Tuesday, December 31, 2013

2014

"Never let go of that infinite sadness called desire."

(Patti Smith)




Nonostante tutto c'è una mano che non ti lascia solo, mai. Io lo so, io l'ho vista. Buon anno

Saturday, December 28, 2013

Ritorno al futuro (radio days)

Stanotte dormirò con i fantasmi. Mi sono steso sul letto, ho messo le cuffiette e acceso l’iPod. Aspetto la mezzanotte della fine dell’anno e aspetto anche la fine del mondo, ma non sarò solo. Ho la migliore compagnia possibile, voci che escono dal buio, voci che neanche 50, 60, quasi cento anni di oblio, polvere e maleducazione sono riuscite a spegnere. Sono “le” voci, e questa radio di ritorno al futuro suona una verità incancellabile. Corrono, queste voci di fantasmi pietosi, irati, appassionati, pure innamorati, su frequenze che nessuno può captare. Solo pochi fortunati. Ecco. Ho trovato quella frequenza e posso riposare in pace.

Marcel, un mio vecchio amico canadese, è un uomo straordinario. Tiene accesa la torcia e in puro spirito hippie non l’ha mai spenta: share the music, è il suo motto. Musica donata con gesto caritatevole perché Marcel sa che la musica guarisce. L’ha sempre donata al mondo, usa ancora le vecchie spedizioni postali, ma se è il caso anche la Rete. Marcel che vide Bob Dylan la prima volta a Montreal 1975, giorni di gloria della Rolling Thunder Revue, e poi il pubblico scardinare le poltrone di un teatro dove suonavano i Clash. Adesso va in giro per l’America a cercare vecchi 78 giri, perché sa che lì dentro si nasconde la verità. Ne ha raccolti un bel po’ spendendo a volte anche qualche migliaio di dollari per un pezzo raro. E adesso li condivide con tutti. Li trovate qua.

Rido, mentre aspetto la fine del mondo, e ascolto queste voci di fantasmi, le loro chitarre, il pianoforte. Molti di questi pezzi li avevo naturalmente, ma mi chiedo: mio Dio ma che hanno fatto? Quello che ho ascoltato per anni su cd non è quello che queste voci cantavano. Li hanno bestialmente anestetizzati, troncati, cacciati in un angolo: ecco come suonava veramente invece Chuck Berry, in quello studio: faceva paura, terrorizzava. Altro che happy days. E anche quella chitarra, nel brano dell’idolo dei ragazzini Frankie Lemon: ma assurdo, è cacofonia, è punk, è violenza. E quel pianoforte che sta inventando il boogie, 1928, ma è più rock’n’roll dei Led Zeppelin. Buddy Holly è Sid Vicious. Ma che ci hanno fatto credere per anni? Adesso capisco perché Robert Johnson era la voce del demonio. Perché nessuno sa più registrare un disco? Perché nessuno sa più cantare? Ovvio: non si sopporta ciò che incute timore, ciò che spalanca la Domanda, non si deve convivere con il mistero. Mystery Train.



I fruscii di milioni di ascolti a volte provano a nascondere quelle voci. Non ci riescono. Ed è meraviglioso pensare a quante generazioni di ascoltatori hanno provocato quei fruscii su quei vinili di roccia. La ragazzina nella sua cameretta che ascoltava queste voci di nascosto, l’anziana coppia della fattoria del Nebraska o dei Monti Appalachi mentre pensava al figlio morto sotto l’aratro o in miniera. Mistero. Vita e morte. In un 78 giri.

Un amico mi raccontò una volta che Jackson Browne qualche anno fa si trovò in studio con Bob Dylan che stava registrando. C’era l’iPod di Bob Dylan. Nessuno credeva che Bob Dylan avesse un iPod. Quando uscì un momento dallo studio Jackson Browne si precipitò a vedere che musica ci fosse nell’iPod di Bob Dylan. C’erano queste voci. Quelle dei 78 giri. Ecco perché scrive ancora grandi canzoni.

Stanotte dormirò con i fantasmi. Sono invitato a un capodanno speciale, nel salone di un vecchio albergo abbandonato, che si illumina solo una notte dell’anno. Ci sono fantasmi che cantano, fantasmi che ballano, che ridono, bevono e si innamorano. C’è voluto un lungo cammino, di fedeltà alla musica, per arrivare a questa festa. Io ci sono. Mi sto addormentando con voci che non voglio più smettere di ascoltare. Mister Sandman, abbracciami on blueberry hill.Buon anno.

Tuesday, December 24, 2013

Heart and soul

Questa canzone non è una canzone di Natale, ma è anche una canzone di Natale. Qualcuno, su questo giornale, giorni fa scriveva che “ciò che serve al Natale è un desiderio, il desiderio magari lancinante che qualcuno venga, che qualcosa accada”. Se il Natale si attende - perché lo attendono tutti, belli e brutti anche chi non lo vuole ammettere - questa canzone parla di questo. Nel buio della notte più profonda, nella solitudine dell’abitacolo di una macchina, nell’incertezza che qualcuno ti stia veramente aspettando, con a fianco un regalo banale come un paio di scarpe nuove, un uomo attese qualcosa.



Probabilmente è ancora una attesa insicura e incerta quella che viene cantata, ma d’altro canto la vita stessa è una attesa che aspetta di compiersi tra mille dubbi, attraverso i segni, attraverso il desiderio del cuore, che più di ogni altra cosa grida un desiderio implacabile: che la nostra vita si compia nel suo significato, che cioè il nostro desiderio non sia solo un insieme di apparenze, ma uno incontenibile. Quando questo compiersi potrà accadere definitivamente, non è compito nostro saperlo. Compito nostro è semmai cogliere i segni di questo compimento giorno dopo giorno, e in mezzo ecco il Natale il segno più clamoroso ed evidente del compiersi dell’attesa.
Quando Bruce Springsteen incide Drive All Night, per alcuni un riempitivo, per altri un capolavoro, per molti una delle canzoni passate maggiormente inosservate su un disco scoppiettante di grandi e maestose canzoni (“The River”, uscito nel 1980) ha appena compiuto trent’anni, sta passando all’età adulta ed è pieno di incertezze e paure. Ha ottenuto un buon successo in madrepatria, ma è in quel punto di svolta dove potrebbe perdere tutto o diventare una star mondiale (succederà la seconda cosa, come tutti sanno).

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Monday, December 16, 2013

Wednesday, December 11, 2013

Un Natale da matti

L’autostrada a quattro corsie se guardi dallo specchietto retrovisore è come un albero di Natale. Le luci delle macchine sono come palle di Natale in movimento, ognuno corre veloce verso casa anche se mancano ancora molti giorni a Natale. I muri di nebbia calano improvvisi a inghiottire tutto, poi le lucine delle palle dell’albero di Natale che si sdraia sull’autostrada a quattro corsie tornano a splendere felici. Dentro ogni macchina c’è un matto che se ne va a casa.

I matti non sono contenti, i matti non sono liberi più liberi degli altri, i matti non sono quelli che hanno trovato la verità, i matti sono molto tristi in realtà. I matti non vanno contenti, i matti non sono contenti, mai. Chi lo dice non ha ma conosciuto un matto vero. Non è mai stato in quelle stanzette fioche dove i matti appoggiano la testa sul tavolino e dormono sogni da matti. Non ha mai visto un matto piangere perché non trova più i suoi occhiali o le sue sigarette. Non c’è proprio niente di bello a essere un matto, almeno come si legge in quelle poesie da quattro soldi o si sente in quelle canzoni da quattro soldi. Non è vero che siamo tutti matti, o almeno, alcuni sono più matti degli altri e i matti stanno male, molto male. Gli altri fanno finta di non essere matti. Sì, siamo tutti matti.

I matti imbrogliano e mentono, i matti possono essere cattivi, molto cattivi. I matti soffrono e implorano un amore che non hanno avuto mai, ai matti manca l’affetto di un abbraccio caldo anche se quando provi ad abbracciarli si scostano schifati sempre. Ma i matti sanno abbracciarsi tra di loro e darsi un bacio sulla guancia con quell’affetto che voi non vi sognate neanche. I matti aspettano di liberare in faccia al mondo tutto l’amore che adesso devono nascondere, e quando lo faranno, oh il mondo cambierà davvero. Ma non succederà qua e ora, perché i matti non guariranno mai.

I matti non hanno il cuore o se ce l’hanno è una caverna nera.

I matti non hanno più niente, intorno a loro più nessuna città, anche se strillano chi li sente, anche se strillano che fa.

I matti dentro alle chiese ci vanno a fumare, centinaia di sigarette davanti all'altare.



Saturday, December 07, 2013

The party never ends

Difficile dimenticare Franco Ratti, difficile dimenticare le belle persone, quelle che come lui si sono dedicate a rendere più bella la vita della gente. Franco lo ha fatto distribuendo in Italia migliaia di dischi di artisti di cui non avremmo mai sentito parlare, lo ha fatto fino alla sua scomparsa, rifiutando le meschine regole di furbizia cialtrona che stanno dietro anche al mondo della musica, specialmente qua da noi.

Adesso dopo un periodo di logica sospensione, la Ird, la sua creatura, la casa di distribuzioni discografiche fondata da Franco, torna più vivace che mai, affidata come promozione al bravo Andrea Parodi. E i bei dischi tornano ad allietarci. Qualche segnalazione allora, cose belle da mettere nella propria wish list.

Innanzitutto i Wynntown Marshals con i loro disco di debutto, The Long Haul. Sono scozzesi ma suonano dannatamente americani, quell’America alternative country che tanto avevamo amato negli anni 90. Innegabili sono i riferimenti a tanti gruppi di quell’epoca, ma questo – a me – fa solo piacere: è come ritrovare un abbraccio caldo e affettuoso, in anni freddi – anche musicalmente – come questi che viviamo. Un sound a metà tra il Neil Young dei primi 70, i riff jingle jangle dei Byrds e i primi Wilco, desertico ed essenziale, con la batteria che macina, le chitarre elettriche che svolazzano come aquile e la voce malinconica, che canta storie antiche. Bello, molto.



Greg Trooper non lo scopro certo io: tra il primo Bruce e il Dylan anni 70, torna con Incident on Willow Street dalla fantastica copertina chandleriana. Un disco intenso fatto della sua usuale poetica, da storyteller autentico, suoni sostenuti da note grasse di Hammond, la voce di Brooklyn negli anni 40.

