Thursday, June 21, 2007

The bells of Dublin - seconda parte

Giunto in cima alla collinetta, alla sinistra c’è la prima chiesa. Anzi due, una a ridosso dell’altra. La prima ha un bel prato verde davanti, tipico prato anglosassone. È dell’anno mille o anche prima, ed è dedicata al culto anglicano. Subito dopo c’è ne è un’altra, decisamente più imponente. È collegata a un edificio medievale da un passaggio sospeso sopra la strada. Bellissima. E inquietante. Anche lei risale all’anno mille. “La più antica chiesa di Dublino”, dice un cartello. È Christ Church, ma non è cattolica, appartiene anch’essa alla Chiesa d’Inghilterra.



Bizzarro, che dopo essersi ripresi l’indipendenza dall’odiata Inghilterra, gli irlandesi non si siano ripresi la loro più antica chiesa. È chiusa, non si può visitare. Di fronte si apre un largo viale. Se lo fai tutto, non più di dieci minuti a piedi, in fondo sulla sinistra vedrai aprirsi un bel parco. In mezzo c’è Saint Patrick, ovviamente la chiesa più importante di Dublino e dell’intera Irlanda. Cattolica, certamente.



Di poco posteriore all’anno mille. Dentro alla chiesa c’è ancora una vecchia pietra che si dice sia stato il fonte battesimale di San Patrizio, il monaco inglese che convertì l’Irlanda. Nelle navate laterali pendono dall’alto decine, centinaia di vecchie bandiere: alcune sono ormai degli straccetti anneriti, impossibili da riconoscere. Sono come dei moncherini di un cadavere bruciato dalle bombe. A differenza delle nostre chiese, dove al massimo si ricordano i caduti della Grande guerra, sui muri (e queste bandiere ne sono la testimonianze) il ricordo dei caduti in decine di guerre coloniali in ogni angolo del mondo, dal Sudafrica all’India, quando l’Irlanda era parte dell’Impero britannico. Fa specie pensare a questi irlandesi mandati a morire in angoli di un mondo di cui non avevano probabilmente neanche idea dove fosse. E nonostante l’indipendenza da Londra, questo passato è ancora qui, a ricordo imperituro.
Torno indietro, adesso, è già buio pesto, non ci sono più neanche macchine in giro e devo ancora trovare Vicar Street, il club dove devo assistere a un concerto. È a metà di Thomas Street, una via che prendi lasciandoti sulla destra Christ Church. Questa strada è la sola parte del centro di Dublino dove ho visto ubriachi addormentati sul marciapiede nel loro stesso vomito. Uno sembra freddo stecchito ma i pochi passanti lo ignorano bellamente. Sporcizia ovunque, qualche venditore di fiori. Il Vicar Street è qui, all’angolo fra, appunto, Vicar Street, e Thomas Street.
Alla sinistra del locale una brutta chiesa, di fronte un’altra: enorme, esagerata, imponente.
Non puoi che pensare al giorno di Natale e alle campane delle chiese di Dublino che suonano libere e senza interruzione. Non ho mai sentito suonare le campane durante tutti i giorni che sono stato a Dublino.

Qualche anno fa Bob Dylan venne a suonare al Vicar Street, un locale che tiene al massimo un migliaio di persone. Non lo fa spesso di suonare in posti così piccoli, anzi non lo fa quasi mai. Dicono che il confronto ravvicinato con il pubblico lo infastidisca. A lui, anche sul palco, così come nella vita privata, è sempre piaciuto nascondersi, tenere le distanze. E dicono che quando si esibisca in locali così, le sue performance non siano delle migliori. Tant’è.



