Thursday, January 27, 2011

Cose da fare con la febbre

Well, they say
that Santa Fe
Is less than ninety miles away,
And I got time to roll a number
and rent a car.
Oh, Albuquerque.

I've been flyin'
down the road,
And I've been starvin' to be alone,
And independent from the scene
that I've known.
Albuquerque




Mi ha sempre colpito la storiella raccontata dalla stesso Neil Young, di quando scrisse Cowgirl in the Sand con 39 di febbre. Io con 39 di febbre – e oggi ne avevo 38 e poco più – sto disteso a roteare gli occhi verso il soffitto. E impreco. Ma ho precise sensazioni di distacco dal corpo, la mente che se ne va altrove. Per cui non ho dubbi che una personalità geniale come Neil Young possa scrivere una canzone memorabile con 39 di febbre. E’ così che anche oggi sono finito in quel territorio, tra occhi stanchi e Albuquerque.

A sfatare la teoria che quelli che riteniamo i più grandi dischi della storia siano quelli che abbiamo ascoltato in particolari condizioni, specialmente durante la nostra adolescenza, dischi i quali ci restano dentro per sempre per un legame affettivo più che per un giudizio oggettivamente critico, Time Fades Away e Tonight’s the Night all’epoca, gli anni 70, li odiavo cordialmente. Erano la bruttura fatta musica, specialmente per chi riteneva le sonorità di Harvest le perfette sonorità che fanno un disco grande-grandissimo. Era quello che dicevano (e ancora dicono, peraltro) tutti: Harvest “è” il disco perfetto di Neil Young. In quei due dischi invece c’era tutto quello che non va in un disco: il primo, un live, conteneva solo pezzi inediti e manco un brano noto, insomma non era la classica raccolta di successi in scintillante veste live. Il secondo era la stonatura fatta canzone, l’accidente fatto sound, la bruttezza sonica, canzoni che erano scempi di canzone. Mi ci sono voluti decenni per capire che, insieme a On the Beach, in realtà si trattava di una trilogia straordinaria, i tre dischi migliori di Neil Young e tre dei più grandi dischi di tutti i tempi. Ne ho parlato già altrove, tempo fa.

Ma certo che la febbre dà capacità audio tutte sue. Per cui, in una mossa dettata non da me stesso ma da un altro me stesso che abitava oggi il mio cervellino assalito dalla febbre, ho ripescato la versione gold su cd di Time Fades Away (eh sì lo so non è mai stato ristampato su cd... invece no, Young ne assemblò una rimasterizzazione da urlo anni fa, poi decise di non farla uscire più sul mercato. Ne esiste una copia sola al chiuso di una nascostissima cassaforte, ma sarei io il più grande critico musicale dell’universo se non ne avessi una copia? Lo sarei lo stesso, però c’ho anche una copia di Time Fades Away rimasterizzato su cd) che per un momento nel panico non riuscivo più a trovare, e ho mandato in loop per mezz’ora circa Last Dance. Il più terrificante urlo di disperazione probabilmente raccolto su cd, con quell’impestato riff di chitarrone e quel fottutissimo godurioso drumming di Johnny Barbata che non c’è mai più stato un batterista così. Per buona misura ho messo su anche Don’t Be Denied, che già mi piaceva trent’anni fa. E tanto fa tanto che il mio viaggio psyco-febbrile mi ha portato a estrarre un altro cd. Tonight’s the Night sarebbe stato troppo scontato, ma in realtà non ero io a decidere quali cd tirare fuori oggi pomeriggio. Così mi si è infilato nel cd player un bootlegaccio, live in Miami 1973 della premiata “Too Drunk Too Fuck” label (più che una label, un motto: il mio). Dentro c’è praticamente tutto Tonight’s the Night dal vivo – già lo sapevate – ma ancora più terrorizzante di quello in studio. Come spacca. L’anima. Il cuore. E qualcos’altro. Un Concerto come Questo. E mi fate ridere, davvero ridere, voi che vi eccitate con quanto esce su disco o ascoltate dal vivo nel 2011. Era il 1973, l’ultimo anno di grazia del rock’n’roll e lo so che London Calling sarebbe uscito nel dicembre 1979 così facciamo una eccezione. Era uno degli ultimo colpi fantasmagorici del rock’n’roll. Ok, perché doveva ancora venire Patti Smith.

