Thursday, July 31, 2008

MJF. MVFC.

La prima sigla sta per Milano Jazzin’ Festival, la seconda indovinatela voi, tanto non è difficile specie se leggerete le righe successive. Insomma, Milano capitale morale, Milano Expo blah blah. C’ha un solo vero appuntamento musicale ufficiale, questo qua (a parte festival di contorno in luoghi idilliaci come l’Idroscalo, ma ve li lascio volentieri) quando in ogni angolo d’Italia in estate si danno appuntamento i meglio nomi della scena musicale mondiale, per dirne uno ad esempio Lucca che ha portato in questi giorni Leonard Cohen, mica ciccio pelliccio.
Bene, questo festival lo fanno all’Arena Civica, bel posto, in centro. L’anno scorso ci avevo visto Patti Smith ed era andata bene, più o meno, quest’anno ci torno per Paul Simon. Visti i tempi di crisi, mi rifilano un biglietto stampa per la tribuna, non per la platea. E vabbé, entri gratis, ti lamenti pure? No, lo dico per le altre centinaia di persone che erano in tribuna, paganti. Che vuol dire sedili di marmo di epoca napoleonica alle nove di sera ancora roventi per il sole della giornata appena trascorsa; un enorme stand di birra e panini piazzato proprio davanti che copre la visuale sul palco. E ciliegina, un impianto audio che sembra, nonostante il palco sia a circa 100 metri di distanza e non sulla luna, di sentire una radiolina a transistor degli anni 30. A basso volume. Una porcata indecente. Ovviamente manco un mega schermo ai fianchi per permetterci di capire da quassù quale è Paul Simon visto che poi lui non è certo uno spilungone, che probabilmente i mega schermo costavano troppo. Mi incazzo, solo io però che il pubblico (pagante) sembra godersi lo spettacolo lo stesso. Boh, la gente è strana.
Dopo un’ora visto anche che la platea è mezza vuota aprono la gabbia e ci lasciano andare giù anche a noi peones. Che voglio dire: grazie tante, ma le norme di sicurezza? Comunque lì sotto si sente bene. Vuol dire che l’impianto è settato solo per far ascoltare la musica a quelli della platea. Ma vaff... Probabilmente troppo rumore avrebbe dato fastidio alle varie sciure Brambilla che c’hanno l’attico qui in centro. Milano Expo? Ma va’.
Dimenticavo: è il più strombazzato festival dell’estate milanese e nessuno avverte che prima di Simon suona un certo Robben Ford, cioè uno dei più grandi chitarristi viventi, mica il fratello di ciccio pelliccio. Me lo perdo ovviamente e grazie tante.

Quel poco che sono riuscito a sentire, comunque sempre un grande Paul Simon, con una band strepitosa, la stessa che aveva anche quando venne nel 2000, che quando attaccano brani come Me and Julio down by the Schoolyard, Diamonds in the soles of her shoes o la travolgente cavalcata cajun That was your mother, è festa irresistibile a ritmo di batteria, percussioni, fiati, fisarmoniche, basso slappato, chitarre danzanti… Personalmente mi commuovo quando Paul rimane da solo sul palco per eseguire The sound of silence, è un po’ come vedere McCartney quando fa Yesterday o Bob Dylan Mr tambourine Man. Ah è vero, Dylan da solo sul palco con una chitarra acustica c’è stato per l’ultima volta nel 1993. Insomma, questo è uno che ha fatto la storia, e a 66 anni sul palco dà ancora emozioni, ad esempio quando tira fuori una rarissima The only living boy in New York, che 38 anni fa scrisse per l’amico Grafunkel e che evoca anche stasera il suo spirito, e anche i sogni di quei tempi antichi.

Ultima baggianata, a fine concerto lo speaker annuncia che sganciando qualche altro soldino è possibile partecipare all’after show party e incontrare “i musicisti”. Bah, mi avvio verso casa costeggiando l’Arena e vedo fermo in mezzo alla strada il chitarrista di Simon. Quindi una Mercedes con i fari e il motore acceso. Vuoi vedere che… sì eccolo che arriva. “Hey Paul!” lo chiamiamo. Lui si ferma, saluta con la sua manina che sembra quella di mia figlia di 5 anni, sorride, sale in macchina Fa fermare la macchina e sta qualche secondo a salutarci dal finestrino. E i pirla che hanno speso dei soldi per l’after show party pensando di incontrare “i musicisti”? MVFC.

Tuesday, July 29, 2008

Xmas in July

"When Most of the Time came out on Oh Mercy, I thought it was such an achingly beautiful love song," says Steve Berkowitz, senior vice president of A&R at Columbia/Legacy. "Now it's here as a folk version and something that sounds like Dylan with Brian Eno and The Edge. To hear the way the songs and lyrics develop is fascinating. Dylan comes across as a folk singer, a blues musician and a jazz artist."

TELL TALE SIGNS
1. 2 CDs featuring 27 songs plus a 60 page booklet with “stunning” rare photos and in-depth notes by author Larry "Ratso" Sloman
2. As above plus Bonus CD with additional 13 live songs, plus 150 page deluxe photo book of Bob Dylan "singles" from around the world, plus 7" vinyl single of "Dreaming of You" and "Ring Them Bells" (the latter is a Bob Dylan Pre-Order Store Exclusive)3. Four 180 gram vinyl LPs featuring 27 songs plus the 60-page booklet.


