Monday, March 24, 2014

She is with the band

Un giorno di metà anni settanta, salì su un aereo e da Londra, dov'era nata, andò fino a Los Angeles. Aveva vent'anni, Sylvie Simmons, e in quel modo incosciente realizzò il suo sogno più grande, vivere la sua vita dentro alla musica. Oggi vive a San Francisco ed è una delle più quotate scrittrici rock del mondo, una delle pochissime donne ad aver fatto breccia in un ambiente fortemente maschilista, quello del giornalismo musicale. Il suo ultimo libro, la biografia di Leonard Cohen, "I'm Your Man" (pubblicato anche in Italia da Caissa Italia Editore), è un best-seller mondiale tradotto in oltre dieci lingue. Dopo aver collaborato con le maggiori riviste musicali degli anni 70 e 80, come Cream e Sound, scrive oggi sin dal primo numero per quella che è la miglior rivista musicale del mondo, Mojo, per la quale ha realizzato dozzine di interviste straordinarie, come quei cinque giorni passati insieme a Johnny Cash a casa sua pochi mesi prima che questi morisse.Con lei abbiamo parlato di "quel piccolo sciocco pezzo di musica che si ama così tanto da stare male".




Nel film di Cameron Crowe, "Almost Famous/Quasi famosi" c'è una frase detta da una delle protagoniste a un musicista: "Non riuscite a capire cosa significhi amare così tanto un piccolo, sciocco pezzo di musica o una band, da starci male": E' davvero possibile stare male per una canzone?




Assolutamente, credo profondamente che la musica possa suscitare una passione così forte come l'amore per un uomo, una donna, un bambino, un animale. Sin da quando ero una bambina, ero ossessionata con la musica in tutte le sue forme, ho sempre desiderato una vita nella musica, ma non ero sicura di come poter fare. Deve essere un percorso che segui per conto tuo, la mia passione per la musica batte ogni altro tipo di passione.

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Tuesday, March 18, 2014

Paint it. Black

Come in un brutto film, come in una canzone cantata milioni di volte, immaginata, allontanata perché troppo dolorosa e alla fine mai composta. Il jet privato, quello che dagli anni 70 li ha portati in giro per il mondo, con la linguaccia irriverente ben in vista sulla fusoliera è appena atterrato. Saranno le dieci di sera a Perth, Australia. A New York City sono le 8 di mattina delle stesso giorno, è domenica. Una domenica che lei passa in chissà quale modo, riposo forse poco: una donna in carriera come lei ha sempre cose a cui pensare anche di domenica. Troppe cose. Adesso invece è lunedì mattina, saranno le 9 e 30. A Perth, in Australia, sono le 11 e 30 di notte, il lunedì è quasi finito. Lui ha passato la giornata a svagarsi, a distendersi, è andato a passeggiare sulla bella spiaggia davanti all’oceano, ha anche accettato di farsi scattare qualche fotografia. Sorride, un buffo cappellino militare con la visiera in testa, gli occhiali da sole: più che la rock star che da decenni fa impazzire il mondo, sembra un turista tipicamente inglese, buffamente eccentrico come loro sanno essere. La foto di lui sorridente finisce su twitter. Fra due giorni dovrà di nuovo salire sul palco, come fa da cinquant’anni. Già, perché, anche se li porta benissimo, lui di anni ne ha 70. Avrà fatto un patto con il diavolo, dicono i soliti ben informati schiudendo i denti nell’invidia perché loro invece i 70 anni che hanno li dimostrano tutti. Insomma, ha la stessa età dell’ex presidente del consiglio italiano Mario Monti: chi li porta meglio? Chi ha fatto sesso droga e rock’n’roll per buona parte della sua vita o chi la vita l’ha passata dietro la scrivania delle banche e delle università? Ma questo, adesso, non centra nulla.




