Wednesday, April 30, 2008

Turn on, tune in, drop out

È morto il signor Albert Hoffman. Aveva 102 anni, mica male. Nel 1938 questo medico svizzero, mentre stava facendo delle ricerche, ingerì casualmente un po’ delle sostanze che stava sperimentando. Tornato a casa, cominciò a vedere tutto distorto, colori incredibili, come in un caledoiscopio. Era nato l’LSD.
Lui pensava di tirarci fuori una cura contro la malattia mentale, qualche buontempone dall’altra parte dell’oceano, come il signor Timothy Leary, ci tirò fuori la droga (apparentemente) più divertente degli anni 60, quella che doveva aprire le aree di una nuova conoscenza, di un mondo alternativo, di una nuova realtà. In realtà bruciò il cervello a migliaia di persone. Syd Barrett, geniale fondatore dei Pink Floyd, ne sapeva qualcosa. Dopo essersi fatto qualche shampo di troppo con l’LSD (se lo frizionava in testa, in modo che con il sudore causato dai riflettori quando era sul palco, si sciogliesse e penetrasse direttamente nel cervello) ha passato il resto della vita chiuso nella cantina di casa.

Ma oltre a bruciare il cervello di tanti disgraziati, l’LSD è stata una delle più tristi menzogne legate all’epopea della musica rock: far credere alla gente che è possibile creare e vivere in una realtà alternativa che cancella il mondo in cui sei nato. Il motto inventato da Leary, infatti (turn on, tune in, drop out) voleva dire più o meno: accenditi, sintonizzati, scompari. Che palla: dopo ogni viaggio, a terra ci torni sempre, e la realtà, quella vera,l'unica, è sempre lì ad aspettarti. A meno che il cervello non ti si frigga come quello di Syd.
L’eredità dell’LSD è finita nelle discoteche, in quelle pillole schifose che ammazzano continuamente ragazzi e ragazze. Bell’affare.
L’LSD ha ispirato qualche buon disco e qualche bella canzone, però. Una su tutte, White Rabbit dei Jefferson Airplane.

Monday, April 28, 2008

Wallflower wallflower, wont you dance with me

Non siamo cresciuti con i dischi d’oro appesi alle pareti di casa. Nelle case dei miei amici ce n’erano dappertutto, te li sbattevano davanti al naso. Noi non abbiamo mai avuto quella roba. Era sottointeso che non avrei dovuto averne paura
(Jakob Dylan)
Sto ascoltando il primo disco solista di Jakob Dylan. Dopo più di quindici anni come leader di una band, i Wallflowers, l’ultimo dei quattro figli di Bob Dylan non ha più bisogno di nascondersi dietro a una sigla. Sono finiti, e da un bel po’, i tempi in cui per promuovere i concerti della sua band i promoter appiccicavano sulle locandine la scritta “Wallflowers – featuring Bob Dylan’ son”. O di quando la gente andava a vederlo e gli gridava “Suonaci All Along The Watchtower”. D’altro canto, la maggior parte dei fan dei Wallflower sa a malapena chi è il padre di Jakob: “Wow il papà di Jakob è un musicista anche lui?” mi disse una volta una fan tedesca.
Seeing Things esce il prossimo 10 giugno èd è uno splendido disco interamente acustico, prodotto dal genio di questo tipo di produzioni, Rick Rubin. Dieci canzoni di grandissima intensità e di valore musicale altissimo. Ma onestamente a me i Wallflowers non avevano mai deluso, checché ne dicano certi esegeti del Bob Dylan-pensiero: “Troppo commerciale, il giovane Dylan”. Ma va là.
Mi resta un unico rimpianto, e non è per Jakob. È per Bob. Come vorrei si facesse produrre un disco anche lui da Rick Rubin.