Quella sera che si esibì al Vicar Street fece una canzone che non fa quasi mai. Si intitola Ring Them Bells (“Orsù, suonate le campane”), e anche quando la fa, non gli viene mai bene.
Quella sera al Vicar Street, di un concerto effettivamente non spettacolare, Ring Them Bells fu il momento più significativo. In fondo, per arrivare qui, seppure a bordo di una limousine o del suo bus privato super lusso, deve aver fatto anche lui la strada che ho fatto io. E deve aver notato anche lui le chiese: “Ring them bells St. Peter… ring them bells Sweet Martha… ring them bells Saint Catherine…”.
Quella sera succede quello che succede raramente. Uno di quei rari momenti in cui non è più il musicista a eseguire della musica, ma è la musica che sta suonando (attraverso) il musicista. I versi sono scanditi con urgenza e dinamismo bruciante, è un crescendo tumultuoso. E poco importa che Dylan a un certo punto inciampi su una parola. Sta chiedendo che le campane di Dublino tornino a suonare. Che le sue chiese non siano più inquietanti maestosi edifici abbandonati. O forse è solo la mia impressione. Non sono il tipo di persona che cerca un significato particolare dietro una canzone, anche perché ho imparato negli anni che gli stessi autori delle canzoni il più delle volte non conoscono il significato della canzone che essi stessi hanno composto. Come ha detto una volta Bruce Springsteen, “le canzoni conoscono più cose di me di quanto io conosca a proposito delle canzoni che ho scritto”.
La musica ti porta in territori sconosciuti: il performer questa sera sta entrando in un territorio di questi, e il pubblico con lui. Perché mai, altrimenti, suonare una canzone che non fai quasi mai (quando sei sul palco circa 200 sere all’anno tutti gli anni), una canzone che è un’esortazione affinché i santi citati suonino le campane. Le campane delle chiese, che un tempo richiamavano i contadini a interrompere il lavoro per dire l’angelus. A risvegliare l’umanità assopita: “Ring them bells for the blind and the deaf, Ring them bells for all of us who are left, Ring them bells for the chosen few
Who will judge the many when the game is through. Ring them bells, for the time that flies, For the child that cries When innocence dies”.
Ci deve essere qualcosa nell’aria di Dublino.



C’è un momento, durante questa esecuzione della canzone, quando Bob Dylan canta i versi “ring them bells so the world will know that God is one” che senti distintamente un solitario, unico spettatore applaudire con forza. Forse san Pietro era tra il pubblico quella sera. Forse san Pietro era da quelle parti anche quando sono stato io a Vicar Street. Potrei giurare di aver visto qualcuno che gli somigliava parecchio, nel pub dopo il concerto. Forse avrei dovuto chiedergli se adesso le campane di Dublino hanno ripreso a suonare. Offrirgli una Guinness e fumare con lui una sigaretta. Sul marciapiede fuori del pub, naturalmente.

Post scriptum: questa storia ha un finale che ancora deve scriversi. Prima o poi arriverà. Abbiate fede.

Wednesday, June 20, 2007

The bells of Dublin - prima parte

Le chiese di Dublino sono tutte uguali. Non che siano brutte, ma sono proprio tutte uguali. Sembra che il tempo a Dublino – ma solo per quello che riguarda le chiese – si sia fermato. No, i pub non centrano. Sì, più o meno hanno tutti lo stesso stile ma è una forzatura, lo si capisce subito. Fatto apposta per i turisti.
Le chiese di Dublino fanno specie perché in ogni parte del mondo le chiese hanno seguito l’evolversi degli stili architettonici. Anche negli Stati Uniti, dove hanno cominciato a costruire chiese da pochi secoli, più o meno quando sono arrivati i Padri Pellegrini, hanno usato negli anni diversi – finti, ovviamente – stili architettonici, ora facendo una chiesa finto gotica, ora una finto romanica, ora una finto rinascimentale. Che negli Stati Uniti è un po’ tutto finto. Ma loro sono un Paese giovane, l’Irlanda no.

Lo stile, anche per le chiese di costruzione più recente, è sempre quello dell’alto medioevo, tipico dell’Irlanda. Grossi, monumentali edifici di pietra nera, tanto che c’è anche una chiesa del tardo ‘800 che si chiama The Black Church, la chiesa nera.



È lo stile di Dublino. Sono costruzioni che incutono timore, e non importa che siano chiese cattoliche o anglicane, sono tutte uguali. Sembrano enormi sepolcri abbandonati dove nessuno entra più: “Ring them bells, ye heathen, from the city that dreams, ring them bells from the sanctuaries”.
Sono tante le chiese di Dublino, a testimonianza di una fede (un tempo?) radicata. E c’è una zona in particolare della vecchia Dublino dove te le trovi tutte addosso, una accanto all’altra.

