Thursday, March 29, 2012

Cose che ho fatto tra i 6 e i 13 anni (quando ero felice)

(della serie: i 50 anni si avvicinano velocemente e io non mi sento bene per un cazzo)

leggere Topolino, Zagor e Asterix. l'attesa per il nuovo prossimo numero.

guardare Zorro e i Forti di Forte Coraggio alla tv dei ragazzi alle 18 del pomeriggio, meglio se con merenda ma non ricordo che merenda era. probabilmente focaccia genovese, ovvio.

guardare i cartoni animati al sabato (un sabato i cartoni, l'altro sabato in alternativa le comiche) tornando da scuola a mezzogiorno circa mentre mangio pastasciutta col sugo rosso annegata nell'olio.

giocare con i soldatini dell'Airfix, specialmente quelli delle guerre napoleoniche, ma anche quelli della seconda guerra mondiale.

sognare una nuova scatola di soldatini (l'ultima comprata a 13 anni)
costruire plastici in plastilina di campi di battaglia, imbrattarsi fino al gomito di plastilina.

costruire modellini di aerei e carri armati Airfix, annusare l'odore dei barattolini di colore. anche della colla Vinavil. spaccare gli aeroplani costrutti da mio fratello per l'invidia che li faceva meglio dei miei (no, questa è una cosa brutta che mi duole dentro ancora oggi).

sedere sul terrazzo nelle giornate di primavera a leggere fumetti. sul terrazzo a primavera guardando per ore stormi giganteschi (oggi non ce ne sono quasi più almeno a Milano) di rondini immaginando siano formazioni di aerei inglesi e tedeschi della seconda guerra mondiale che si combattono fra loro.

guardare per ore l'acquario di pesci di mia zia, al buio.

mangiare olive dolci nel cartoccio comprato per le strade di Roma. Anche i supplì.

aspettare Gesù Bambino la notte di Natale domandandosi come fa un bambino con il pannolino a entrare nelle case della gente a portare i regali.

andare in vacanza in montagna sulle Dolomiti con i miei genitori e i miei fratelli.


(io, novembre 1967, probabilmente ancora più felice che tra i 6 e i 13 anni)

Sunday, March 25, 2012

Tommy, can you fucking hear me? I want to be free

Che ci fa tutta questa gente in mutande maglietta e scarpette da tennis in giro. Che ci faccio io in giro a quest'ora che non so neanche che ora sia. Non mi sono mai sentito così un alieno in mezzo a queste famigliole sorridenti mi fa male la testa ho voglia di vomitare e vorrei sapere davvero che ore sono e cosa hanno da essere così felici con quelli stupide tutine da ginnastica da cui fuoriesce un ventre esagerato e un culone altrettanto esagerato.

La cazzo di ora legale e io che sto andando in ufficio un'ora prima ovviamente. E la loro Stracazzodistramilano. Noia e fastidio. Se solo potessi tornare dove ero ieri sera. Ma non si può. No. Che delusione.

Sarà stato il fatto che ero seduto quattro file davanti al palco, proprio in centro davanti al microfono e che Roger Daltrey più di una volta mi ha buttato gli occhi nei miei occhi, behind the blue eyes. Sarà stato che venivo da un cazzo di sabato di lavoro e andavo verso una cazzo di domenica di lavoro per cui due ore di musica quasi quasi poteva esserci anche Massimo Ranieri sul palco che sarebbe andato bene. Sarà stato che non ho mai visto gli Who in concerto e che Tommy come tutte le opere rock non mi era mai piaciuto granché e l'avevo sempre considerato una di quelle uccisioni pseudo intellettuali tipicamente inglesi del vero rock'n'roll.

Sarà stato che è stato davvero un concerto della madonna. The kids are alright.


Ero andato senza aspettative e per due ore mi sono sentito libero, come Tommy: I'm free, I'm so fucking free.