Nell’attesa, qua potete ascoltare un paio di pezzi: www.myspace.com/jakobdylan

Wednesday, April 23, 2008

Sandy remembered


Aveva incantato tutti, nel corso della sua breve vita. Persino i Led Zeppelin, che la vollero, unico ospite mai apparso in un loro album, a duettare con loro in The Battle Of Evermore, nel disco del 1971. Per due volte, nel 1970 e l’anno dopo, Sandy Denny aveva vinto il premio di Melody Maker come miglior cantante femminile dell’anno, definita anche “the first lady of the british song”.
La sua era una voce ricca di malinconia e tristezza, come le nebbie che si alzano sulle scogliere inglesi, o nelle highlands del nord. Aveva reso meravigliosi i dischi dei Fairport Convention a cui aveva partecipato, dando splendore anche a brani minori di Bob Dylan, come Percy’s Song, che lei rese inarrivabile.
Alcuni dischi solista, uno più espressivo dell’altro, ma il successo del grande pubblico tardava. Le disavventure matrimoniali, poi, con il marito che le portò via l’unica figlia, aggravarono un carattere per certi versi similare all’altro grande genio della scena folk inglese dei primi 70, Nick Drake. Gente con “la pelle troppo sottile per sopravvivere”.
La bottiglia restò l’unica ancora di salvezza. Si era trasferita a casa dei genitori per non rimanere sola, ma un mattino, forse ubriaca, scivolò dalle scale di casa. Le conseguenze della caduta se la portarono via un mese dopo, il mattino del 21 aprile di 30 anni fa.
Non era solo un’interprete, perché scrisse canzoni bellissime, tra cui la pregnante Who Knows Where The Time Goes. Trent’anni dopo è ancora la voce più bella mai espressa dalla musica inglese.


Attraverso il cielo della sera, tutti gli uccelli se ne scappano
Ma come fanno a sapere che è tempo di andare?
Prima del fuoco invernale, io rimarrò a sognare
Non ho l’idea del tempo

Perché, chi è che sa dove va il tempo?

Spiaggia triste e solitaria, i tuoi amici volubili se ne vanno
Ah, ma lo sai che per loro è tempo di andarsene
Ma io sarò ancora qui, non ho intenzione di andarmene
Non conto il tempo che passa

E non sono sola quando il mio amore mi è vicino
So che sarà così fino a quando è tempo di andare
E allora venga il freddo dell’inverno e poi tornino gli uccelli a primavera
Io non ho paura del tempo

Perché, chi è che sa dove va il tempo?

Sunday, April 20, 2008

Festa popolare

Diceva che voleva fosse una festa, e festa è stata. Una grande festa di popolo. A certe tronfie rock star che fanno a gara a chi riempie più volte San Siro proponendo rituali sempre uguali e sempre più noiosi (e poi lamentandosi pure che "la realtà fa schifo": glielo chiedesse ai minatori di Frontale come è la realtà, minatori che ieri sera a un certo punto sono anche saliti sul palco) ha risposto con la semplicità di un ragazzo di 44 anni che guardava stupito quella folla incredibile che era lì tutta per lui, e non solo dal lago di Como. Erano venuti anche da Avellino, dalla Sardegna e da mezza Italia.
Ha dovuto fare anche lui la sfida dei grandi numeri, perché purtroppo in Italia funziona così: esisti solo se alzi la voce, e non importa la bontà di quello che già stai facendo da anni. Allora dai, proviamo a riempire il Forum così magari si accorgeranno anche di lui, Davide Van De Sfroos, sulle scene da dieci anni e uno sfracello di bellissime canzoni dietro le spalle. Ma questo canta in dialetto lombardo, sarà mica un leghista? Non è politically correct cantare così.

E invece il Forum l'ha riempito, e con un pubblico formidabile, in gran parte di giovani (almeno nel parterre dove mi trovavo io, facendo finta di essere giovane anche io, ma ieri sera mi rimbalzavano in continuazione in mente chissà perché le parole di quello lì, "in una sera che volevo sentirmi giovane, ho visto..." eccetera), felice, gioioso, che per l'entusiasmo sereno e non di quelli d'obbligo che si vedono normalmente ai concerti - del tipo, ho pagato 50 euro, devo far vedere che mi sto divertendo a tutti i costi - non poteva che ricordarmi il pubblico di Bruce Springsteen. Specialmente quando nei brani più "carichi" partivano tutti e undicimila a saltare e a ballare come un corpo solo. Come un popolo solo. Che spettacolo. E che canzoni. Tipo New Orleans. Non se ne scrivono di così belle in Italia. Per l'occasione eseguita appositamente con una Rickenbacker dodici corde imprestata dall'amico Bubola e che giungeva proprio dalle sponde del Mississippi.