Stamattina mi sento come se Natale fosse arrivato in una calda afosa giornata di fine luglio. Cioè, devo ancora aspettare fino al 7 di ottobre quando finalmente sarà disponbile Tell Tale Signs, il volume 8 della Bootleg Series. Su bobdylan.com tutte le informazioni del caso. Direi che è una manna, data un po’ un’occhiata alla track list qua sotto. Ben due versioni della incisione originale di Mississippi, quelle effettuate ai tempi di Time Out Of Mind, tanto per dirne una.

A questo link un video di una strepitosa versione di Ring Them Bells, live a New York, Supper Club, 1993, brano che appare anche nel cd:
http://www.usatoday.com/life/music/news/2008-07-28-dylan-telltale-signs_N.htm?csp=34

A questo altro link si può scaricare Dreamin’ of You, disponibile anche da bobdylan.com. Cavolo, dopo il disastro degli ultimi anni, avevo dimenticato quanto Bob Dylan fosse uno dei più grandi vocalist di tutti i tempi…
http://www.sendspace.com/file/ocp9n5

2CD Edition
Disc One
1. Mississippi 6:04 (Unreleased, Time Out of Mind)
2. Most of the Time 3:46 (Alternate version, Oh Mercy)
3. Dignity 2:09 (Piano demo, Oh Mercy)
4. Someday Baby 5:56 (Alternate version, Modern Times)
5. Red River Shore 7:36 (Unreleased, Time Out of Mind)
6. Tell Ol' Bill 5:31 (Alternate version, North Country soundtrack)
7. Born in Time 4:10 (Unreleased, Oh Mercy)
8. Can't Wait 5:45 (Alternate version, Time Out of Mind)
9. Everything is Broken 3:27 (Alternate version, Oh Mercy)
10. Dreamin' of You 6:23 (Unreleased, Time Out Of Mind)
11. Huck's Tune 4:09 (From Lucky You soundtrack)
12. Marchin' to the City 6:36 (Unreleased, Time Out of Mind)
13. High Water (For Charley Patton) 6:40 (Live, August 23, 2003,Niagara Falls, Ontario, Canada)
Disc Two
1. Mississippi 6:24 (Unreleased version #2, Time Out of Mind)
2. 32-20 Blues 4:22 (Unreleased, World Gone Wrong)
3. Series of Dreams 6:27 (Unreleased, Oh Mercy)
4. God Knows 3:12 (Unreleased, Oh Mercy)
5. Can't Escape from You 5:22 (Unreleased, December 2005)
6. Dignity 5:25 (Unreleased, Oh Mercy)
7. Ring Them Bells 4:59 (Live at The Supper Club, November 17, 1993,New York, NY
8. Cocaine Blues 5:30 (Live, August 24, 1997, Vienna, VA)
9. Ain't Talkin' 6:13 (Alternate version, Modern Times)
10. The Girl on the Greenbriar Shore 2:51 (Live, June 30, 1992,Dunkerque, France)
11. Lonesome Day Blues 7:37 (Live, February 1, 2002, Sunrise, FL)
12. Miss the Mississippi 3:20 (Unreleased, 1992)
13. The Lonesome River 3:04 (With Ralph Stanley, from the album Clinch Mountain Country)
14. 'Cross the Green Mountain 8:15 (From Gods and Generals Soundtrack)

or the deluxe edition contains this extra cd and vinyl 7:

Disc Three (Deluxe Set Only)
1. Duncan & Brady 3:47 (Unreleased, 1992)
2. Cold Irons Bound 5:57 (Live at Bonnaroo, 2004)
3. Mississippi 6:24 (Unreleased version #3, Time Out of Mind)
4. Most of the Time 5:10 (Alternate version #2, Oh Mercy)
5. Ring Them Bells 3:18 (Alternate version, Oh Mercy)
6. Things Have Changed 5:32 (Live, June 15, 2000, Portland, OR)
7. Red River Shore 7:08 (Unreleased version #2, Time Out of Mind)
8. Born in Time 4:19 (Unreleased version #2, Oh Mercy)
9. Tryin' to Get to Heaven 5:10 (Live, October 5, 2000, London,England)
10. Marchin' to the City 3:39 (Unreleased version #2, Time Out of Mind)
11. Can't Wait 7:24 (Alternate version #2, Time Out of Mind)
12. Mary and the Soldier 4:23 (Unreleased, World Gone Wrong)
7" Vinyl (BobDylan.com Exclusive)
1. Dreamin' of You 6:23 (Unreleased, Time Out Of Mind)
2. Ring Them Bells 4:59 (Live at The Supper Club, November 17, 1993,New York, NY

The ghost of electricity is back!

