Thursday, January 31, 2008

The X-Factor

"Ci sarà un motivo per cui otto milioni di persone hanno cercato di andare a vedere il concerto dei Led Zeppelin, quando si sono esibiti per la prima volta dopo un sacco di anni. Questi attaccano la spina alla chitarra, c'è una batteria ed è tutto lì. Ma non hai veramente bisogno di altro se stai suonando perché accada qualcosa di magico. C’è un elemento extra nel nostro nuovo disco e non lo troverai nel mixing, nel modo in cui è stato registrato. C’è un X-Factor in questo disco ed è la ragione perché i Led Zeppelin suonano oggi come suonavano una volta,lo stesso identico sound. Non hai bisogno di essere moderno se credi nella magia della vera musica".

Così mi diceva l'altra sera Steve Gorman, storico batterista dei Black Crowes, mentre discutevamo del nuovo, bellissimo disco della band, il primo dopo la separazione avvenuta nel 2001. Non ci sono più molte band come i Black Crowes in giro, e siamo grati che siano tornati fra di noi. Perché nella loro musica accade qualcosa di magico. In Warpaint c'è molta magia, come accade solo nei grandi dischi rock.
E a proposito di magia, sta uscendo un bellissimo live contenente due concerti, uno del 1991 e uno del 1993, della mai dimenticata Maria McKee. Live at BBC è una travolgente cavalcata cowpunk di una delle più belle voci di questa musica, una che nell'X-Factor ci ha sempre creduto.

Sunday, January 27, 2008

Un vento idiota nel tunnel dell'amore

"A quel tempo ero ancora sposato, come avrei potuto comporre canzoni che parlassero del mio divorzio? Vorrei che la gente mi chiedesse un parere, prima di scrivere certe stronzate" (Bob Dylan, a proposito del contenuto lirico del disco Blood on the Tracks)

"Le canzoni di Tunnel of Love nacquero in un unico luogo e in un breve periodo di tempo. Scrivere non fu doloroso e sebbene alcuni lo abbiano pensato non fu propriamente uno sfogo autobiografico" (Bruce Springsteen, a proposito del contenuto lirico del disco Tunnel of Love).

Che la grande arte si manifesti attraverso l'esperienza del dolore, è da sempre il grande quesito che sembra avere una risposta a senso unico: sì, la grande arte è manifestazione del proprio dolore. Non ci può essere buona arte senza il dolore. Soprattutto, l'arte deve essere biografica, nascere da esperienza vissuta.
Per quel che ci riguarda, la canzone rock, potrebbe essere interessante sfatare questo mito, almeno una volta. Blood on the Tracks e Tunnel of Love sono due dischi che, seppur composti e pubblicati a più di dieci anni di distanza l'uno dall'altro hanno diversi punti in comune. Composti quando i due autori di essi sono all'incirca della stessa età (33 anni Bob Dylan, 36 Bruce Springsteen), entrambi sposati (da molti anni il primo, da circa un anno il secondo, ma entrambi alle prese con la loro prima esperienza matrimoniale), sono tutti e due una sorta di concept dedicato ai travagli e alla difficoltà insite nei rapporti di coppia. Per tutti e due, Dylan e Springsteen, alla luce dei rispettivi divorzi di poco successivi all'uscita di questi due lavori, si parlò appunto di narrazione in tempo reale di quanto stava accadendo nelle loro vite.
Musicalmente, seppur il disco di Springsteen soffra di una certa produzione fortemente legata al periodo storico in cui viene inciso e cioè gli anni 80, infarcito come è di tastiere synth e di batteria elettronica, si rifanno alla struttura semplice ed essenziale della canzone popolare nord americana. Folk per Dylan, leggermente più country Springsteen.
Liricamente, Dylan, da quel grande scrittore che è, adatta le sue riflessioni su una serie di piccoli spunti cinematografici, autentici squarci che si aprono su episodi (apparentemente?) realistici. E' un nuovo approccio al suo stile di scrittura, come spiegherà in seguito il cantautore. Springsteen, anch'egli a un momento di svolta nel suo approccio compositivo, si cala in una serie di riflessioni personalissime, non disdegnando a tratti anch'egli piccoli ritratti narrativi.


Entrambi i dischi sono due coraggiose disanime, al limite della seduta psicoanalitica, della difficoltà per un uomo e una donna di vivere insieme: "Dovrebbe essere facile, dovrebbe essere abbastanza semplice / Un uomo incontra una donna e i due si innamorano / Ma la casa è abitata dagli spettri e la corsa si fa dura / E devi imparare a vivere con quello che non puoi superare / Se vuoi percorrere fino in fondo questo tunnel dell'amore" canta Springsteen nel pezzo che dà il titolo al suo disco.
Dylan dal canto suo, al termine di una delle più rabbiose tirate che la storia del rock ricordi, Idiot Wind, conclude con l'accettazione di una realtà inconfutabile, quella che siamo tutti e due incapaci di costruire l'amore perfetto: "Un vento idiota ci passa tra i bottoni dei cappotti / Passa tra le lettere che ci siamo scritti / Un vento idiota ci scompiglia la polvere sui ripiani / Siamo tutti e due degli idioti, bambina / E' un miracolo che siamo in grado di nutrirci da soli".


