Saturday, September 26, 2009

Ghosts upon the road

"I'm driftin' away
Down a long dark highway
I looked back once
I can't look anymore
And if you find me
On some lonesome shore
You wouldn't have to look for more"

(Driftin' Away, Eric Andersen)

Ehi Eric, ho ricevuto una e-mail l'altro giorno. Sai quelle robe che si usano oggi per dirsi le cose. Che se però non apri il computer non saprai mai cosa ti volevano dire. Magari era il messaggio che aspettavi da tutta la vita, ma lo scoprirai troppo tardi. Ehi, amico, dicono che verrai a suonare a Milano fra qualche giorno. E come potrei mancare con tutto quello che abbiamo passato insieme. E soprattutto come potrei rinunciare alle tue canzoni. L'ha detto il tuo amico Bob Dylan, in fondo, che sei uno dei migliori autori di ballate. E io amo le ballate, quelle tristi. E nessuno ti batte in questo.


Ehi amico, mi è venuta in mente quella notte che tornavamo da un concerto, a casa di Dio come al solito, ma con te si andava sempre in cerca della casa di Dio. C'era anche il tuo amico Bob Neuwirth: certo che sentirvi spettegolare di Joan Baez fu impagabile ("Ma a te è mai piaciuta Joan?". "A me no". "Neanche a me"). Era notte fonda e a un certo punto ti mettesti a gridare angosciato che dovevamo fermarci immediatamente. Vedevi fiori lungo il ciglio della strada. Fiori dappertutto. E' un segno, dicesti, qualcuno sta per morire.

E tu di amici che sono andati via per sempre ne hai avuti. Tanti. Anche io. E' il prezzo che si paga a vivere sulla strada, e di strada ne abbiamo fatta io e te. Come Townes Van Zandt. Mi ricordo ancora quando me lo presentasti. Ero entrato nel vostro camerino, c'erano bottiglie di grappa e vino dappertutto. Ti alzasti e gentilmente prendesti Townes per la mano, che da solo poverino faceva fatica a stare in piedi. Mi presentasti a lui in gran spolvero, "Questo è Paolo, scrive per importanti music magazines, sai del livello di Rolling Stone". E certo, on the fucking cover of the fucking Rolling Stone, come si diceva negli anni 70. Tu non ci sei mai finito, Eric, sulla copertina di Rolling Stone, quando ci finivano cialtroni che non se lo meritavano. E io, ma che giornalista, sono sempre stato solo una brutta imitazione di quelli veri.
Ehi Eric, ti ricordi quando stavamo alzati tutta la notte a casa mia, manco il computer usavamo. Una vecchia macchina da scrivere per buttare gù poesie e storie improbabili. Tu mi dicevi di leggerti la traduzione, dicevi che leggevo bene, che nella mia voce c'era il ritmo della musica. Dicevi continuamente, mentre accendevi una sigaretta, tiravi due boccate, l'appoggiavi al portacenere e senza neanche spegnerla ne accendevi subito un'altra: "Amo Milano, c'è la stessa energia che si respira a New York". Sarà, pensavo, ma se guardavo fuori dalla finestra non vedevo certo il panorama di downtown Manhattan. O del Village.

E quella volta che siamo andati in Duomo. A registrare un po'di spoken word. Che ridere. Ricordo che attaccasti a leggere la tua Sex with You, sesso con te, mentre il prete sull'altare alzava l'Eucarestia. Che tempismo pensai. Devo avere ancora quei nastri da qualche parte. Che meraviglia l'organo in sottofondo e la tua voce calda che declama. Ti ricordi quella notte, notte fonda, fuori del tuo albergo. Io, quindici anni fa, con gli stessi problemi che mi tiro addosso ancora oggi, che ti parlavo. Tu che rispondevi, come potete fare solo voi americani, perché sì, si possono anche fare le traduzioni, ma non è la stessa cosa. Per voi le canzoni sono davvero la vita. Tu che mi dicevi scrollando le spalle e guardando nel grande buio: "Strike another match, go start a-new". Mi sa che quel fiammifero non l'ho ancora acceso, Eric. Va bene lo stesso? It's life and life only, in fondo. And I'm bleeding.

