Tuesday, June 26, 2012

Ti auguro di vivere. Niente fa più male

Sono nato nell’anno in cui Bob Dylan e i Beatles pubblicavano i loro primi dischi ufficiali e nel quale i Rolling Stones tenevano il loro primo concerto come Rolling Stones. Come avrebbe detto Jeff Tweedy, sono stato battezzato nel rock’n’roll: “I was maimed by rock and roll, I was tamed by rock and roll, I got my name from rock and roll”. Sia Bob Dylan che Paul McCartney (il “Beatle”) che gli Stones sono ancora in giro e neanche loro lo avrebbero mai creduto cinquant’anni fa. Per cui mi sento meno solo, anche perché se riesco ancora a stare a galla lo devo tutt’ora a una fottuta, lurida canzone rock. Mia figlia, che due giorni dopo di me compie 18 anni, se ne è andata a Barcellona a festeggiare il suo compleanno più importante, i 18 anni, con i suoi amici. Fa bene, anche io avrei fatto lo stesso. Che senso hanno i genitori lo scopriamo solo dopo che non ci sono più. Ma così è la vita. Fra poche ore sarà mezzanotte, e voilà saranno arrivati i 50, un numero che mi fa orrore. Chi avrebbe mai pensato di diventare così vecchi? Allora, stanotte ripasso i miei primi 50 anni in decadi, così come si fa con la storia del rock.

Gli anni 60 sono stati ovviamente il periodo migliore della mia vita. Ero un bambinetto, vivevo a pochi metri dal mare e a pochi metri dal porto di cui mio padre era il direttore. Mio padre non ha mai voluto che diventassi un marinaio come lui, io che ho più acqua salata nelle vene che sangue. Ma credo abbia fatto bene: solo adesso ho capito che nella vita devi scoprire da solo quello che hai nel cuore. Io, che mi sono sempre affidato agli altri, ho sempre incassato in cambio sonore fregature. Nessuno aiuta nessuno, per il semplice fatto che nessuno è in grado di aiutare nessuno.



Gli anni 70 sono cominciati con la cocente delusione di Brasile-Italia 4-1: non ho visto Italia-Germania 4-3, ma ricordo benissimo quel pomeriggio caldo io e mio padre da soli a vedere il sogno della Coppa del Mondo, anzi Rimet come si diceva allora, andare in frantumi. Con il tempo ai fallimenti mi sarei abituato. Negli anni 70 ovviamente ho scoperto la musica rock: ma che canzone è Hotel California? Questo assolo di chitarra che non finisce mai è normale? E Bob Dylan ovviamente. E le ragazze ovviamente, anche se a dire il vero erano loro che scoprivano me, ma non ne parliamo. E le canne. Ovviamente. Ascoltando Running on Empty di Jackson Browne e If I Could only Remember my Name di David Crosby, mentre altri amici scoprivano le “pere”. Come – non ho mai saputo perché - allora dicevamo di chi si faceva di eroina. Quel giorno dell’agosto 1977 me lo ricordo ancora oggi benissimo, quando la radio disse che era morto Elvis Presley. Finiscono tutti così, quei drogati, fu il commento di mio padre. Ma vorrei che la ragazzina coi capelli rossi che seguivo ogni giorno dalla stazione a scuola sperando mi rivolgesse la parola mi telefonasse stanotte. Poi la parola glie l’ho rivolta e ci mettemmo anche insieme, ma come tutte le cose belle della mia vita, ho rotto quella storia. Ho sempre rotto tutto nella vita.



Ho finito la scuola a vent’anni, fuori tempo massimo di due. Adesso so che studiare serve e molto. Io che non ho mai studiato un cazzo. I genitori hanno sempre ragione, o quasi. Avessi almeno imparato bene l’inglese oggi non sarei a marcire a Milano, magari sarei a Dublino. Nel 1982 ho visto l’Italia vincere quella Coppa che avevo visto perdere dodici anni prima e alla fine dello stesso anno sono venuto a vivere a Milano. Ma mi ci ha portato la vita, non fu scelta mia, anche se sarei potuto tornare indietro in tempo ma prima di poterlo fare avevo visto Bruce Springsteen a San Siro e poco dopo conosciuto la ragazza che sarebbe diventata mia moglie. Mani legate, come si usa dire, dal rock’n’roll e dall’amore. Ho fatto l’operaio, per tutti quegli anni, e ne vado fiero. Avrei dovuto rimanere così: adesso sarei quasi in pensione e soprattutto avrei tenuto la testa occupata dal lavoro invece di fare un lavoro che la testa la lascia libera, ma di impazzire. Intanto si era ammalato mio fratello, che lo è ancora oggi malato, e Satana è diventato una presenza fissa nella mia vita. E’ sempre qui, a provarci. Ma gli anni 80 sono finiti al teatro Smeraldo, dove una sera di dicembre vidi Neil Young spalancare un altro mondo e quando si lanciò dal palco durante una devastante Ohio fui pronto a buttarmi addosso a lui. La vita sarebbe cambiato di nuovo.