Monday, July 28, 2008

Un libro (o due) per l'estate

“…Tossici e crackomani, non c’è niente di più lontano dal suicidio. Non capirebbero neanche di cosa stai parlando. Si svegliano tutte le mattine nel dolore. Un dolore atroce. Ma non se ne vanno al deposito della metro. Adesso mi dirai, grazie tante, loro ce l’hanno qualcosa che gli fa passare il dolore. Devono solo sbattersi un po’ in giro e procurarselo. E non ti posso dare torto. Ma la domanda rimane. Che cos’è esattamente questo dolore che porta i pendolari a infilarsi un bel cappotto di legno? Di che tipo di dolore stiamo parlando? Secondo me, se fosse il dolore per una perdita a portare la gente al suicidio anche solo seppellirli tutti quanti prima che scenda il sole sarebbe un lavoro a tempo pieno. E allora torno sempre alla stessa domanda. Se non è quello che uno ha perso a dare questa sofferenza insopportabile, allora forse è quello che uno non perderà mai”.
(Cormac McCarthy, da Sunset Limited)

Cormac McCarthy è troppo in là. Ho paura che lo capiscano in pochi. In una società moderna come la nostra che ha anestetizzato la domanda (e il dolore) che c’è nel cuore dell’uomo a dosi massicce di idiozie televisive rendendoci una sorta di zombie che si sentono felici con un i-Phone o qualche altro aggeggio del genere, come potrà mai uno trovare sensato un libro che è un lungo dialogo tra una persona che ha appena tentato il suicidio (il Bianco) e un altro che lo ha salvato dalla metropolitana in corsa, per puro caso e all’ultimo istante (il Nero).

È quello che racconta Sunset Limited, l’ultimo (breve) racconto dello scrittore americano (grazie Anna). Confesso che mi sto avvicinando a McCarthy da ultimo arrivato, incuriosito dalle lodi di tanti amici – tra cui Francesco De Gregori – che lo annoverano tra i loro scrittori preferiti. Non ho visto il film tratto dal suo Non è un paese per vecchi. Ho solo letto nelle ultime settimane La strada e appunto Sunset Limited. Oddio, non è uno scrittore per stomaci delicati e non sono libri, i suoi, da leggere sotto l’ombrellone. Almeno questi due. Mentre leggevo La strada ho avuto gli incubi per una settimana, ma d’altro canto io sono un grande appassionato di Stephen King, e ho trovato in McCarthy alcune delle sue visioni apocalittiche di certi racconti.

In quel poco che ho letto fin’ora di McCarthy c’è uno stile asciutto, stringato, diretto, quasi fossero scenografie per un film, che onestamente non mi fa impazzire. Ma in Cormac c’è una posizione umana che affascina. Sia in La strada che in Sunset Limited i suoi protagonisti sono sempre di fronte a un bivio, chiamati a scegliere fra il bene e il male, tra la speranza e la disperazione. Quello che li tiene al di là del baratro è la coscienza di appartenere a qualcosa di più grande della loro miseria, e per cui vale la pena spendere vite altrimenti maledette dalle circostanze. A darsi fino all’ultimo respiro, ad esempio come fa il padre de il bambino di La strada. Se la bellezza nel mondo intorno è andata in frantumi, ciò che ci rende degni di vivere è il suo ricordo. Così come fa il Nero di Sunset Limited: non c’è condizione disperata che non possa avere riscatto. Basta avere l’umiltà di chiederlo, il riscatto.
Mi domando in quanti apprezzino davvero Cormac McCarthy, oggigiorno. Mi domando anche quale autore rock sarebbe ideale affiancare alla sua lettura. Leonard Cohen, probabilmente. Nick Cave, forse. Ma più di tutti probabilmente Johnny Cash.

Wednesday, July 23, 2008

Scoop!

Macché. E quando mai. Il mio cervello chiuso per ferie sta solo cercando di reagire.
Un paio di piccoli consigli per l'estate, robette ascoltate per dovere e apprezzate con piacere. Le cose migliori accadono per caso. Oh, niente di trascendentale, ma di questi tempi...

Nicole Atkins è una di Asbury Park. Greetings. Piace anche a Bruce, che una sera l'ha invitata a bere un drink e le ha detto quanto fosse brava. Il suo disco Neptune City è quello che si trova nei negozi di questi giorni. Una specie di girls group con attitudine folkie e rock. Ma che dico, questo video qua sotto mostra una cantante soul coi fiocchi. Insomma, un bel tipino.


Poi ho ceduto alle lusinghe del mio collega che mi imponeva di ascoltare questi Fleet Foxes. In America sono il gruppo del momento, piacciono alla gente cool. Mi dice: "Guarda, sono come Crosby Stills & Nash". Mah.
Mi sembrano più una specie di Beach Boys con le chitarre acustiche in acido. Devo ammettere che dopo ripetuti ascolti, il disco non è malaccio, ha qualche bello spunto. Vengono da Seattle, incidono per l'etichetta dei Nirvana, ma è tutta altra musica. Qua: http://www.myspace.com/fleetfoxes

Per i vecchietti come me, infine, mi va di consigliare il nuovo di John Mellencamp. Un disco intenso, di folk blues e di meditazioni su vita, morte, amore e libertà. Produce il maestro T-Bone Burnett che regala un tocco di preziosa magia vintage. Ve lo racconta lui stesso:


Se siete arrivati fino a qui, ecco lo scoop! C'era davvero... Eccolo: il futuro del rock'n'roll con la sua banda di angry young men... Una sorta di ritorno al futuro.