Si è visto davvero qualcosa di nuovo in Italia, ieri sera, e in questo senso è stato un avvenimento. E' finita l'era dei Roxy bar e dei Bar Mario. No,ci saranno sempre, e chi vuole si accomodi ancora lì dentro. Ma c'è di meglio, adesso. Per noi che siam gente così, di bocca buona, c'è una festa in piazza dove lui, il Van De Sfroos fa salire sul palco anche un amico a cantare "zum zum zum", la canzone della zanzara. E soprattutto cè qualcosa di vero. E accidenti le parole di quello lì continuano a venir fuori, ma è stato proprio così: "Ho visto il futuro...". Eccetera. Al nichilismo e alla noia dei suoi colleghi che se la menano guardandosi l'ombelico dalla mattina alla sera, lui ha proposto storie vere, storie di gente che nonostante la vita sia dura, trova sempre il modo di sorridere. E agli undicimila lì davanti ha comunicato proprio questo senso di positività, che la vita è bella e vale la pena di essere vissuta. Ma la gente, quella vera, quella dei laghi, quella delle montagne, quella delle isole, questo l'ha sempre saputo. Adesso c'è qualcuno che ce lo dice con canzoni bellissime e tanta voglia di divertirsi.

Mai una volta, il Van de Sfroos, che abbia detto: "Ce l'ho fatta, ho riempito il Forum". Piuttosto: "Ce l'abbiamo fatta". E poi: "Allora esistiamo davvero". Un popolo che esiste e canta e balla e che si è guardato in faccia: cyber folk!

Thursday, April 17, 2008

"I hope you're not lonely without me"



"I drove to Ft. Cronkite by myself to film a live recording. At 6am, no-one came to watch except a coyote. I had my protools and a generator in my van, -and 3 Cybershot cameras(one was on the end of a stick) My friend Dave Shendel put it on his computer to mix the footage and tracks".
(Jerry Hannan, the man who wrote Society)

In memory of Danny Federici (1950-2008)

Tuesday, April 15, 2008

Dostojevski si è fermato nel New Jersey

Agente dell’FBI: “Signor Soprano, abbiamo qua una cassetta (con intercettazioni telefoniche, nda) interessante, la vuole ascoltare?”.
Tony Soprano: “Se è l’ultimo di Springsteen, l’ho già ascoltato”

Finalmente, a spizzichi e bocconi come si usa dire, sono riuscito ad arrivare alla quinta serie de I Soprano, che in Italia per vedere qualcosa di intelligente alla tv devi fare i salti mortali tra una rete televisiva e l’altra, visto che sospendono un programma se “gli ascolti” non sono analoghi a programmi pestilenziali come “Amici” e compagnia (brutta) e li continuano, anzi li riprendono dall’inizio, su di un altro.
In America è finito da tempo, so già come finirà l’ultima puntata dell’ultima serie – la sesta -, ma questo non esclude l’apprezzamento per quello che probabilmente è il miglior serial televisivo mai fatto. Ovviamente io sono solo l’ultimo a dire ciò. Vanity Fair, ad esempio, l’ha definito “perhaps the greatest pop-culture masterpiece of its day”. L’inglese Channel 4 l’ha definito “the greatest television series of all time”.
Certo, essendo un prodotto televisivo “a lunga scadenza” (che, cioè, dato il successo iniziale deve essere tirato a lungo il più possibile per continuare a tenere incollati gli spettatori a ogni nuova puntata) alcuni episodi sono piuttosto banali ed evitabili. Rimane il filo rosso che segna tutta questa serie, quello che ne disegna il contenuto in modo avvincente e mai visto in un’opera del genere, attraverso storie improbabili di mafiosi che sognano di diventare scrittori, altri mandati ad ammazzare un traditore della famiglia, si perdono in un bosco d’inverno e rischiano di morire di freddo; amanti tradite con altre amanti e via così.
Ma è il tema del serial che torna prepotente in ogni episodio: che cosa è il male e che cosa è il bene? Qual è il significato vero di morale? Se faccio una cosa cattiva a fin di bene, posso comunque essere giustificato? E se continuo a fare del male, ma desidero ardentemente il bene, troverò alla fine la salvezza? Oppure il male che faccio mi sovrasta e sono destinato a sprofondare sempre di più? Sono, a guardare bene, i grandi temi svolti da un gigante della letteratura come Dostojevski, in capolavori come Delitto e castigo. Che tutto ciò trovi spazio in una serie televisiva è a dir poco stupefacente. Specie se ricca di humor e grandi prestazioni degli attori.