Così stasera son venuto a sentirti ancora una volta. Quando è stata la prima volta, qundici o più anni fa? Ricordo quando ci incontrammo. Entrasti nel salotto di quegli amici senza avviso. Dio come è alto pensai. I lunghi capelli sul viso e sulle spalle. Ci credo che le donne lo chiamavano handsome devil, da giovane. E' meglio di Brad Pitt anche adesso che ha 50 anni. Adesso di anni ne hai 66 e sei proprio il ritratto di Dorian Gray, cazzo. Ti odio. No, è solo invidia. Sul palco con te a cantare c'è la tua nuova mogliettina. Ho perso il conto: è la numero cinque o la numero sei? Ma perché ti devi risposare ogni volta Eric, tanto lo sai come va a finire. No non lo sai come andrà a finire ogni volta, dici.
Ti sento cantare Moonchild River Song, Sheila, e tutto ha un senso. Mi hai sempre detto, l'importante è combattere fino in fondo la buona battaglia, il resto non conta. Non lo so Eric. Io non ho più voglia di combattere battaglie. "Stai andando in pensione dalla vita?" mi chiedi. Uh hai ragione. Dalla vita non ci si può astenere. Forse la buona battaglia è la vita stessa. Ma vederti ancora una volta sul palco è la cosa più sensata del mondo, stanotte.
Questa notte che torno a casa appena prima che scoppi un'acquazzone bastardo. Mi affaccio alla finestra per l'ultima sigaretta e no, neanche stanotte lì fuori ci sono le luci di Manhattan. Per metà del concerto hai continuato a fare il mio nome, ringraziando. Non dovevi, non importava, ma grazie a te. Ricordo quella notte, anzi era già l'alba, anni fa. Nell'unico bar aperto in centro a Milano poche ore prima di portarti in aeroporto. "Back to the real life", dicesti. Si torna alla vita reale. Forse è questo il problema. Ci ubriachiamo di sogni e canzoni per vivere una vita che poi non è la realtà. Ma poi la vita stessa ci costringe sempre a tornare alla realtà, back to the real life, che ci piaccia o no.
Guardo fuori della finestra e vedo fantasmi. Ghosts upon the road. Forse stanotte un di loro verrà a prendermi e portarmi via. Ci sarà un altro a combattere la battaglia al posto mio. Io torno alla vita reale. Qualunque essa sia. Ma tu non smettere di cantare le tue ballate, Eric: "I love to sing my ballads but they want me to rock'n'roll". Sei il migliore, in quello. E non solo.

(La foto in concerto è di Mariella Scarpelli; quella mia con Eric di Clara Zambetti)

Friday, September 25, 2009

He is creep!

Se c'è qualcuno che lo fa prima e meglio di te, che bisogno c'è di fare un nuovo post. Da questo post sottolinkato possiamo prendere atto di un grande esempio dell'alto spessore della traduzione italiana di Creep dei Radiohead, un tempo il manifesto generazionale degli anni 90 insieme a Smells like Teen Spirit diventata adesso l'inno del "nanana" de' noiatri.
Rebloggare is cool:

http://blondeinside.tumblr.com/post/196564668/guarda-che-lo-so-when-you-were-here-before-che

E ci aggiungo anche questa:

http://blondeinside.tumblr.com/search/vasco+rossi+

She is blonde, but she is smart. And I like her.
(http://blondeinside.tumblr.com/)

Thursday, September 17, 2009

La stagione delle onde lunghe

I don’t know you
But I want you
All the more for that
Words fall through me
And always fool me
And I can’t react
And games that never amount
To more than they’re meant
Will play themselves out

Take this sinking boat and point it home
We’ve still got time
Raise your hopeful voice you have a choice
You’ll make it now