Concludiamo con uno straordinario gruppo italiano, Sugar Ray Dogs con il loro Sick Love Affair. Già potersi permettere di avere come ospite in diversi brani uno dei migliori chitarristi viventi, quel Fred Koella che ha suonato con Willy De Ville e Bob Dylan, è un’ottima presentazione. Un disco affascinante, di purissima Americana, tra Ry Cooder, Johnny Cash, Tom Waits, Bob Wills, suonato divinamente (in America li accoglierebbero a braccia aperte), dixie music tra New Orleans e il Texas. Ospiti anche strumentisti di classe purissima come Chiara Giacobbe e Anga Persico (Davide Van De Sfroos band) al violino entrambi,. Un disco impossibile da resistergli, da farti ballare sul tavolo pensando di essere perso nel cajun. Complimenti.

Monday, December 02, 2013

Il mio barbarico YAWP

Come tutte le cose, anche di una tournée se ne capiranno contenuti e contorni col tempo. Vale la pena però segnalare alcune cose. Quello che ad esempio si legge in gran numero sui social network a proposito dell'ultimo tour di Bob Dylan, che ha recentemente toccato anche l'Italia con ben sei date. Persone più scafate e con più esperienza live del sottoscritto, ad esempio, quasi unanimemente sottolineano di essersi trovati davanti i migliori concerti di Dylan da lungo tempo. C'è chi dice i migliori addirittura dal 1995, chi dal 2000, chi dal 2003. Viene ovviamente da chiedersi perché. Viene anche da chiedersi se Dylan, con rare eccezioni, non abbia buttato via quasi dieci anni della sua carriera, gli ultimi. Lo dicono anche i media, specie quelli inglesi solitamente molto acidi e critici con Dylan (un po' con tutti, in realtà).



Ecco cosa ha scritto The Independent ad esempio dopo il secondo show di Londra: "A stunning return to form. Where he has gone through the motions in some recent tours, tonight he stood without guitar in front of his band at the front of the stage, not just reinterpreting his songs, but doing so with care and feeling. The voice that can be a relic of past triumphs was marvellously and unexpectedly once more an instrument, elongating syllables in vintage style". Un ritorno alla forma (migliore), una voce meravigliosamente e inaspettatamente ancora una volta uno strumento. Il dubbio che gli ultimi anni Dylan li abbia buttati via dal punto di vista concertistico si fa sempre più forte. Dal 2004 al 2009 circa le sue esibizioni sono state trascurate, mal eseguite, senza cura e senza impegno, con una band di accompagnatori a cui era vietato fare un assolo e con arrangiamenti di livello bassissimo.


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Tuesday, November 19, 2013

Woolgathering

"Tutto ciò che è contenuto in questo libro è vero ed è stato descritto esattamente com'era": è la frase che campeggia in alto sullo sfondo del dipinto di Jean Francois Millet, la pastorella che sorveglia il suo gregge di pecore. E' la copertina dell'ultimo libro di Patti Smith, "I tessitori di sogni" (Bompiani, 109 pgg.), uscito in parte negli Stati Uniti nel 1992 con il titolo di "Woolgathering" e ampliato adesso in questa nuova edizione. Il libro venne scritto quando la cantante e poetessa aveva 45 anni e viveva quella specie di "buon ritiro" dal mondo della musica, incominciato nel 1980 e che sarebbe proseguito fino alla morte del marito, avvenuta nel 1994.


Con lui aveva vissuto tutti quegli anni, mettendo al mondo tre figli e occupandosi della famiglia. Ma non smettendo di creare arte, anche se per lo più per se stessa. Questo libro fu una delle poche eccezioni a essere messa in commercio.

Scritto con il consueto stile della Smith, più che una raccolta di racconti brevi, si tratta di poesia in prosa: quello stile tumultuoso, visionario, sognante che l'ha sempre caratterizzata, specie nelle lunghe improvvisazioni musicali che si trovano quasi in ogni suo disco.

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Friday, November 08, 2013

Glory days. What a Long Strange Trip It's Been

Era una bella mattinata di ottobre, sole caldo e aria fresca, cielo blu e niente polveri sottili come Milano, rare volte, sa essere. Fuori di quel locale che apparteneva a Enzo Jannacci, in pieno centro, splendido locale purtroppo chiuso prima del previsto, fumavo una sigaretta prima di entrare a incontrare Donovan. Già, una delle prime leggende del mio piccolo mondo musicale, leggende che negli anni a seguire avrei incontrato a piè sospinto. Eccolo che arriva: "Che ci fai qui, non ti piacerà mica Donovan?" gli chiedo. "Sono scappato per respirare un po' d'aria".

Lui è Claudio Todesco, di lì a pochi mesi sarebbe diventato il mio "compagno di banco" per oltre tredici anni. Avrei capito cosa intendeva con quelle parole, molte le giornate e anche non poche serate passate in quegli uffici di Milano 2 con gli aeroplani rombanti che passavano sopra la testa direzione Linate. Mi dà un disco da recensire, "roba che può piacerti", l'esordio dei 16 Horsepower e sì che mi sarebbero piaciuti (li avrei anche intervistati, ovviamente). Me ne avrebbe passati un bel po' di dischi che mi sarebbero piaciuti, negli anni.

Questa è la storia di Jam, così come l'ho vissuta dall'ottobre 1996 mio ingresso in redazione, al luglio 2009, mia uscita dalla redazione. Adesso, tre anni circa dopo che me ne sono andato, non ci sarà mai più alcuna redazione di Jam perché non ci sarà più Jam. E mi dispiace, mi dispiace un sacco.


Se ho imparato a scrivere, lo devo a Jam. E' stata una palestra di esercizio formidabile, e non poteva essere altrimenti con le dozzine tra recensioni e articoli che scrivevamo ogni mese. E' stata anche una palestra di crescita musicale, visto che i tre moschettieri che eravamo (io, Claudio e il direttore Ezio Guaitamacchi) esprimevamo tre mondi musicali diversi. Grunge con derive pinkfloydiane Claudio, hippismo sfrenato Ezio e… un grande boh io, che passavo dai Clash a Bob Dylan e dai Ramones a Gram Parsons. In tre discutevamo e ci passavamo i dischi da scoltare, ma poi aveva sempre ragione il direttore: ho lottato strenuamente per avere i Wilco in copertina ma non ci sono mai riuscito. Va bene così.

Jam era davvero un gran bel giornale, specie negli ultimi anni che ci sono stato e immagino anche in quelli che io non c'ero (non ho più avuto il coraggio di sfogliarne neanche una copia, troppo male). Un giornale equilibrato, vintage al punto giusto, appassionato con un grande cuore. Le cover story di anche 50mila battute erano la nostra forza, come nessuno le faceva in Italia. La mia prima fu sulle connessioni tra beat generation e musica rock, la mia ultima su Astral Weeks di Van Morrison,.Avevo cominciato bene e finivo meglio, anche se non lo sapevo. Grazie a Jam ho incontrato per telefono o di persona eroi assoluti della mia vita: Paul McCartney, Joe Strummer, Patti Smith, Robbie Robertson e una valanga di altri, ad esempio la mia amata Beth Orton, con la quale nel backstage di un suo concerto quasi ci baciavamo sulle labbra e nella sua camera d'albergo con le scarpe coi tacchi sbattute in giro e il letto disfatto Chrissie Hynde. Sogni di rock'n'roll.

Jam era tutto e il contrario di tutto: pensavamo di essere grandi giornalisti, poi una volta al mese a me e a Claudio ci toccava scaricare in garage il nuovo numero. Ci chiedevamo: ma anche Jann Wenner e Greil Marcus scaricavano Rolling Stone in cantina?

Poi succedeva anche di andare in stampa (poche volte eh) con una svista madornale, come quando scrivendo una recensione di un disco di Meshell Ndegeocello, non ricordandomi come si scriveva esattamente e proponendomi di controllare in seguito, rimase nella versione andata in stampa e poi in tutte le edicole la frase: "il nuovo disco di Meshecomecazzosichiama". Vabbè, è rock'n'roll anche questo.

Yours, truly. Mark Knopfler con il suo vero fratello

Ho viaggiato in Europa grazie a Jam: concerti e interviste a Londra (Mark Knopfler, Sheryl Crow, Lauryn Hill), in Germania (John Mellencamp, Aerosmith, Kings of Leon). Dopo il concerto di Mellencamp ero così eccitato - e ubriaco - che quasi cercai di mettere in pratica una leggenda del rock'n'roll: sfasciare la camera d'albergo. Riuscii solo ad aprire una bottiglia di birra sul davanzale della finestra, non se ne deve essere accorto nessuno, meglio così. Con gli Aerosmith invece io e un collega di un altro giornale partimmo convinti che tutto, viaggio, albergo e soprattutto cibo alcolici fossero pagati dalla casa discografica come era sempre successo. Invece no: solo viaggio e albergo erano pagati e avevamo speso in alcol più del viaggio. Fu un momento di panico leggendario. Ma era anche l'inizio della fine del giornalismo musicale italiano: i soldi stavano finendo. Adesso gli artisti esteri non vengono neanche più in Italia a farsi intervistare, i viaggi te li devi pagare e invece del disco omaggio ti arriva un bel link da fare il download. Non crediate che stia facendo quello della "casta": chi ha lavorato nei mensili musicali specializzati di soldi ne ha sempre visti pochi e quelli non erano privilegi, ma un modo di arrotondare.

Claudio Todesco, con cui ho scazzato spesso (minchia, mi correggeva anche le virgole in bozza) rimane un esempio di professionalità e serietà come nel giornalismo musicale non ho mai incontrato. Infatti mi sono sempre chiesto come mai facesse il giornalista musicale. E un grande scrittore: spero che il giornalismo non perda la sua firma, adesso che non c'è più Jam.

Con Ezio ci siamo lasciati male, era un periodo di merda della mia vita (toh, lo è ancora adesso), ma è stato un amico, sempre.

In questi ultimi anni che non ero più a Jam quasi una volta al mese sognavo di tornare a lavorarci: Ezio non ne era molto contento, ma me ne dava la possibilità. Questo per dire quanto mi mancava quel giornale.

Adesso se n'è andata anche la Liliana, sorella di Ezio, che era un po' la nostra mamma adottiva. Mi dispiace un casino. Mi dispiace di tutto. Ma ho anche incontrato un sacco di bella gente: i nostri collaboratori, troppi per ricordarli tutti. Loro sanno chi sono. Che cazzo di lungo strano viaggio è stato.