Tutta la serie televisiva pone l’(apparente) assurdo di una situazione (apparentemente) inconcepibile: un mafioso che esce al mattino di casa come noi quando andiamo in ufficio, svolge il suo lavoro con efficienza (cioè riscuotere tangenti, sfruttare povera gente, ammazzare qualcuno che crea problemi, tradire con nonchalance la moglie) poi torna a casa e si preoccupa che la consorte abbia avuto una giornata serena e che abbia potuto fare lo shopping adeguato, che i figli abbiano studiato e si siano comportati bene, che si possano iscrivere in qualche prestigiosa università e che i problemi familiari o economici degli amici siano risolti. Questo evidente contrasto non può durare a lungo, i conti non tornano, la realtà sfugge di mano: i figli ti mandano a quel paese, la moglie scopre le amanti, la madre getta in faccia al figlio il rancore per una vita vissuta in modo odioso, i sensi di colpa spuntano ogni due per tre e allora il buon mafioso va in psicanalisi. Senza cavare un ragno dal buco, tranne tormentarsi sempre di più.

Sembra una situazione fuori dal normale, invece non è così. A livelli diversi, certamente non estremi come la vita di un mafioso, quella dei Soprano è la realtà in cui ci sbattiamo tutti quanti. Nel momento che non esiste più una morale, ma solo del moralismo, siamo tutti come Tony Soprano. La grandezza di questo telefilm è che ci sbatte in faccia tutte le nostre meschinità, in ogni puntata facendoci vedere qualche nostra angolatura che non avremmo mai voluto ammettere. È infatti dalla quotidianità delle piccole cose che si evince il motivo per cui poi viviamo la vita intera. Perché anche i mafiosi – partendo da una certa morale – sono persone “oneste”: “Siamo in guerra, siamo dei soldati che hanno giurato fedeltà a dei valori. E per questo combattiamo” dice a un certo punto Tony Soprano a un suo sottoposto che gli pone il dubbio sulla “moralità” di quello che stanno facendo. Perciò essi sono giustificati qualunque nefandezza si preparino a compiere. Quello che fanno, lo fanno per un bene (che hanno deciso loro quale sia questo bene).

Lo diceva Dostojevski: “Le ragioni dell'omicidio vanno dunque ricercate nella morale che esclude ogni forma divina e che giustifica l'affermazione individuale attraverso il diritto sulla vita altrui”.
E lo ha detto benissimo Luigi Giussani: “La corruzione della moralità - oggi particolarmente in voga - si chiama moralismo. Il moralismo è la scelta unilaterale dei valori per avallare la propria visione delle cose. Normalmente gli uomini capiscono che, senza un certo ordine, non si può concepire la vita, il reale, l'esistere. Ma come definiscono quest'ordine? Considerando la realtà secondo i vari punti di vista da cui partono, la descrivono nei suoi dinamismi stabili e mettono in fila un seguito di principi e di leggi, adempiendo i quali sono persuasi che l'ordine si crei. Ecco allora che si scandiscono, in ogni epoca, le varie proposizioni analitiche in cui la riflessione distende le sue pretese: “Bisogna fare così e così”.
In questo modo, anche il mafioso diventa onesto. In questo modo si possono giustificare i più orribili genocidi compiuti a difesa di qualsivoglia visione ideologica. Oppure, molto più banalmente, è ok tagliare la strada in macchina a chi sta facendo la coda e poi anche passare con il rosso. E se sei così sciagurato da attraversare le strisce mentre sto arrivando io, peggio per te. Perché sono io che definisco l’ordine dei principi e delle leggi.
Invece la morale, quella vera, ci è data: è voler bene alla verità più che a se stessi. Ma di questo elementare concetto non ne parla più nessuno.

Saturday, April 12, 2008

I feel ashamed to live in a land where (culture) is a game

Quando avevo vent'anni un anziano signore mi disse di andare a vivere in Australia. Che ci stai a fare qui, diceva, questo è un Paese che non offre nulla.
Ci ho pensato spesso in questi venticinque anni da quando mi disse quelle cose, talvolta penso avesse ragione. Poi un amico (del sito Maggie's Farm, vedi link qui a fianco, la fattoria di maggie) mi segnala questo servizio di un'importantante testata giornalistica italiana e mi viene voglia di aprire una pizzeria nel Montana, con tutto il rispetto per gli abitanti del Montana.
Sentite un po' come questo signore, pronuncia i titoli delle canzoni di Bob Dylan. Ma un cazzo di corso di inglese prima di diventare giornalisti non si fa più? Non è l'unico, questo signore del TG7. Ne conosco di colleghi che non spiccicano una parola di inglese e guadagnano tre volte quello che guadagno io. Mah.
Le vie del rock'n'roll sono infinite.

Questo blog per protesta cessa l'attività per almeno una settimana (ma poi - scusate ma ho orrore a risentire due volte questo servizio, dice "importante valore patetico" invece di "poetico"??)