Sebbene potesse sembrare, come qualcuno ha detto, di assistere al concerto del cantante degli Who con una cover band (fossero così fottutamente fighe le cover band, cazzo che assalto sonoro da paura ieri sera) e che lui che aveva promesso di morire prima di diventare vecchio, era invece un vecchio meraviglioso di 68 anni che ne dimostrava 40 (senza tingersi i capelli, prendano nota certi rocker che vogliono sembrare per sempre giovani) e continua a cantare, ho capito davvero perché Tommy è stata una delle pagine della musica rock più devastanti e perché hanno cambiato la storia di questa musica e del mondo moderno.


Se mai un disco ha dato il senso dell'aspirazione alla libertà totale, e per il tempo che dura quel disco ti fa credere di essere veramente libero, quel disco è Tommy. Capisco perché la sorella di William in Almost Famous gli aveva detto di ascoltare Tommy con una candela accesa e avrebbe visto il suo futuro: Listen To Tommy With A Candle Burning, And You'll See Your Entire Future


Roger Daltrey con la compagnia di un Pete Townshend più giovane di vent'anni (no, era il fratello di Pete, Simon, che gli assomiglia incredibilmente) ha rilasciato ieri sera un concerto di una intensità straordinaria. Prima tutto Tommy, con immagini psichedeliche sullo schermo e una rappresentazione senza sbavatura alcuna. Solo la voce a volte ovviamente faceva fatica a raggiungere certe vette. Poi una seconda parte di concerto all'insegna del divertimento totale, compreso un medley di canzone di Johnny Cash. E ovviamente quei pezzi che tutti aspettavamo: Who Are You, I Can See For Miles, The kids are alright, My Generation, Behind Blue Eyes, Baba O’ Riley e una travolgente ferocissima cazzutissima Young Man Blues (ovvio che era incazzato: decenni fa scrisse queste parole: “Oggi sono i vecchi ad avere in mano tutto il denaro mentre i giovani non hanno nulla in questo mondo”. E' la canzone del fottuto spread come solo il rock sa essere profetico). E in quel momento eravamo tutti a Leeds, a registrare ill più grande disco rock dal vivo di sempre.


Ha finite, questo stupendo working class hero, il concerto da solo sul palco con un ukulele come ormai sembra sia l'ultima moda del rock. Ma ci stava, ci stava quella dolcezza finale per dirsi addio. Non prima di aver commentato: un tizio mi ha detto che alla mia età per mantenere la voce dovrei cantare con un tono più basso. Gli ho risposto: hai mai ascoltato gli Who? Come cazzo si fa a cantare le canzoni degli Who a tono basso?? Bisogna urlare!. Maledetti ragazzini punk, ma come si fa a salire su un palco dopo aver visto gli Who?


Mi rimane come forse mai prima in vita mia dopo un concerto una sensazione di dolore e di angoscia. Forse perché raramente a un concerto rock avevo toccato così fisicamente il senso di libertà, di essere libero e adesso è già tutto finito. La droga finisce, l'alcol finisce, il sesso finisce anche la musica finisce. Quello che rimane sempre è la rottura di palle. Perché questa cazzo di vita ci fa desiderare e sfiorare l'impossibile per poi lasciarci con un mucchio di mosche in mano? I don want to hang up my rock'n'roll shoes: che altro può fare un ragazzo di 68 anni se non cantare in una rock'n'roll band? Invidia fottuta.

Wednesday, March 21, 2012

Ho il blues del funerale

Lasciamo posto questa volta a un amico di scorribande concertisitche. Insieme, tra gli altri, abbiamo visto Bob Dylan e Mark Knopfler a Parigi. Lorenzo Randazzo ha la grande fortuna di lavorare spesso a Parigi e Londra, che è meglio di andare a lavorare a Milwaukee ad esempio. Così si becca molti concerti straordinari in anticipo a noi o anche concerti che da noi non si terranno mai. Lorenza ha un solo difetto: è milanista. Anzi due. copia un po' il mio (non)stile. E' uno dei tanti mostri che ho creato. Tutto questo per dare un po' di spazio al bellissimo ultimo disco di Mark Lanegan, Funeral Blues, che ho colpevolmente trascurato, ma che mi piace moltissimo.