La chiamano “la zona vichinga”, a ovvia testimonianza di come essa sia la parte più antica della città. Per arrivarci, venendo dalla periferia, bisogna attraversare il fiume. Immediatamente dopo il ponte, uno a destra e uno di fronte, a sinistra, ci sono i due più vecchi pub di Dublino, l’O’Shea’s Merchant e il Brazen Head.



Questo addirittura ha in bella mostra sui muri la scritta “il più vecchio pub di Dublino”. Ha conservato ben poco però dell’atmosfera medievale. Meglio l’O’Shea’s,



diviso in due locali separati, dove è possibile ascoltare la sera tardi ottima musica tradizionale irlandese. Le vecchie assi di legno, i ritagli di giornali sportivi sui muri (niente calcio, solo rugby: siamo irlandesi), il palchetto addossato a un muro laterale, l’aria ancora fumosa per via di decenni e decenni di sigarette pestilenziali anche se adesso è vietato fumare nei pub. L'ultima volta che sono stato a Dublino, l'anno scorso, l'Italia e l'Irlanda erano i due soli paesi in tutta Europa dove era vietato fumare nei locali. The luck of the irish come diceva Paul McCartney, ci aggiungerei la mia sfiga abituale. Questa estate si aggiungerà alla lista anche l'Inghilterra: tra una Guinness e l’altra andare a fumare sul marciapiedi, e certo che il fumo fa male, ma non è la stessa cosa.


(How to fight loneliness when in Dublin: she is the original irish rover...)

La strada dopo i due pub curva poi a sinistra e comincia a salire in modo piuttosto brusco verso una collina che domina il fiume.

Ci sono arrivato una fredda sera di inizio febbraio, all’ora del tramonto, quella tipica ora del giorno che è sempre la più disturbante, almeno per me. Non solo perché è quella sorta di terra di nessuno, che non è né giorno né notte, “the twilight zone”, come dicono gli anglosassoni, la zona di confine. Dove il tempo sembra sospeso, e così finisci per sentirti anche tu, sospeso, incapace di svolgere lo sguardo in una direzione o nell’altra. Coincide sempre, almeno nelle città, con l’ora di punta. Meglio: “the rush hour”, visto dove ci troviamo. Quando l’orario di lavoro è finito e la gente corre a casa. E a Dublino corrono davvero, altro che Milano. Se poi sei uno straniero in una città straniera, il senso di dislocamento è ancora più grande. Perché a differenza degli altri intorno a te, che corrono a casa, tu non hai nessuna casa dove correre. Alzi gli occhi ai palazzi intorno e vedi le luci dietro le tendine. Vedi le macchine sfrecciare veloci. Guardi di nuovo verso le finestre e ti immagini il padre di famiglia che è appena tornato, la moglie che lo sta aspettando. I bambini anche. Vorresti che qualcuno ti invitasse a casa sua, per provare un po’ di quel senso di accoglienza che adesso ti manca maledettamente. Tu non hai nessuno che ti aspetta a Dublino, così continui a salire la collina.

Graham Nash, in una sua canzone, l’ha detto meglio di chiunque: “Pioggia fredda sul mio volto, gli autobus corrono veloci, il lavoro è finito, ecco la corsa, la gente se ne va a casa. Pioggia fredda e nessun posto dove andare, tanta gente condivide gli stessi tristi sogni e speranze macchiate dallo zolfo nell’aria. Quella pioggia fredda, per le strade, sono tutto solo con la pioggia fredda sul volto”.

Friday, June 15, 2007

Holy Roller. Un altro 1977



“Tu sei più un artista be bop che altro, non è vero? Ti definiresti così?”. “Oh, beh, non mi sono mai definito con un nome, ma molti dj mi chiamavano hillbilly boppeggiante e be bop…”. È il 13 maggio 1955 quando si svolge questa conversazione, e nessuno, compreso Elvis Presley, sa che accidenti sia il rock’n’roll.
Nel bel libro appena edito in Italia da White Star (contenente decine di formidabili memorabilia estraibili) “Elvis, tesori e ricordi” è incluso anche un cd con alcune interviste tenute dall’artista tra il 1955 e il 1970. In un’altra di esse, l’intervistatore gli chiede se lui si considera un “holy roller” (termine dispregiativo che si usava per definire quei gruppi religiosi il cui fervore spirituale veniva espresso con urla e movimenti convulsi). Elvis si arrabbia parecchio, ma poi ammette di aver copiato parte del suo modo di porsi sul palcoscenico dallo stile di alcuni quartetti di musica gospel che era solito vedere esibirsi da ragazzino.