(grandi coppie rock: Paul e Linda McCartney, Sara e Bob Dylan, Cher e Gregg Allman - 1975)

Che i due dischi non nascano necessariamente da esperienze dolorose di separazione in atto, lo dimostra ad esempio il fatto che Blood on the Tracks contenga un brano come Shelter from the Storm, dichiarazione di riconoscenza immensa verso la donna (la moglie) che anni addietro lo salvò da una corsa disperata verso l'autodistruzione, dandogli un "rifugio dalla tempesta". Per Springsteen, ci sono brani come Ain't Got You, Tougher Than the Rest, Walk like a Man a parlare di un rapporto ancora in atto. L'abilità e la grandezza dei due autori dunque è quella di calarsi in tutte le condizioni del rapporto amoroso (riconoscenza, accettazione, separazione, antagonismi, riconciliazione, desiderio dell'altro, fuga da esso) pur non essendoci necessariamente passati attraverso: è questo che fa di Dylan e di Springsteen due autori immensamente superiori a probilmente qualunque loro altro collega, capaci di uscire dai vincoli stretti dall'autoreferenzialità e spaziare nell'universalità della narrazione. E' lo sguardo spaventato di due uomini (di tutti gli uominie di tutte le donne) che stanno incamminandosi verso la maturità compiuta della loro vita e che si trovano pieni di paure e di dubbi su quanto sta accadendo loro: questo rapporto sarà la mia salvezza? Potrà questo amore risolvere tutte le mie angosce? E'questa la risposta che ho sempre cercato? Non c'è niente di più coraggioso e di più dignitoso di un uomo che si pone le domande essenziali e fondamentali del suo cuore. A costo di guardare nel buio dell'abisso. Che Springsteen e Dylan lo facciano con una manciata di grandi canzoni, è il dono della loro arte (meglio quelle di Dylan che quelle di Bruce, in questo caso, ma quella sarebbe un'altra storia...).

C'è un brano che dice che probabilmente Springsteen aveva ascoltato attentamente Blood on the Tracks, ed è il miglior della sua raccolta, la bella One Step Up. L'immagine dell'uccello fuori della porta del motel,silenzioso testimone "altro" degli accadimenti ("Un uccello su un filo fuori della stanza del mio motel, però non canta) riporta alla memoria l'uccello di quello che anche per Dylan è il brano migliore del suo album, You're a Big Girl Now: "Un uccello all'orizzonte, in cima a uno steccato / Mi canta una canzone a spese sue".
Due canzoni piene di ansietà, di rimorso, al limite della disperazione, e se in quella di Dylan c'è il fatto compiuto ("Ti troverò nella stanza di qualcun altro, questo è il prezzo da pagare"), anche in quella di Springsteen sembra che l'amarezza e l'impossibilità siano ormai la realtà: "Tutto uguale, notte dopo notte / A dirsi chi ha ragione e chi ha torto / Litighiamo e io sbatto la porta / Un'altra battaglia nella nostra piccola guerra / Da qualche parte lungo la strada ho preso la direzione sbagliata".

"La vita è triste, la vita è una fregatura, puoi fare soltanto ciò che devi, fa' ciò che devi fare e fallo bene" conclude mestamente Bob Dylan nell'ultimo brano della raccolta. Salvo adeguarsi alla contingenza della realtà: "Io lo farò per te, amore mio". Accade più o meno lo stesso per Bruce: "Dicono che se muori nei tuoi sogni, allora muori davvero nel tuo letto / La scorsa notte ho sognato che i miei occhi si rovesciavano all'indietro e la luce di Dio giungeva a illuminare tutto / Non era il freddo letto del fiume che sentivo scorrere sopra di me / Non era l'amarezza di un sogno che non si era avverato / Non era il vento nei campi grigi che sentivo soffiare tra le mie braccia, no amore: eri tu".

Questa è arte. La vita, quella quotidiana, avrebbe per entrambi preso la direzione che la vita stessa impone, rispecchiandosi nell'arte da loro stessi poco prima cantata. Circa un anno dopo o poco più l'uscita di questi due dischi, tornati entrambi on the road, sia Dylan che Springsteen avrebbero visto i loro matrimoni concludersi nel modo peggiore. Ne sarebbero nate delle grandi canzoni, ancora una volta.

Friday, January 25, 2008

Into the Music

È partito bene il 2008. Ovviamente per me si tratta per la maggior parte di ristampe, ma c'è un sacco di buona musica da recuperare, riscoprire e avvicinare per la prima volta che sta uscendo in questo periodo.

La prima sorpresa è il doppio live che riporta due esibizioni fino ad oggi inedite dei Flying Burrito Brothers all'Avalon Ballroom di San Francisco, risalenti al 1969.Il gruppo capitanato dai due ex Byrds Gram Parsons e Chris Hillman aveva da poco pubblicato lo straordinario disco di debutto della loro band, l'imperdibile The Gilded Palace of Sin, coraggioso viaggio a tempo di musica country nella rock babylon che era la Los Angeles del tempo - la "sin city", appunto - e questa testimonianza dal vivo documenta tutta la loro formidabile intuizione, quella di una "cosmic american music" che mettesse insieme George Jones e i Grateful Dead.
Il primo cd ha una qualità audio così così, il secondo è praticamente perfetto ed è una gioia sentire i due armonizzare vocalmente così bene anche dal vivo e sentire la steel guitar psichedelica di Sneaky Pete Kleinow sbizzarirsi a ruota libera.