Da una fanzine alla massima rivista musicale della nazione il passo fu breve. Che dire di questa decade se non che scoprii Kurt Cobain solo il giorno che si sarebbe suicidato, dato che scrivevo per la rivista musicale sbagliata. Ah sì: mi sono sposato ed è nata la mia prima figlia. Ah sì: Bob Dylan m ha dato una pacca sulla spalla (destra, non ho più lavato quella giacca) pochi minuti prima di salire sul palco per un concerto e mi ha anche sorriso. Be’, sorriso come può sorridere Bob Dylan.



Gli anni duemila sono stati una folle corsa nella corsia sbagliata, passando da una telefonata a Willie Nelson a una con Paul McCartney, da un party con Liam Gallagher a uno con gli Aerosmith e alcune valchirie da paura, da Neil Young nella suite di un hotel a dieci stelle alla camera da letto di Chrissie Hynde, a un after show con le più straordinarie ragazze di colore mai viste sulla terra aspettando Lauryn Hill che non sarebbe arrivata mai in un asilo trasformato in discoteca a Brixton, fumando l’impossibile, anche quello che non si poteva fumare. Pensavo che ormai ero diventato invincibile. Col cazzo: questi anni si sono chiusi nel fallimento totale, e il Diavolo si è fatto una grande risata quella volta che mi vide strisciare sul pavimento alle otto del mattino con una bottiglia di vino rosso in una mano e una di Jack Daniel nell’altra mentre vomitavo sangue. Nel giro di sei mesi ero riuscito a perdere praticamente tutto, lavoro e quasi anche la famiglia. Voglia di vivere soprattutto. Poi in un modo o nell’altro si ricomincia, sia benedetto chi ha inventato quelle pillole. Si ricomincia sempre, è più forte di noi. Se sia un bene o un male non lo so, non spetta a me dirlo. So solo che a 40 anni sono diventato padre una seconda volta, e ne sono moderatamente fiero.

Adesso mi sento più vecchio di un sacco della spazzatura lasciato a marcire da secoli. I calci nel culo di Mister Lucifero continuano ad arrivare senza sosta e imbocco sempre la porta sbagliata, è più forte di me, dietro alla quale c’è sempre la gente sbagliata. Le canzoni sono diventate le mie preghiere e la mia religione. Ho perso un sacco di amici in tutti questi anni, uno giocando a pallone una sera gelata di gennaio, uno lasciato davanti a un portone su un lurido marciapiede senza sapere perché. E tanti altri. Sarei un bugiardo se dicessi però che non sono stato voluto bene da tanti, tantissimi e se quel bene non ha dato grandi frutti è solo per colpa mia. Io rompo sempre tutto. Mentirei se dicessi che non sono consapevole che c’è sempre stata una mano sopra la mia testa ad allontanare Belzebù quando si faceva troppo insistente. Ma mentirei anche se dicessi che non avrei voluto che io e mia figlia avessimo festeggiato i nostri compleanni insieme. Lo avrei voluto eccome. Eppure sono qui, che tiro tardi aspettando mezzanotte e fra un paio di giorni di andare a vedere un gran fico di concerto rock. Non posso praticamente più bere alcolici e aspetto trangugiando chinotto e coca cola in questo caldo schifoso di Milano-Cambogia, ma un prezzo si deve pur pagare. Ho capito che solo lì, a un concerto rock, posso festeggiare degnamente i miei 50 anni. Perché, ehi, in fondo sono stato battezzato nel rock’n’roll. Per cui Tom Petty aspettamI: ho sempre voluto diventare una rock’n’roll star. Non ci sono riuscito, ma come Raymond Carver so una cosa: sono stato voluto bene. E tanto basta.

Ah, e prima che il solito mio gentilissimo lettore lasci l’usuale commento (devi scrivere un libro!) gli dico che ho imparato anche questa cosa, in 50 anni di vita: i libri in Italia li scrivono solo Fabio Volo e quelli come lui. Noi, come dice Leonard Cohen, siamo brutti. Ma abbiamo la musica. Loro no. Chi sta meglio? Boh. Per i prossimi dieci anni mi auguro di vivere, anche se non c’è nulla che fa più male. Ma ne vale la pena comunque.