Mark Lanegan
, che Lorenzo ha visto due sere fa a Londra e che domenica sera sarà a Milano. In un weekend dei più assurdi: in due sere si gioca la scelta tra Roger Daltrey, Moe e Lanegan. Be' meglio così, Milano non è mica Milwaukee...



Mark Lanegan, chi era costui? Un tristone sopravvissuto alla morte che ho anche avuto la fortuna di intervistare, secoli fa. In collegamento telefonico Milano-Seattle, trascinato giù dal letto, mentre succhiava un capuccino, che a Seattle li fanno buoni. Parlando di fantasmi, folk music e Bob Dylan, ovviamente,e come sopravvivere al blues del funerale già allora. Fascinoso, cupo, profondo: il Nick Cave del grunge.

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Monday, March 19, 2012

Le parole del nostro cuore

Qualche giorno fa, ad Austin nel Texas, Bruce Springsteen è stato protagonista di una delle migliori performance della sua vita. E per uno che da decenni è considerato il miglior performer della musica rock di ogni tempo, vuol dire certamente qualcosa. Di fatto, quel giorno ad Austin Springsteen non ha cantato. Qualche canzone, o meglio accenno di canzone l’ha fatto, ma si è trattato di cinquanta minuti circa di discorso. Era infatti invitato ad aprire il festival South by Southwest il più importante appuntamento mondiale della scena musicale indipendente. Fino a un certo punto indipendente ovviamente, come ogni altra cosa oggigiorno, visto che lo stesso Springsteen era lì per fare pubblicità al suo disco nuovo di zecca uscito proprio pochi giorni prima.


Ma tant’è: viviamo in un mondo post autentico, come ha detto lui stesso parlando in questa occasione, dove ogni cosa non rispecchia più il motivo autentico per cui era nata. Il motivo della straordinarietà di quanto ha detto in quei minuti Bruce Springsteen, con una capacità di autoironia che solo gli italo-americani sanno possedere, facendolo a tratti assomigliare a un Al Pacino nei suoi momenti migliori (“Che cosa ci facciamo qui così presto?” ha detto all’inizio; per la cronaca era mezzogiorno. “Quanto può essere importante questo discorso per essere qui a mezzogiorno? Ogni musicista decente a quest’ora ad Austin sta dormendo, o saranno addormentati per quando avrò finito di parlare”), è stato nella capacità di sollevare tutto il mistero insito nella musica rock, nel cuore di questa musica.

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Friday, March 16, 2012

Un sabato sera infernale, una domenica mattina da incubo

"So, rumble young musicians, rumble. Open your ears and open your hearts. Don't take yourselves too seriously and take yourselves as seriously as death itself. Don't worry. Worry your ass off. Have confidence but doubt, it keeps you awake and alert"

Se Bruce Springsteen sapesse ancora scrivere canzoni come la grandezza che si porta nel cuore, probabilmente scriverebbe ancora capolavori. Tantè. Alcune sue frasi dette nel corso del suo discorso all'apertura del South by Southwest di Austin risuonano come le parole più belle, più profonde, più intense e più vere mai dette sulla musica rock. Da imparare a memoria. E la citazione di Lester Bangs vale una carriera.

Viviamo in un mondo post-autentico, dove ciò che conta alla fine della giornata è ciò che resta quando spegni la luce per andare a dormire.

Una volta comparso Elvis, il genio non potè più essere infilato nella lampada.