Il secondo disco che cito non è una sorpresa, è da sempre fra i cinque più grandi dischi dal vivo di sempre, ma viene ristampato anch'esso con ottima masterizzazione e un brano in più, una seppur non imprenscindibile Brown Eyed Girl. Come dice orgogliosamente il sottotitolo in copertina di It's Too Late To Stop Now di Van Morrison fu registrato nell'"estate del 1973": ricordate il film Almost Famous? Si svolgeva proprio in quell'estate, probabilmente l'ultimo grande momento della storia del rock, Patti Smith e storie punk a parte. Van Morrison sarà fra pochi mesi qui a Milano; l'ho visto dal vivo un sacco di volte a cominciare dal 1991, ma a parte qualche momento, si è sempre trattato di performance svogliate e dimenticabili. Il Morrison di questo live è tutt'altra cosa: "listen to the lion", come diceva lui. Gigantesco e capace di terrorizzarti.


Chiudo citando anche un disco nuovo di pacca. Shelby Lynne, sorella della rocker Alison Moorer (settima moglie dell'infaticabile Steve Earle) è stata fin'ora circoscritta nel panorama del country-pop. Voce splendida, ma poche emozioni. Stupisce tutti adesso con un disco di una bellezza a tratti insostenibile: Just a Little Lovin' è una raccolta di canzoni incise ai tempi dalla bravissima Dusty Springfield, brani di grande musica pop, quella vera, venata di soul. Ci vuole qualcuno che sappia una cosa o due dell'esperienza del dolore per poterli interpretare, e Shelby (il padre prima di suicidarsi le uccise la madre, quando lei aveva soli 17 anni), di esperienza del dolore ne sa qualcosa. Ecco perché questo disco, prodotto in modo minimale, fatto di pause e di silenzi dell'anima, di note profonde di Fender Rhodes, basso e batteria, ha tutti i battiti del cuore e dell'anima. Il resto lo fa la sua voce, intensa e potente, dolce e malinconica. Soprattutto vera.

Cito ancora il nuovo Nick Cave, Dig!!! Lazarus Dig!!!: non imprenscindibile, ma una robusta cavalcata di garage rock piena di humour e dissacrazione, come da tempo l'australiano non faceva: "Alla fine, cosa ne sappiamo della morte, e chi in realtà se ne frega?". Impagabile Nick. Neanche il miracolo della resurrezione, di cui racconta il disco, è abbastanza, se perdi il significato di quello che ti è accaduto. Biblicamente, sarebbe come dire "che giova guadagnare il mondo se perdi te stesso?".

Keep rockin', alla prossima.

Thursday, January 24, 2008

Il sogno di Patti Smith

Viene presentato in questi giorni al Sundance Film Festival Dream of Life, attesissimo documentario sulla vita e sull'arte di Patti Smith.
Come potete vedere da questo trailer piuttosto lungo e informativo, ci sono inedite e rarissime immagini risalenti anche agli anni 70. Inutile dire che è l'evento - insieme al film su Joe Strummer - della stagione cinematografica 2008 (grazie a Luca Skywalker per la segnalazione).
Nella speranza che arrivi anche in Italia, ovviamente.

Monday, January 21, 2008

The road goes on forever - and the party never ends


“Are you ready for some roadhouse honky tonk rock’n’roll?”. È l’invito che fa Ryan Bingham, dopo aver eseguito, in totale solitudine, un toccante brano ancora inedito con ottimo fingerpicking di scuola folkie e armonica dylaniana. Dopo, è un tripudio di atmosfere torride molto southern rock e poco honky tonk. Sorta di “electric cowboy” nascosto da un cappello (da cowboy, ovviamente) bianco, giacca di pelle stile Al Pacino in qualche film anni 70, il giovane Bingham ha carisma da vendere e soprattutto ha dimostrato dal vivo tutte le sue qualità, alla prova live dove molti esordienti invece falliscono.

Anzi, decisamente meglio dal vivo che nel pur ottimo Mescalito, disco che ha eseguito interamente (mancava stranamente l’iniziale Southside Of Heaven), scatenandosi nel finale di concerto anche alla slide elettrica. Degna di menzione – a sottolineare il suo talento e quello della sua ottima band in cui spiccava un batterista che con sola grancassa e rullante ha fatto più rumore della buon’anima di John Bonahm, concedendosi tra un pezzo e l’altro “ a shot of tequila and a shot of beer” in perfetto stile texano – la devastante resa di For what it’s worth che invece su disco passava senza scosse, con crescendo cosmici in cui ben tre chitarre slide duellavano “in memory of Duane Allman”.
(Ryan Bingham: a destra "Cowboy Annie" e a sinistra, "the enemy")

La voce “nera” – splendida anche dal vivo – e il look da uomo misterioso e un po’ schivo che ha sul palco scompaiono quando lo incontri di persona. Con Anna – che da oggi chiamerò “Cowboy Annie” – arriviamo nel tardo pomeriggio e ascoltiamo quasi un’ora di ottimo soundcheck. Un bel privilegio. Dopo, passiamo una ventina di minuti a parlare con Ryan, che appare come il ragazzo che in fondo è (25 anni): simpatico, allegro, felice – per dirla alla Dylan – “just to be alive”. Colpiscono gli occhi che sprizzano gioia di vivere e il sorriso sempre aperto per tutto il tempo che parla. Non c’è traccia del “blues” che eppure ha dovuto patire nella sua giovane esistenza. Evidentemente il rock’n’roll è ancora una buona medicina.