Così sto ancora viaggiando tra Albuquerque, e mi rollo un altro “numero” prima di prendere la strada. Ho fatto fuori la mia carta di credito per un pieno di illusioni, gli occhi stanchi, stanchissimi. Baby mellow my mind. Che neanche tu baby puoi farlo. Solo la musica può farlo. Per cui portami ad Albuquerque e lasciami lì. E fai che la febbre non mi passi mai più.

Sunday, January 23, 2011

Sunday Morning Music - God's own producer

You know you have the blues first and then you play everything else. That’s like the base, that’s the chicken stock. Which it is. Blues is the basis of rock and roll. I mean that from blues came rock and roll and reggae came... aah, a whole lot of... that and bluegrass is two kinds of music that is America’s claim to fame... and country music.
(Gregg Allman, in una intervista con Paolo Vites)


T Bone Burnett, Curriculum vitae (ma c’è di più, molto di più): suona la chitarra nella Rolling Thunder Revue di Bob Dylan nel 1975 e 1976. Forma l’Alpha Band con cui pubblica un paio di buoni dischi di country-glam-rock. Pubblica diversi ottimi dischi solista tra cui l’eccellente album che porta il suo nome, nel 1986, The Criminal Under My Own Hat, 1992, e il recente Tooth of Crime, 2008. Produzioni (alcune): Los Lobos, Counting Crows, Walflowers, Tony Bennett, Natalie Merchant, kd lang, Alison Krauss e Robert Plant, Elton John, BB King, Elvis Costello, Secret Sisters, John Mellencamp, Cassandra Wilson, Gillian Welch, Bruce Cockburn, Kris Kristofferson, Jakob Dylan. Gregg Allman. Colonne sonore, tra le tante: O Brother, Where Art Thou?

Nota: i dischi da lui prodotti hanno spesso vinto Grammy e venduto milioni di copie.

Nota mia: è il più grande produttore americano dai tempi di Phil Spector. Tutto quello che tocca, diventa gemma splendente. Immaginatevi un disco di Bob Dylan da lui prodotto.



Adesso l’ha fatto con Gregg Allman. Il nuovissimo Low Country Blues è la cosa migliore che il leader della Allman Brothers Band abbia inciso dai tempi di Brothers and Sisters della ABB (1973…). Solo T Bone Burnett poteva far sembrare Gregg Allman una sorta di Ray Charles, e già che Gregg ha una delle voci più belle della storia della black music americana. Ma T Bone gli ha costruito l’ambientazione perfetta, dopo tanti dischi inutili che il vecchio Gregg aveva fatto: dispiego di sezione fiati alla Ray Charles ma anche Frank Sinatra; chitarre torride come non se ne sentivano dai tempi in cui Muddy Waters suonava a Chicago negli anni 50; l’Hammond di Gregg Allman finalmente in primo piano. E una selezione di canzoni sontuosa, da vecchi classici del blues a oscure rivisitazioni, fino a sciccose interpretazioni stile Fats Domino. Un disco totale. E’ questa l’arma segreta del più grande produttore della storia della musica americana dopo Phil Spector, uno che non sbaglia mai: saper individuare quali sono le canzoni di cui l’artista ha bisogno e dare loro il tocco musicale che meritano. Tutto il resto è gloria. Di T Bone burnett e di Gregg Allman che con il suo Low Country Blues mi tocca segnalarlo come un altro grandissimo disco di questo 2011 che mi porterà all’esaurimento. Troppa bella musica. Musica della domenica mattina, tiene lontani i demoni, fa scendere giù gli angeli.


http://www.youtube.com/watch?v=SClxBdpLt7E

Wednesday, January 19, 2011

Roma capoccia

Ti ricordi quella strada, eravamo io e te


Io me le ricordo, le strade di Roma. Quando la scuola cominciava ancora il primo ottobre, e noi ragazzi si passava il mese di settembre a casa delle zie romane. Io mi ricordo i cartocci di olive verdi dolci giganti che così buone non ne ho mangiate mai più. E mi ricordo i supplì, nella rosticceria dietro l'angolo, che anche quelli di così buoni chi li ha mai ritrovati.