Tuesday, July 22, 2008

Chiuso per ferie

No. Magari. Sono ancora qui a impazzire in ufficio. È il mio cervello che ormai è chiuso per ferie. Non connetto più, se mai l'ho fatto. Per la musica, vi rimando a questo bellissimo post dell'amico Ermanno Labianca, dal suo blog linkato qui a fianco, se ancora non l'avete letto: http://erlab-61.blogspot.com/2008/07/io-e-bob-dylan-un-ricordo-lungo.html
Oh.. e comprate il suo nuovo libro, trovate anche quello nel suo blog, testi delle canzoni di Broooooce Springsteen commentati come solo lui sa fare.

Per il resto, mi sono imbattutto in due foto straordinarie ieri, le avrete già viste ma tanté. Le ho trovate sul sito del Corriere della Serva, come diciamo qui a Milano, figuratevi come sto messo male per andare sul loro sito...
La prima è quella del cervo che ieri è balzato fuori in pieno centro di Bolzano. Certo, Bolzano è a due passi dalla natura, mica come Milano dove al massimo in pieno centro può spuntare una pantegana, ma fa specie che un animale così si sia infilato tra i tavolini dei bar e la gente che faceva shopping. Questa foto dell'animale che salta i tavolini è incredibile, smebra un fotomontaggio. Esprime tutta la disperazione di un animale libero che si trova in mezzo alla nostra follia quotidiana. Lo hanno fatto secco, alla fine.

La nostra follia quotidiana che invece è ben rappresentata da questa lunga fila di dementi sotto il sole a 35 gradi di New York.
Non stanno andando a un concerto (che anche le file per i concerti mi sanno di follia ormai), ma stanno aspettando che apra il negozio della Apple per comprarsi il nuovo i-Phone. Ma che cazzo. Ma possibile che qualunque fesseria tecnologica che viene propinata deve scatenare queste corse all'acquisto? A parte che si poteva vivere benissimo senza i-Phone per quello che serve, non potevano aspettare due o tre giorni per andarselo a comprare, invece di fare la fila per ore sotto il sole? Scene viste ovunque, anche in Italia.
Bah. Torno a chiudermi per ferie.

Friday, July 18, 2008

Film '68

Qualche sera fa, su uno dei canali di Sky Cinema, ho rivisto Fragole e sangue – The strawberry statement. Era all’interno di una rassegna che stanno presentando sui film e il ’68 (in mezzo ci hanno infilato anche film come L’ultimo valzer, chi cazzo lo sa cosa centra un concerto del 1976 con il ’68).
È stato uno dei film che più ho amato dal primo momento che ebbi modo di vederlo a metà dei 70. Ancora oggi, pur se con qualche ingenuità d’epoca, si vede con piacere, anche grazie alla splendida colonna sonora (CSN&Y, Buffy St. Marie, Thunderclap Newton fra gli altri). I film americani, anche quando toccano temi impegnati, conservano sempre una dose di ironia, romanticismo, innocenza che quelli di casa nostra raramente hanno. Certe scene, come quando il protagonista si sdraia sul divano con il cuscino in faccia ascoltando a palla Down By The River di Neil Young, rimangono indelebili. Avrò fatto la stessa cosa con la stessa canzone un milione di volte, da ragazzo. E ehm... sì ancora lo faccio, ma senza cuscino sulla testa... E anche se non ho mai occupato l’università di Berkeley, qualche piccola occupazione l’ho fatta anche io, anche se a me non è mai successo quello che succede al protagonista quando rimane a fare fotocopie con l’avvenente “compagna svezzatrice”… Chi ha visto il film, intende.



Invece non riesco mai a rivedere quello che è il miglior film in assoluto sul periodo della contestazione americana. E dire che fu girato da un regista cecoslovacco appena arrivato in America, in fuga dall’invasione del suo Paese da parte delle truppe sovietiche. Con lo splendido Taking Off (quello dovrebbero far vedere, altro che Ultimo valzer) Milos Forman dimostrò di aver capito in breve tempo più cose sullo scontro generazionale in atto in America di qualunque regista americano. Attori formidabili, quella coppia di genitori che non riesce a capire perché la figlia sia scappata di casa. Scene imperdibili: quella in cui un gruppo di genitori prova a fumare uno spinello per capire che effetto abbia la droga sui figli (esilarante) e quella finale, quando la figlia porta a conoscere il fidanzato ai genitori. Il quale naturalmente è un hippie che sembra la fotocopia di George Harrison ai tempi di My sweet Lord. I genitori lo guardano disgustati, fino al momento in cui il padre chiede che lavoro faccia. “Il produttore di dischi rock” dice lui. Ah, risponde schifato il padre, e quanto guadagni all’anno? “Diverse decine di migliaia di dollari” risponde incurante l’hippie, e al pover’uomo quasi viene un collasso. Ovvio che il giovane dopo tale dichiarazione venga guardato con una luce diversa. Il finale, con il genitore che canta stonato Strangers in the night di Frank Sinatra e i due ragazzi che osservano sbigottiti, è da Oscar.
Un film il cui senso profondo era stato detto, ancora prima che venisse girato, da un altro che aveva visto bene quello che capitava attorno a lui e che con una frase ha definito un decennio: “Qualcosa sta succedendo qui, ma tu non sai cosa, non è vero Mr Jones?”.