Promette di tornare in Italia con i suoi amici Joe Ely e Terry Allen (“the bastard”, come lo chiama lui ridendo come un matto) per una “all Texas rock’n’roll cowboys revue”. E ficca il suo cappellaccio da cowboy in testa ad Anna, stringendola forte. Che gli ha scritto un bigliettino, apposta, e che lui legge con un grande sorriso: “Nessuna espressione dei sentimenti umani è più grande della musica.Il canto è l'espressione più autentica dell'uomo, se l'uomo è uomo, ed è tale se appartiene.Il figlio, se la madre è nei pressi, canticchia. Così appena c'è il movimento, anche piccolo, anche un frammento, canta.L'uomo canta quando il Mistero è nei pressi".

Ryan Bingham: il rock sarà anche morto, ma c’è ancora chi non se lo vuol sentir dire.


(Le foto on stage sono di Stefania Malapelle)

Saturday, January 19, 2008

Strummerville

Sarà nei cinema italiani verso la fine di febbraio. The future is unwritten è un eccellente documentario sulla vita di Joe Strummer, a opera del bravo regista Julien Temple (autore di classici come The Filth and the Fury sulla storia dei Sex Pistols e videoclip per gente come Rolling Stones, Neil Young e Tom Petty fra gli altri).
Visto l'interesse che questo tipo di film suscitano in Italia, state all'erta, probabilmente resterà nelle sale un giorno e mezzo.

(Il regista Julien Temple con la figlia)

Ho avuto modo di vederlo su dvd, per prepararmi a una intervista con il suo regista, ed è un ritratto profondo, dettagliato, toccante ed emozionante di uno degli ultimi grandi eroi del rock'n'roll: ricco di testimonianze di amici, colleghi e ammiratori (tra cui Bono e Johnny Depp), ci lascia con una sola amarezza, la stessa che esprime Bono con le sue parole: "Odio i Clash perché non ci sono più".
Dio sa quanto ci sarebbe bisogno oggigiorno di quella che era "the only band that matters".

Del film, la cosa più bella è scoprire i cosiddetti "campfires": Joe, infatti, nei suoi ultimi anni di vita, amava ritrovarsi con amici e fans attorno a dei grandi fuochi, ovunque fosse possibile, vicino a casa sua o sotto il ponte di Brooklyn, a parlare, discutere, cantare assieme per tutta la notte. Li considerava la cosa più significativa della sua intera carriera e la dice lunga dell'attenzione e della passione che Joe aveva per il dialogo, il confronto, l'unione con la gente, di cui non poteva fare a meno. Tutto il contrario di una rock star, lui che da ragazzo diceva sempre che l'unica cosa che voleva fare nella vita era diventare una rock star.
Lo è diventato, una rock star. Ma di più, molto di più.

Monday, January 14, 2008

This must be the night

Alla fine degli anni 70, era difficile in questa picola Italia musicalmente male informata capire cosa succedesse veramente dall'altra parte dell'Atlantico, là dove sin dagli inizi batteva il nostro rock'n'roll heart. Internet non esisteva neanche nei sogni più selvaggi e allora dovevi affidarti alle poche notizie che scoprivi di traverso su qualche sparuta rivista musicale. C'eravamo accorti che il nostro grande sogno di California si era infranto, e l'unico di cui sapevamo sempre (quasi) tutto era ovviamente Bob Dylan, fenomeno mediatico sempre sulla cresta dell'onda anche grazie al ritorno in Europa nel 1978.

Punk, new wave e quant'altro, non ci capivamo un tubo e poi i Sex Pistols erano spariti nel giro di pochi mesi. Solo più tardi avremmo scoperto che nella bolgia infernale del CBGB's e dintorni, a Manhattan, approffittando della gran confusione, si erano gettati degli inguaribili romantici che sognavano i Drifters e Dion, il Bob Dylan di Blonde on Blonde e i Velvet di una femme fatale. Due di loro, soprattutto, ci sarebbero entrati nel cuore, cantori e poeti delle night lights di NYC, Elliott Murphy e Willy DeVille, ai tempi ancora come Mink DeVille.
Il destino li avrebbe accomunati entrambi: troppo profondi, troppo incorruttibili alle lusinghe del commercio, troppo fedeli all'etica del rock'n'roll, si sarebbero duvti adeguare al destino di "americani a Parigi", o magari ad Amsterdam. Insomma, l'Europa li avrebbe accolti trionfalmente e l'America si sarebbe quasi dimenticata di questi suoi due figli eccellenti.

La prima volta che ho visto Willy in concerto è stato - credo - nel 1991, al Rolling Stone di Milano, adirittura come Mink DeVille, una di quelle serate che ti trafiggono in due, blinded by the light da una musica inguaribilmente romantica, sulle note di un sax latino che implorava le luci di Little Italy e Spanish Harlem: "this must be the night" cantava quell'incredibile sosia di Capitan Uncino sul palco, e quella fu la notte. Quando la musica viene suonata come se fosse l'ultima occasione in vita e tu ne vorresti smepre di più.