Io me la ricordo, Roma immensa, i musei vaticani e il Colosseo, i fori imperiali e le terme di Caracalla e la parata dei bersaglieri a Porta Pia quella domenica del 1970, cento anni dalla presa di Roma pontificia, con il mio cuginone grande che poi se n'è andato per sempre. Io mi ricordo una città che mi faceva paura, così paura che non ho potuto fare a meno di amarla da morire.

Io mi ricordo, seduto al tavolo di cucina con mia sorella che ascoltava da un registratore a cassette canzoni strane, ma che mi inquietavano Lilly, di che sarà morta mai e perché senza denti? Penna sfera e Compagno di scuola, soprattutto. Compagno di scuola: io mi ricordo la nostalgia per qualcosa che ancora non avevo vissuto ma dentro al cuore sentivo inevitabilmente inconsciamente essere il mio destino. Nostalgia del futuro.

Io mi ricordo, una mattina di primavera, saltare la scuola, prendere il Ciao giallo e correre fino a Sestri Levante con l'aria fredda del mattino e il sole che sorgeva sopra la Baia del Silenzio, il cuore commosso per la belleza di sentirsi vivi in tanta bellezza. Su in motorino fino alla casa di questa professoressa, il cui figlio adesso ha l'età che aveva lei la mamma allora, ed è davvero la vita un gioco del cerchio infinito. Una professoressa che ci accoglieva sempre, noi sbandati di una generazione nata troppo tardi per il '68 e troppo presto per il '77, ma tanto riuscimmo in qualche modo a farli tutti e due, anche se male. Ci accoglieva sempre, a patto che l'indomani, va' che a scuola ci vai o telefono ai tuoi genitori. Poi tre giorni dopo eravamo di nuovo lì da lei. E io mi ricordo quella mattina che ero lì nella sua cucina di questa casa in mezzo ai boschi da cui vedevo tutto il Golfo del Tigullioe mi venivano le lacrime per la bellezza. Mentre lei preparava il caffè e la radio accesa e questa canzone, che sembrava stupida ma non lo era. Sara svegliati è primavera. E poi sta' attenta, ricordati che aspetti un bambino. Lei che scuoteva la testa, "guarda un po' ormai si dà per scontato che si può rimanere incinta che non hai manco 18 anni". E quando qualche mese dopo la ragazza dell'altra sezione, a scuola, che non aveva 18 anni, arrivò a scuola col pancione, capii allora per la prima volta che le canzoni rock (vabbè, anche quelle italiane, che non sono mai rock del tutto) dicevano la verità, sempre. Io me lo ricordo, e ancora oggi vale questa regola.

Io mi ricordo quella mattina dell'anno della maturità, notte prima degli esami. Svegli tutta la notte a bere e a fumare. Ascoltare Eric Clapton, i Byrds e Bob Dylan. E la mattina all'alba nel cielo immenso azzurro un aeroplano che passava lasciando una striscia bianca tra le nuvole rosa, e io mi ricordi scrissi la mia prima e ultima poesia molto zen davvero, "gli aerei lasciano rette raggianti eternità". E gli aerei volano in alto tra New York e Mosca. Notte prima degli esami.

Io me le ricordo le strade di Roma, le olive verdi dolci nel cartoccio e il Colosseo, e io me lo ricordo quell'anno dei miei 16 anni che persi l'anno a scuola e piansi lacrime amare sui solchi di Street Legal e sui solchi di Sotto il segno dei pesci. E adesso guardo incredulo questa ristampa su cd de Sotto il sengo dei pesci, "Venditti remastered" c'è scritto, e nel booklet dentro c'è anche il mio nome. Introduzione a cura di Paolo Vites. E penso che domenica mattina ho un altro appuntamento al telefono con lui, con quella voce che ascoltavo più di trent'anni fa in cucina dal registratore scassato di mia sorella, che mi poneva delle domande, e sorrido se penso che adesso ogni domenica mattina al telefono gliele posso fare tutte le domande che voglio sulle sue canzoni. Tanto neanche lui sa rispondere, perché è giusto così. Che cosa fantastica è la vita. E in qualche modo sapevo che tutto questo sarebbe successo, perché avevo già nostalgia del futuro. Che certe cose accadono, its magic, its all happening.