Wednesday, July 16, 2008

Il giudice e la ragazza

Tutto quello che i media non dicono:

http://vinoemirra.splinder.com/post/17779187/Le+spine+di+Eluana

E a questo oggi aggiungo un nuovo link. La persona che parla sa cosa sta dicendo:
http://www.ilsussidiario.net/articolo.aspx?articolo=3876

“Lasciamo che la natura torni a fare il suo corso, fermiamo l’alimentazione forzata”. Mi sono venute in mente le mie figlie, quando avevano pochi giorni e pochi mesi: quella che si dà a un neonato è alimentazione forzata. Se lasciassimo fare il corso della natura, i bambini morirebbero di fame e di sete. Ma non cambia di molto anche per noi adulti: ogni giorno dobbiamo “forzarci” di mangiare, perché se ci lasciamo andare al corso della natura, per noi è la fine.

Questo vuol dire in maniera inconfutabile che l’uomo è essere dipendente. Non si fa da solo. Ha bisogno dell’altro. Se l'altro lo lascia alla natura, muore. Non siamo padroni della vita, anche quando si manifesta in circostanze apparentemente assurde come questa. La vita non è una selezione per chi ha diritto di viverla perché "sano" e chi non ne ha diritto perché "diverso".
E mai si mettano la vita e la morte nelle mani di un giudice. Uno Stato che non si prende cura dei deboli, non è più uno Stato. È la fine.

Monday, July 14, 2008

Richard il pazzo

Here's a thought for every man
Who tries to understand what is in his hands
He walks along the open road of Love & Life
surviving if he can

As they took his soul they stole his pride

And as he faced the sun he cast no shadow


(Noel Gallagher,Oasis, Cast No Shadow)

In un giorno di caldo abberrante come ogni giorno di estate milanese di otto anni fa, mi sveglio e comincio a prepararmi a una giornata in cui avrò occasione, in due momenti diversi, di avvicinarmi alla storia del rock, antica e moderna. All'ora di pranzo (come lo può essere per una rock star, l'ora di pranzo) ho appuntamento con Richard Ashcroft, ex cantante dell'unico gruppo inglese degli anni 90 che mi abbia procurato qualche emozione, i Verve, per parlare del suo primo disco solista, Alone with Everybody. Poi dovrò fare in fretta per raggiungere Modena, dove si deve esibire Bob Dylan. Inghilterra e America, il passato e il futuro (già vecchio) del rock.

Perché questa è una sinfonia dolce amara
Cerchi di tirare avanti sei schiavo dei soldi e poi muori
Ti porterò nell'unica strada che abbia mai percorso
Sai, quella che porta nei posti
dove vive tutto il dolore


L'attesa è lunghetta: l'addetta della sua casa discografica mi dice che Richard ha trovato in albergo gli Oasis (che stasera si esibiscono anche loro) e ha fatto bisboccia tutta notte con Liam Gallagher. Mentre bevo un drink e forse anche altri cinque o sei, vedo in un angolo del giardino dell'hotel gli Oasis al completo. Quasi. Manca Noel che dopo una delle proverbiali litigate con il fratello se n'è tornato a casa. Stasera suoneranno senza l'autore dei loro brani e chitarrista principale. Loro, da bravi inglesi, sembrano non essere impressionati del fatto. Liam è lì, in disparte, sembra un po' lo scemo del gruppo a cui nessuno dà rilevanza. Noel è il più grande fan di Ashcroft e dei Verve, a cui ha dedicato la splendida Cast No Shadow.
Finalmente l'incontro con Ashcroft comincia, ma dopo pochi minuti Liam Gallagher si intromette tra noi e parlotta all'orecchio dell'ex cantante dei Verve. Cazzo, penso, la storia del rock inglese del decennio scorso è qui davanti a me. Però, anche quando non è sul palco, questo tiene sempre le mani incrociate dietro la schiena. Da perfetto gentleman si scusa per l'interruzione e se ne va. Con le mani incrociate dietro la schiena.

Tutti questi discorsi sul fatto di invecchiare amore mio mi deprimono
Come un gatto chiuso in un sacco che aspetta di annegare
Stavolta mi sto riprendendo dagli effetti della droga



Non è facile tenere a testa a Richard Ashcroft. Carisma, poi, ne sprigiona a tonnellate. Qualcuno lo ha soprannominato "Mad Richard", Richard il pazzo, per via dei suoi eccessi. Se io avessi passato tutta la notte a bere birra sarei qui ciondoloni incapace di connettere: lui invece è lucidissimo, anche di più - è proprio vero che "the drugs dont work" - e mi rovescia addosso teorie cosmiche sulla reincarnazione, su Dio ("Amo Gesù - bacia il crocefisso d’argento che porta al collo, nda - ma non credo necessariamente a un tipo con la barba seduto su un trono che mi aspetta… "Ladies and gentlemen, we’re floating in space"), accenni a Gram Parsons e all'uso intelligente degli acidi e naturalmente parla delle nuove canzoni. In un momento di lucidità, parla anche del figlio che ha appena avuto, "il modo migliore per fare i conti con la realtà e smettere di pensare di essere una star".