L'ho rivisto poi altre volte, durante il periodo del formidabile disco Backstreets of Desire, quello della prima sbornia su New Orleans e il Messico, e Willy era diventato una sorta di Zorro in cerca di tequila, il periodo di Hey Joe come se ci si trovasse a Tijuana e di Demasiado Corazon, diventata nota - ahimè - come sigla di Zelig. Concerti di una intensità formidabile anche questi, capaci di portarti fra le luci (rosse) del French Quarter della capitale della Louisiana.

Parlare con DeVille era una delle ultime ambizioni rimastemi, ed è stata finalmente soddisfatta. Quando gli dico che il suo sguardo - della serie "che cazzo ci faccio qui" - quando qualche anno fa fu portato sul palco dello Zelig ad eseguire appunto Demasiado Corazon e a sorbirsi le battutine di Bisio e compagnia fu impagabile, scoppia a ridere fragorosamente: "Ma mica me lo ricordo" aggiunge poi. "Accidenti, trent'anni di questa vita, è difficile ricordarsi ogni cosa".
Ci credo, anche perché lo stile di vita di Willy lo ha portato più volte nella colonna delle notizie "nere", fortunatamente risoltesi bene, ma ancora ricordo la delusione dell'annullamento di un altro suo concerto perché "l'artista non si è sentito bene in albergo". Insomma...

Mentre parliamo al telefono, lo sento lamentarsi per la tosse e il forte raffreddore ma anche imprecare perché "non trovo quelle cazzo di sigarette". Impagabile Willy. Mi racconta storie stralunate in cui spesso perde il filo di aver visto il Grande Spirito alzarsi sopra Manhattan mentre passeggiava per la Sesta Avenue (Willy è parte irlandese, parte francese e parte nativo americano), oppure di aver visto da ragazzo John Lee Hooker e di aver percepito la paura che la musica può anche procurare. Si intristisce dicendo che tutti i grandi del blues ci hanno lasciati uno dopo l'altro, ma poi ride di gusto quando mi dice che a 17 anni si trovava in un locale di New York e c'era questo tipo che cantava. Chiese al proprietario chi fosse e quello gli disse "Non so, uno che sembra Bob Dylan". "No way!" si infervora Willy, "era Paul Siebel e Bob Dylan non potrebbe mai cantare così bene! E io lo posso dire perché sono amico di Bob e Bob mi darebbe ragione". Ok Willy, take it easy...

Quando era più giovane, l'unica cosa che sognava era di avere una band di cui NYC potesse essere orgogliosa. Perché quella città ha prodotto alcuna della miglior musica di sempre. Prima di salutarlo gli chiedo se ha coronato quel sogno. "Non dovrei risponderti, perché sembrerei presuntuoso". Si zittisce, poi aggiunge con un tono per la prima volta non più spavaldo o visionario, ma quasi umile: "Però credo di sì. Ho sempre avuto i migliori musicisti con me. Ne sono grato a Dio, e sono grato a Dio di avermi permesso di fare tanta buona musica. Credo di aver saldato il mio debito con New York. Questa città mi ha dato tanto, ma credo di aver fatto musica degna di lei".

Pistola (lo so, è un titolo che a noi italiani fa ridere, ma Willy dice che in slang - da ragazzo - quando vedevano delle belle ragazze, lui e i suoi amici si dicevano: "Man, that girl is a pistol!", cioè quella ragazza è proprio "carina"...) esce nei negozi fra poco ed è un gran bel disco, consigliato. Ad aprile suonerà alcune date in Italia. E' ovvio... "this must be the night"...
(intervista completa su JAM di febbraio)

Friday, January 11, 2008

L'uomo con le valigie in mano


Arivo sempre tardi, lo so. Soprattutto quando si tratta di musicisti italiani, che tendo sempre a snobbare. Pica!, il suo nuovo disco in uscita ai primi di febbraio, è il primo che ascolto nella sua interezza e mi piace un casino. Non solo perché Davide Van De Sfroos si ispira abbondantemente alla musica americana che amo di più (country, folk, cajun) - e che bello sentire un banjo in un disco italiano - ma anche per i bellissimi testi, che non capendo un azz di dialetto alto-lombardo (manco basso, mi sun genovès... si dice così?) mi sono letto nella traduzione.

È un cantastorie, Davide, di storie che ha conosciuto o sentito di persona, storie che non leggerete su nessun giornale o sentirete in nessuna trasmissione televisiva, perché storie "vere", mica le balle che ci propina la De Filippi e compagnia, con un approccio alla vita fatto di forte realismo (sentitevi la bellissima New Orleans), amore per quei valori che oggi tutti disprezzano (dignità del lavoro, famiglia, ad esempio) e soprattutto sguardo aperto al mistero, come la Madonnina della splendida 40 pass, una delle più belle canzoni di cantautorato italiano che abbia mai ascoltato.

L'ho intervistato per il prossimo JAM. Mi piace anticipare un paio delle sue dichiarazioni che dicono di che pasta è fatto il Van De Sfroos. Che ad aprile suonerà al Forum di Assago. Mica male, per uno che è partito dal lago con un paio di valigie in mano...