E che insomma, se ho baciato la mia prima ragazza con tra le mani la copertina di Alice di Francesco De Gregori, e ho pianto un'amica morta di eroina con tra le mani la copertina de Sotto il segno dei pesci, vuol dire che era destino che diventassi colui che raccoglie le parole dei due principi di Roma, Theorius Campus in qualche modo ricostituitosi tra le pagine del Corriere della Sera. Buon per loro, che mi hanno trovato, direi per concludere cazzosamente. Che tutte le strade portano a Roma.

Sunday, January 16, 2011

To the valley below (one more cup of coffee)

Le strade di Milano la domenica mattina presto sembrano quelle del day after. Niente e nessuno, anzi sporcizia, tanta. Cielo grigio. Come quel giorno di tre decadi fa che, tornato a casa dopo la scuola, in una giornata grigia griga, ascoltando la radio, sentii una canzone di un cantante sconosciuto. Cantava di farsi ancora una tazza di caffè prima di imboccare la valle là sotto. Il dj spiegava che era stata registrata a New York e per me New York da quel giorno lì ha avuto sempre il cielo grigio grigio anche se quando sono andato a New York ho trovato delle gran belle giornate di sole.

Un cielo grigio grigio lo trovai anche una volta che mi persi in quella che si chiama "la bassa", la campagna fuori Milano, nel pavese. Cercavo una cascina dove doveva tenersi un concerto e finii in un minuscolo baretto gestito da una vecchina ultramillenaria. Che mi regalò un elisir stranissimo, probabilmente drogato, e mi mise sulla strada giusta. Non c'era in giro nessuno, quel giorno, nella bassa. Come stamattina per le strade di Milano. Come quel girorno a Chiavari, o a New York. Perché le terre basse, la bassa, insomma le lowlands sono ovunque. Le lowlands sono uno stato della mente e del cuore.

L'altra sera, anzi notte fonda, quando ascoltavo la canzone Cheap Little Paintings di un gruppo italiano, mi si è squarciato dentro quel cielo grigio. Come quando ascoltavo quella canzone che parlava di un'altra tazza di caffè, prima di rimettersi in viaggio per le terre basse, pardon, la valle là sotto. Sono poche le canzoni che squarciano il cielo, eppure grazie a Dio ci sono e ci sono ancora. Cheap Little Paintings è picocla e fragile come i dipinti da poco prezzo di cui parla, ma è una canzone preziosa. Quel pianoforte che pizzica una melodia antica e conosciuta, persa e ritrovata, la voce del cantante che si ripiega su di sé ma allo stesso tempo è forte e vigorosa. "Come preghiere non dette lanciate al cielo, come un bacio a tarda notte in un bar, come lettere mai spedite, come telefoni silenziosi, rimangono appese lì, non ti lasciano mai da solo". Mmm. Come è vero. In raltà nulla passa, tutto permane negli oggetti che hanno raccolti gli sguardi che si sono posati loro sopra.
Come le meravigliose bugie della vita, Life's Beautiful Lies della canzone precedente a quella, così piena di rimorso e mestizia. Che voce, che voce che squarcia. I deliziosi arpeggi di chitarra, violino e fisarmonica polverosi.La solitudine totale di He Left. Preziosa e da conservare.

Loro si chiamano - non è un caso, mai nulla succede per caso - Lowlands, le terre basse, la bassa. Vengono da Pavia - non è un caso, e forse quella vecchietta millenaria la conoscono anche loro - e sono una gran bella band italiana. Li perdono se ogni tanto scvilano in certe atmosfere alla all american Springsteen, che io non reggo più, ma se a loro va bene, va bene anche a me. Il disco è Gypsy Child, è appena uscito, il cantante si chiama Edward Abbiati ed è uno che sa il fatto suo. Può permettersi di cantare in inglese perché è nato in Inghilterra, mi sembra di aver capito, o qualcosa del genere. Comunque ha "una voce" e questo basta. Sa il fatto suo, i Lowlands sanno il fattoloro ed è un bene che ci siano ancora band così in Italia. Per combattere il cielo grigio grigio, da ascoltare prima di farsi un'altra tazza di caffè. Prima di andare nella valle di sotto.