Adesso se ne torna in albergo perché si sente un po’ inquieto, è quasi mezzanotte e come ogni volta che sta per cominciare una nuova tournée gli vengono dei pensieri, tornano a galla volti mai dimenticati davvero. Winnie the Pooh, il buffo pazzo con il capelli a caschetto biondi, Brian, morto annegato nella sua piscina nessuno ha mai capito veramente come. Sente dei brividi: lui voleva bene a Brian, era stato grazie a lui che tutto era nato e che nei successivi cinquant’anni si era potuto permettere di fare la vita più bella al mondo: musica, donne, soldi, tanti soldi. Era anche diventato Sir, altro che simpatia per il demonio.

A New York sono ormai le dieci di mattina, a Perth è passata da pochi secondi la mezzanotte ed è già martedì. Lei sale su una seggiola, annoda una delle sue eleganti sciarpe di seta al collo a una lampada e si lascia andare.

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Sunday, March 16, 2014

Quella lunga estate da solo

Recensione di To Live Alone in That Long Summer, pubblicata sul numero di marzo della rivista Outsider


Attenzione, maneggiare con cura, "handle with care". E' tornato Barzin, il poeta canadese originario dell'Iran: non è roba per tutti. Il suo ultimo disco, quasi cinque anni fa ormai, "Notes to an Absent Lover", aveva devastato una generazione di cuori già infranti per conto loro. Be' una generazione è un po' tanto, visto che come tutte le cose migliori quel disco non l'avevano comprato in molti, almeno da questa parte dell'oceano. Ma di male ne aveva fatto a tanti, a tutti coloro che si portano dentro un cuore malandato per troppo amore. Quelle canzoni erano diventate citazioni, motti, appunti da appendersi al bavero della giacca per affrontare una stagione difficile. Raramente qualcuno aveva saputo descrivere così bene la fine di un amore, offrendo poche scappatoie, forse solo Graham Greene, ma questo non era un romanzo.
Un disco a tratti impossibile da ascoltare, per quell'urgenza carica di dolore nel descrivere la sofferenza come raramente si era ascoltato nella storia della canzone d'autore. Il paragone con Blood on the Tracks di Bob Dylan non era azzardato, anche per l'accompagnamento musicale minimale. Ma soprattutto scalfiva quella voce spettrale, appena sussurrata, così carica di angoscia e solitudine.



Adesso è finalmente tornato. Le ambientazioni soniche e liriche sono sempre quelle, evidentemente la solitudine del cuore per Barzin è una condizione esistenziale, anche se adesso l'accompagnamento strumentale è più ricco (con lui questa volta ci sono Sandro Perri, Tony Dekker dei Great Lake Swimmers, Daniela Gesundhet degli Snowblink Tamara Lindeman dei Wheather Station tra gli altri), lo spettro sonoro si approfondisce di eleganti nuove sfumature. Soprattutto è totale l'immedesimazione con un altro gigante canadese, Leonard Cohen, tanto che a tratti in queste nuove canzoni ti viene spontaneo immaginare la voce profonda del grande vecchio. Deve avere una tristezza speciale, il Canada. Barzin se vogliamo propri etichettarlo potremmo definirlo slow core, come altri grandi canadesi delle ultime generazioni: Great Lake Swimmers, Brian Borcherdt, Donovan Woods, Jbm.
Non mancano anche questa volta le citazioni dylaniane (nel disco precedente erano molteplici), oltre a Cohen altro grande punto di riferimento del canadese-iraniano, ad esempio "Dylan is playing After Midnight" dimostrando così di essere aggiornatissimo visto che si tratta di un brano dell'ultimo disco, Tempest.
Le canzoni sono ancora dolorose fessure aperte in camere abbandonate: l'iniziale All the While procede in modo ipnotico, su un fraseggio di chitarra sempre uguale, creando quel clima un po' claustrofobico che ha sempre caratterizzato le sue migliori canzoni.