Scherzo. O forse no. Tanto sono troppo incasinato nei prossimi giorni. Se qualcuno di voi è dalle parti di Todi magari ci vediamo lì. Date un occhio qua sotto.

Todi Complesso di San Fortunato
Biblioteca comunale Sala conferenze


Like a rolling stone
Viaggio tra i suoni le immagini e la storia della musica rock
dagli anni Cinquanta ai nostri giorni.

(a cura di Ezio Guaitamacchi, direttore di Jam)

Venerdì 18 aprile 2008, h. 21:00
Bob Dylan: un mistero americano
Incontro con Paolo Vites
(redattore di Jam, autore di libri su Bob Dylan, Patti Smith, The Clash, Cat Stevens)

Venerdì 2 maggio 2008, h. 21:00
Rockfiles: aneddoti, curiosità e leggende che hanno fatto la storia del rock
Incontro/ spettacolo con Ezio Guaitamacchi
(direttore di Jam, critico musicale autore radio/TV)

Sabato 24 maggio 2008, h. 21:00
The Beatles: la leggenda dei Fab Four
Incontro/spettacolo con Rolando Giambelli
(Presidente Beatlesiani d’Italia Associati)

Venerdì 30 maggio 2008, h. 21:00
Hotel California : il fascino della West Coast
Incontro con Mauro Ronconi
(giornalista e scrittore, collaboratore di Jam)

Info: tel. 075 8956710 / 075 8943595
Mail: biblioteca@comune.todi.pg.it

Thursday, April 10, 2008

Give me that ol' time religion

“You don’t have to be fucked up or torture yourself to write songs”
(Justin Townes Earle)

A 21 anni ha rischiato di morire di overdose. D’altro canto il padre, Steve Earle, che ha cominciato a frequentare solo quando questi è uscito di prigione dove si trovava proprio per problemi di droga anche lui, non è stato l’esempio migliore.
Adesso di anni ne ha 26 è si è messo a scrivere canzoni. Bellissime canzoni, che se le scrivesse il padre oggi, dopo l’infilata di sbiadite prove che ha infornato negli ultimi anni, saremmo tutti qui a gridare al capolavoro.

Justin Townes Earle sembra faccia dischi da sempre (e pensare che alcune di queste canzoni sono state scritte quando aveva solo 15 o 16 anni...). Più o meno dai tempi di Hank Williams, il cui fantasma è più che un punto di ispirazione (ad esempio nella title track). Evidentemente ama anche uno come George Jones (che è ancora vivo e lotta insieme a noi) come si deduce dalla splendida What Do You Do When You’re Lonesome, pura honky tonk music. Sfoggia carisma cantautorale a tonnellate nelle intense Lone Pine Hill (un brano che racconta i giorni antichi della Guerra di secessione, come facevano le migliori canzoni di The Band) o in Who Am I To Say. Ma sa anche sdrammatizzare con la divertente e briosa cavalcata un po’ southern, molto New Orleans-style, di South Georgia Sugar Babe.

Il disco si chiama The Good Life. Ha un bel suono vintage, ma non snobisticamente retrò come fanno certe stelline di plastica tipo Norah Jones, che avvolge le sue storie. Il resto lo fa la voce, la voce di uno a cui credere perché sai che sta dicendo la verità, quando dice che “la vita è dura”.
Se volete saperne di più, andate qui: http://www.myspace.com/justintownesearle

Nella "medesima vena artistica" – come si usa dire nell'ambiente – si muove la band dei fratelli Felice di cui avevamo già parlato qualche mese fa, e volentieri ci torniamo visto che hanno appena pubblicato un nuovo, splendido disco intitolato semplicemente con il loro nome. Che supera il già buon Tonight at the Arizona in termini di produzione, maturità espressiva e qualità generali.
Di nuovo si apre la porta che conduce alla cantina di Big Pink e ancora una volta appaiono fantasmi di quella repubblica invisibile: Frankie's Gun è irresistibile, una invocazione, una danza ubriaca, da qualche parte fra un saloon di Abilene e la collina di Tombstone. Radio Song ti si appiccica come il sudore mentre attraversi gli swamp della Louisiana e proprio quella radio non vorresti spegnerla più. Sono canzoni che evocano delle presenze, c'è una malinconia che le abita, come la meravigliosa Goddamn You, Jim. Ma attenzione, non svegliate lo spaventapasseri: Don't Wake the Scarecrow, lo dicono anche loro...