www.lowlandsband.com


(Il video qui sotto non è una canzone del nuovo disco, ma in questo locale di Londra una volta mi ci sono ubriacato come una puttana insieme al mio amico James K.; loro, i Lowlands, invece ci hanno suonato. Per cui vedete, nulla accade per caso)

Wednesday, January 12, 2011

Fluoxetina be mine tonight

E' la nuova PJ Harvey. Che era la nuova Patti Smith. Dicono in giro, ma siccome PJ Harvey non ha un pelo di Patti Smith, ignoriamo le scemenze altrui. A me sembra Nick Cave fattosi donna. In ogni caso mi frega un granchè. E' bizzarra, inquietante, sensuale, lacerante. Da incubo. Dunque mi piace. E' disturbante, soprattutto. E' una donna in amore che dice "voglio essere il tuo uomo". Poi ci mette una canzone che si chiama Desire, e per me tutto quanto è "desiderio" è ok. E' il diavolo, la presenza del satanasso si sente qua e là, ma ovvio visto che c'è un pezzo che si chiama The Devil. Suona molto bene anche la chitarra, uno stile degno del Nick Cave dei tempi d'oro, non quello finto-burino dei Grinderman. Sono arie da camera, ma rock. Musica operistica insana. Ha una voce bellissima.

Insomma, non so che dire di questo disco, s'era capito. Ma se non c'è due senza tre, e questo è già il terzo grande disco del 2011 e siamo ancora al 12 gennaio, mi aspetto un poker da paura a breve. Intanto il suo disco che si intitola come lei, Anna Calvi (inglese di padre italiano) consiglio di prenderlo a piccole dosi. A me toglie il sonno se lo ascolto tutto d'un botto.

Sunday, January 09, 2011

Hard Times and Nursery Rhymes

"It's almost like a Bob Dylan/Bruce Springsteen/Johnny Cash kind of feel with a punk edge"
(Mike Ness)

Il 2011 non poteva cominciare meglio. Prima il nuovo Decemberists (che ascoltato bene è dvvero un gran disco), adesso il nuovo Social Distortion. Come dire: dalla gentilezza rurale alla violenza metropolitana. Adoro i Social Distortion e adoro Mike Ness. I primi, da quando li ho visti dal vivo un paio di anni fa, il secondo da tempo da quando ascoltai i suoi lavori solisti. Poi sono andato a recuperare tutt i dischi dei SD (che sono la band di Mike Ness, ovviamente).

I Social Distortion sono oggi una delle ultime (l'ultima?) purissime rock'n'roll band, ma suonano come se un gruppo di delinquenti dell'era della Grande Depressione avesse avuto a disposzione delle chitarre elettriche. Il nuovo disco, Hard Times and Nursery Rhymes, è una eslosione di gioia rock'n'roll: dall'iniziale strumentale Road Zombie, che Sergio Leone avrebbe usato volentieri per un suo film se fosse stato ancora vivo, a California (Hustle and Flow) che riprende dal punto esatto dove gli Stones pensarono Honky Tonk Women. E ovviamente non manca Hank Williams: dopo aver riprieso Ring of Fire di Johnny Cash in passato, ecco un altro simbolo imprenscindibile dei SD, Hank Williams con la sua Alone and Forsaken. Un disco esplosivo, suonato senza ritegno, con la bella sorpresa di un coro feminile qua e là a dare corpo a una musica che butta in un calderone bollente tutto quanto è "America".