I Verve sono stati un gruppo davvero tosto, anello di congiunzione tra la psichedelia dei 60s, il rock sperimentale tedesco dei primi 70 e la malinconia tutta inglese di Nick Drake. Non capita tutti i giorni che un gruppo tiri fuori pezzi del livello di Sonnet, Lucky Man, Bitter Sweet Symphony, This Is Music e tanti altri. Non li ho mai visti dal vivo, ma dicono che fosse lo spettacolo più incredibile che negli anni 90 si potesse vedere. La chitarra "spacey" del geniale Nick McCabe costruiva strali cosmici e le loro canzoni erano il risultato di jam che in studio andavano avanti per delle mezz'ore. Non ho visto i Verve ma ho avuto la possibilità di vedere Ashcroft due volte, la prima delle quali un paio di giorni prima di quest'incontro, nel piccolo e incantevole Teatro Filodrammatici, venti mentri più a destra della Scala, dove costumi shakespeariani sono posati un po’ ovunque. Ashcroft da solo, con una splendida chitarra made in Nashville, a snocciolare le sue gemme e a commentare: "Visto che sono circondato dai fantasmi di Shakespeare, canterò il mio ‘sonetto’ personale". Anche un sasso si sarebbe commosso. Perché la sua è stata veramente la più bella, carismatica e intensa voce del rock inglese degli ultimi vent'anni.

La musica è la mia vita e io la amo
Giù giù giù andiamo fino a raggiungere il fondo
della nostra anima con questa musica


La coabitazione fra due geni, Ashcroft e McCabe, è costata ai Verve due separazioni. L'ultima, durata ben 11 anni e dopo il loro disco più bello e fortunato, Urban Hymns. Adesso sono tornati. Dicono che dal vivo abbiano coservato tutta la loro magia. Sto ascoltando il nuovo disco, Forth, che uscirà a settembre, durante una anteprima e se alcuni pezzi riaccendono la luce delo loro spacey rock - su tutte Noise Epic, quasi dieci minuti di cavalcata cosmica con accelerazioni, epslosioni e rallentamenti davvero epici - la maggior parte del disco mi sembra "uggiosa", persa in alcune delle meno riuscite ballate di Richard che più che altro ricordano il soft rock da "facciamoci un'altra canna" dei Pink Floyd di Dark Side of the Moon (si capisce che i Floyd mi piacciono poco?).
Probabilmente quando potrò dedicarmi a maggiori ascolti cambierò idea. Il singolo Love Is Noise è già sulla loro pagina MySpace, se per caso siete curiosi.

E Bob Dylan? A un certo punto anche Richard me lo aveva citto, parlando del suo nuovo videoclip ("Mi è venuto in mente Bob Dylan, il video dove si vede anche Allen Ginsberg - Subterranean Homesick Blues - che credo sia il più bel videoclip di tutti i tempi: lui è in piedi in mezzo a un vicolo con dei fogli in mano tutto il tempo, lui mica ha mai fatto cose del genere… voglio dire spogliarsi mezzo nudo durante un videoclip cme ho dovuto fare io"). Raggiungo Modena tra un diluvio e una tromba d'aria tipicamente estive, e lui è là che aspetta. Probabilmente non sa neanche cosa siano i Verve. Attacca un memorabile concerto con Duncan and Brady e la sera dopo a Milano con il canto dei giocatori erranti del XIX secolo, Roving Gambler. Era l'anno di grazia 2000, quando il Never Ending Tour raggiunse il suo apice.

Thursday, July 10, 2008

L'inno: c'è una crepa in ogni cosa

This blog for hire, come diceva il musicista rock più amato in questo blog... Così oggi lascio spazio all'amico Giorgio Natale, con cui spesso ci troviamo a discutere di quanto sia bella certa musica rock. E la riflessione questa volta è caduta su un uomo che sa riverberare questa bellezza più di ogni altro collega.

Anthem, Leonard Cohen
(da "The Future", 1992)

"Lascia perdere le offerte perfette, c'è una crepa in ogni cosa".

"C'è una crepa in ogni cosa" sospira anche il coro. Leggendo il testo a posteriori ho pensato che me lo sarei potuto aspettare. Ma al primo ascolto, pur riuscendo a seguire quasi completamente il testo, quando sono arrivato al ritornello ho avuto un colpo. L'ambientazione del disco ("The Future") vuole richiamare fin dalla copertina qualche tono leggermente apocalittico sulla situazione attuale e domande inquietanti sul futuro. Poi arriva "Anthem", che già poteva fare pensare a una nuova "Blowin' in the wind" o "Born in the Usa".
Invece inizia discreta, proprio con un grande senso di aspettativa: "Gli uccelli hanno cantato/ al sorgere del sole/ "Inizia di nuovo/ - li ho sentiti dire - / non indugiare su ciò che è stato/ o su ciò che non è ancora". Ed è da notare che questa è l'unica strofa (anzi, mezza strofa) in cui gli archi sostengono la voce con quei crescendo leggeri, aumentando il senso di attesa. Si passa dunque alla condizione drammatica in cui ci troviamo: "Ah, le guerre si combatteranno ancora / e la colomba non sarà mai libera". E forse è questo il motivo per cui il ritornello giunge così inaspettato.