Il doo wop, la musica più semplice, sesso allo stato puro, come ascoltare il suono dei reggiseni che venivano sganciati in tutta l'America

Uno che affondava il coltello nel ventre dell'insicurezza adolescenziale. Bastavano certi suoi titoli e certe sue parole... 'Running scared'... 'Paranoia'. Roy Orbison mi fece capire che la vita è una tragedia intervallata da momenti di gloria

Il wall of sound: i suoi dischi suonavano quasi come caos, il rumore che sprigionava... Se Roy era l'opera, Phil era la sinfonia. Tre minuti di orgasmo seguiti dall'oblio.

Gli Animals furono la band meno apologetica fino all'avvento dei Sex Pistols. A proposito, i Sex Pistols erano spaventosi, non scioccanti - è una cosa diversa. Spaventosi.

James Brown? Il più grande di sempre sul palco, al T.A.M.I. Show sfondò il culo agli Stones. Ma dico, come fai a salire sul palco dopo James Brown? E io adoro gli Stones, ma devi essere un pazzo. Sul palco dopo James Brown? Ma no, vai a casa! James Brown è sottovalutato tuttora.



Video streaming by Ustream

Quando arrivò Bob, ci diede finalmente le parole che mancavano. Sapevamo che c'era qualcosa da esprimere, ma non esisteva ancora un linguaggio perchè un giovane potesse dare verbo a quello che sentiva. 'How does it feel to be on your own'... Esattamente: se eri un adolescente negli anni '50 e '60 eri proprio da solo, era così che ti sentivi, perchè i tuoi genitori non riuscivano a comunicare con te in un mondo che stava cambiando del tutto. Bob ci diede le parole e ci trattò da adulti. Ci ha dato parole per capire il nostro cuore. .

Se il rock and roll era un weekend di 7 giorni, il country era un sabato sera infernale con una domenica mattina da incubo.

Woody Guthrie, la cui musica continua a essere così importante ancora oggi, è il 'ghost in the machine' di questa nazione. Perché? Perché per tutta la vita è quello che ha cercato di risondere alla domanda fondamentale di Hank Williams, e cioè: perché c'è sempre un buco nel mio secchio...?.


(Bruce Springsteen)

Sunday, March 11, 2012

Sunday Morning (italian) music

Era il 1988 credo. L'audizione si teneva negli studi della storica Cgd poco fuori Milano. Tra i "concorrenti", Baccini e un improbabile gruppo di pop heavy metal che si rifacevano in modo evidente agli Europe. A guidare le consultazioni su chi avrebbe meritato il contratto discografico, una Caterina Caselli non ancora super magnate della discografia, quella che non ha mai sbagliato un colpo. I miei amici si chiamavano Smalltown (ogni riferimento a John Mellencamp era vero), facevano rock'n'roll e cantavano in inglese. Il cantante era una sorta di figlio impossibile di Mick Jagger e Jim Morrison, per il fisico e la voce. Erano una buona band, seppur giovani e con tanti limiti. Alla fine dell'audizione, Caterina Caselli disse loro che li avrebbe scelti se si fossero messi a cantare in italiano anziché in inglese. No, non si può, dissero loro, il rock è musica americana. Presero Baccini.

Qualche anno dopo, sempre inseguendo "quel" sogno, andammo da un importante discografico. Loro si erano messi a cantare in italiano. Disse, la vostra musica non è male, solo che dovreste essere più furbi. Era il periodo che alle radio spaccava Pippo, che cazzo fai di Zucchero. Avete presente quella canzone, quella nuova di Zucchero ci chiese. Si vergognava a citarla, poi lo fece. Mi vergogno un po', però ecco la parola .. quella lì quella di Pippo, è la trovata giusta per passare alle radio. Dovreste escogitare cose del genere. Tornate quando lo avete fatto. Ce ne andammo per non tornare più. CAZZO, SI DICE CAZZO, comunque. Pippo.