Monday, November 04, 2013

And these visions of Johanna are now all that remain

Sembra strano, a dirsi, ma Bob Dylan, nei suoi trent’anni di calate in Italia da quella prima volta nel 1984, non aveva mai suonato prima in un teatro. A parte la splendida cornice dell’Arena di Verona, un paio di volte, per il resto sempre e soltanto palazzetti dello sport dalla pessima acustica, campi di pallone inariditi o affondati nel fango. L’eccezione è stata qualcuna delle nostre splendide piazze medievali. Si sa che la musica rock è qualcosa di viscerale che si vive in qualunque condizione (pur alcuni, peggio è la condizione ambientale meglio è), ma certamente una sede come il Teatro degli Arcimboldi, pensato per la musica classica, Bob Dylan l’ha finalmente meritata. E per ben tre sere consecutive, anche se oggi il cantante presenta scalette sempre simili ogni sera, con una ritrovata professionalità e attenzione al particolare che fa un po’ rimpiangere lo zingaro irriverente e arruffone che anni fa cambiava e improvvisava le scalette direttamente sul palco. Chi scrive ricorda ancora gli sguardi terrorizzati dei suoi musicisti sul palco quando una sera, a Roma, buttò lì con nonchalance una Homeward Bound di Simon and Garfunkel evidentemente mai provata prima e di cui si era ben guardato di avvertire che l’avrebbe suonata.


Il Dylan di oggi presenta uno spettacolo ben ferrato e ben provato, con la novità, in questi concerti europei autunnali, di presentare molti dei pezzi che compongono il suo ultimo disco in studio, “Tempest”, dunque una novità per tutti colore che lo vanno a vedere.

Per Bob Dylan in concerto vale sempre il vecchio assioma: andare a vederlo è come assistere a William Shakespeare che sta mettendo in atto la sua ultima opera. Ma, viceversa, anche quanto disse una volta un amico americano: Dylan oggi è come uno dei volti scolpiti sul Monte Rushmore, uno dei padri dell’America, ma anche una scultura fissata e immobile nella sua grandezza, che non dice e non comunica nulla se non la propria effige.


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Friday, November 01, 2013

Lunga vita alla bellezza

Ai nostri vicini:

Che autunno meraviglioso! Tutto luccica e splende come oro e tutta quell'incredibile morbida luce. L'acqua ci circonda.
Lou e io abbiamo passato molto tempo qui negli ultimi anni, e anche se siamo gente di città questa è la nostra casa spirituale.

La settimana scorsa avevo promesso a Lou di portarlo fuori dall'ospedale per tornare a casa, a Springs. E l'abbiamo fatto!
Lou era un maestro di tai chi e ha passato i suoi ultimi giorni qui, felice, abbagliato dalla bellezza, e dalla forza, e dalla dolcezza della natura. E' morto domenica mattina guardando gli alberi e facendo la famosa posizione 21 del tai chi, con le sue mani da musicista che si muovevano nell'aria.

Lou era un principe e un combattente e so che le sue canzoni sul dolore e la bellezza del mondo riempiranno molta gente dell'incredibile gioia che aveva per la vita. Lunga vita alla bellezza che scende, attraversa e si impadronisce di tutti noi.


Laurie Anderson
moglie innamorata e amica eterna


Wednesday, October 30, 2013

La donna che visse una volta sola, ma morì due volte (Una storia di Halloween)

Irlanda, primissimi anni del settecento. Margorie McCall, una giovane donna, muore di una grave forma di febbre che l'ha colpita. E' il 1705. Viene sepolta in fretta, per paura che la sua febbre possa in qualche modo essere contagiosa. Il problema è che nella fretta il marito le lascia al dito un anello di grande valore economico. La coppia era evidentemente conosciuta nel villaggio se la notte stessa della sua sepoltura due ladri di tombe sono già lì a scavare per portarle via l'anello. Il quale però non voleva saperne di uscire. Così i due personaggi pensano bene di tagliare con un coltello il dito intero dove si trovava l'anello. Purtroppo per loro, non appena ebbero staccato il dito e il sangue cominciato a zampillare, Margorie McCall si risveglia dal coma in cui era caduta urlando dal dolore. Non era morta evidentemente, solo caduta in uno stato di coma, ai tempi difficile da identificare. Secondo le storie dell'epoca, benché il destino dei due ladri rimanga sconosciuto, uno dei due morì stecchito dal terrore, l'altro scappò via così lontano che di lui non si seppe più nulla e tutti dubitarono che fosse mai tornato a fare il ladro di tombe.


A quel punto Margorie si alza dalla fossa e si mette in marcia verso casa. Dove il marito si stava mettendo a cena con i figli. Sentono bussare alla porta. Il vedovo dice: se vostra madre non fosse morta, giurerei che questo è il suo tipico modo di bussare alla porta. Il pover'uomo si dirige all'uscio, apre e si ritrova davanti la moglie ancora vestita dell'abito funebre e con una mano sanguinante. Cadde a terra stecchito. Venne sepolto nella fossa che la moglie aveva lasciato vuota. Le parti si erano invertite nel giro di poche ore.


Margorie McCall in seguito si risposò, ebbe altri figli e quando finalmente morì di vecchiaia venne sepolta nel cimitero di Shankill, a Lurgan, dove la sua tomba si trova ancora oggi. Sopra la lapide, l'iscrizione: “Lived Once, Buried Twice", visse una volta sola, ma morì due volte.


La morale di questa storia? Irish women are strong as fuck...


(questo racconto, in dozzine di versioni, esiste quasi in ogni parte d'Europa da centinaia di anni, il più vecchio risale al XIV secolo; la tomba di Margorie McCall a Lurgan in realtà non esiste, la targa con la frase citata fu aggiunta un centinaio di anni fa a una tomba sconosciuta)

Sunday, October 27, 2013

New York City Man

- Lewis Allan Reed (Brooklyn, 2 marzo 1942 – Long Island, 27 ottobre 2013)

One fine morning, she heard on a New York station
she couldn't believe what she heard at all
She started dancing to that fine-fine music
her life was saved by rock 'n' roll





Magician Magician take me upon your wings
and ... gently roll the clouds away
I'm sorry so sorry I have no incantations
only words to help sweep me away

I want some magic to sweep me away
I want some magic to sweep me away
I want to count to five
turn around and find myself gone
Fly through the storm
and wake up in the calm

Release me from the body
from this bulk that moves beside me
Let me leave this body far away
I'm sick of looking at me
I hate this painful body
that disease has slowly worm away

Magician take my spirit
inside I'm young and vital
Inside I'm alive please take me away
So many things to do - it's too early
For my life to be ending
For this body to simply rot away

I want some magic to keep me alive
I want a miracle ... I don't want to die
I'm afraid that if I go to sleep I'll never wake
I'll no longer exist
I'll close my eyes and disappear
and float into the mist

Somebody ... please hear me
my hand can't hold a cup of coffee
My fingers are weak - things just fall away
Inside I'm young and pretty
Too many things unfinished
My very breath taken away

Doctor you're no magician - and I am no believer
I need more than faith ... can give me now
I want to believe in miracles - not just belief in numbers
I need some magic to take me away

I want some magic to sweep me away
Visit on this starlit night
replace the stars the moon the light - the sun's gone
Fly me through this storm
and wake up in the calm ...
I fly right through this storm
and ... I ... Wake ... Up ... In ... The ... Calm





Friday, October 25, 2013

The Enemy

Chi è il Nemico, chi è lo straniero, chi è l’occulto e misterioso male che ci assale? Lo vedi in un passante per strada, il Nemico: gli sguardi si incrociano per un breve istante, brividi lungo la schiena, poi il passante, il Nemico, sparisce tra la folla. Ma non sei solo: il Nemico è sempre attorno a te. Sono le banche, sono i politici, sono le cattiverie di ogni giorno, sono i totalitarismi e il fanatismo che prendono il sopravvento sul significato vero della religione. Ma alla fine, il Nemico sono io stesso e lo riconosco quando mi guardo allo specchio. “Hats off to (Roy) Harper”, giù il cappello davanti a Roy Harper, cantavano i Led Zeppelin nel loro terzo album, mentre i Pink Floyd lo invitavano a cantare una loro canzone sul disco “Wish You Were Here” qualche anno dopo.
Roy Harper, che da tutta la vita combatte contro quel Nemico, è tornato, dopo anni e anni di silenzio, che lo si pensava ormai ritiratosi dal music business.



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Saturday, October 19, 2013

Pioggia fredda. E un sacchetto della spesa in ciascuna delle mani

Lo vedi che stai tornando a casa in queste sere che l’autunno sfila nell’inverno che ancora non fa freddo ma neanche più caldo e la pioggerella scende fastidiosa e cade già al fondo delle ossa. Lo vedi lì impalato davanti al citofono con un sacchetto in ciascuna delle mani il buffo cappellino tipo da baseball, la pancia prominente la vecchiaia che s’allarga dalle spalle a quel viso. Che quando ti sei avvicinato da lontano lo vedi ancora più vecchio e ti domandi che diavolo ci fa impalato davanti al citofono che ormai se in casa ci sono avrebbero dovuto aprirgli e se invece non c’è nessun ormai lo dovrebbe aver capito.



Lo vedi sempre lì che fissa i citofoni senza muovere un muscolo gli occhi nascosti dietro gli spessi occhiali e tu che hai ormai aperto il portone stai a guardarlo incantato e ti domandi ma cosa diavolo aspetta.
E lo vedi come fosse un fantasma una presenza fastidiosa un urlo muto davanti al maledetto citofono che non risponde e allora gli domandi un po’ timidamente scusi vuole entrare e lui non risponde e continua a fissare il citofono muto i sacchetti della spesa uno in ciascuna delle mani.

E alla fine ti muovi entri e chiudi il portone e ti domandi quante ore ancora rimarrà davanti a quel citofono immobile con un sacchetto della spesa in ciascuna delle mani.


E mentre vai verso l’ascensore cominci a pensare una storia che viene fuori da sola dal buio e vedi quell’anziano con due sacchetti della spesa in ciascuna delle mani solo che non è ancora anziano ma un giovanotto sereno che ha suonato quel citofono e ha sentito grida di bambini e poi la moglie che gli ha aperto e lui che entra sorridente guardate cosa ho comprato uscendo dal lavoro dai metti su le pentole su bambini venite qua a giocare col papà.