Se ragazzi manco trentenni fanno questo tipo di musica, Justin e i Felice Bros, con tale consapevolezza e tale fascino, vuol proprio dire che la "tradizione" è qualcosa che supera ogni contingenza, siradica nel cuore dell'uomo perché del cuore è espressione. Solida come una vecchia quercia. Bella come la religione dei vecchi tempi.

Tuesday, April 08, 2008

You've been through all of F. Scott Fitzgerald's books


"Thanks to Bob Dylan, rock'n'roll has finally broken through the Pulitzer wall.

Dylan, the most acclaimed and influential songwriter of the past half century, who more than anyone brought rock from the streets to the lecture hall, received an honorary Pulitzer Prize today (April 7), cited for his "profound impact on popular music and American culture, marked by lyrical compositions of extraordinary poetic power."

It was the first time Pulitzer judges, who have long favored classical music, and, more recently, jazz, awarded an art form once dismissed as barbaric, even subversive.

Fans, critics and academics have obsessed over his lyrics -- even digging through his garbage for clues -- since the mid-1960s, when such protest anthems as "Blowing in the Wind" made Dylan a poet and prophet for a rebellious generation".

"His songs include countless biblical references and he has claimed Chekhov, Walt Whitman and Jack Kerouac as influences".
Non sapevamo che la Bibbia facesse vincere i premi Pulitzer.
Comunque, eccoli qua tutti ad eccitarsi,anche il sito di Anti (http://www.antimusic.com/news/), il più serio sito di informazione musicale alternativa, per non parlare di Repubblica, che sbattono la notizia in prima pagina: wow era l'ora che dessero un premio letterario così importante a un musicista rock... Adesso finalmente il Nobel!

Ma va là. A Bob Dylan non è stato dato nessun premio letterario. Anzi, neanche un premio perché ha avuto solo una "citazione" nella categoria "musica". Perché il Pulitzer ha sempre dato premi (e qualche citazione) a musicisti classici e jazz appunto per la musica e non per le liriche che quelli non le scrivono neanche. E poi, per vincere un Nobel (Dario Fo insegna) basta essere politicamente corretti e sparare un vaffanculo di sinistra. Mica importa la qualità letteraria. Nel caso di Dylan, ci vorrebbe un "fuck you Bush" e i signori dell'Accademia di Stoccolma il premio Nobel alla letteratura glielo consegnano anche a casa. Nel Minnesota oppure se ancora ce l'ha, alla villa-pagoda di Malibu.
Perciò, per tutte le canzoni di Bob Dylan influenzate da Chekhov, noi di questo blog dedichiamo ai signori giudici del premio Pulitzer e a quelli che ancora non hanno capito che il rock'n'roll è un'altra cosa rispetto alla "letteratura" un premio speciale a quella canzone di Mr Zimmerman che secondo noi è più vicina alla poetica di Dante Alighieri. Keep rockin'Bob:

Wiggle, wiggle, wiggle like a gypsy queen,
Wiggle, wiggle, wiggle all dressed in green,
Wiggle, wiggle, wiggle 'til the moon is blue,
Wiggle 'til the moon sees you.

Wiggle, wiggle, wiggle in your boots and shoes,
Wiggle, wiggle, wiggle, you got nothing to lose,
Wiggle, wiggle, wiggle, like a swarm of bees,
Wiggle on your hands and knees.

Wiggle to the front, wiggle to the rear,
Wiggle 'til you wiggle right out of here,
Wiggle 'til it opens, wiggle 'til it shuts,
Wiggle 'til it bites, wiggle 'til it cuts.

Wiggle, wiggle, wiggle like a bowl of soup,
Wiggle, wiggle, wiggle like a rolling hoop,
Wiggle, wiggle, wiggle like a ton of lead,
Wiggle - you can raise the dead.

Wiggle 'til you're high, wiggle 'til you're higher,
Wiggle 'til you vomit fire,
Wiggle 'til it whispers, wiggle 'til it hums,
Wiggle 'til it answers, wiggle 'til it comes.

Wiggle, wiggle, wiggle like satin and silk,
Wiggle, wiggle, wiggle like a pail of milk,
Wiggle, wiggle, wiggle, rattle and shake,
Wiggle like a big fat snake.