Oggi, una vita e mezza dopo, ricevo continuamente dischi e mp3 di esordienti cocker italiani. Mi chiedono di recensirli, mi chiedono pareri. Sono solo uno scribacchino del cazzo (Pippo) e non un produttore. Ma è evidente a tutti che in un mercato musicale morto e defunto, oggi si fanno dischi solo se si va ai talent televisivi. Che cosa volete dalla vita, ragazzi? Suonare per passione o sfondare sul mercato (morto)? A differenza dell'amico Blue non vedo nessuna nuova scena italiana su questo fronte. Anzi, mi sembra una scena decisamente vecchia. Il cosiddetto indie rock cantato in italiano lo seguo poco o niente: mi annoia, con qualche eccezione penso a Dente o a Francesco D'Acri. E' una scena autoreferenziale, piena di sé, di ego e di narcisismo. Ci sono dei bei testi però a volte. Il roots blue collar rock italiano cantato in inglese non mi ha mai entusiasmato. E' come un compito in classe: nel migliore dei casi viene fuori tutta la lezione studiata bene, a volte molto bene, ma l'originalità non la trovo. Non trovo neanche una urgenza comunicativa, che è quello che rende speciale anche una canzone mediocre. E la pronuncia lascia sempre a desiderare. Sì, ci sono gruppi e artisti di cui ho scritto che trovo piacevoli: Lorenzo Bertocchini, i Lowlands, Luca Milani (che ritengo oggi il migliore di tutti, proprio perché il più originale anche se ovviamente paga i suoi ovvi debiti anche lui). E altri ancora: Mojo Filter, Rigo Righetti ad esempio.


Vorrei dire qualcosa dei nuovi lavori di Cesare Carugi e Lorenzo Semprini. Soprattutto perché sono due persone molto carine (non li ho mai conosciuti di persona e neanche visti in concerto), ma mi piace la loro passione e anche la loro umiltà, dote rara in questo ambiente. Sì umiltà: c'era uno che una volta prima di andare solista mi piaceva anche abbastanza con la sua band. Con il tempo aveva cominciato a farsi vivo una volta all'anno, quando usciva un suo nuovo disco. Un sacco di chiacchiere amichevoli al telefono per concludersi sempre con un c'è il mio nuovo disco, così possiamo fare intervista e recensione. Ok. Una sera, in uno schifoso localaccio dove doveva suonare, l'avevo raggiunto per intervistarlo per l'ennesima volta solo per farlo contento. Ti faccio un autografo, mi disse, lo so che ti fa piacere e sei contento di averlo. Eh? Cazzo, Pippo. Cesare e Lorenzo invece mi hanno mandato i loro dischi senza neanche chiedermi di recensirli.


I dischi di Carugi (Heres' to the Road) e Semprini (Good Things, a nome Miami and the Groovers) sono dei bei lavori. Buone canzoni e buona produzione. Onesti e sinceri. In ciascuno dei due ci sono almeno due ottime canzoni, da riascoltare parecchio. Con tutti i limiti della auto produzione. Non trovo nulla che però mi faccia sussultare sulla sedia e non so se comprerei i loro dischi invece di quelli di un collega americano (che anche lì, in certi giri musicali, c'è un sacco di fuffa, sbandierata come il futuro del rock'n'roll, alcuni li portano anche a suonare qui in Italia, ma sarebbe meglio di no). C'è poi sempre quell'avvoltoio sulle spalle, quell'ombra che nonostante il tentativo dei due di scrollarsela di dosso, spunta fuori evidente. Non faccio nomi, ma sarebbe ora di tagliare il cordone ombelicale con Asbury Park. In Italia chi fa un certo tipo di rock americano si divide normalmente su due piste come riferimento: Springsteen o Bob Dylan. E' ora di staccare la spina. Le cose più interessanti che ho ascoltato negli ultimi due anni si chiamano Vaccines e National. Forse sarebbe il caso di guardare altrove, ad altri spunti. E certamente, mettersi nelle mani di un produttore professionista, anche se lo so che costa soldi. Cosa volete fare nella vita, ragazzi? E' tutto quello che mi sento di dire. Non vi ci vedo da Maria De Filippi, comunque. Però cantare in italiano, quello sì. E poi, accidenti, ma siete veramente in tanti a fare dischi ultimamente: perché non unire le forze, qualche volta?