Cosa l’ha portato ancora qui pensi mentre stai entrando in casa quel vecchio uomo con i suoi sacchetti della spesa in quell’appartamento ormai da tempo non abita più nessuno non ci sono bambini non c’è una moglie che attendono il papà che attende il marito. Non c’è più nessuno, ma tu rimani davanti al citofono a fissarlo sotto la pioggia fastidiosa che l’autunno sta scivolando nell’inverno un sacchetto della spesa in ciascuna delle mani.

Friday, October 11, 2013

New York City serenade

Ci fu un periodo tra il 1969 e il 1973 all'incirca in cui uscirono nei negozi alcuni dei migliori dischi live di tutti i tempi. Non che dopo e anche in anni recenti non ne siano usciti più, ma sicuramente in quei pochi anni si concentrò un tale numero di dischi straordinari come mai più in seguito. Il motivo era semplice: quegli anni corrispondevano infatti allo strapotere della musica live rispetto a quella in studio. Le logiche dei 45 giri, spariti da tempo, ma anche quelle degli lp, le logiche di mercato insomma, si erano infrante contro una voglia di vivere la musica in presa diretta, in comunione, in piena libertà. Era l’epoca dei festival, certamente, ma non solo: i musicisti stessi godevano di questa dimensione che lasciava aperte le porte a ogni genere di improvvisazione e libertà. Basta dare un’occhiata veloce ad alcuni dei titoli dal vivo usciti in quei quattro anni: “Live/Dead” dei Grateful Dead; “The Turning Point” di John Mayall; “Made in Japan” dei Deep Purple; “At Fillmore East” della Allman Brothers Band; “4 Way Street” di CSNY; “Kick Out the Jam” degli MC5; “Get Yer Ya-Ya's Out!” degli Stones; “Mad Dogs & Englishmen” di Joe Cocker. Solo alcuni. Altre band, tipo i Led Zeppelin avrebbero goduto di uscite live inerenti a quel periodo solo decenni dopo, ma comunque testimonianza di quell’epoca unica per la musica dal vivo. In seguito, si fu costretti ad assistere a fenomeni imbarazzanti, cioè il ritoccamento in studio delle performance live, come nel tristemente noto caso degli Eagles. Il loro – vendutissimo – live del 1980 infatti venne corretto in studio per cancellare ogni possibile errore, almeno al 50% ponendo di fatto fine al disco dal vivo come pura improvvisazione rendendolo invece riproposizione di grandi successi il più simile possibile ai dischi in studio.



Tornando a quell’epoca d’oro, tra quella caterva di meraviglie, c’è un altro live, “Rock of Ages” di The Band, uscito nel 1972. Ai tempi un doppio vinile, documentava le quattro serate che il 28, 29, 30 e 31 dicembre 1971 il gruppo che fu accompagnatore di Bob Dylan aveva tenuto all’Academy Of Music di New York.

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Wednesday, October 09, 2013

La guerra nei nostri cuori

Non capita spesso di intervistare una band che ha appena pubblicato il suo nuovo disco e nel frattempo si è sciolta. Al sottoscritto non era mai successo, almeno. E' quello che invece è successo ai Civil Wars, un nome che visto come sono andate le cose, è tutto un programma, come si suol dire. Una guerra civile, una guerra interna che ha portato alla disintegrazione di una delle più interessanti realtà del neo-folk americano, fenomeno che in questi ultimi anni grazie al successo mondiale di gruppi come Mumford and Sons, Fleet Foxes o Avett Brothers ha riportato alla ribalta la grande tradizione musicale americana e anglo sassone. Anche i Civil Wars, benché ancora sconosciuti in Italia, hanno goduto di questo successo con il loro disco di esordio, "Barton Hollow", premiato con ben due Grammy come miglior disco folk e miglior disco country. L'omonima pubblicazione che esce in questi giorni avrebbe dunque dovuto essere la consacrazione del duo, composto dalla bella e brava Joy Willliams e da John Paul White, seconda voce e straordinario chitarrista acustico. Magari avrà successo comunque, sta di fatto che a disco non ancora uscito i due hanno annunciato pubblicamente un momento di stasi e di ritiro dalle scene: non ci saranno concerti a promuovere l'uscita e nessuno sa se i due torneranno insieme.



Una storia tormentata, che ricorda frizioni interne tra membri dello stesso gruppo, ad esempio quella dei Fleetwood Mac che in mezzo a dissapori e storie d'amore andate male producevano il loro capolavoro "Rumours".



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Sunday, October 06, 2013

Quando il gioco si fa duro...

Il film che ha rovinato una generazione: mai slogan fu più appropriato. Io posso dirlo, perché faccio parte di quella generazione di rovinati. Avevo 17 anni infatti quando una sera mi portarono a vedere Animal House. Era il 1979 e l’originale in America era uscito circa un anno prima, ma allora i film ci mettevano un po’ ad arrivare da queste parti. Mi trovavo a Milano, sulle tracce della solita ragazzina _-questa aveva i capelli biondi e corti però - altrimenti a Chiavari non so se l’avrei mai visto che i film lì arrivavano dopo secoli quando arrivavano. Ricordo che rimasi piuttosto traumatizzato da quello che vidi, non sapevo se ridere o rimanere a bocca aperta tanto quel film mostrava cose per noi italiotti di provincia impensabili, ma allo stesso tempo sentivo che erano le cose che avevo sempre sognato e desiderato. Dopo aver visto Animal House, proprio come quando ascoltai qualche anno prima Bob Dylan per la prima volta, inutile dire che la mia vita non fu più la stessa.



Eh sì, eravamo così fessi da provare a bere una bottiglia di Jack Daniel a canna come avevamo visto farlo a John Bluto Belushi, solo che lui beveva una bottiglia di tè freddo messo al posto del JD.



Ci siamo rovinati fegato reni e quant’altro e abbiamo provato a fare i nostri toga party anche se con risultati non così eclatanti. Ma ci siamo divertiti e ancora oggi ci sentiamo intrappolati in quel film e in quegli eroi. Vorremmo che la nostra vita fosse un eterno toga party, ce lo ha ricordato anche Bruce Springsteen questa estate quando ci ha fatto cantare Shout e ha trasformato San Siro in un toga party da 60mila persone. Ma fu davvero un film che cambiò la gente e cambiò il cinema: le imitazioni da quattro soldi che ne seguirono non si contano.




Scopro solo adesso che il film è ambientato nel 1962, l’anno in cui sono nato e penso che non sono solo coincidenze: insieme ad American Graffiti I e II e a un Mercoledì da leoni, il miglior film americano degli anni 70.
Quelli erano anni: quando il gioco si fa duro, i duri cominciano a giocare. Poco importa che noi duri abbiamo perso.

(Il film torna al cinema nei giorni 7, 8 e 9 ottobre. I primi che si presentano in toga entrano gratis: toga toga toga per sempre)


Tuesday, October 01, 2013

The Song Poet

Vi sono piaciuti i film documentario di Martin Scorsese su Dylan e George Harrison? Ovvio che sì, impossibile non essere rimasti affascinati. Sono tantissimi i protagonisti della storia del rock che meriterebbero questo trattamento. Un gruppo di fan, che lavorano nel mondo del cinema, ha dato vita a un buon esempio di crowfunding per dare il giusto merito a uno dei più grandi protagonisti di questa storia, purtroppo e malevolmente lontano dal successo, ma indiscutibile dal punto di vista artistico. Quando i promotori di questa iniziativa gli chiesero infatti che ne pensassero di un film documentario su di lui, rispose: "Un film su di me? Nessuno sa chi sono".
Eric Andersen ha purtroppo ragione, ma solo in parte: a dispetto di 50 anni di gloriosa carriera, non è certo un musicista noto, se non per pochi appassionati. Un film su di lui sarebbe ingiustificato dal punto di vista economico, ma i fondatori di The Songpoet, come si chiamerà il film, hanno dato vita a un crowfunding per riuscire a realizzarlo entro il 2014. Sono già a buon punto, hanno raccolto testimonianze di personaggi come Willie Nile, Tom Paxton, il produttore di Blue River Robert Putnam, oltre a immagini di cinquant'anni di straordinaria carriera.
Ecco, tutto questo per dirvi che mai crowfunding è più sensato di questo. Partecipate, oltre a ricevere il dvd e alcuni memorabili a seconda dei soldi che donerete, farete un grande servizio all'arte, quella più vera. Qua tutte le info: https://www.facebook.com/TheSongpoet/info; http://www.towardcastlefilms.com/filmography/the-songpoet

Monday, September 30, 2013

Una città chiamata Giubileo

“Quando mi drogavo diventavo un mostro”: così ha detto di se stesso in una recente intervista Elton John, vittima soprattutto della cocaina per oltre vent’anni. Un mostro, ma anche un pessimo autore di canzoni: quello che era stato uno dei più brillanti musicisti della sua epoca, dall’esordio nel 1969 più o meno fino all’uscita del disco “Blue Moves” nel 1976 (in mezzo capolavori della storia della musica moderna come il disco con il suo nome del 1970, “Tumbleweed Connection”, “Madman across the water”, “Goodbye Yellow Brick Road”, “Captain Fantastic” e altri ancora) finì perso in una dozzinale e plastificata musichetta da Mtv. E’ interessante notare che a fronte delle vendite plurimilionarie in tutto il mondo del suo primo periodo, in Italia Elton John è conosciuto maggiormente per il suo periodo peggiore, quello degli anni 80 e 90, il che forse suggerisce una cosa o due sui gusti di massa del pubblico italiano.



Ma tornando a Sir Reginald, essere riuscito a disintossicarsi e a frequentare gli ambienti giusti, quelli ad esempio di musicisti giovani come Ryan Adams che lo hanno spinto a ripensare al suo periodo d’oro, piuttosto che stilisti di moda e principesse – anche quelle morte – lo ha riportato magicamente a fare nuovamente ottima musica. Certo, non paragonabile a quella della prima metà degli anni 70, ma il disco “Songs from the West Coast” del 2001 fu uno sbalorditivo ritorno alla forma con una collezione di canzoni di invidiabile classe.


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Friday, September 27, 2013

Pillole di saggezza (e non c'è niente da capire)

Pensieri del giorno.