Wednesday, June 20, 2012

Fiona e il Guinness dei primati



Quando venne a Milano a presentare il suo primo disco, Fiona Apple era appena diciottenne. Era quella l'età con cui aveva pubblicato il suo disco di esordio, "Tidal". Era il 1996 e a noi smaliziati critici musicali, ma più che altro annoiati, presenti quel giorno in un elegante locale ci apparve scontato che la ragazzina, seduta all'imponente piano a coda, stesse esagerando con la pretenziosità e l'arroganza. Forse distratti dai cocktail generosamente offerti dalla casa discografica come si usava fare a quei tempi in cui nel mondo della musica giravano ancora abbastanza soldi per invitare artisti esteri e a sovvenzionare i cronisti a base di drink, ci venne da dire: bravina, ma torna quando sarai maturata e maggiormente credibile.

Fiona Apple, nella sua scontrosa bellezza ci sembrava una ragazzina che giocava a fare la donna del dolore, con una impostazione musicale così seria e intimista che non s'accordava all'età. Il giudizio cambiò quando, ascoltato a fondo quel disco d'esordio, e saputo la storia personale di Fiona (stuprata a 12 anni da un uomo che sarebbe rimasto sconosciuto) capimmo che in realtà la ragazzina non era proprio una ragazzina. O meglio, lo era, ma una ragazzina che si portava dietro un dolore impossibile da dimenticare e che l'aveva ferita dalla vita prima del tempo. Donna del dolore appunto.

"Tidal" comunque fu un grande successo commerciale e vinse anche un Grammy, segno che il pubblico era più intelligente di qualche critico musicale italiano. Ed era un gran bel disco. Le ferite di Fiona non le hanno facilitato la carriera, nonostante un seguito di pubblico fedele. Da quel primo disco del 1996 sono seguiti solo altri due lavori discografici: quello con il titolo più lungo della storia del rock, tanto lungo da entrare anche le Guiness dei primati con le sue novanta parole (in realtà è una poesia della stessa Apple) per brevità ricordato come "When the Pawn…." del 1999, bello e feroce come il primo lavoro, e "Extraordinary Machine" del 2005.

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Sunday, June 17, 2012

Rock ballads (figli dell'intemperanza offresi)

Non riesco più a trovarlo. Non so cosa sia successo e stia succedendo. L’altro giorno mi è capitato sotto gli occhi di sua spontanea volontà evidentemente, si è fatto tirare fuori dallo scaffale dei dischi quelli vicini al mio computer in camera da letto che per la casa c’è un’altra mezza dozzina di scaffali analoghi e non lo avrei mai intercettato se non fosse stato tutto questo tempo qua vicino a me. Si è fatto intercettare per poco tempo, quello di metterlo nell’iPod e poi è scomparso di nuovo. Non riesco più a ritrovarlo, inghiottito dall’armadio delle cronache di Narnia, tornato in quell’altro mondo dove lui evidentemente appartiene. La sua intemperanza si è offerta, di nuovo, anche se per poco.

Qualcuno dovrebbe decidersi a scrivere qualcosa, a fare indagini approfondite. Altro che delitti rock inesistenti di cui si sa ogni virgola. Anche che non sono mai stati delitti. Qualcuno dovrebbe decidersi a fare una indagine approfondita per capire cosa diavolo è successo a metà degli anni novanta, quando un gruppo seppur sparuto di ultimi romantici del rock, figli di Dylan, cugini in terza di Springsteen e Van Morrison, nipoti di Elliott Murphy e Willy De Ville, e… uscirono fuori dal nulla, fecero uno sputo di dischi meravigliosi e tornarono nel nulla. Qualcuno c’è ancora, sopravvive alla meglio, ringrazia il cognome prodigioso che la vita gli ha dato – sì, quello era proprio figlio di Dylan, naturale per di più. In quel momento storico per un attimo ci fu chi riportò in auge le rock ballad più struggenti e anche dell’altro. Erano un bel manipolo di eroi, si trovavano anche a suonare insieme nel retro di un ristorante di Los Angeles, non era il tuesday night music club ma pressappoco. Ho una foto da qualche parte dove sul palco ci sono Jayhwaks, Jakob Dylan e Black Crowes: tutti insieme. Manca quel genio di Neal Casal. Poi le case discografiche e Mtv e le radio si misero a produrre milioni di cloni dei Nirvana e ci rimasero solo i Nickelback e anche di peggio. Peggio dei Nickelback, ci hanno rifilato i cantautori low file, sfigati così sfigati incapaci anche di accordare la chitarra, ma erano tristi e depressi ed era la nuova moda del momento fare l’indie low file depresso. Radio, Mtv e poi i social network impazzirono per questi disgraziati. Cazzate. Ma i figli dell’intemperanza che si offrirono per un breve momento, qualcuno sa dirci che fine hanno fatto, e chi ha ucciso quella musica, quelle rock ballad, quel rock che pulsa di cuori spezzati? Chi ha ucciso il piccolo principe? E perché? Non ci meritiamo un po’ di bellezza in questo mondo così osceno già per conto suo?