Cesare Carugi e Lorenzo Semprini hanno però fatto quello che io non sono mai riuscito a fare, e dunque dovrei solo starmene zitto. Hanno fatto dei dischi. Quando avevo 16 anni attaccavo con lo scotch l'armonica al sedile di una sedia perché non avevo il porta armonica e strimpellavo la chitarra. Quando ho capito che non riuscivo ad accordarla perché troppo stonato ho smesso. Ma so cosa avrei fatto se avessi potuto fare un disco: avrei fatto un disco da folksinger tipo Greenwich Village. Ci siamo capiti no? Cazzo, Pippo. Per cui mi rimangio tutto o quasi e dico a Cesare e Lorenzo di andare avanti così. Hanno il cuore al posto giusto e scrivono belle canzoni. Io poi sono solo uno scribacchino del cazzo. Non mi avete neanche chiesto di scrivere una recensione in fondo. Dio vi benedica. E fanculo a Pippo. Cazzo.

Friday, March 09, 2012

Taxi Driver

Taxi? Taxi un cazzo. Devo aver toccato l'ultimo gradino di una scala già scesa troppo in basso l'altra notte. Ero ubriaco? Può darsi. Ma da quando i tassisti si rifiutano di far salire gli ubriachi, e soprattutto, come cazzo ha fatto a capire che lo ero? Mi ero semplicemente avvicinato come sempre si fa, quello tira giù il finestrino e con una vocina stridula impossibile - ma chi cazzo ero veramente? la mia cattiva coscienza travestita da taxi driver? un demonio con la faccia da padre di famiglia? Credo che fosse la reincarnazione di Travis Bickle a pensarci bene - mi fa segno di no con la mano. "Ubriaco, no". Mi giro per vedere chi sia l'ubriaco. Non c'è nessun altro. Io? Ubriaco un cazzo. Fammi salire. Chiude lo sportello e il finestrino. Bastardo. E dire che Taxi Driver di Martin Scorsese era uno dei miei fin preferiti. Per fortuna è arrivato non so da dove il mio angelo custode che mi ha fatto trovare la strada di casa. Era lì, tutto il tempo, e non me ne ero accorto.


Wilco, Alcatraz, 8 marzo 2012, foto di Alessandro Armadillo Maggiori

Che ci faccio a quasi l'una di notte in una via Farini deserta, davanti a un MacDonald's cercando di salire su un taxi? Devo pensarci, ricostruire gli eventi. Ah. Ero andato a vedere i Wilco all'Acaltraz. Non devo andarci più, all'Acaltraz. Una volta al concerto degli Eels ho avuto una crisi di panico davanti al bar: non riuscivo più a trovare le scale per tornare in platea. Ero ubriaco? Nah. Ma il mio amico Raffaele proprio ieri mi aveva avvisato: l'Alcatraz è dannoso per il fegato. Ma ci ho visto alcuni dei concerti più belli della mia vita e i Wilco di ieri sera, per quello che posso ricordare, è stato uno di questi. Dio li benedica, Pat Sanson, Jeff Tweedy e John Stirrat, il miglior rock'n'roll show di questo pianeta. Tornerò a vederli sempre fino a quando ce la farò. Anche se all'Alcatraz si incontrano anche i fantasmi, ieri sera nella sala fumatori ne ho trovato uno. Anzi, lei ha trovato me. Ma ci sono i miei cessi preferiti all'Alcatraz, comunque. Poi per tornare a casa prenderò un taxi. Forse. Se Travis Bickle mi lascerà salire.