Abituati come siamo ai cliche' del disfattismo, basta questa seconda metà della strofa e ci siamo già dimenticati della prima e della sua speranza."Suona le campane che ancora riescano a suonare"... E scusate ma devo confessare che una grande emozione coglie a questo punto un amante di Oh Mercy (Bob Dylan, 1989) dove si trova la commovente "Ring them bells":"Suona le campane che ancora riescano a suonare / Lascia perdere le offerte perfette / In tutto c'è una crepa / Ed è così che la luce può entrare".
Ma cosa puo' sostenere una persona a scrivere questo ultimo verso, così speranzoso?
"Abbiamo chiesto dei segni / e li abbiamo avuti: / nascite tradite /"(addirittura l'aborto!) "e matrimoni spezzati", i tradimenti della politica "mentre i killer 'lassù in alto' alzano preghiere a gran voce". C'e' anche questo, certo.

"Puoi mettere assieme le parti / ma non otterrai la somma". Lo stesso dicasi per questa canzone. Puoi esaminare la dizione praticamente perfetta, l'espressività che ha pochi termini di paragone, il senso di aspettativa unico, l'uso delle vocalist, il testo geniale e poetico... ma tutto assieme non dice appieno della esperienza che provo ogni volta che ascolto questa canzone.
Ho cercato in tutti i modi di non descrivere questa canzone in modo didascalico, con una analisi del testo. Perché odio quando si apostrofa un autore di canzoni come un poeta. Un poeta scrive poesie, qui la canzone si apre un varco da sola verso la crepa del tuo cuore e lì vi riposa. "Ogni cuore, ogni cuore / giungerà all'amore / ma come un rifugiato". Alla fine la crepa è tutta nostra, ne siamo ben
consapevoli. Ma la luce no, la luce la possiamo cercare come dei
rifugiati che cercano qualcuno in grado di accoglierli così come sono.
Chi l'ha provato lo sa: uno arriva addirittura ad affezionarsi alla
propria 'crepa' se trova qualcuno in grado di prendersene cura.
Giorgio Natale

Tuesday, July 08, 2008

It's only rock'n'roll

If it makes you happy
It can't be that bad
If it makes you happy
Then why the hell are you so sad


È l’estate dei castelli rock. Dopo Bingham nella bassa padana, corriamo adesso sulle highway che portano al mare. Savona è una città orribile, ma la rocca Priamar (nelle cui segrete ci passò del tempo al fresco anche Mazzini) è davvero affascinante, lassù a dominare il porto e con vista fino alla Costa Azzurra lontana. La brezza marina soffia piacevole mentre inforchiamo il ponte levatoio che conduce all’area concerti e un gruppetto di persone ci viene incontro in direzione opposta. Una bella donna piccolina stringe forte in braccio uno splendido bimbo.
È Wyatt, e lei è la mamma rock più affascinante d’America. C’è confusione attorno a lei, di manager, baby sitter e gente varia, ma incrociamo brevemente gli sguardi e lei lascia andare un sorriso. Finalmente ci incontriamo per un concerto, e basta con queste noiose interviste.

Che sarà un gran bel concerto. Era da dieci anni esatti che non la vedevo più all’opera e allora la ragazza del Missouri mi era sembrata troppo leziosa e contratta. In precedenza, l’avevo vista all’indomani del suo primo disco, nel 1994, spigliata e divertente, con il suo tuesday night music club nelle vene, togliersi anche a un certo punto gli stivaloni da cowboy per proseguire a piedi nudi.
Stasera, seppure donna matura, ha recuperato quella voglia di divertirsi e circondata da un ottimo ensemble che sembra uscito dal film Almost Famous per look e sonorità seventies (breve assolo di batteria e percussioni incluso) lascia partire poco meno di due ore di divertimento puro. Ci sono i brani del nuovo Detours – su tutte la caledoiscopica Out Of Our Heads, una festa di note e colori che viaggia dai ritmi caraibici alla gioiosità dei Beatles del White Album – ci sono sorprese graditissime come The First Cut Is The Deepest del primo Cat Stevens che da sola vale il viaggio da Milano fino a qui.
Un piccolo intermezzo semiacustico, seduta sullo sgabello da folksinger con la bella Strong enough in versione country alla Dixie Chicks e poi brani che pochi songwriter degli ultimi 15 anni possono vantare, ad esempio If It Makes You Happy, che ancora risuona della stessa dichiarazioni di intenti che aveva quando fu composta.

Prima c’era stata anche Run Baby Run e penso che Sheryl Crow non ha mai cantato così bene come adesso. Vederla divertirsi, ballare e cantare sul palco, pensando al tumore che solo poco più di un anno fa l’aveva colpita, è un inno alla vita. Semplice come un buon rock’n’roll degli anni 70. Un ultimo bis appropriato: “Tutto quello che voglio fare è divertirmi un po’”.
In fondo, “se ti rende felice, non può essere una cosa brutta”. Poi via nella notte. C’è un bimbo che aspetta, il rock’n’roll lifestyle lasciamolo ai giovani.