1. C'è una cosa che in tutto questo ambaradan penoso nessuno dice. La legge Severino potrebbe essere anti costituzionale? Se è vero, ma quanto è grave un fatto come questo? Come possono dei ministri dello Stato ideare, confezionare e approvare una legge che non è costituzionale? E come possono dei parlamentari dello Stato votare una legge non costituzionale? E' di una gravità inconcepibile, di una cialtroneria ultra terrena. E soprattutto: quante leggi in Italia esistono che sono anti costituzionali e che vengono applicate giornalmente senza problema solo perché non interessano Silvio Berlusconi? Ma cosa è l'Italia? Cosa sono gli italiani? Non c'è niente da capire.


2. Processo di appello, caso Melania Rea. Parla il marito, unico sospettato di averla uccisa: "Tradivo mia moglie, ma l'amavo". Una dichiarazione che è molto più politica di quanto si possa pensare nella sua contraddizione in termini, non una barzelletta perché c'è di mezzo il massacro e la morte di una donna e che solleva la stessa domanda: ma cosa è l'Italia? Cosa sono gli italiani? Non c'è niente da capire.

Thursday, September 26, 2013

Stranded

Ogni tanto torno a sfogliarlo. E’ uno dei più bei libri in assoluto sulla musica rock e probabilmente per questo non è mai stato tradotto in italiano. A leggerlo si capisce perché e si capisce cosa vuol dire scrivere di musica per un anglo-americano e per un italiano. C’è un abisso in mezzo e forse se questo libro fosse stato tradotto ai tempi avrebbe permesso di far nascere una generazione di scrittori rock anche in Italia. “Stranded: rock and roll for a desert island” uscì la prima volta nel 1978, poi è stato ristampato innumerevoli volte e tutt’oggi conserva la freschezza di un approccio che non è nozionismo, intellettualismo, piacioneria fini a se stessi. Qua è la vita quella che conta, e come l’ascolto di un disco possa far emergere la nostra vita e il desiderio del nostro cuore tutto intero.
Affidato a vari autori, ognuno alle prese con il suo disco da isola deserta, basta leggere il primo di questi racconti per capire quale sia l’abisso che ci separa. Nick Tosches, che per colpa di una editor un po’ troppo femminista, una Laura Boldrini dei suoi tempi insomma, rischiò di rimanere fuori del libro, non dice nemmeno quale sia il suo disco da isola deserta. Lo fa intuire: “gli Stones hanno sempre fatto capolino da dietro le mie spalle”, ma non lo dice chiaramente se non nelle ultimissime righe. Piuttosto parla delle paranoie di fine anni sessanta, di droga e di disoccupazione. Di vita. Connessa al rock’n’roll ovviamente. Ecco, probabilmente l’abisso fra noi italiani e loro è che la musica rock per problemi culturali non è mai appartenuta alle nostre vite ma è sempre stata solo una sorta di colonna sonora di sottofondo di cui citare le b side e le edizioni rare, magari.
In Stranded c’è poi naturalmente la più grande e straordinaria recensione mai scritta di un singolo disco, quella che Lester Bangs fece di Astral Weeks di Van Morrison. E non ci sono i classici del rock, non ci sono i migliori dischi in senso assoluto, cosa che sarebbe impensabile non includere in un libro italiano sullo stesso tema. Ci sono i dischi che hanno avuto a che fare con la vita degli autori, i quali, altro particolare importante, nel corso degli anni hanno smesso tutti di scrivere di musica rock a tempo pieno.



Comunque seppur mai tradotto in Italia, il concetto di disco da isola deserta è stato saccheggiato anche da noi. Un concetto ovviamente impossibile, ma mi sono divertito a pensare quale potrebbe essere il mio vero disco da isola deserta, seguendo le categorie di chi scrisse questo libro. E mi sono stupito a vedere che non è un disco di Bob Dylan. E’ CSN II, il secondo disco di Crosby, Stills e Nash (manco Young c’è), uscito nel 1977. I motivi sono tanti, non sono ovviamente solo musicali anche se qui la gran parte delle canzoni sono bellissime. Ha piuttosto a che fare con l’incredibile tasso di narratività e realismo contenuto in questo disco, di cui tempo fa avevo già cercato di parlare. Con il mischiarsi di tre personalità diverse con storie diverse che si alternano a narrare un momento cruciale della loro vita, la raggiunta maturità, il vuoto interiore per il crollo di utopie e ideologie, la paura di cosa sarà il domani, l’assoluta sincerità e onestà nel narrare la comune condizione umana. Il che lo rende un disco che non smetteresti mai di ascoltare, come un film rivisto un milione di volte. Sì, in un’isola deserta ci starebbe bene.

Sunday, September 22, 2013

Il tempo. In una bottiglia

Di lui, musicalmente, ne parlerà in modo più approfondito e appropriato l’amico David Nieri in un articolo che uscirà a breve su ilsussidiario.net. A me va solo di ricordare le emozioni, l’unica cosa che mi riesce bene (a volte, non sempre). Jim Croce è nome dimenticato, mai menzionato ne circoli e nelle enciclopedie che contano, o canzonato quando lo si fa. Di lui, che morì il 20 settembre di quarant’anni fa in un incidente aereo degno di quello di Buddy Holly – forse è per questo che dicono che la grande musica rock sia finita nel 1973 – ci si può solo domandare cosa avrebbe fatto, musicalmente, in questi quarant’anni in cui non c’è stato. Stava appena cominciando ad assaporare il successo: la sua formula di country, pop, R&B aveva fatto girare la testa anche a Frank Sinatra – non certo l’ultimo pirla – che ne aveva incisa la sua Babd Bad Leroy Brown.

Ma io ricordo solo che erano passati tre, forse tre e mezzo, anni dalla sua morte, quando sentii per la prima volta alla radio I've Got a Name (che bello averla risentita recentemente nella colona sonora di Django Unchained di Tarantino, uno che di musica se ne intende) grazie a quel santo uomo del vigile di Lavagna che alla sera faceva il dj in non ricordo più quale radio, quel vigile musicofilo che ci diede il nostro battesimo e la nostra educazione musicale. Sentire I've Got a Name alla radio nel buio della tua cameretta era come volare altissimo in spazi siderali stratosferici dove il blu buca il blu. Quella voce, un po’ burina un po’ romantica, così calda. Jim Croce.



Con Jim Croce fu un autentico rapporto radiofonico, come nella miglior tradizione della miglior musica. I’ll Have to say I Love You che sbuca improvvisamente dalla preziosa radio in legno di papà, una radio così Seventies, mentre stai passandole accanto e ti devi fermare, bloccare immediatamente per non perderne una nota di quella malinconia copiosa che ne esce fuori. Si può essere così tristi mentre si è innamorati? Sì, e molto di più. Jim Croce lo sapeva.




C’era poi Alabama Rain e c’era quella ragazzina che veniva di corsa da Sestri Levante a Chiavari per andare a scuola. Amava lo sport e correva, correva sempre. I lunghi, lunghissimi capelli, il viso da indiana: come non innamorarsene? Quel pomeriggio sotto la pioggia a salire dentro l’ospedale in costruzione di Sestri, da soli, girando fra le scale di cemento, a indovinare il profumo di quei lunghi capelli. E fu così che una volta, un pomeriggio di sole, venne correndo a casa mia, senza avvertire, come la più meravigliosa delle sorprese. E mentre lei se ne stava in piedi sorridendo davanti alla finestra che dava sul cielo e sul mare blu, e io me ne stavo muto nella mia timidezza, la radio pensava a dare le parole, facendo fuoriuscire Alabama Rain di Jim Croce. Lei sparì, probabilmente correndo, e non ne ho mai più saputo niente. Chissà se corre ancora tra Sestri e Chiavari lungo il mare. Io, che non le ho saputo dire quanto fossi innamorato di lei, ascolterò un’altra volta Alabama Rain. E anche tutte le altre canzoni di Jim.



Che la terra ti sia lieve, grande italiano d’America, l’unico dei folksinger di casa nostra e di Brooklyn. Morto in quel cielo blu che ci hai fatto toccare con mano.

Thursday, September 12, 2013

Se anche Silvio Berlusconi ha un'anima

Estate 1976. Le immagini alla televisione mostrano l'ex presidente Richard Nixon entrare in un ospedale dove la moglie è stata da poco ricoverata per un infarto. E' un uomo piuttosto devastato quello che le telecamere riprendono, non ha più niente del fiero detentore del potere del paese più potente al mondo. Lo scandalo Watergate, che ne distrusse carriera e immagine, lo aveva già conciato male. Neil Young, che è in tour e si trova nella camera di un motel insieme al figlio Zeke, sta guardando quelle immagini alla televisione. Poi prende la chitarra, scrive una canzone e quella sera la esegue in concerto. "Credo di essermi sentito triste quel giorno per Richard Nixon" dirà.

La canzone è Campaigner(in un primo momento in modo molto appropriato era stata intitolata "Requiem for a President"), una delle più belle composizioni di Neil Young, pubblicata solo sul disco antologico Decade nel 1977. Il modo in cui è registrata è geniale: la musica arriva da lontano, il volume è basso e aumenta sempre di più; al termine della canzone la musica sfuma abbassandosi sempre di più. Dà l'immagine di qualcuno che arriva, racconta la sua triste storia e poi altrettanto tristemente se ne va. Young, acerrimo nemico di Richard Nixon, combattuto fieramente con brani di accusa spietata come Ohio, sente compassione per il suo vecchio nemico, ormai cacciato dal potere e colpito dalla vita: "se anche Richard Nixon ha un'anima".



L'immagine dei potenti sul viale del tramonto, anche se combattuti politicamente, è infatti qualcosa di estremamente triste. Tolto loro il potere, a questi uomini non rimane più nulla Le analogie di quel Richard Nixon con Silvio Berlusconi sono evidenti. La lotta per il potere che il leader del Pdl sta combattendo in questi giorni è una lotta per la vita: senza potere non sarò più nessuno, sembra dire. Difficile trovare compassione per lui, ma certo la disperazione che certe sue immagini ultimamente hanno trasmesso colpiscono, così come le frasi e il comportamento di alcuni dei suoi figli: dentro la solitudine di Arcore si combatte per rimanere in vita. Peccato che la vita vera è un'altra cosa, la vita non è il potere.



Nessuno in Italia scriverà mai una canzone come Campaigner per Silvio Berlusconi: l'odio politico che si respira in Italia non ha paragoni all'estero e non è una bella cosa, qualunque cosa si possa pensare del Cavaliere.