Wednesday, March 07, 2012

Ogni immagine racconta una storia

Oh Maggie, I wished I'd never seen your face
You made a first class fool out of me
But I'm as blind as a fool can be
You stole my heart but I love you anyway


Che botta. Mi domando come sia stato accolto questo disco quando uscì, un bel 41 anni fa. E' così… fuori dal tempo. Oggi sembra un disco vecchissimo, allora come poteva sembrare? Me lo domando così tanto che recupero una recensione originale dell'epoca che uscì su Rolling Stone. Ne stronca metà, le cover - bellissime -, come Tomorrow is a Long Time di Bob Dylan e Reason to Believe di Tim Hardin, o anche That's All Right Mama, sì quella che Elvis incise come primo 45 giri. Doveva scrivere solo brani originali, dice il recensore, ma lo perdono perché nel 1971 uscivano tonnellate di bei dischi per cui qualche critica bisognava pur muoverla.

Every Picture Telles a Story è un disco…. talmente bello che non si riesce a definirlo, oggi, 41 anni dopo la sua uscita. Sì, col senno di poi anche Rolling Stone lo ha incluso tra i 500 dischi più belli di sempre posizionandolo intorno alla centesima posizione. Eppure oggi suona come un disco misterioso: sembra antico, precedente alla sua incisione, ma è antico per noi oggi, 41 anni dopo ovviamente. E' un disco fuori dal tempo, più precisamente.

"Lo abbiamo inciso senza alcun preconcetto su cosa fare" raccontò anni dopo Rod Stewart. "Ci facevamo qualche drink e ci mettevamo a strimpellare". Mai strimpellata fu meglio riuscita. "Avevamo un gruppo di bevitori di prima categoria" dice ancora il cantante scozzese. Praticamente i Faces, la band di cui era cantante, la seconda miglior rock'n'roll band di Inghilterra dopo gli Stones in quel periodo storico. E di alcol in questo disco ne scorre parecchio. Ma a parte la straordinaria I'm Losing You, è un rock acustico quello che si sente qua dentro. E sorge la prima domanda: perché, in nome di Dio, in quel 1971 di chitarre assordanti e distorte fare un disco di rock acustico? Non si sa, ma il risultato è straordinario, come si sente dal primo brano, la tilt track, tirato ed eccitante come il miglior rock'n'roll, ma supportato da chitarre acustiche. E poi la seconda domanda. Perché alla fine di That's All Right Mama (una cover furibonda e bellissima, checché ne dicesse il recensore di Rollign Stone 41 anni fa), Ron Wood attacca con dolcissima melanconia le note al dobro di Amazing Grace, su cui poi entra la voce commovente di Rod? Non si sa, forse un collegamento freudiano con le radici pre rock'n'roll d'America. D'altro canto si sa, l'ho ripetuto alla noia rubando la frase a qualcuno, che i miglior dischi di rock furono fatti da inglesi che sognavano di essere americani. E così facendo fecero meglio di molti americani individuando un segno e un sogno da seguire.


Risposte? Come tutti i dischi migliori, questo disco nasce per caso. Un gruppo di amici che si ritrova a bere e strimpellare. Non c'è piano marketing strategico dietro. Non ha una moda da seguire, ma come sempre in questi casi la moda la crea. La voce fumosa, roca, confidenziale di Rod Stewart fa il resto: ascoltare questo disco è come essere in un pub, un cantastorie invita a sedersi vicino a lui e tra una Guinness e un Jameson partono le storie. Sì, Rod Stewart è uno storyteller, del rock certo, ma un profondissimo storyteller. Mandolin Wind introduce sugli scenari del rock il mandolino ed è una introduzione non da poco che farà storia in breve tempo. Maggie May è una storia da working class hero tipicamente inglese, che lascia aperta la solita irrisolta domanda: che altro può fare un povero ragazzo se non suonare in una rock'n'roll band? Un ragazzo che è stato turbato nel cuore e nel sesso da una donna più grande di lui che in fin dei conti voleva una cosa sola: non rimanere da sola. Non è quello che vogliamo tutti? Seems like a Long Time è uno spaccato di Londra di notte, quando i pub hanno chiuso e si resta da soli con le proprie angosce e la voglia di tornare al più presto in un pub. Straordinario il coro gospel che fa capolino, mai Londra e Harlem furono più vicine del giorno in cui vene incisa questa canzone. I'm Losing You è rock e R&B totale e devastante con parti di batteria che sconquassano. Che cazzo di band i Faces. I Sex Pistols fanno ridere al confronto.