(Glen Hansard, Falling Slowly)
Volevo intitolare questo post "last night a record saved my life", perché è una di quelle frasi che hanno fatto la mitologia del rock'n'roll e soprattutto perché vorrei tanto che bastasse un disco rock a salvarci la vita. Invece l'ho intitolato con quella che credo sia la traduzione giusta (perché la parola "swell" ha un sacco di significati diversi) del nome del gruppo che attualmente amo di più, gli Swell Season. E se non è la parola giusta, a me quella che ho individuato piace lo stesso, perché fa venire in mente l'oceano che bagna tormentato le coste della loro Irlanda.
Loro sono Glen Hansard e Marketa Irglova, i meravigliosi protagonisti del film che, dopo Colazione da Tiffany, è per chi scrive il più bel film di sempre. Cioè Once. E già la colonna sonora di quel film, da loro scritta e interpretata, è nei miei vari lettori - casa e macchina - da più di un anno in replay costante, adesso è arrivato anche il nuovo disco.
Si intitola Strict Joy, da un lavoro del poeta irlandese James Stephens, che è uno che come Hansard, la Irglova e il sottoscritto adora le canzoni tristi, come si deduce appunto dalla sua poesia Strict Care, Strict Joy: ""Il mio cuore è spezzato e la mia mente triste"; Era certamente vero quando lui cominciò la sua canzone, era meno vero quando l'ebbe finita".
Come si diceva qualche post fa, le canzoni tristi hanno il potere di allontanare la tristezza stessa. O almeno renderla più lieve.
Glen e Marketa cantano l'amore triste come nessun altro, facendo della malinconia un inno positivo al cuore che anela alla bellezza eterna. Il nuovo disco - che esce il 28 settenbre - è il disco che Van Morrison non riesce più a fare da trent'anni. Non dico altro, se non che il 21 novembre saranno in concerto a Milano. Pirla chi se li perde.

Ma ci sono altri bei dischi in questo autunno incipiente che si prospetta bagnato e triste come piace a me che si danno da fare per salvarmi la vita. Poverini, loro ci provano e io li ringrazio. Ho riscoperto (spinto dall'ascolto del loro ultimo lavoro)un disco che avevo snobbato anni fa, Straightaways dei Son Volt. Di una bellezza oscena. Come far urlare le chitarre elettriche ma essere tristi da morire. Jay Farrar sa una cosa o due della tristezza, e questo loro disco non è inferiore a nessuno di quelli bellissimi che ha fatto il suo ex amico negli Uncle Tupelo, Jeff Tweedy.
E poi ascolto tristi cantautori indie (oddio, musica indie... per me questa è quasi una bestemmia...) grazie alla mia nuova pusher, la splendida Diana della lontana Catania - che fa quasi rima. Adesso mi sto intrippando di un tipo bizzarro, l'uomo più alto della terra, sì lo svedese The Tallest Man on Earth: il suo disco del 2008 è anch'esso di una bellezza oscena. E mi avvicino con timore al nuovo di Micah P. Hinson, giusto però perché è una raccolta di cover, da Dylan a Cohen a Frank Sinatra e Beatles (ne parla anche l'amco Maurizio nel suo blog, http://tornoaivinili.blogspot.com/2009/09/micah-p-hinson.html). Eh. Indie sì, ma con moderazione.

Sarà una stagione dalle onde lunghe. State tristi, state felici.

Monday, September 14, 2009

Goodbye, catholic boy

"A 13 anni, Jim Carroll scrive meglio dell'ottantanove per cento dei romanzieri di oggi"
(Jack Kerouac)

A 60 anni, invece, Jim Carroll ha pensato di togliere il disturbo. E' una buona età per morire, 60 anni: hai comunque vissuto una vita lunga e non corri il rischio di diventare un vecchio incapace abbandonato da tutti. Una vita che Jim aveva comunque già corso il rischio di finire a 13 anni, tossicodipendente devastato, avanzo degli avanzi di New York nonostante fosse stato a un passo da diventare eroe della pallacanestro. Ma con un dono prodigioso, quello di saper scrivere. Jim entra nel campo di basket (The Basketball Diaries, publicato nel 1978) è il suo capolavoro, diventato anche un film interpretato dal nanerotttolo di Titanic, Leonardo Di Caprio.
Ma già a fine anni 60, poco più che tredicenne appunto, scriveva, recitava e pubblicava poesie: era nel giro dei poeti rock underground che gravitavano a St. Mark, tra cui Patti Smith. Nel 1978 mise su anche una rock band, la Jim Carroll Band, con cui pubblicò alcuni album, tra cui l'imperdibile Catholic Boy del 1980, che comprendeva il suo inno, People Who Died (canzone che si può sentire anche - huh - nel film E.T.).