Dicono che nei suoi ultimi anni Nixon, prendendo parte ad alcune interviste televisive, fosse quasi arrivato sul punto di chiedere pubblicamente scusa all'America. Chissà se Silvio Berlusconi farà mai altrettanto.

Hospitals have made him cry
But there’s always a freeway in his eye
Though his beach got too crowded for a stroll.
Roads stretch out like healthy veins
And wild gift horse strain the reins
Where even Richard Nixon has got soul.

Friday, September 06, 2013

Alla fine ne resterà uno solo

Non dovrei scrivere di certe cose lo so, ma non resisto. Sarà che il mio blog si è classificato terzo tra i dieci migliori, ma adesso mi sento libero di dire tutto quello che mi passa per la testa. O anche no. E' che siamo tutti così imbruttiti.

Si è suicidato, moglie e due figli, il super manager perché non ce la faceva più a sopportare i ritmi di lavoro chiesti dall'amministratore dell'azienda (una delle banche più importanti al mondo). Certo un super manager trova facilmente alternative di lavoro, di soldi ne ha già messi via abbastanza, ma può essere che uno ami il suo lavoro, desideri continuare a farlo e non ce la faccia più a tenere quei ritmi, no?
Ricordo una ventina di anni fa quando a una conferenza sentii parlare un italiano che lavorava in Inghilterra, non un super manager. Raccontava che i ritmi di lavoro imposti stavano diventando così oberanti che ormai quasi nessuno riusciva a mettere su famiglia: 12, 14 ore al giorno e chi ha tempo per moglie e figli? Oggi è così anche in Italia, con la differenza che quasi sempre a certi orari di lavoro corrispondono stipendi miserabili.


L'uomo, oggi, è puro strumento da sfruttare, quasi fossimo tornati di colpo alla classe operaia dell'800, quando si lavorava 14 ore al giorno sette ore su sette. Certo, oggi te lo vendono a colpi di sogni fascinosi: ambiente figo, lavoro cool, esperienze trendy. Ma intanto la vita va a puttane e la gente si ammazza. Perché solo e sempre di sfruttamento si tratta, che sia nel mondo occidentale e post capitalista che sia il terzo mondo. Siamo circondati, e questa volta è vero.

Dicono poi che per far ripartire le economie bisogna aumentare i consumi, ho sentito dozzine di esperti di economia e anche sindacalisti dirlo. Ma consumi di che? Ma è così difficile capire che sia ovvio e giusto che l'industria automobilistica stia fallendo? Quando giravano un po' di soldi ci hanno fatto credere che se non cambi la macchina una volta all'anno sei un povero coglione. Invece la macchina dovrebbe durare tutta la vita, almeno fino a quando non si rompe: da delinquenti produrne sempre nuovi e inutili modelli.
Aumentare i consumi? E' solo un cane che si morde la coda: il consumo oggi è solo fuffa, oggettivistica del tutto inutile, grazie alla buon anima di Steve Jobs che ha sdoganato l'inutilità come bene di consumo. Aumentare i consumi di iphone, ipad,schermi televisivi e minchiate assortite. Questo consumo del superfluo uccide l'uomo e sputtana le economie, creando una falsa economia che quando va in crisi manda in merda tutto il resto, veri consumi inclusi. L'altro giorno ho letto una notizia straordinaria, i dati dei consumi in Italia negli ultimi mesi: crollano gli alimentari, resistono e crescono due cose soltanto, il Viagra e gli Smartphone. Verrebbe da ridere se non ci fosse da piangere: Viagra e Smartphone? Ma che cazzo di mondo è diventato?
Datemi due paia di scarpe all'anno, del cibo per la mia famiglia, qualche paiao di jeans, una giacca e un po' di mutante. I miei consumi sono questi, il resto è ladrocinio del cuore e della mente.

"C'era sempre un vecchino che mi portava o le frittelle, o il vino, o le salsicce" mi raccontava una amica. Che normalmente lavora come lavoriamo tutti, ma riesce a ritagliarsi spazi speciali. Un paio di mesi all'anno, quando riesce a farsi prendere, lavora al frantoio poco lontano da casa: "A parte che pagano abbastanza bene (io lavorando due/tre giorni alla settimana ho guadagnato quasi 1000 euro), ma poi guarda lavori con le mani, sei a contatto coi vecchini, lavori anche la notte, ti mangi pane e olio e stai in campagna, una meraviglia". Ecco. Questa è la bellezza che ci hanno tolto, la vita vera, il cuore e l'anima. Questo mondo è fallito, è marcio, puzza di cadavere.
Sia pace all'anima di chi si ammazza perché non regge più i ritmi del superfluo e del ladrocinio che oggi il mondo del lavoro impone. Datemi un frantoio e vi salverò l'economia.

Tuesday, September 03, 2013

Sai cos'è l'isola di Wight?

"Arrivai all'isola di Wight insieme ai Beatles. Insieme assistemmo al concerto, poi dopo andammo nei camerini a incontrare Bob (Dylan). Era contento, soddisfatto del concerto che aveva appena fatto. I Beatles avevano portato gli acetati di Abbey Road che sarebbe uscito dopo poco. Ci mettemmo ad ascoltarlo, bevemmo qualcosa. L'atmosfera era rilassata e gioiosa". Così racconta Tom Paxton, folksinger del Greenwich Village, vecchio amico di Dylan, del concerto all'isola di Wight del 31 agosto 1969, pubblicato pochi giorni fa all'interno della versione deluxe del nuovo Bootleg Series, il volume 10, che raccoglie bani inediti o versioni differenti di quelli pubblicati nei dischi usciti nel 1970, "Selfportrait" e "New Morning". Una descrizione certamente diversa da quella che fecero i media dell'epoca, che giudicarono complessivamente poco efficace o anche scadente quella esibizione, la prima di Bob Dylan dal maggio 1966, e che sarebbe rimasta anche l'ultima (a parte un paio di apparizioni estemporanee, al concerto per il Bangladesh e a quello di capodanno di The Band) fino al gennaio 1974.



L'aspettativa d'altro canto per quella esibizione era enorme: Dylan era stato invitato un paio di settimane prima a esibirsi al festival di Woodstck, che si era tenuto proprio in quella location perché Dylan ci abitava, a sottolineare quanto il pubblico rock volesse un ritorno sulle scene delmusicista che aveva cambiato la storia della musica, ma lui aveva rifiutato.





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Monday, August 26, 2013

What's this shit?

E' probabilmente l'unico caso al mondo in cui una recensione di un disco è diventata più famosa del disco recensito. Nel 1970, l'allora giovane capo redattore della sezione recensioni del rock magazine Rolling Stone era Greil Marcus, diventato poi negli anni probabilmente il più brillante scrittore rock (dopo Lester Bangs, naturalmente, che resta fisso al primo posto). Si trovò sulla scrivania il nuovo disco di Bob Dylan, un doppio lp intitolato "Self Portrait", autoritratto, che in copertina presentava uno sbilenco autoritratto fatto dallo stesso Dylan.



Nonostante si fosse ritirato dai concerti ormai da quattro anni dopo l'incidente motociclistico dell'estate del 1966 e avesse pubblicato due soli dischi in quel lasso di tempo ("John Wesley Harding" e "Nashville Skyline") Dylan rimaneva il più autorevole e amato artista rock dell'epoca. La sua influenza infatti era stata tale da cambiare il corso stesso della storia del rock al pari dei Beatles se non di più. Qualcuno lo aveva definito "l'arma segreta del 68" per quanto i testi delle sue canzoni avessero influito sulla nascita dei movimenti di protesta, ma lui durante il 68 viveva in campagna, a Woodstock, si era spostato e faceva figli. Un tranquillo signor borghese insomma.


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Friday, August 23, 2013

Scatole di cartone ripiegate

Gli oggetti abbandonati non sono mai davvero abbandonati. E gli oggetti non sono davvero degli oggetti. Ogni cosa che è stata toccata, mossa, utilizzata, poi riposta da mani d'uomo ha toccato fors'anche per qualche istante la vita, e la vita gli oggetti hanno ricevuto. Nelle cantine impolverate, negli uffici dove non entra qui mai nessuno, nelle strade. La luce del sole di fine agosto bussa intensa seppur già scolorita sui vetri sporchi del piccolo stanzino. Dentro, scatole, scatoloni, raccoglitori sommersi da strati infiniti di polvere. Da quanto tempo nessuno sposta più niente là dentro. Eppure anche quelle scatole di cartone ripiegate in un angolo sono state messe lì da qualcuno, con uno scopo e una ragione, per quanto banale. C'era qualcuno lì dentro, prima, che ha compiuto un gesto. Quel gesto permane e risuona per ore giorni mesi anni. Per sempre. Sia stato un gesto di rabbia, fatemeli mettere qui perché nessuno li vuole spostare; o di semplice abitudine, ecco vanno riposti qua; o di affettuoso bisogno d'ordine, magari col pensiero domani vengo a riporli altrove o anche poi ci serviranno, stanno meglio qui. Nessuno lo può negare, il gesto c'è stato. Qualcuno lo ha fatto, di mettere lì quei cartoni ripiegati, perché serviva che fosse fatto. Ogni oggetto conserva la storia di un uomo, e quegli oggetti impolverati non rimangono da soli con la polvere, la luce del sole che si affievolisce o il buio della notte. Tu uomo, li hai vissuti. La presenza dell'assenza rimane e permane. Nulla si cancella e niente compare per sempre. Il per sempre è ora e adesso. Nel gesto che l'uomo compie la vita si compie.