Ma Barzin sa anche scrivere splendide melodie, con inflessioni di pop di classe; ne sono la prova brani incantevoli come Fake It ‘Til You Make It, In the Morning e soprattutto Lazy Summer, un brano epico. Altrove, ad esempio In The Dark You Can Love This Place, coniuga una brillante melodia a una atmosfera notturna e sofferente, capace però sempre di evitare ogni monotonia, catturando l'ascoltatore in una visione sonica e cinematica affascinante ed elegante allo stesso tempo. Se nel disco precedente Barzin affrontava la disperazione di una rottura sentimentale, questa volta il tema sembra maggiormente essere la solitudine metropolitana, l'impossibilità di adattare i nostri sentimenti, i nostri desideri al ritmo di una vita sempre più anonima, pura sopravvivenza, dove si vive per lavorare e si lavora attendendo la morte. Lui dice di aver cercato di fare un disco così sin da quando ha cominciato a incidere: la sua soddisfazione non può che essere anche la nostra.

Tuesday, March 11, 2014

Il tunnel

Nel tunnel della vita si entra pensando sia anche quello dell'amore. Solo a metà del viaggio ci si accorge di essere entrati in un tunnel dell'orrore.

Nel Tunnel di via Sammartini, la strada più lurida e spaventosa di Milano, che nessuno è mai riuscito a ripulire veramente, dove si aggiravano un tempo zombie, senzatetto, possibili stupratori e scarti assortiti della bella società, ci entriamo cercando una benedizione, l'ultima possibile. Lo scenario intorno è da Gotham City, o da Blade Runner con quelle fabbriche abbandonate e cadenti. Dentro però ci accoglieranno i monaci del rock, i santi del dopo apocalisse, le voci gregoriane che dal medioevo prossimo venturo in una specie di ritorno al futuro offrono consolazione e redenzione dai peccati.



E' vero, non c'è più Tim Smith a cantare, la sua voce meravigliosa che sapeva lenire ogni ferita dell'anima è rimasta da qualche parte nel Texas a cercare chissà cosa. Loro invece ci sono tutti. E da come appaiono sul piccolo palco, le luci proiettate dietro di loro sul pubblico che riempie ogni angolo del locale, sono solo delle silhouette in ombra che nascondono i volti. Perché questo sono oggi i Midlake, servitori della canzone anonimi a cui non interessa mettersi in mostra, lontani milioni di miglia da qualunque concessione all'entertainment, umili monaci del rock che armonizzano in coro nel buio. E quelle voci così stupendamente all'unisono, senza una vera voce solista, ci sorprendono subito ancora una volta, meglio di una volta: è davvero un coro che si innalza dal buio cercando di aprire uno squarcio nel soffitto, verso la luce, fuori del tunnel.

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Friday, March 07, 2014

Hey hey my my Kurt Cobain will never die

Da qualche tempo mi succede spesso: ho nostalgia degli anni 90. Non so bene perché, ma mi succede. Forse dipende dal solito fatto, cioè rimpiangere quanto abbiamo vissuto nel passato e considerarlo sempre migliore di quanto stiamo vivendo adesso. Un classico, insomma, della nostalgia umana. O forse dipende dal fatto che da quando siamo entrati nel terzo millennio non è accaduto niente degno di nota. Sto parlando di musica naturalmente. Del resto di cose successe, purtroppo, dalle Twin Towers alla crisi economica globale, ce ne sarebbe da riempire una enciclopedia.

Di certo negli anni 90 non avevo nostalgia degli anni 80, quel decennio non mi è mai mancato e credo non mi mancherà mai. Gli anni 70? In quelli ci sono dentro da sempre, praticamente sono una istantanea vivente di quel decennio e vista la musica che girava allora, non me ne pento e ci sto dentro alla grande. Sono sempre fortemente convinto infatti che l'ultimo grande disco della storia del rock sia uscito il 14 dicembre 1979, "London Calling" dei Clash ovviamente.


