturalmente che loro sono giovanissimi - anche gli Avett Brothers. Lo straordinario I and Love and You, uscito in America già lo scorso settembre ma qui da noi solo adesso, è un caledoiscopio di buone vibrazioni, un vaudeville show per chitarre acustiche, banjo, pianoforte e violoncello. Ha la stessa freschezza di certe pagine dei Beatles, quelli pazzerelli e gioiosi di Sgt Pepper o di Abbey Road. Ma loro sono americanissimi, dentro fino al midollo nella folk music di casa loro, eppure riescono in certi pezzi a suonare più rock'n'roll dei Ramones. Sono divertimento puro, sono un inno alla primavera che (forse) sta finalmente facendo capolino, e come ho già detto la canzone I and Love and You è uno dei più straordinari pezzi di ogni tempo. C'è la poesia metropolitana del primo Springsteen, c'è la malinconia dei Pogues di On a Rainy Night in Soho, c'è il sentimento gospel di The Band. Un disco che è già un classico di ogni tempo. E mi dicono che il precedente album, Emotionalism, è ancora meglio. Vado a cercarlo, grazie D.

C'è chi dice che Jakob Dylan solo adesso è finalmente diventato degno del cognome che porta. Non è vero, naturalmente, e chi lo dice non ha mai ascoltato attentamente dischi come Bringing down the Horse o Sweetheart, Rebel. Ma comunque il nuovo Women and Country è disco degno di stare accanto a quanto papà Bob ha fatto negli ultimi quindici anni e certamente meglio di sue pagine sbiadite come Modern Times. T-Bone Burnett fa quello che avrebbe fatto Joe Henry se avesse prodotto lui, e cioè butta colori scuri, innesta ritmiche pesanti e minacciose, lascia che Marc Ribot faccia ululare la chitarra. Il resto lo fa Jakob con canzoni potenti e sanguinanti, che sembra questo disco il Nebraska del terzo millennio. Folk music anche per lui, ma filtrata attraverso visioni oscure e malinconiche. "Le uniche cose che davvero ci costituiscono" dice "sono le donne e l'amore per il nostro paese". Le celebra con canzoni piene di fascino e di intensità e davvero non c'è altro da dire. Se non che c'è sempre un Dylan a dettare la direzione.

Friday, April 02, 2010

I and Love and You



Load the car and write the note
Grab your bag and grab your coat
Tell the ones that need to know
We are headed north

One foot in and one foot back
But it don’t pay, to live like that
So i cut the ties and i jumped the tracks
For never to return

Ah Brooklyn Brooklyn take me in
Are you aware the shape I’m in
My hands they shake my head it spins
Ah Brooklyn Brooklyn take me in

When at first I learned to speak
I used all my words to fight
With him and her and you and me
Oh but its just a waste of time
Yeah its such a waste of time

That woman shes got eyes that shine
Like a pair of stolen polished dimes
She asked to dance I said it’s fine
I’ll see you in the morning time

Ah Brooklyn Brooklyn take me in
Are you aware the shape im in
My hands they shake my head it spins
Ah Brooklyn Brooklyn take me in

Three words that became hard to say
I and love and you
What you were then, I am today
Look at the things I do

Ah Brooklyn Brooklyn take me in
Are you aware the shape I’m in
My hands they shake my head it spins
Ah Brooklyn Brooklyn take me in

Dumbed down and numbed by time and age
Your dreams to catch the world, the cage
The highway sets the travelers stage
All exits look the same

Three words that became hard to say
I and love and you
I and love and you
I and love and you

Probabilmente la più bella canzone dai tempi di The Weight di The Band. Happy easter everybody

Sangue nei solchi del cuore

“Bob Dylan è in città, c’è bisogno di catturare qualcosa di magico”. La “città” è ovviamente New York, al telefono John Hammond, il più gran...

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