"(La canzone New Orleans) racconta la storia d’amore di queste due persone con lo scenario drammatico di quello che stava succedendo. Le polemiche su quello che si poteva fare davanti all’uragano non fanno parte della realtà in cui l’uragano arriva per davvero. La cosa che mi ha colpito quando sono arrivato là erano le scritte fatte con la bomboletta spray dai vigili del fuoco sui marciapiedi che segnalavano, con dei codici appositi, i posti dove avevano trovato persone morte oppure nessun morto o ancora gli animali morti. La sensazione che avevi era che c’era una assenza, quella di chi era dovuto andar via o di chi era morto. Come dico nella canzone, ‘queste assenze da lasciar tacere’. Quello che fa rumore ancor più delle polemiche sono le assenze, ma il protagonista spezza una lancia a favore della speranza: ‘Ti garantisco che ti riporterò a New Orleans’ dice. Il loro problema al momento non è chi aiuta o chi no, ma esserci, nella contingenza, in quella che è la realtà del momento”.

"40 pass parla di tre persone che non esistono, anche se come loro ne conosco almeno 15. È un ritratto della mia generazione, di amici che hanno abbandonato il lago per andare in città. Qualcuno è diventato davvero un gigolo malavitoso, qualcun altro ha davvero studiato e poi negli anni di piombo è entrato nelle Brigate Rosse. Qualcun altro ha provato a diventare poliziotto e poi è diventato una specie di Robin Hood dei deboli. Con questa canzone ho voluto celebrare il mio rinnovato avvicinamento a Milano. Da bambino rappresentava una città gigantesca, un mondo che sentivi solo nei telegiornali. Quando poi arrivavi davanti al Duomo c’era una sorta di reticenza, la gente di paese diceva ‘che chiesa grande il Duomo’, per uno che viene da una chiesa di paese per entrare lì ci vorranno dei permessi tanto è imponente. La Madonnina di cui canto alla fine rappresenta un punto a cui guardare, a cui si rivolgono i tre protagonsiti della canzone, ma a cui in un certo senso mi rivolgo anch’io, rappresenta la redenzione: forse invece del telepass per entrare in Duomo basta fare ‘40 passi’, chiunque può entrarci. La Madonnina è il simbolo che io riconosco adesso di Milano, una città un po’ più mia e un po’ meno feroce”.

Tuesday, January 08, 2008

The wicked messenger

La data di uscita esatta non se la ricorda nessuno. C’è chi dice pochi giorni dopo il Natale del 1967, c’è chi dice nei primi giorni del gennaio 1968. Comunque,più o meno, quarant’anni fa, per quello che sarebbe rimasto come il disco del ritorno lungamente atteso di Bob Dylan dopo l’incidente con la motocicletta del 29 luglio 1966 (curiosamente, esattamente un mese dopo, il 29 agosto, i Beatles tengono, a San Francisco, il loro ultimo concerto; in un certo senso, si può dire che gli anni 60 finiscono in questo breve spazio di tempo, tra il 29 luglio e il 29 agosto 1966, quando l’artista e il gruppo rock più innovativi della decade si ritirano entrambi dalla luce dei riflettori, salvo tornare in modi diversi e comunque profondamente mutati; entrambi smettono di esibirsi dal vivo con una sola eccezione sia per l'uno che per gli altri, a gennaio '69 sul tetto della Apple i Beatles, ad agosto '69 all'Isola di Wight Dylan) e prima del periodo, come lui stesso lo definì, “di amnesia” che lo avrebbe condotto a pochi e sconclusionati dischi tra il periodo 1969 e 1974.

John Wesley Harding, definito dall’autore “il primo disco di rock biblico” perché liricamente influenzato dalla lettura del Sacro Testo, rimane ancora oggi come un piccolo enigma nel percorso del suo autore e della musica rock stessa. In piena esplosione psichedelica (la scena di San Francisco e dall’altra parte della Manica, i Pink Floyd) e già con le prime avvisaglie di hard rock (le ultime poderose bordate dei Cream e i Led Zeppelin che presto sarebbero entrati in studio per registrare il loro esordio) Dylan se ne usciva con un disco dal passo apparentemente tranquillo, registrato con semplice accompagnamento di basso e batteria e le sue chitarra acustica e armonica.
Per la prima volta, poi, aveva scritto i testi prima delle musiche, testi che abbandonano la visionarietà allucinata e anfetaminica di poco tempo prima per adagiarsi su sermoni moralisti, visioni da apocalisse e rivisitazione angosciata dei miti del proprio Paese (dai Padri Pellegrini a Tom Paine fino al fuorilegge del Vecchio West John Wesley Hardin – senza “g” ovviamente, aggiunta da Dylan per allontanarsi dalla storicità del personaggio).