Io cerco di mettermi nei suoi panni, e in parte ci riesco visto il cataclisma di fallimenti che ho sulle spalle. Ma lui ha fatto di più in quel senso. Provo a immaginarmi cosa si possa provare a svegliarsi alla mattina e guardarsi allo specchio e pensare: oh cazzo una volta nella vita ho fatto un disco straordinariamente bello, bello come quelli belli di Van Morrison, di Joe Strummer e di Bob Dylan. Poi ne ho fatto un altro solo ancora e adesso, quasi vent’anni dopo, sono qui che mi guardo allo specchio e dico, dischi non ne ho fatti più.

Su Internet naturalmente si trovano tracce di lui, del figlio dell’intemperanza. Lo si vede suonare da qualche parte, proporre canzoni nuove, lo si vede fotografato in compagnia di Steve Earle ad esempio. Quel disco uscito dal nulla, dall’armadio delle cronache di Narnia, è ancora oggi di una bellezza oltraggiosa e sconvolgente. Dicono che fu registrato tutto in una notte, dal vivo in studio. Ci credo: pulsa di fuoco vivo a ogni secondo. Pulsa di quella sensazione che ha fatto tali i più grandi dischi di questa storia: suoniamo adesso, perché domani mattina non ce ne potrebbe più essere l’occasione. Quel minuto e mezzo finale di Simpatico Boulevard è probabilmente il miglior minuto e mezzo di musica registrato negli ultimi vent’anni. Che devastante potenza, che anima che batte in quei musicisti che non vuole smettere più. Non c’è un pezzo brutto, nel disco, e quelli belli spaccano il culo ai diecimila presunti songwriter venuti fuori dopo di lui. Con una voce schizofrenica che fa il verso a certo Dylan e un accompagnamento strumentale degno di Astral Weeks, infilava una dopo l’altra canzoni come House of Lust, Stages e Solana Beach, e poi ancora Simpatico Boulevard e ancora di più Hats off (to the Big Queen City) e poi la cover di Straight to Hell che metteva e ancora mette paura e tante altre. Con una disinvoltura tale da farci credere che era tornato consistente e reale quel grande rock che ha definito il significato stesso di musica rock.



Torna Phil Cody, abbiamo bisogno di te. Esci dall’armadio delle cronache di Narnia. Se non tu, almeno il tuo disco che non ne posso più fare a meno. In fondo, siamo tutti figli dell’intemperanza che si offrono al mondo, almeno una volta nella vita. Grazie della tua meravigliosa intemperanza E fanculo ai Nickelback e a Mtv e al post rock. E Phil, cazzo, era anche pronipote di Buffalo Cody Bill, mica un low file indie depresso.

Thursday, June 14, 2012

Rock Show (the day after)

“Parlando di questo desiderio per la nostra lontana patria, che troviamo anche adesso dentro di noi, sento una certa timidezza. Sto quasi commettendo un’indecenza. Sto cercando di svelare il segreto in ognuno di voi, quel segreto che fa così male che per vendicarvi gli affibbiate nomi come nostalgia, romanticismo, adolescenza; il segreto che si insinua con tanta dolcezza che quando, in ogni conversazione intima, ci si appresta a nominarlo, ci sentiamo a disagio e fingiamo di ridere di noi stessi; il segreto che non possiamo nascondere ne’ rivelare, pur desiderando fare entrambe le cose.

Non possiamo rivelarlo perché è un desiderio di qualcosa che non è mai davvero comparso nella nostra esperienza. Non possiamo nasconderlo perché la nostra esperienza lo suggerisce continuamente, e noi ci tradiamo come si tradiscono gli amanti quando sentono pronunciare un certo nome. Il nostro espediente più comune è chiamarlo bellezza e fingere che questo abbia risolto la questione. L’espediente di Wordsworth era identificarlo con certi momenti del suo passato. Ma tutto ciò è un inganno. Se Wordsworth fosse ritornato a quei momenti del passato, non avrebbe trovato la cosa in sé, ma solo la sua rievocazione; quello che ricordava si sarebbe rivelato a sua volta un ricordo.