E' morto nella sua casa di Manhattan il giorno 11 settembre. Un grande giorno per morire, se sei newyorchese purosangue come lo era Jim. Lo hanno trovato, colpito da infarto, alla sua scrivania. Stava scrivendo, come aveva fatto per tutta la sua vita. Adesso c'è un angelo in meno sulla terra e ce n'è uno in più su nel cielo. Adesso cè un nome in più da aggiungere alla lista della "gente che è morta", people who died, quello di Jim:

Mary took a dry dive from a hotel room
Bobby hung himself from a cell in the tombs
Judy jumped in front of a subway train
Eddie got slit in the jugular vein
And Eddie, I miss you more than all the others
And I salute you brother

Those are people who died, died
They were all my friends, and they died

Saturday, September 12, 2009

Una sera, al Garden

"You don't fuck with New York City"
(Mick Jagger)


L'anniversario di uno dei più devastanti, violenti, inumani e osceni momenti che la storia moderna, dopo la fine della II Guerra mondiale, abbia conosciuto è passato ieri con ormai ben poca notizia. Anno dopo anno, quello che è successo l'11 settembre 2001 suscita sempre meno interesse. Dimentica in fretta l'uomo moderno dei tempi moderni. Io, come ogni anno, ho tirato fuori un bootleg di Bob Dylan. Lo ascolto spesso, ma soprattutto lo ascolto ad ogni 11 settembre.

In the name of love
C'erano stati immediatamente, da parte del mondo della musica rock, dei momenti di tributo e celebrazione, per le vittime e per gli uomini impegnati nei soccorsi. Ad esempio la maratona televisiva del 21 settembre 2001 a cui presero parte Springsteen, Neil Young e tanti altri. Il 20 ottobre,poi, altri grandi nomi del rock, da Bowie agli Who, da Keith Richards a Mick Jagger a Elton John, si esibirono sul palco del Madison Square Garden. A tutti e due gli eventi, e a ogn altro, mancava solo lui, Bob Dylan. Si alzarono voci indignate, nei media e nei fan: a quello non frega mai niente della solidarietà e dell'impegno civile.


Lonesome day blues

Bob Dylan si materializzò a New York la sera del 19 novembre ancora al Madison Square Garden. Era solo un'altra tappa del suo never ending tour, diventò un momento epocale. Nessuna dichiarazione su quanto successo l'11 settembre, nessuna particolare novità nella scaletta rispetto alle tante altre date. Quel tour, dell'autunno 2001, vedeva la presentazione di un suo nuovo disco uscito - guarda un po' - proprio l'11 settembre. Un disco che, ascoltato col senno di poi, faceva rabbrividire per le inquietanti profezie al suo interno: "Il cielo è pieno di fuoco, il dolore scende giù come pioggia". Oppure: "Ti battezzerò col fuoco così che tu non debba più peccare".O ancora: "Quando lasciai la mia casa il cielo si spaccò in due".
Già i precedenti concerti di quel tour avevano rivelato un Dylan in profondo stato di grazia. Ma quello che il pubblico avrebbe visto e sentito quella sera a New York, nessuno poteva prevederlo.

In the garden
Wait for the light to shine, e i fantasmi di Hank Williams e Bill Monroe, dei Greyhound bus o di Cadillac nere, dei fiumi e delle pianure di un'America che ancora crede nella promessa si spalancano appena il cantante attacca il pezzo. Ma stasera la domanda che ne esce è incalzante: "keep look for a sign", continua a cercare un segno. Che di questi tempi i segni ce li hanno negati tutti.
Le note sono apppena sfumate che dolcissime chitarre acustiche cominciano a danzare. Sembrano non finire mai, poi quella voce eteriorata da troppe sigarette, bottiglie di whiskey e tanto dolore esce fuori, densa di commozione e precisione cone non mai. "Non sono io quello che stai cercando bambina, non sono io". E' la canzone definitiva del "lasciami solo, tu non mi mi meriti", ma stasera è tutt'altro, anche se certo disprezzo per chi fa le "maratone televisive" e tutto l'apparato di marketing che in fondo c'è dietro sembra trapelare. "Non sono io quello che va a farsi pubblicità in televisione", senbra dire Dylan. La voce si arrotonda su se stessa e piange, piange qualcosa di sconosciuto e indefinibile. E' poi incalzante, la voce, non lascia misericordia e non ne chiede. Qualcuno ha detto che non è Bob Dylan fino a quando l'armonica non balza fuori. E allora lui si avvicina al suo bassista, da un amplificatore ne tira fuori una e si lascia andare a un ballo cosmico, che non vorrebbe terminare mai. Se la versione di It Ain't Me Babe del 1975, con quella rabbia e senso di vendetta rimane epocale, rimane superlativa, quella di stasera è probabilmente la versione insuperabile e definitiva. L'assolo di armonica è rivolto per il pubblico dietro al palco, per quelli là in alto e per quelli là sotto. Per la gente di New York. Che risponde con un boato che si sente fino a Ground Zero.