È una musica antica, così senza tempo che di tutti i dischi usciti in quel periodo, questo album suona oggi forse come il più fresco e contemporaneo di tutti, una musica che risaliva all’estate “della cantina”, quando, nel giugno e luglio 1967, Dylan e amici di The Band avevano registrato la loro versione della “repubblica invisibile” aggiornata ai tempi correnti, i nastri passati alla storia come Basement Tapes e che avevano profondamente influenzato il percorso di tutti quanti ne erano stati coinvolti. Al disco come lo aveva registrato in pochi giorni a Nashville, lui avrebbe voluto aggiungervi il suono dei suoi amici di The Band: chiese a Robbie Robertson e Garth Hudson, infatti, di aggiungere a quelle registrazioni chitarra elettrica e tastiere. Loro gli risposero “sei pazzo, questo disco è perfetto così”. Possiamo immaginarci come avrebbe suonato John Wesley Harding se avessero fatto ciò ascoltando le versioni live di alcuni brani come Dylan e The Band li eseguirono un anno dopo al concerto all’Isola di Wight, versioni dal taglio spigolosamente rock proprio come la musica di The Band, e forse è stato meglio così, per entrambi. L’esordio del gruppo, avvenuto qualche mese dopo, forse sarebbe stato meno sorprendente.

Appena uscito, JWH viene “divorato” dai tanti fan di Bob Dylan, ad esempio Jimi Hendrix che comincia a riprenderne diversi pezzi, fino ovviamente all’epocale resa di All Along The Watchtower, un pezzo che annuncia profeticamente l’apocalisse del ’68 che ben presto si sarebbe scagliata sul mondo. Se nel pezzo di Dylan questa apocalisse rimane sospesa a mezz’aria, nella devastante resa del chitarrista di Seattle essa si scaglia a forza di esplosioni furiose sull’ascoltatore: “Deve esserci una via di uscita da qui”, si chiedono senza molta speranza i protagonisti del brano. Nell’anno della rivoluzione, molti avrebbero cercato, senza trovarla, una via di uscita.

In copertina, qualcuno, seguendo la moda dell’epoca, avrebbe voluto vedervi dei messaggi nascosti: nel tronco del grosso albero centrale, capovolgendo la foto, si vedrebbero nascoste le faccine dei quattro Beatles, una specie di risposta alla loro inclusione di una sagoma di Dylan nella cover di Sgt. Pepper: non affannatevi a girare di lato il vostro cd, si vede qualcosa soltanto sulla foto del vinile originale, ma in effetti sembra proprio di scorgere i volti di John, George, Paul e Ringo.
Un disco, John Wesley Harding, che non sarebbe mai stato portato in tournée e che rimane come una profezia, o forse un'anatema, sui "tempi che stavano cambiando", per quanti riuscirono ad accorgersene. Uno dei pochi a farlo fu Jon Landau, il futuro scopritore di Bruce Springsteen, che nella sua recensione sulla rivista Crawdaddy, scrisse: "Dylan dimostra una profonda conoscenza della guerra (in Vietnam, nda), e degli effetti che sta avendo su di noi. Questo non significa che qualche canzone in particolare parli della guerra, o che qualche canzone sia una protesta contro di essa".

E ancora, cogliendo perfettamente il senso profondo di quello che Bob Dylan era (ed è ancora) e che quasi nessuno, allora come oggi, riesce a capire dell'artista: "Il Dylan di JWH è profondamente morale. Naturalmente Dylan è sempre stato un moralista, ma in questo disco la natura del suo moralismo è alterata. Nel passato i suoi giudizi erano il risultato di irrealistiche, stereotipate rappresentazioni del bene contro il male. Erano il moralismo kitsch della giovane America. Un moralismo pop, al massimo".
Avrà anche scoperto il futuro del rock'n'roll, ma ci manca la lucidità e la profondità del giornalista Jon Landau.

Friday, January 04, 2008

Il combattente di strada

Sul numero di JAM in edicola in questi giorni troverete un articolo, a cura del sottoscritto, che ha per tema il quarantennale del 1968 visto attraverso la musica rock: "68, tra rock e rivoluzione". Una piccola punta di iceberg per un argomento vastissimo, spero possa piacervi.

La cosa che mi ha colpito di più, mentre lavoravo al pezzo, è stato vedere come - oltre al fatto che ancora una volta la musica rock è stato lo specchio più puntuale, onesto e affascinante di ciò che accadeva nel mondo - di un anno passato alla storia come quello della "gioiosa rivoluzione" o qualcosa di simile, i musicisti rock cantarono invece la grande paura, i dubbi, le angosce, le violenze di uno scontro tra generazioni che stava sì cambiando il mondo, ma che non prometteva niente di buono: "Hey! said my name is called disturbance, I'll shout and scream, I'll kill the king,I'll rail at all his servants, Well, what can a poor boy do, Except to sing for a rock n roll band cause in sleepy London town, Theres no place for a street fighting man" cantavano gli Stones in uno dei loro massimi esempi di canzone rock.
Ecco il video di un brano che ancora oggi fa paura:

Ancora meglio, gli Stones si mettevano in discussione nell'epocale Sympathy For The Devil (no, non una canzone demoniaca, sciocchini... ma una coraggiosa autodenuncia che il punto di partenza di tutti i mali siamo noi, gli uomini, capaci di uccidere "Gesù Cristo, lo zar e i Kennedy(s)"). Già. Perché quando Mick e Keith cominciarono a scrivere questo pezzo, di Kennedy morto c'era solo John; quando lo finirono, era stato ucciso anche il fratello Robert, e dovettero aggiungere il plurale alla parola "Kennedy".
L'allucinante film di Jean Luc Godard mostra tutto il tentativo del '68 di applicare l'ideologia alla forma d'arte, ed ecco il trailer del leggendario "Sympathy For The Devil", conosciuto anche come "One plus One":

E infine il '68 viene egregiamente catato anche dai Beatles, nella splendida "Revolution", che fa dire al più politicamente impegnato dei Fab4, "ragazzi, se volete la distruzione, io non ci sto" ("You say you want a revolution, Well, you know, We all want to change the world, You tell me that it's evolution, Well, you know, We all want to change the world, But when you talk about destruction, Don't you know that you can count me out")

Formidabile quell'anno, musicalmente parlando...