Saturday, August 17, 2013

Day(s) of locusts

C'è un tempo immemorabile sulle montagne che si gettano nel mare. C'è un silenzio accecante interrotto solo dal canto continuo a volte infernale a volte frenetico delle cicale. Più il sole è alto e picchia inesorabile, più cantano anzi urlano. Di sera si placano di notte si zittiscono.
Per generazioni il canto delle cicale è stata l'unica compagnia per uomini e donne e bambini che dalle montagne cercavano di strappare la vita coltivando la poca terra disponibile creando terrazze sui fianchi dei monti per renderli orti oliveti vigne. Una vita apparentemente impossibile di quelle generazioni infatti sui monti sono rimasti pochi vecchi come le sentinelle di Dino Buzzati.
I vecchi casolari sono stai sostituiti da villette per vacanzieri e ordinati b&b. Si è fuggito dalle montagne cercando facili comodità in riva al mare o nelle grandi città. Antichi resti di abbazie sono nascosti nella foresta che selvaggia li ha ricoperti. Nessuno va più a tagliare la legna o a ordinare il bosco che prende il sopravvento su case chiese rifugi abbandonati. Solo il tempo immemorabile resta a far da guardiano. Dove sono fuggiti tutti? Quelle famiglie che vivevano a stretto contatto in poche casupole isolate aiutandosi sostenendosi raccontandosi alla domenica la vita dove sono andate? E'incredibile quante chiese e chiesette ci siano sparse tra questi monti: ogni gruppetto di case ne ha una. Come se l'esigenza, allora, sentita più importante per tutti fosse quella di costruire appena possibile una chiesa a protezione, che li radunasse, che desse il significato a una settimana di stenti e fatiche. Ce ne sono a dozzine, oggi quasi tutte inutilizzate, anche due una vicina all'altra costruite in epoche diverse. Occhieggiano dai fianchi delle montagne e sembrano richiamare a un angelus che nessuno conosce più. Sono occhi storpiati nel canto delle cicale.
A disperdersi in eleganti e comode case di città, ma sono rimaste sole. I giovani cercano compagnia nella caciara dei social network bevendosi la nullità e il luogomunismo dei giudizi: tutto è falso, tutto è propaganda tutto è fatto per oscurare il cuore che era buono, o almeno semplice. Adesso il cuore di tutti è cattivo. Ma tutti hanno un cuore, cantava qualcuno. Quassù è rimasto il canto infernale delle cicale che forse appare tale perché non hanno più nessuno per cui cantare. Solo le ombre, i fantasmi, i ricordi. La morte.

Thursday, August 01, 2013

Buonanotte fiorellino

Si è scatenato un tale putiferio che si sono sentiti in dovere di intervenire anche i parlamentari della cosiddetta "ala renziana" del Pd. Gli hanno scritto una lettera aperta: ""Caro maestro, ti preghiamo di riprovare a 'crederci', di tornare a leggere i giornali, di ricominciare a seguire la politica e il Partito Democratico. Noi conserveremo l'intervista, la ricorderemo come un errore e una critica eccessiva, tenendo a mente che non è da un calcio di rigore sbagliato che si giudica un giocatore".



L'intervista incriminata è quella che Francesco De Gregori ha concesso ieri al Corriere della Sera: già colpisce l'uso della terminologia "errore". Sembra il linguaggio dei tempi dello stalinismo, o meglio, dei primi ani 70, quando bisognava "correggere il compagno che sbaglia". Rimettterlo in riga insomma. E ancora: "Sono passati tanti anni, siamo invecchiati tutti, sicuramente lo siamo noi, ma non possiamo credere che il nostro maestro sia invecchiato così male da dirci 'Il verbo credere non dovrebbe appartenere alla politica". Invecchiato male? Mah, sarebbe da discutere, averceli intanto 62 anni come li porta lui, fisicamente e artisticamente visto che negli ultimi tempi ha pubblicato anche alcuni dei dischi più belli della sua carriera ed è in forma fisica splendida. Ma questo è niente davanti all'ondata di post anti De Gregori che per tutta la giornata di ieri sono piovuti sui social network e anche sulla pagina ufficiale Facebook del cantautore romano.


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Tuesday, July 30, 2013

Book of mercy

Blessed is the covenant of love, the covenant of mercy, useless light behind the terror, deathless song in the house of night
(Leonard Cohen)

Attraversava il parcheggio dell’autogrill affascinato da quella luce innaturale. Innaturale perché troppo, esageratamente rilucente. Il caldo era intollerabile, in un’altra occasione sarebbe stato schifosamente intollerabile anche per lui che odiava anche le temperature primaverili. Ma quel giorno, quel pomeriggio? Non sapeva dire che ore fossero realmente, la luce intensa non gli faceva sentire neanche il caldo. Alcuni uomini, forse lavoratori dell’autostrada, gli venivano incontro parlando a voce alta, pregustando la pausa dentro al bar una birra gelata e poi via verso casa investiti anche loro da quel sole sfolgorante. Risplendevano in quella luce e sembravano brave persone. Non sapeva perché era lì non sapeva dove era ma per qualche istante provò una pace infinita. Si accese una sigaretta sotto a un pino ombroso. Si guardò le mani e le vide sporche di sangue, dalle dita gocciolavano copiosi gettiti rosso scuro. Che cosa aveva fatto? Non lo sapeva. Ma sentiva il peso del male e quello della morte schiantarsi adesso su di lui., la tenerezza di poco prima era già stata ingoiata altrove. Ma poco importava. C’era ben poco che importava ormai nella sua vita.

Se era lui l’assassino, se era lui il colpevole, non lo avrebbe saputo mai, ma in ogni caso era destinato a convivere con il male. Lontano da quella piazzola incantata baciata da un sole innaturale, tutto riprendeva i contorni indefiniti del male, il male che ogni giorno si stringeva sempre più addosso a lui. Il mondo steso era incarnazione del male. Oh la menzogna, la bugia come stile di vita. Non lui, o forse sì anche lui naturalmente. Il velo squarciato sulla pochezza la pacchianità dell’esistenza gli aveva mostrato il volto della menzogna: impossibile sfuggirne. Troppo troppo tardi. Ogni faccia, ogni ghigno, ogni pacca sulla spalla: menzogna menzogna menzogna.



Alla fine in qualche modo arrivò a casa o quella che credeva essere ancora casa sua. Abbandonata, come ben sapeva ancor prima di entrarci. La casa abbandonata piange le sue vittime da ogni finestra aperta sul nulla la casa sbattuta dal vento le stanze raggelate e raggelanti le presenze non più presenti. Il vuoto. Il silente silenzio. Non aveva senso restare lì ma ci rimase. Non aspettava più nessuno, doveva solo decidersi a farlo. Lo avrebbe fatto o la casa glielo avrebbe fatto fare. Canzone senza morte nella casa della notte?

“Quando uno si ritrova incapace di funzionare, l’unica possibilità è rivolgersi alla fonte assoluta delle cose. L’unica cosa che puoi fare è la preghiera” (Leonard Cohen)

Saturday, July 27, 2013

Ragged Glory

Si può fare un concerto e non includere quei brani che normalmente il pubblico pensa essere i più rappresentativi? Insomma, pensate se Bruce Springsteen non facesse Born to Run, Thunder Road, Badlands. O se gli Stones non facessero Satisfaction, Honky Tonk Women e Brown Sugar. Sareste delusi? Forse no, ma un po’ si diciamo la verità. L’altra sera a Lucca Neil Young – che in Italia a suonare ci viene molto più raramente di un Bruce Springsteen – prima di due sole tappe italiane, ha tranquillamente lasciato fuori tre monumenti del suo repertorio quali Hey Hey My My, Rockin’ in the Free World e Like a Hurricane. Qualcuno si è lamentato? Assolutamente no. Il concerto ha perso di bellezza e di interesse? Ancora no. A parte che Young ha un tale repertorio che può tranquillamente fare a meno di pezzi come quelli citati (a Lucca ad esempio ha tirato fuori una rara Mr. Soul e il super classico Heart of Gold), ma lo spettacolo è stato di tale strabordante bellezza che lo si è vissuto come l’evento che è stato. Circa 10mila persone di tutte le età hanno accolto nella piazza ottocentesca dove si svolge il Lucca Summer Festival uno degli ultimi giganti del grande rock, una delle ultime leggende degli anni 60, uno dei più grandi cantautori di sempre.



Accompagnato dai Crazy Horse ha rilasciato il concerto che un fan di Young può solo sognare: due ore di debordanti, lancinanti e possenti assolo di chitarra elettrica. Frank Sampedro (uomo dai mille riff impossibili alla chitarra ritmica) lo stantuffo Billy Talbot (al basso) e il metronomo umano Ralph Molina (alla batteria) hanno fatto quello che sempre i Crazy Horse fanno con Young: accompagnarlo, assecondarlo e andarlo riprendere quando fugge troppo lontano nelle sue cavalcate impazzite di chitarra.

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Wednesday, July 24, 2013

Let it boogie!

I Boogie Ramblers ce li immaginiamo così, come il titolo di uno dei pezzi del loro nuovissimo cd: “dressed in black”. Un po’ alla Blues Brothers, un po’ alla Men in Black. Perché la loro musica, anzi il loro rock’n’roll, è così: scuro, scurissimo, incazzato. Non sappiamo se sia una scelta studiata a tavolino, o se sono incazzati davvero: quello che fuori esce dall’ottimo Let It Rock! È però così: un rockabilly-boogie post punk, tra Willy De Ville e Billy Lee Riley.
I pezzi di Chuck Berry, ad esempio (autore qui presente in maggior parte, e non poteva essere altrimenti vista la venerazione che il cantante-chitarrista Carmelo Genovese ha per lui) perdono quella freschezza e innocenza con cui li abbiamo sempre identificati. La voce del cantante spara i versi come una mitraglia, con vezzo ma anche con disprezzo: se sta piangendo la fine ormai immemorabile della golden era del rock’n’roll non lo sappiamo. Certo è che ne recupera appieno l’anima blues, un po’ come facevano i Nine Below Zero, la storica band inglese di cui Genovese è fortemente debitore quasi quanto Chuck Berry. Pochi accordi essenziali di chitarra, assolo veloci, sporchi e cadenzati; ritmica sferragliante (Attilio Saini al basso, Maurizio Bevilacqua batteria), armonica al fulmicotone (Tito Boy Oliveto) e il pianoforte saltellantie e brillante di (Amedeo Carlennon che però è uno special guest così come l’ottimo Roberto Dbitonto al sax).