Monday, April 07, 2008

Eddie va da solo


Ho visto i Pearl Jam dal vivo nel 2001, un’ottima band con i piedi ben piantati nel classico rock più genuino, tra Who e Jimi Hendrix, tra vibrazioni di psichedelia fine sixties e grande cuore di Neil Young (ovviamente, avendo concluso lo show con Rockin’ in the Free World). Mi sembrarono un po’ scazzati però, alquanto snob nel loro atteggiamento da antidivi, quelli per cui “ehi, noi non siamo rock star siamo quelli della strada”, atteggiamento che poi finisce per avere il risultato opposto. Non so, forse era la serata sbagliata, perché le loro esibizioni di inizio carriera che ho visto in televisione mi sembravano animate da ben altra passione.
Non sono per niente fan dei loro dischi in studio, a parte il bel Ten, loro opera prima, perché come tutti i gruppi degli ultimi 15 anni ancora devono scrivere una grande canzone.
Ma ho sempre considerato Eddie Vedder uno dei più grandi vocalist non solo degli ultimi anni, ma tra i migliori di tutta la storia del rock. Quando lo vidi esibirsi alla “Bobfest”, il concertone per i trent’anni di carriera di Bob Dylan al Madison Square Garden dell’ottobre 1992, manco sapevo chi fosse, ma rimasi a bocca aperta dalla sua interpretazione formidabile di Masters of War. Lo rimase anche l’autore del brano stesso, che da quella sera per molti anni propose quel pezzo nel medesimo arrangiamento usato da Eddie Vedder.


Però adesso mi ha conquistato il disco, in un certo senso solista, che Vedder ha pubblicato per la colonna sonora del film Into the Wild. Quasi in dimensione da vecchio folksinger, una serie di canzoni e di interpretazioni strepitose. Un passo avanti da gigante rispetto alla sua band. Così sono molto contento che si sia lanciato in un tour solista in chiave acustica. Ho visto la scaletta della prima serata, quella tenuta a Vancouver il 2 aprile, e la serie di cover che ha eseguito la dice lunga di dove batta il cuore del ragazzo: nel posto giusto.
Guardate un po’: Millworker (James Taylor), Hide Your Love Away (The Beatles), Picture In A Frame (Tom Waits), Trouble (Cat Stevens), I Won't Back Down (Tom Petty), Forever Young (Bob Dylan), Growin’ Up (Bruce Springsteen).
Mica male.

Thursday, April 03, 2008

Stasera è che cosa significa essere giovane

Se mai una canzone ha avuto la presunzione di rappresentare tutto quello che il rock’n’roll può essere davvero e che il rock'n'roll è capace di fermare il tempo, rivoltare il tempo, ingannare il tempo, è questa qui. Certo, le citazioni al suo interno si sprecano, Springsteen in primis, che è stato il migliore a dirci queste cose.
Attenzione che per apprezzarla veramente bisogna essere dei fottuti romantici, ma se non lo siete non avrete mai apprezzato davvero la musica rock. Non avrete mai neanche apprezzato la vita fino in fondo, perché se non si ha il cuore aperto a desiderare che “il fuoco cominci, dire una preghiera perché la magia accada”, se la vostra giovinezza non è mai stata un desiderio grande di toccare e svelare il mistero… be’, che cavolo ascoltate musica rock a fare? Stasera è che cosa significa essere giovane.

“Noi balliamo per la persona inquieta e quella con il cuore spezzato, lascia che il divertimento cominci, lascia che il fuoco si accenda, noi balliamo per il disperato e per chi ha il cuore spezzato… Dì una preghiera nell’oscurità affinché la magia accada: stasera è che cosa significa essere giovane”.

“Una canzone rock può contenere tutto il mondo”, ed è perché questa magia riaccada ogni volta che ascolto ancora canzoni e vado ancora ai concerti, accada quel che accada.
E in questo formidabile video (il film che lo presentava era il bellissimo Streets of Fire, 1984) c’è tutto quanto: le scansioni temporali si stravolgono e si sovrappongono: un attimo sono gli anni 50, poi sono gli 80 e quindi c’è tutto il glamour e l’eccesso dei 70. Ma ci sono anche i sogni degli anni 60, quando il gruppo di vocalist di colore entra in scena, con quei passi di danza degni dei migliori gruppi Motown, la regia compie un miracolo di emozioni. Sul palco accade di tutto, e proprio come dice la canzone, “Stasera è che cosa significa essere giovane”. Cioè, la giovinezza è quella dimensione del cuore – non importa quanti anni hai davvero– a qualunque età, pronti a prendere la vita fino in fondo, a osare di dare un volto al mistero.

“Ho fatto un sogno, in cui l’oscurità era finita, ce ne stavamo sdraiati ai raggi del sole, ma è solo un sogno e invece stanotte è per davvero, non saprai mai cosa significhi davvero, ma saprai come ci si sente: sarà finita prima ancora che cominci”.