Venticinque anni dopo circa Rod Stewart, ormai una delle massime stelle della scena musicale mondiale anche se a corto di grandi dischi da tempo, e Ron Wood approdato dai Faces ai Rolling Stones per la sua parte di gloria, si ritrovano su un palco di un unplugged di Mtv. Improvvisamente è come essere in quel pub di Londra di 41 anni fa. Le note sono le stesse, il desiderio pure, la musica anche. Maggie May, mi hai rubato il cuore. Ma ti amo lo stesso.

Monday, March 05, 2012

Radio Rock/ 4

CASEY'S LAST RIDE – KRIS KRISTOFFERSON - Un film, un romanzo, un quadro. Una malinconia impossibile da sostenere. Ecco cosa è Casey’s Last Ride. Il primo disco di Kris Kristofferson, pubblicato nel 1970, ex pilota di elicotteri dell’esercito americano, ex uomo delle pulizie degli studi Columbia di Nashville nei giorni in cui Bob Dylan vi incideva Blonde on Blonde, ex alcolista, ma tutt’oggi poeta dell’amore, è il classico disco perfetto. Dove ogni canzone è un capitolo di straordinaria bellezza: tanto per intendersi, contiene la celeberrima Me and Bobby McGee. E Casey’s Last Ride è la canzone perfetta in un disco perfetto come accade raramente, oggi giorno ancora di più che un tempo.


Due strofe, due ritornelli (nel secondo dei quali ci si concede il lusso di cambiare qualche verso, a dilatarne l’espressività in una ipotesi di infinitezza apparente, perché la storia è invece tutta qua, non ha vie di fuga), un'intensità con pochi, pochissimi paragoni. “Casey si unisce al suono ingannevole della gente silenziosa”, per le strade dove l’umanità si perde e disperde ogni giorno che Dio manda in terra e chissà quante storie dolorose ognuno si porta appresso. Come diceva Giorgio Gaber, bisognerebbe sentire tenerezza per quell’uomo che ci cammina davanti: “Avete mai visto le spalle di un uomo che cammina davanti voi? Io le ho viste. Sono le spalle comuni di un uomo qualsiasi. Ma si prova una sensazione simile alla tenerezza. C’è tutta la normalità umana. La fatica quotidiana del capofamiglia che va al lavoro. I piaceri di cui è fatta la sua precaria esistenza”. Invece guardiamo altrove, alla pozzanghera sul marciapiede.

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Thursday, March 01, 2012

Cosa sarà

Per un musicista, la morte che ogni musicista desidera. La sera prima un concerto, la sera dopo ce ne sarebbe stato un altro. In mezzo, la morte. Che come diceva sempre Lucio Dalla, è solo il secondo tempo.On the road, in mezzo alla musica, come tutta la sua vita, all'ombra di un desiderio. Era un uomo buono.


Foto di Paolo Brillo


Cosa sarà
che fa crescere gli alberi la felicità
che fa morire a vent'anni
anche se vivi fino a cento
cosa sarà a far muovere il vento
a fermare un poeta ubriaco
a dare la morte per un pezzo di pane
o un bacio non dato
oh cosa sarà
che ti svegli al mattino e sei serio
che ti fa morire ridendo di notte
all'ombra di un desiderio

DUE RIGHE, SCRITTE DI GETTO, ALLA NOTIZIA DELLA SUA MORTE

Sangue nei solchi del cuore

“Bob Dylan è in città, c’è bisogno di catturare qualcosa di magico”. La “città” è ovviamente New York, al telefono John Hammond, il più gran...

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