Wednesday, January 02, 2008

Grazie Giuliano

Cominciamo il nuovo anno con un bel grazie, a una persona degna e coraggiosa.

Non sono mai stato un suo fan. Sin dai tempi in cui importò in Italia la "tv spazzatura" - che da noi non siamo capaci manco di inventare le schifezze, copiamo anche quelle - facendo scuola, al suo dichiarato sostegno alla lobby di Lotta Continua, certi compagni che dopo averci detto che dovevamo fare la rivoluzione a "pistola tratta", negli anni 70, si sono poi tirati fuori, negando le loro colpe di cattivi maestri e diventando intoccabili del nuovo potere - insomma, non sono mai stato un patito di Giuliano Ferrara.

Ma oggi ho cambiato idea. Era da tempo che "gli giravo intorno", ammirando il suo ottimo programma Otto e mezzo, oggi l'unico momento televisivo degno di essere guardato, per la onestà intellettuale di chi lo conduce e la profondità dei temi trattati. Massimo rispetto per l'ultimo intellettuale libero in Italia, allora, un laico non credente che in nome della ragione è capace di far sue anche le battaglie della Chiesa, tanto per dirne una, senza preoccuparsi di calcoli di interesse. Oggi è in prima linea con la moratoria dell'aborto. Che non è, come certi professionisti del potere dicono, una battaglia per eliminare la legge che permette la libertà di aborto, ma una battaglia per far sì che questa legge, la 194, sia finalmente applicata come dovrebbe essere. E cioè non come un metodo contraccettivo, come pianificazione delle nascite, di facile fuga dalle responsabilità, come mezzo orribile per l'eliminazione fisica di chi è portatore di handicap, finendo per aver creato un nuovo sterminio di massa (aggirando molto spesso persino i limiti di tempo imposti dalla legge per l'interruzione della gravidanza). Perché non è vero che questa legge è stata un baluardo contro gli aborti clandestini, ma per il modo con cui è sempre stata applicata essa è stata solo un'incentivo per abortire. Ferrara fa questa battaglia ospitando sul suo quotidiano Il Foglio le voci di - udite udite - non preti e cardinali, ma di laicissimi atei liberal, come Nat Hentoff, eroe ebreo e ateo dei diritti civili americani da decenni, che ha scritto per giornali radicali come il Village Voice e intervistato lungamente artisti come Bob Dylan. Lo fa ospitando la voce di George McKenna, il teorico del liberalismo americano, tutta gente che oggi riconosce come l'aborto sia una piaga dell'umanità e che le leggi vengono applicate in modo distorto. Come racconta su Il Foglio una certa Simona: "Al consultorio non mi dicono che c'è chi mi può aiutare. Nessuno che applichi a dovere la 194 che dice che se i motivi per cui una donna decide di abortire sono estranei alla sua volontà (nel suo caso, essere stata lasciata sola dal fidanzato e dai genitori), lo Stato ha il dovere di eliminarli per far sì che la scelta sia davvero libera da ogni costrizione. Con me non hanno applicato la 194" (come successo a un mio caro amico, che quando ha scoperto di aspettare un figlio portare di handicap, al consultorio gli hanno detto: "Lei è un pazzo a farlo nascere, vada a far abortire sua moglie"). O, ancora, raccontando casi come quelli della donna in carriera di 32 anni, da NYC, che - accidenti! che sciocchina - si dimentica sempre la pillola del giorno dopo e di aborti ne ha già fatti tre, "ma tanto" dice lei "dopo un po' ci fai l'abitudine e non te ne accorgi manco più". In quello che sta facendo, Ferrara sta smascherando l'ipocrisia di un finto laicismo che sta distruggendo gli uomini e le donne di oggi, manipolati dall'illusionismo dei falsi diritti civili, che oggi piuttosto si dovrebbero chiamare "logiche di interessi privati".

Più di quarant'anni fa, quando l'aborto era vietato negli Stati Uniti, la compagna della futura rock star David Crosby rimase incinta. Diedero il fgilio appena nato in adozione. Circa trent'anni dopo, padre e figlio si ritrovarono, misero su una band e hanno fatto insieme anche dei bei dischi. Per il modo in cui le leggi sull'aborto vengono applicate, non solo il mondo della musica avrebbe perso una bella accoppiata rock padre-figlio (i CPR di David Crosby e James Raymond), ma soprattutto una vita, una delle tantissime tra i circa 40 milioni di aborti che si applicano ogni anno nel mondo. E' per questo che fa inorridire come si possa gongolare per la vittoria per la moratoria (giustamente portata avanti) contro la pena di morte e ignorare la morte per aborto.

Grazie, Giuliano.

Sangue nei solchi del cuore

“Bob Dylan è in città, c’è bisogno di catturare qualcosa di magico”. La “città” è ovviamente New York, al telefono John Hammond, il più gran...

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