Honest with me
"Sei andato a sentire Bob Dylan al Madison Square Garden?" chiede nel film di Woody Allen Io e Annie Shelley Duvall al protagonista. "Dylan cantò Just Like a Woman e fu davvero....". Woody Allen storce il naso, lui per il quale i cantanti rock sono poco più che cani. Questa sera Bob Dylan ripropone Just like a Woman: commovente non è abbastanza, è trascendente, e anche Woody Allen, se fosse stato qui stasera, avrebbe lasciato andare qualche lacrima.
Il concerto prosegue, memorabile, intenso,appassionato come raramente si è potuto sentire. Dopol'usuale sarabanda festosa di Rainy Day Women, il cantante presenta la sua band, "the best band in the land", Poi si ferma per qualche secondo. Guarda nel buio, "a million faces at my feet but all I see are dark eyes", e dice: "La maggior parte delle canzoni che stiamo suonando stasera furono scirtte qui (a New York) e quelle che non lo furono, furono registrate qui. E allora nessuno dovrebbe chiedermi che cosa provo per questa città". Il Madison Square Garden esplode in quello che non è un applauso, ma un pianto collettivo. Come scrisse qualcuno il giorno dopo questo concerto, "Bob Dylan came home last night, and while the setlist might look very much like every other setlist on this tour, in everything he did, every word he sang, every little gesture, let the audience know how much New York means to him".
Poi, calate le luci e inforcato il cappellaccio da cowboy, Bob Dylan se ne andò verso un'altra città della sterminata America, portando con sé i fantasmi dell'11 settembre ogni sera che sarebbe salito sul palco.

Wednesday, September 09, 2009

9/9/9

Beatles for sale
Oggi è il 9-9-9, nove settembre 2009, che rovesciato, come facevano talvolta i Beatles, potrebbe essere 6/6/6, cioè il numero del diavolo. Oddio, i ragazzi che hanno scritto Helter Skelter di queste cose se ne intendono. Credo che oggi sia stata la prima volta che mi sono recato in un negozio di dischi (leggasi megastore, che i negozi di dischi non esistono più) nel giorno dell'uscita di un disco dai tempi in cui uscì Under the red Sky di Bob Dylan, 11 settembre 1990. Come facevamo a quei tempi lì a sapere la data esatta di uscita di un album non chiedetemelo perché oggi non ne ho la più pallida idea.
Insomma, oggi non è proprio il giorno di uscita di un nuovo disco, che si tratta delle ristampe di dischi uscite quasi 50 anni fa, quelli dei Beatles. Ma è stato bello compiere un gesto così. Alla cassa, prima di me, un signore sulla sessantina vestito elegantissimo con baffoni tipo "the walrus" che pagava emozionato il cofanetto Beatles edizione mono; dietro di me un cinquantenne atrettanto elegante ma che sembrava Brian Ferry che stringeva nelle mani il cofanetto versione stereo. In mezzo io, che dati i limiti del mio budget, mi apprestavo a pagare solo quattro cd, e cioè Abbey Road, Help!, Rubber Soul, Please Please Me. Anche perché, va bene la figata di queste confezioni rimasterizzate, ma non si possono comprare i cd due o tre volte o anche più solo perché le strategie marketing delle case discografiche o di chi per esse sono della serie "succhiamovi il sangue per l'eternità, o voi coglioni che vi piace la musica".
Ovvio che sarò in full immersion per le prossime settimane, adesso. A questi ci aggiungo un paio di cd che questa estate, libero dagli assilli, ho riscoperto dopo che ai tempi li avevo considerati "minori": Essence di Lucinda Williams, No More We Shall Apart di Nick Cave. L'amore nelle sue due declinazioni: la perdita e la passione. Meravigliosi (per la cronaca, ascolto tantissimo anche Time Out of Mind di Dylan in questo periodo: l'amore in tutte le sue declinazioni in una sola confezione).


Do I look like a rock star?

Dal tabaccaio, prima di rientrare a casa, mentre compravo la mia dose quotidiana di droga, il tipo mi guarda e fa: "Lei suona la chitarra?". "No, io le chitarre le ascolto soltanto". Per chi mi avrà scambiato, Keith Richards?