Prendete un pezzo come Come On di Berry, il primo 45 giri dei Rolling Stones: qua diventa una nostaglica ballata alla American Graffiti, mentre Dark Glasses di Joe South potrebbe essere uno scarto dylaniano dei tempi di Highway 61 Revisited. L’iniziale Shakin’ Beethoven (medley fra due classici indovinate di chi) è però puro, esaltante irrefrenabile rock’n’roll e i Boogie Ramblers lo suonano come pochi in Italia. Tra il Johnny Cash di Folsom Prison Blues, unica pausa semi acustica nel disco, e il miglior Ben Vaughn, uno che potrebbe essere membro onorario dei Boogie Ramblers, quello di due brani comeI Dig your Wig e la già citata Dressed in Black c’è anche lo spazio per uno strumentale firmato dal quartetto, Harp Attack, piena di citazioni di quell’epoca splendida in cui gli eroi del rockabilly erano come marziani sulla terra, così come una conclusiva Let It Rock che non lascia prigionieri.
I Boogie Ramblers ce li immaginiamo così; vestiti di nero, esibirsi sul palcoscenico di una Chicago post atomica, convinti che la bomba non sia mai scoppiata e che Elvis non abbia mai lasciato il palazzo. Ah, dimenticavo: il cantante e chitarrista dei Boogie Ramblers ha suonato anche con Chuck Berry…. Let it rock!

Dove trovare il disco http://nuovisuoni.blogspot.it/

Monday, July 22, 2013

Lo sciamano che cantava alla luna

In una sera dominata da una splendida (quasi) luna piena, un caldo afoso e milioni di zanzare, alcuni coraggiosi si danno appuntamento all’Ippodromo di Milano, sede per tutto il mese di luglio del festival City Sound, una delle più ricche rassegne musicali dell’estate milanese orami da qualche anno. Solo per fare qualche nome, di qui quest’anno sono passati e passeranno National, Deep Purple, Blur, Earth Wind & Fire e Santana. Questa sera però c’è lo sciamano del lago di Como: il pubblico non è quello delle grandi occasioni. I milanesi si sa il sabato di luglio se possono lo passano fuori porta, al fresco. Ma forse anche la poco oculata gestione di una estate musicale fatta di dozzine di eventi che si sovrappongono pure uno all’altro (chi scrive deve rinunciare a Patti Smith a pochi metri da casa sua per correre fino a Lucca per non perdersi Neil Young) con la crisi economica che incombe, gioca sui numeri di spettatori. Sarebbe l’ora che gli enti pubblici spendessero due lire per sovvenzionare i concerti: meglio la musica che l’abbruttimento delle movide spacca fegato e spacca cervello, no?
Davide Van De Sfroos non bada comunque al numero dei paganti e regala un concerto di formidabile intensità, due ore esatte di grande folk-rock che riesce anche quasi a scacciare le zanzare e a far sorridere la luna maestosa che ci osserva dall’alto.



In un contesto così, diversamente dalle esibizioni nei teatri più studiate e meno dirette, il cantautore sfodera tutta la sua originale carica emotiva, ricordandosi anche delle sue radici punk (Nona Lucia è dedicata ai Ramones che vengono pure citati a metà con il leggendario “hey ho let’s go!”) mentre la conclusiva La curiera termina in medley con London Calling dei Clash.

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Saturday, July 13, 2013

Springsteen & I


Solo per un giorno (il 22 luglio) e in contemporanea mondiale in 50 Paesi, 40 multisale del Circuito UCI proietteranno alle 20 e alle 22.30 il film documentario che ripercorre la carriera di Bruce Springsteen. All’UCI Bicocca prima dello spettacolo dele ore 20 il sottoscritto farà una breve presentazione. Da quello che sono riuscito a vedere il film è molto interessante, con parecchie immagini anche rare di Springsteen in concerto, da inizio carriera a oggi. Sembra divertente, e un degno modo per concludere una estate springsteeniana, quella del 2013, che rimarrà nella storia come la serie di concerti di Bruce Springsteen in Italia probabilmente più esaltanti di sempre.



Qualche nota informativa allora:

UCI Cinemas, in collaborazione con QMI, Virgin Radio, Rolling Stones, Coming Soon e The Space Extra, porta sul grande schermo il Boss del rock. Solo il 22 Luglio e in contemporanea mondiale in 50 paesi, 40 multisale del Circuito UCI proietteranno Springsteen & I, lo straordinario film documentario diretto da Baillie Walsh e prodotto da Ridley Scott che ripercorre la carriera musicale di Bruce Springsteen raccontata dai suoi fan e da performance inedite. «Questo film meraviglioso fornisce una visione unica e straordinaria dell'immenso feeling tra un artista e tutti coloro che sono così profondamente affezionati alla sua musica», Scott.
Le prevendite sono aperte. Il prezzo del biglietto intero è pari a 10 euro, mentre quello del ridotto è 8 euro.E ’ possibile acquistare i biglietti presso le multisale UCI, tramite internet, call center, App di UCI Cinemas per iPhone, iPod Touch e per iPad (scaricabile gratuitamente da App Store e da Android) e sulla Fan Page di UCI Cinemas tramite Michela, la prima live chat di Facebook che consente di prenotare il proprio posto nelle sale UCI Cinemas e invitare i propri amici Facebook. E’ possibile accedere a Michela cliccando sul seguente link:
http://www.facebook.com/ucicinemasitalia/app_204799699634809 .

Le 40 multisale UCI che proietteranno l’evento sono: UCI Alessandria, UCI Ancona, UCI Arezzo, UCI Bicocca (MI), UCI Meridiana Casalecchio di Reno (BO), UCI Cagliari, UCI Casoria (NA), UCI Campi Bisenzio (FI), UCI Catania, UCI Curno (BG), UCI Certosa (MI), UCI Fano (PU), UCI Firenze, UCI Gualtieri, UCI Lissone (MB), UCI Reggio Emilia, UCI Montano Lucino (CO), UCI Piacenza, UCI Molfetta (BA), UCI Fiume Veneto (PN), UCI Pioltello (MI), UCI MilanoFiori (MI), UCI Verona, UCI Ferrara, UCI Fiumara (GE), UCI Roma Marconi, UCI Palermo, UCI Mestre, UCI Venezia Marcon, UCI Messina, UCI RomaEst (RM), UCI Torino Lingotto, UCI Moncalieri (TO), UCI Parco Leonardo (RM), UCI Porta di Roma (RM), UCI Porto Sant’Elpidio (FM), UCI Perugia, UCI Romagna Savignano sul Rubicone, UCI Senigallia (AN), UCI Sinalunga.
Previsti due spettacoli: uno alle 20 e l’altro alle 22:30. All’UCI Bicocca, la proiezione delle 20 sarà anticipata da un’introduzione del giornalista Paolo Vites, redattore del quotidiano online Il Sussidiario.net che ha collaborato con le maggiori testate musicali italiane (Mucchio Selvaggio, Buscadero), con l’americana “On The Tracks”, con diversi quotidiani nazionali ed è stato redattore del mensile musicale “JAM – Viaggio nella musica” dall’ottobre 1996 al luglio 2009. Vites è anche autore di monografie dedicate a Bob Dylan, Patti Smith, Clash e Cat Stevens e collaborato alle enciclopedie rock di Arcana, Editori Riuniti e Baldini e Castoldi.

Wednesday, July 10, 2013

There is a crack. In everything

Il ragazzino prese uno dei papillon del padre morto, lo slegò e vi nascose all'interno un piccolo foglio di carta sui cui aveva scritto qualcosa. Il giorno seguente, con una piccola cerimonia intima, scavò una buca e vi mise dentro il papillon nel giardino sotto la neve. "Da allora Leonard (Cohen) ha descritto quel foglio come il suo primo scritto. Ha anche detto di non ricordare cosa vi fosse scritto e di aver 'scavato nel giardino per anni alla sua ricerca. Chissà, forse io non faccio altro che cercare quell'appunto'". Comincia probabilmente così la carriera del più grande poeta canadese del novecento e uno dei più grandi al mondo, Leonard Cohen, come lo racconta la bellissima biografia scritta dalla giornalista Sylvie Simmons e da poco pubblicata anche in Italia grazie all'interessamento della casa editrice Caissa Italia (tradotta ottimamente da Yuri Garrett), "I'm your man, vita di Leonard Cohen" - 478 pagine, 25 euro. La Simmons è una delle più quotate scrittrici rock e ha potuto godere della collaborazione dello stesso Cohen.



Quella ricerca inconscia di cosa fosse scritto in quel bigliettino, quando a 9 anni di età Cohen perde il padre, è quello che in fondo tutti facciamo, poeti o no: sono quegli anni, quelli dell'infanzia e dell'adolescenza, che ci segnano per il resto della vita, nel bene e nel male. La vita è solo portare a compimento, se ci si riesce naturalmente, quello che la vita stessa ti mette davanti. Per Cohen questo è successo con la parola, prima scritta poi cantata, ricercando quel bigliettino scritto per il padre morto.

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Friday, July 05, 2013

The Most Rock 'n' Roll Rock 'n' Roll Band in the World

Qualcuno ha detto che il 1973 è stato l'ultimo grande anno del rock, poi basta. Gli anni in cui la musica rock sarebbe morta - the day that music died - sono moltissimi, grazie a Dio però risorge sempre. I Black Crowes come immagine (allampanati hippie dai lunghi capelli che sembrano usciti dalla foto di copertina del live "At Fillmore East" della Allman Brothers Band) e come proposta musicale sono probabilmente ibernati in quel 1973 reso celebre anche da uno dei più bei film sulla musica rock, "Almost famous/Quasi famosi". Sono una anomalia spazio-musicale. D'altro canto il cantante Chris Robinson è stato anche sposato con l'attrice Kathe Hudson, la protagonista di quel film là. Se qualcuno si chiede perché il 1973, è semplice: nel giro di un paio di anni sarebbero arrivati Bruce Springsteen e Patti Smith e poi anche il punk a spazzare via un certo modo di intendere il rock, imponendone un altro (che alla base è sempre lo stesso, comunque).

(Foto di Barbara Caserta)

I Black Crowes suonano quella e soltanto quella musica, quella che fa riferimento a gruppi come ABB appunto, e poi Faces, Stones, Traffic, Led Zeppelin, Humble Pie, tutte band che hanno dato il massimo dal punto di vista creativo entro e non oltre il 1973. I Corvi lo fanno con disinvoltura, freschezza, energia anche post grunge, visto che in fondo esordirono solo un anno prima di "Nevermind" dei Nirvana e qualcosa di quella carica hard rock ce l'hanno nel sangue. Lo fanno con il cuore puro, soprattutto: niente megalomanie assortite, solo l'amore indefesso per la "Musica". I sorrisi sul palco, le dita della mano che salutano con la "V" di pace & amore lo testimoniano.



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Sangue nei solchi del cuore

“Bob Dylan è in città, c’è bisogno di catturare qualcosa di magico”. La “città” è ovviamente New York, al telefono John Hammond, il più gran...

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