Wednesday, January 05, 2011

Inno a gennaio

Ci dimentichiamo a volte di quale sia il motivo per cui amiamo così tanto la musica. A guardare le recensioni sulle riviste musicali, poi, viene la depressione, con le stelline, i voti da uno a centomilamilioni… Come si fa a dare il voto all'emozione, al sentimento? Oh oggi mi sono innamorato da tre stelline, alla mia ragazza darei un bel quattro. Bah. Ci dimentichiamo soprattutto di ascoltare veramente la musica in cui ci imbattiamo. Anzi, rifiutiamo di imbatterci, casualmente, come succedeva ai bei tempi delle radio, quando giravi il manopolone da un canale all'altro alla ricerca del "suono" poi ti bloccavi come se avessi avuto un infarto: eccola, la canzone che spacca, che spacca il mio cuore. Ogni tanto succede ancora. Bisogna imbattersi nella musica, così come ci si imbatte in un volto per la strada. Lasciarsi fissare da uno sguardo, perché solo nello sguardo di un altro siamo in grado di scorgere noi stessi. Le canzoni sono la stessa cosa, sono lo sguardo di un altro che ti fissa, per tre o quattro minuti. Che sia una canzone, un album intero, un concerto. Succede e mi rendo conto - con sollievo - di non essere il perfetto "music lover" perché altre volte, spesso, mi dimentico di ascoltare come dovrei, e cioè con il cuore. Anzi, il Cuore. E non con la testa e basta.

Stamattina ero in metro, mezzo addormentato, infreddolito, infastidito. Ed ecco una di quelle epifanie (eh, sì ho usato la parola epifania perché domani è l'Epifania, non la befana, come a Natale si festeggia Gesù Bambino e non Babbo Natale). Ieri sera avevo sparato sull'iPod il nuovo disco dei Decemberists e ascoltato già un paio di volte, in nottata. Lo aspettavo con ansia, sono una delle migliori new band degli ultimi anni. The Hazards of Love ad esempio è un disco bellissimo, sorta di concept album tra folk anglo sassone anni 70 e pop alla Beach Boys (quelli colti, non quelli di Surfin' Usa).E lui, il frontman, Colin Meloy, è una voce pazzesca, che spacca, E scrive testi bellissimi. Così l'ho ascoltato e non mi ha attizzato granché, il nuovo The King is Dead. Troppo "americana", troppo Neil Young à la Harvest, echi di The Band, insomma roba sentita e risentita, ci metto anche gli Avett Brothers. Ma stamattina la mascella mi è caduta alle caviglie, sul vagone della linea gialla fermate Zara - Cordusio. Due canzoni che spaccano il cuore del vostro incallito bastardo qui presente. January Hymn, perfetta come timing, visto che siamo a gennaio e se lui il protagonista della canzone va a spalare la neve, io scanso lo smog ma il sentimento è comune, di gioiosa accettazione. January Hymn può farlo, può portare alla gioiosa accettazione. Solo chitarra acustica deliziosamente strumming, quella voce che spacca e un coro gentile in sottofondo.

E poi This Is Why We Fight, la canzone che Morrissey non riesce più a scrivere da quando gli Smith si sono sciolti. A quel punto la mascella rotolava giù dalle scale mobili della stazione Cordusio mentre io cercavo di salire come un salmone controcorrente, cioè dalla scala sbagliata. Tanto può la musica. E il resto del disco? Stanotte lo riascolterò una dozzina di volte, devo essermi perso qualcosa, sicuramente è un grande disco. Non come The Hazards of Love ma insomma. Lo ascolterò mentre aspetto che una strega venga a farmi visita. Perché io non credo alla Befana, ma credo alle streghe.

Sunday, January 02, 2011

Un italiano a New York

Che posso fare con questo desiderio eterno?
(da una canzone del gruppo magrebino dei Tinariwen)

Non sono invidioso. Ovviamente, sì lo sono. Sono invidioso perché Riro ha fatto quello che io non ho mai fatto né, ormai ne sono certo, farò mai. Non più ragazzino, anzi, con una famiglia "dietro" le spalle, un lavoro avviato, insomma già superato il bel mezzo del cammin di nostra vita, ha mollato tutto e un po' come i migranti che approdavano a Ellis Island a inizio del Novecento, è approdato a New York Cty. The Big fuckin' Apple. Ovvio che sono invidioso, ho sempre sognato di farlo anche io, ricordo che lo sognavamo io e un compagno di sucola ai tempi del liceo, di farlo insomma appena diventati maggiorenni. Io mi sono spostato dalla mia hometown di soli 146 chilometri (da casello a casello), lui, Riro, di migliaia di chilometri e a NYC c'è andato, si è creato un lavoro, c'ha portato la famiglia intera. Di lui avevo già parlato qui: perché accidenti, oltre ai dischi scrive anche libri, e belli. Sì è ufficiale: sono invidioso.