La Nanda
Ieri sera cercavo un libro sullo scaffale. Mi sono capitati tra le mani due volumi che avevo dimenticato di avere. Me li regalò la Pivano anni fa, dopo una serata in cui lei era stata contenta più del solito. Uno è Motel Chronicles di Sam Shepard. Non è un gran libro, anche a lei non doveva essere piaciuto granché, perché la sua dedica che mi fece quella sera dice. "Caro Paolo, chissà se questo vecchio libro ti piacerà. Mah".
L'altro libro è Beat Hippie Yippie. Lo scrisse lei. La dedica qui mi ha tirato fuori un paio di lacrime, ma come dice qualcuno io sono un frignone del cavolo. E' vero. Dentro c'è scritto: "Caro Paolo, tu lo sai come ci si diverte a scrivere - e a vivere - queste cose". E' vero. Magari si paga un prezzo, ma chi ha voglia di vivere come fanno tutti. Mi manca la Nanda.

Monday, September 07, 2009

Showtime

Quando le case discografiche avevano i soldi, si facevano gli showcase. Cioè, un artista esordiente veniva appositamente in Italia a farsi conoscere con un breve concerto solo per gli addetti stampa (che in cambio - e anche del disco, ma soprattutto delle ampie libagioni che facevano parte del pacchetto - ovviamente ne avrebbero decantato le lodi).
Ne ho visti diversi. Ricordo la Dave Matthews Band, credo fosse il 1994 o il 1995. Allora nessuno li conosceva (anche adesso, sono sempre per pochi intimi nonostante il recente concerto di gran successo a Lucca). Al pomeriggio incontrai tutta la band per una intervista. Simpatici, modesti, carini. Grande Dave quando gli citai l'enorme successo di un altro - allora - gruppo esordiente, i Counting Crows: "Noi ci siamo fatti le ossa suonando dal vivo per anni. Quelli hanno fatto un disco senza manco saper suonare" (dicono che i CC non sappiano suonare ancora oggi). Alla sera concerto in una tetra e triste discoteca. Un gruppetto sparuto di giornalisti e un vociferante (e ubriaco) gruppo di ragazzi americani, venuti apposta dalla NYU di Firenze, per fare numero, e perché fan di un gruppo che in America già spopolava. Così caldi che scoppiò anche una rissa tra di loro con Matthews che si dedicò a sedarla. Bel concerto davvero. In omaggio ai cronisti anche una confezione di biscotti americani. Non sto scherzando. Insieme alla DMB si cercava di promuovere anche quei cosi schifosi, c'era un negozio che aveva appena aperto a Milano.


Alla vecchia sede del primo Zelig, quel bel localino sui Navigli, vidi - 1997 circa - lo showcase di Jewel. Eravamo in tanti quella volta. Lei mi apparve come pensavo: nonostante qualche buontempone si fosse divertito a definirla la nuova Joni Mitchell, per me era e rimane una delle più sopravvalutate sciacquette dell'era moderna. Mi piaque solo quando partì l'amplificazione e lei con il suo visetto d'angelo se ne uscì con un appropriatamente italiano "vaffanculo".

Di ben altro spessore, sempre in quel periodo lì, Natalie Merchant, che non era una sconosciuta, ma veniva a presentare il suo esordio solista. Concerto rovente, con una fascinosissima chitarrista donna biondissima e dalle hot legs, l'allora ex batterista dei Wallflowers e Jon Landau, suo manager, che si aggirava per il locale con il suo sorriso piacione. Natalie fu fantastica, ovviamente, specie in una resa incandescente di Sympathy for the Devil degli Stones. Il vino fu ottimo anch'esso, e ne scorreva parecchio quel pomeriggio all'Osteria del treno.

Ricordo Fiona Apple, allo Shocking: si erano mossi tutti ma proprio tutti per lei. Era stata portata qui come the next big thing, non credo sia mai più venuta a suonare in Italia. Show carino, anche se il commento di molti di noi alla fine fu: prima di fare incidere un disco a un'esordiente, fatele fare un po' di gavetta. Aveva dei bei capelli però.