Per quel poco che una canzone dura, la magia è accaduta. Non potrai più essere lo stesso, dopo.

Wednesday, April 02, 2008

Superpinkymandy

“Se un tizio mi interessa davvero e voglio avvicinarlo, non c’è mezzo migliore del vecchio solito sistema: chiedergli se ha da accendere” disse una volta Beth Orton.
Il breve incontro con i giornalisti sta ormai finendo, nella stanzetta del piano elevato dell’Alcatraz di Milano e io non penso certo a quella sua frase quando, dopo i saluti, ci stiamo tutti dirigendo all’uscita. Ultimo della fila, quasi a non voler porre fine a quei momenti magici passati con la cantante che mi aveva – e tutt’ora fa lo stesso effetto – fatto riscoprire il gusto stesso di ascoltare la musica –, me la trovo davanti che si fruga le tasche della sua giacca nera di pelle e ne tira fuori una sigaretta: “Hai da accendere?” mi chiede Beth Orton.

Era l’anno 2000, e alla sera – con pessima scelta di chi aveva organizzato quella serie di concerti – avrebbe fatto da opener, in ridotta formazione acustica, nientemeno che a Beck, che loro due saranno anche amici, ma per tutta la durata del suo set a malapena riuscivi ad ascoltare la sua voce divina nel vociare imbecille del pubblico accorso lì tutto per ascoltare il biondo folletto californiano. Il quale fece comunque un bellissimo concerto, ma la mia “prima volta” con la cantante inglese non fu granché, e non certo per colpa sua.

Un paio di anni dopo e siamo a Verona. Questa volta si faranno solo interviste singole, grazie a Dio. Mentre aspetto il mio turno faccio due passi e mi trovo sotto al balcone di Romeo e Giulietta; Verona è la città dell’amore, d’altro canto. Quando entro nel salottino della sua stanza le chiedo perché, fra tante città di tutta Europa dove presentare il nuovo disco abbia scelto proprio Verona: “Coz is fuckin’ beautiful” dice con il suo sorriso disarmante. C’è bisogno di chiedere altro, stupido giornalista?
Circa un mese dopo sarà a Milano per fare uno show. Il posto è il più sudicio e desolante club cittadino che andrà bene per i gruppi punk, ma non per una come lei, che questa volta si presenta addirittura con viola e violoncello. Concerto stupendo, nonostante il posto, comunque, con una travolgente The Best Bit da mandare a memoria. Sono invitato all’after show party e questa volta, mentre lei mi offre una birra, le chiedo io se ha da accendere.

Da allora niente più concerti italiani per Beth (anche se lo scorso settembre venne a Milano, una dell’innumerevole sfilza di artisti che eseguirono per intero Sgt. Pepper’s dei Beatles all’orribile fiera di Rho; inutile dire che fu la migliore del lotto, con Lucy in the Sky with Diamonds), tanto che nel 2006 sono volato fino a Dublino per non perdere la prima del nuovo tour. La cornice finalmente è adeguata, lo splendido Vicar Street, con posto a sedere conquistato senza fatica due file sotto il palco. Una serata di classe assassina, conclusa con una versione da sola della sua incisione che amo di più, nonostante sia un pezzo non scritto da lei, I Wish I Never Saw The Sunshine. Nessun essere vivente sa esprimere maggiormente di Beth Orton il senso di perdita e concludere con un sorriso sulle labbra.

Una intervista telefonica prevista qualche giorno dopo salterà all’ultimo momento, per ragioni che ignoro. Solo qualche mese dopo scopro che Beth è in dolce attesa e che per problemi legati alla gravidanza non si è sentita di farla. Sto ancora aspettando di recuperare l’intervista, ma è più importante sapere che adesso ha una bella bambina, Nancy, di 15 mesi, che l’ha tenuta felicemente occupata. Proprio ieri sera si è esibita a New York nell’ambito di una manciata di date americane che segnano il suo ritorno all’attività musicale. Mi ha detto un amico – fortunato – che era presente a questo show che a un certo punto dopo aver spiegato il motivo della lunga assenza, ha commentato: “And now I love music more than I ever have".

Ne sono felice. Della bambina, che chi conosce la storia di Beth e i suoi problemi di salute capirà che significato possa avere per lei, e del suo ritorno alla musica. Anche se adesso non mi chiederà più di accenderle una sigaretta.

Post scriptum: prima di scatenarvi con i commenti, quello per Beth è solo un amore platonico.

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