Se penso invece a questi ultimi tredici anni, a parte le band di cosiddetto neo folk (Avett Bros, Fleet Foxes, Mumford and Sons e chi più ne ha più ne metta) cos'altro è accaduto da farti fermare la macchina mentre hai la radio accesa e dire: accidenti che canzone? Che poi anche questi gruppi tendenzialmente hanno fatto un bel disco e poi niente di che. A me non viene in mente nulla, e infatti siamo sempre qui a lodare i dischi dei grandi vecchi, ormai vecchissimi. Già sapete chi intendo. Degli anni Duemila salvo due canzoni, neanche due dischi interi, però sono due grandi canzoni: England dei National e I and Love and You degli Avett Brothers.

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Saturday, March 01, 2014

To dance beneath the diamond sly

Bizzarro – ma mica tanto – che subito dopo aver riscoperto e riapprofondito i legami con il mio scrittore contemporaneo preferito, Nick Hornby, grazie a un suo vecchio libro letto solo adesso, riscopro e riapprofondisco i miei legami anche con il regista contemporaneo che, adesso lo so, è anche il mio preferito. Ho visto infatti per caso, come sempre mi succede con i film, Elizabethtown di Cameron Crowe, un film uscito nel lontano 20005: è incredibile come Crowe stia al cinema quanto Hornby stia alla letteratura.
La cifra che li contraddistingue è infatti la musica rock, intesa non come sottofondo riempi buchi, ma come parte integrante della vita. Non sono due cose separate: coincidono, si alimentano, si commentano, si confondono e si esaltano. Il risultato è sempre quello di dare una ventata di bellezza e di ottimismo.




Nessuno come Cameron Crowe sa usare le canzoni rock con altrettanta efficacia e buon gusto: Elizabethtown, che inizialmente mi sembrava un film stucchevole e che onestamente non ha questa gran trama, si risolve come la sua ennesima deliziosa, confortante e piacevolissima iniezione di bellezza. E che canzoni. Altro che il borioso uso che ne fanno i fratelli Coen, specie nell’ultimo fallimentare A proposito di Davis, dove la musica viene piegata alle esigenze immancabilmente pessimiste, dei due registi. Con Crowe la musica si impone: è la vita, è la realtà, ma solo pochi fortunati sanno percepirlo, devono avere amato la musica davvero tanto per capire questo fondamentale passaggio. “To truly love some silly little piece of music, or some band, so much that it hurts” come diceva una delle groupie in Almost famous, il film capolavoro di Crowe e il più bel film mai girato sulla musica rock. Ma sono cose queste che capiamo solo noi che nella vita siamo i “supplenti”, non i protagonisti, come dice la protagonista di Elizabethtown: noi le figure secondarie, quelli che non ci prendono mai sul serio, i falliti, i perdenti. Abbiamo il nostro piccolo segreto che ci aiuta a stare a galla.

Di Crowe ho trovato pretenzioso e noioso solo Vanilla Sky, il resto, da Singles a Jerry McGuire, sempre affascinante. Sì: Crowe è un inguaribile ottimista. Ma anche noi cinici abbiamo bisogno di ottimismo, almeno al cinema. E lui lo fa in modo convincente, ricco di magia e noi crediamo alla magia, do you believe in magic?
Elizabethtown si risolve meravigliosamente nell’ultima mezz’ora: in quel viaggio on the road non c’è solo la salvezza del protagonista, ma anche un minidocumentario sulla storia della musica rock con alcune canzoni straordinarie. E il finale.,. sì il finale è perfettamente a lieto fine. Ci sta. A cosa servirebbero altrimenti le canzoni rock? D’altro canto tutto il film è stato ispirato da un verso magico, quello che Bob Dylan scrisse in Mr. Tambourine Man: to dance beneath the sky with one hand waving free… Le canzoni rock dicono la verità. Sempre. Così che si può aver voluto così bene al proprio padre – o marito – morto da

Sangue nei solchi del cuore

“Bob Dylan è in città, c’è bisogno di catturare qualcosa di magico”. La “città” è ovviamente New York, al telefono John Hammond, il più gran...

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