Ne ho visti altri, anche di star stagionate che venivano qua per un improbabile comeback: Donovan, a cui saltò pure a lui l'amplificazione, ma non si perse d'animo e sceso in mezzo a noi continuando a cantare e a suonare. Ma soprattutto ricordo una band su cui non avevo scommesso granché, ma al cui showcase mi divertii parecchio. Sarà stata anche la presenza di qualche fotomodella, una delle quali avevo portato personalmente allo show, e gli ottimi gin tonic che venivano distribuiti, ma Hootie And The Blowfish in quel minuscolo localino ai piedi della Torre Velasca (un angolo di Milano che faceva molto Manhattan, infatti il localino non c'è più) furono una rivelazione. Niente di memorabile certo, soprattutto come autori, ma come ci davano dentro con gusto: era come se stessero suonando per 50mila spettatori invece di 50, e il finale con una lunghissima e devastante Mustang Sally ce l'ho ancora nel cuore.

Come diceva quello, old times, good times...

Friday, September 04, 2009

L'inferno del rock'n'roll


“Almeno una volta al giorno, tutti i giorni, dal 10 settembre 1979, io ripenso a quel concerto memorabile, forse il migliore, ma sicuramente il più potente di tutta la mia carriera artistica”

(Patti Smith)

“Ne ho abbastanza. E’ finita”. Sono le parole che Patti Smith, la sera del 10 settembre 1979, pronuncia tornando in albergo dopo il concerto tenuto allo stadio di Firenze. E’ il suo primo tour italiano, sarà anche il suo ultimo concerto per sedici anni. La cantante americana, l’ex poetessa della Bowery che aveva esordito nei primi anni di quel decennio declamando poesie nella chiesetta di St Mark a Manhattan, e che è diventata in pochissimo tempo la più acclamata star al mondo, da alcuni definita madrina del punk, sta per stupire tutti con un ritiro dalle scene che ha pochi paragoni.

“L’Italia” ricorda Patti Smith “fu il primo paese al mondo dove ebbi un’accoglienza degna di una grande star del cinema. Mi trovavo di fronte a centinaia di telecamere, di macchine da presa e pensavo: Staranno aspettando qualcuno di veramente famoso. E invece erano lì per me”.

Ma l’Italia del 1979 è anche un paese dove si bruciano gli ultimi fuochi di una devastante stagione politica sfociata nella violenza e nel terrorismo. Quando sale sul palco a Bologna e a Firenze, invece di un normale servizio d’ordine, Patti è scortata da studenti con le pistole in mano. Quando si esibisce, la Smith è solita far stendere dietro di lei sul palcoscenico una grande bandiera americana. Non è un gesto politico, ma di appartenenza: “Sono un’artista americana” aveva rivendicato a inizio carriera. Qualcuno, prima del concerto la consiglia di non farlo: “Sarebbe stato pericoloso issare la bandiera. Riflettei su quelle parole “ha ricordato la cantante. “Il nostro chitarrista Ivan Kral era un rifugiato politico (fuggito da Praga). Stavamo suonando in una zona amministrata dai comunisti. Avevamo ricevuto minacce di bombe e minacce di morte. Teste calde idealiste che odiavano l’America. Feci chiamare mio fratello. Era lui il custode della bandiera, era lui che la issava e l’ammainava dal palco, la piegava e l’impacchettava. Tutto con il dovuto rispetto. Gli riferii ciò che mi era stato detto. Lui si accese una sigaretta e guardò giù: ‘Scateniamo l’inferno’ disse”. E inferno fu, quello del rock’n’roll, forma d’arte che non si è mai piegata ai ricatti delle ideologie.
Io c'ero. Ho dei ricordi vaghissimi, lo stadio era una bolgia infernale. Si sentiva malissimo. Ricordo quella piccola figura di donna che sventolava una enorme bandiera americana. Era il mio primo vero concerto rock, e probabilmente è stato anche l'ultimo vero concerto rock. Dopo, solo nostalgia e leggende di passaggio dall'Italia a racimolare gli spiccioli della loro giovinezza ormai finita. Il 10 settembre Patti Smith replica, a trent'anni dall'evento, a Firenze in una piccola piazza cittadina. Chissà se tirerà ancora fuori quella bandiera americana, adesso che suo fratello non c'è più. D'altro canto, oggi non ci sono più neanche i comunisti. E il rock'n'roll, manco quello.

(Le foto in questo post sono del concerto del 10 settembre 1979 a Firenze)

Sangue nei solchi del cuore

“Bob Dylan è in città, c’è bisogno di catturare qualcosa di magico”. La “città” è ovviamente New York, al telefono John Hammond, il più gran...

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