Il rock’n’roll è figlio della musica del diavolo? Certamente, ma evidentemente anche della musica sacra.
Da demonio e santità, non poteva che nascere un figlio pieno di contraddizioni come appunto il rock’n’roll… ma questo ce lo fa sentire ancora più vicino alla nostra fragile natura umana.

16 agosto 2007: saranno passati trent’anni dalla morte di Elvis. Ricordo ancora quando sentii la notizia alla radio, quel giorno. Sapevo poco di lui, ma ricordo ancora come se fosse oggi le reazioni dei miei genitori, anche loro presenti in quel momento. Mia madre un po’ commossa: “Oh… è morto anche lui…”. Mio padre infastidito: “Ecco la fine che fanno tutti quei drogati!”.

Anche questo è 1977.

Tuesday, June 05, 2007

1977



Ho ritrovato queste mie foto qualche giorno fa. Molti capelli in più e la faccia perennemente incazzata. Vedo in giro un po' dappertutto celebrazioni del 1977, di cui quest'anno si ricordano i trent'anni. Queste foto credo siano del 1978, ma nel 1977 c'ero anch'io . Ricordo come fossero ieri le contestazioni al presidente della CGIL, Luciano Lama, e la nascita in quei giorni degli indiani metropolitani. Finalmente anche noi che eravamo nati troppo tardi per il '68 avevamo il nostro anno di gloria, o così credevamo.

Entrare in classe con Lotta Continua nella tasca della giacca equivaleva a farti sentire sorvegliato speciale; organizzare quello che sarebbe passato alla storia come il primo sciopero nell'unica scuola in tutta Italia che dal 1968 ad allora non ne aveva mai fatti, equivalse a essere sospesi in massa il giorno dopo. Alla fine, avrei perso anche un anno di scuola.

Ma non furono formidabili, quegli anni. Vedo che la storia viene riscritta in modo imbarazzante, come nel film di Guido Chiesa "Lavorare stanca". Dove si tace che gli incidenti in cui fu ucciso lo studente furono la conseguenza del tentativo di militanti della sinistra extra parlamentare di fare irruzione violenta in'aula dell'università di Bologna dove gli studenti di Comunione e Liberazione stavano svolgendo un'assemblea. Se la polizia non fosse intervenuta, probabilmente ci sarebbe stata una strage.
Ma secondo quel film, la polizia si divertì a impallinare gli studenti che passavano per strada.

Non furono formidabili quegli anni. Ho ancora a casa diversi libri di Toni Negri in cui ci invitava "a scendere per strada con le armi, perché era giunta l'ora della rivoluzione". Grazie Toni, a nome di tutti quei ragazzi che ti hanno preso sul serio mentre tu stavi comodamente seduto dietro la tua cattedra universitaria.

Non furono formidabili quegli anni. Quando una mattina la mia ragazza non venne più a scuola. Perché? chiesi in giro. Non lo sai? Stanotte hanno arrestata la sorella, era una della colonna militare delle Brigate Rosse.

Me la ricordo bene, anche trent'anni dopo, la sorella della mia ragazza. Girava per casa con i suoi bellissimi capelli biondi, due occhi meravigliosi e un sorriso incantevole. In carcere, si sarebbe dichiarata "irriducibile. Prigioniera politica".

La morte mi ha sfiorato molte volte, in quegli anni formidabili. Come l'eroina che arrivò all'improvviso e si portò via molti di noi.

In quegli anni Bob Dylan scrisse una canzone che terminava così: "Non posso crederci, sono vivo". A volte lo penso anch'io. Non posso crederci, ma qualcosa o qualcuno mi ha portato fino a qui.

Trent'anni fa, il 1977. Non furono anni formidabili, no davvero.

Sangue nei solchi del cuore

“Bob Dylan è in città, c’è bisogno di catturare qualcosa di magico”. La “città” è ovviamente New York, al telefono John Hammond, il più gran...

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