E siccome già quando era in Italia Riro Maniscalco era un music lover, a New York ha affilato ancor di più la sua passione per la musica. Di dischi ne aveva già fatti diversi, questo - la mia prima recensione del 2011, e l'ultimo disco che nuovo che ho ascoltato nel 2010 - è il mio approccio approfondito alla sua musica. Sketches of You si intitola, che è già un bel titolo, che fa venire in mente un certo Sketches of Spain. Che poi anche il suo nome è già un bel programma: Maniscalco, the Carpenter,come quella straordinaria canzone, If I Were a Carpenter. Più o meno. Sketches of You è una raccolta di "schizzi" acustici, o quasi. C'è dentro un gusto per la melodia decisamente notevole, affiorante dei tanti ascolti che Riro ha fatto nella sua vita. A volte viene in mente il John Lennon solista, altre tanti country singer dei più nobili. Ancora, certi pezzi mi fanno venir ein mente un gruppo che io amo moltissimo, i Great Swimmers Lake, abili autori di folk pop di classe. Chissà se Riro li ha ascoltati. E' un disco che negli anni 70 avrebbe avuto quotazione alta negli scaffali dei negozi e della critica che conta(va). Su tutte, metto la fascinosa I Wish, il brano che gode di maggiori interventi strumentali (opera del bravo Jonathan Fields) canzone che viene costruita su un crescendo incalzante di grande efficacia. E la prova vocale di Maniscalco è da antologia. Altre volte Riro si rifugia nella quiete di ambientazioni più intime, sussurrate, notturne. Si rifugia nelle corde tese di mandolino, dobro e banjo (Marco Zanzi, leggenda del bluegrass made in Italy) o nelle corde spesse di un violino, finanche una fisarmonica, per dar sfogo alla sua malinconia, di italian bluesman.

Ho messo a inizio di questo post una citazione dei Tinariwen, gruppo di tuareg "african rock" scoperti da Robert Plant. Perché quella frase, pronunciata da gente così lontana dall'immaginifico occidentale, dà il senso dell'unità di Cuore (che metto apposta con la C maiuscola) che alberga in tutti gli esserei umani. E'quello che fuoriesce dai testi delle canzoni di Riro. Testi che parlano, come intitola un pezzo del disco, di "signs (of an absence Presence), segni di una presenza assente. Come i Tinariwem come me che sto a Milano, come Riro che sta da italiano a New York, tutti abbiamo nel Cuore i sengi di una Presenza assente, un desiderio eterno con cui non sappiamo fare i conti. Nel cantare questo, Riro fa sorridere ("Drop me a line send me a text message that is the way in 2010"), poi mi( (ci) tira dentro ("Pour me some wine, a shot ov vodka cold please, light up a cigarette for me") e infine afferma ciò che è valido per tutti: "Tell me how come nobody feels the loving, the loving we're all longing for". Già: come è questa storia che nessuno sente l'amore, quell'amore a cui tutti aspiriamo. "My need for love turns heaven into hell" dice altrove, "being chased by a million ghosts". C'è un grido che emerge evidente nelle canzoni di Riro Maniscalco. E' il mio grido, il grido di tutti: "And it's you missing, you missing, where are you now?". C'è il senso del tempo che passa: come dice sempre un mio amico, più passano gli anni e più la vita diventa difficile. Come dice Riro, "Time passes gently, and gently takes vmy hand, tears dropping gently and you gently wipe them all, hold my hand gently, and guide me through that door". Per quando si arriva alla fine del disco, quella presenza non è più un'assenza. E' una mano gentile che ci guida nello scorrere (arduo, faticoso, sanguinante) del tempo che passa.


Info, acquisti etc:
www.itacalibri.it
www.bluesandmercy.com

Sangue nei solchi del cuore

“Bob Dylan è in città, c’è bisogno di catturare qualcosa di magico”. La “città” è ovviamente New York, al telefono John Hammond, il più gran...

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