Saturday, July 05, 2008

Icons


Non c'è un motivo particolare per questo post, se non quello di aver trovato queste due splendide foto di Guy Clark e Townes Van Zandt da qualche parte nella rete. Ho avuto modo di vederli dal vivo nella prima metà degli anni 90, ben diversi dai ritratti che appaiono qui. Guy Clark invecchiato malamente, una performance stentorea, difficile da seguire. Townes, due anni prima di morire, addirittura incapace di salire sul palco da solo, perso nella sua mente abusata da troppe bottiglie che blaterava storie senza senso e cantava pochissimo.

Ben diversi da quel giovane affascinante che si vede in questa foto insieme alla sua compagna, o dal tenero padre di famiglia che tiene in braccio con orgoglio e dolcezza suo figlio. Si dice sempre che gli abusi e gli eccessi appartengono al lato selvaggio del rock'n'roll, eppure anche questi eleganti songwriter, autori di alcune delle più intense ballate dei 70s, hanno bruciato il meglio delle loro vite sulla corsia di soprasso. Il male di vivere appartiene a tutti, evidentemente.

La sera che si esibì Guy Clark, per dare una mano all'amico che aveva organizzato il concerto, ero al banco del merchandising a vendere anche i cd di Guy. Ne vendetti diversi e alla fine della serata il figlio tutto contento per ringraziarmi mi disse: "Lo vuoi l'ultimo cd di mio padre con il suo autografo?". Be', diavolo, il leggendario Guy Clark.... devo avere quel disco autografato ancora da qualche parte. L'amico Alessandro "Paramount", invece, lo trovammo disteso da qualche parte: aveva preso alla lettera la lezione di questi beautiful losers, qualche bottiglia di troppo. Tenendosi la testa fra le mani, si lamentava: "Cazzo è tutta la vita che aspettavo di vederlo in concerto e mi sono così ubriacato da aver perso tutto lo show"...

Di Townes, l'amica che lo accompagnava nel suo tour italiano, mi raccontò invece questo episodio. Andando al luogo del concerto, a Genova, passarono davanti a una chiesa. Townes si bloccò, si mise in ginocchio e cominciò a pregare. Forse sentiva che era già il tempo di bussare alle porte del paradiso. Se ne sarebbe andato, in silenzio, il mattino del primo gennaio di due anni dopo. Trying to get to heaven before they close the doors...

Wednesday, July 02, 2008

Welcome back to Italy, Mr Bingham

"Getta il tuo cuore oltre l'ostacolo e il tuo cavallo troverà il modo per raggiungerlo"
(proverbio Navajo)

Via dalla canicola cittadina, imboccando le strade delle campagne che circondano Milano. Via dalla metropoli per trovare rifugio, a poca distanza dal santuario di Caravaggio, in uno dei tanti tesori nascosti e sconosciuti che si celano lontano dalle rotte del turismo. Il Castello Visconteo di Pagazzano, che si dice che nel '300 ospitò tra le sue mura anche Petrarca, presenta nella sua corte Ryan Bingham con i suoi Dead Horse, di ritorno in Italia per alcuni cocnerti dopo il folgorante esordio dello scorso inverno al Rolling Stone. Manca soltanto lo slide guitarist che aumentava il tasso elettrico della band e al posto del bassista uscito da Almost Famous che c'era allora, il giovane e punkettaro figlio del grande Marc Ford, Elijah.

Seduti in mezzo a tanta storia, fa sorridere vedere questa formidabile honky tonk rock'n'roll band portare un po' di Texas nella bassa milanese, ma ci sarà da divertirsi. Bingham propone essenzialmente i brani dello scorso concerto, quelli tratti dall'ottimo Mescalito, presentando però questa volta anche la bellissima Southside Of Heaven. In più, qualche anteprima dal nuovo disco che uscirà il prossimo anno. Spiccano la bellissima Snake Eyes, torrida rock ballad che vedrei bene con un coro gospel alle spalle nei ritornelli, e un paio di pezzi più vicini al country classico. Uno è dedicato da Ryan a sua madre: solo un americano può trattare un argomento così facendolo suonare come qualunque pezzo rock che parli di sesso e droga. Invece no.

Il finale, quando Bingham prende l'elettrica e pesta dentro con il bottleneck, è la parte migliore dello show: con il cappellaccio da cowboy ficcato in testa, sembra l'immagine di Charlie Daniels più magro e più giovane, quando era uno dei re del southern rock. Oppure Troy Caldwell della Marshall Tucker Band. È una esplosione folgorante e assordante di note che celebrano il sudismo rock alla massima potenza, con in più un sentimento punk figlio di questi tempi moderni.

Torna, Bingham, per un ulteriore bis e si lancia in un torrido blues di Townes Van Zandt, figlio delle session di Highway 61 di Bob Dylan.
Siamo in provincia di Bergamo, ma potremmo essere da qualche parte lungo il Rio Grande. Seduta vicino a me, Cowboy Annie è felice, e tanto basta. See you on the southside of heaven, Ryan.

Sangue nei solchi del cuore

“Bob Dylan è in città, c’è bisogno di catturare qualcosa di magico”. La “città” è ovviamente New York, al telefono John Hammond, il più gran...

I più letti