I libri o la musica in cui credevamo risiedesse la bellezza ci tradiranno se ci affideremo a loro; la bellezza non era dentro di loro ma passava attraverso loro, e ciò che li attraversava era il desiderio.



Queste cose - la bellezza, il ricordo del nostro passato - sono buone immagini di ciò che desideriamo realmente, ma se le confondiamo con la cosa in sé, diventano idoli insulsi, spezzando il cuore di chi li venera.

Poiché non sono la cosa in sé; sono il profumo di un fiore che non abbiamo trovato, l’eco di una melodia che non abbiamo udito, notizie di un paese che non abbiamo ancora mai visitato”

(CS Lewis , L’onere della Gloria)

Sunday, June 10, 2012

Rock magazines. Rock writers

Nel febbraio 1991 il Mucchio Selvaggio pubblicava la mia prima recensione su una rivista ufficiale, da edicola insomma. Era ovviamente la recensione di un concerto di Bob Dylan (Zurigo). Da allora cominciò per me una strada in discesa, anzi una autostrada verso l’inferno, che penso mi abbia rovinato la vita più che salvarmela, ma il rock’n’roll è anche questo, dipende da come lo si vive. Dopo aver girato tutte le maggiori riviste musicali, tre anni fa mi sono ritrovato per la strada (per chi pensa che giornalismo e rock’n’roll siano un bell’ambiente). Da un paio di anni lavoro a un quotidiano online dove tra le altre cose, lo avrete visto qui, scrivo anche di musica. Mi mancava però l’atmosfera, anche se da esterno, di una vera rivista musicale. Così ho accettato l’offerta di far parte della nuova squadra di Suono. Me lo ha chiesto Max Stèfani, l'uomo che mi aveva fatto esordire sul Mucchio, così ho pensato che era un bel modo per chiudere il cerchio, tornare a dove tutto era cominciato. Poi Suono esiste dal 1971: pensate, solo quattro anni dopo che a San Francisco era nato Rolling Stone. Mi piace.



Nella squadra ci sono due autentici fusi di testa, Beavis ad Butthead del giornalismo rock italiano, per cui ho accettato ancor più volentieri, Daniel Marcoccia e Stefano Gilardino. Sono due straordinari soggetti, sono rock'n'roll allo stato puro. Sì mi piace. C’è anche il vecchio maestro Blue Bottazzi, che ancor prima di Stèfani mi incoraggiò a scrivere. Credo che ce ne sia abbastanza per fare un po’ di casino nel triste mondo imbalsamato delle riviste musicali italiane. Vedremo. Nel numero che esce in questi giorni c’è un mio ampio approfondimento sulle Mermaid Sessions di Billy Bragge Woody Guthrie. Sul prossimo, quello di luglio, un approfondimento sul bellissimo disco della Chris Robinson Brotherhood.

Una cosa però questa volta ce l’ho bene in testa, ed è ciò che mi ha fatto aderire a questo progetto, vada come vada. Quello che diceva Lester Bangs, l’unico motivo per scrivere ancora di musica rock: The only true currency in this bankrupt world is what we share with someone else when we're uncool. Insieme a una dell'altra mia guida spirituale, Greil Marcus: "La recensione musicale è una forma morta. A nessuno frega un cazzo di cosa pensi di un disco che hai recensito".

Friday, June 08, 2012

Un cuore affamato


Per quattro ore, nonostante fossimo più di 70mila nel catino rovente di San Siro, è stato come se ci avesse invitato nel salotto di casa sua. Uno Springsteen così sinceramente contento, sereno, affettuoso lo si era visto raramente. Capace di una intimità così sincera da farti appunto sentire come se ti trovassi da solo con lui e la sua famiglia a scambiare canzoni e racconti di vita. Lo si è visto ad esempio quando durante Waitin' on a Sunny Day invece di tirare sul palco l'usuale bella ragazzotta come si userebbe fare in ogni rock'n'roll show ha preso su una bambina di manco 10 anni e tenendola per mano le ha dato il microfono: lei canticchiava emozionata qualche parola della canzone, lui la stringeva forte e le faceva facce da papà incoraggiante. Non pago, ha tirato su quello che probabilmente era il fratellino e ha fatto cantare anche lui. Piccole cose, ma cose che non si vedono altrove in questo genere di spettacoli. Per Springsteen ieri sera essere a San Siro era evidentemente una gioia troppo grande e del resto lo ha detto anche lui a un certo punto. Milano, San Siro: siete il pubblico numero uno al mondo. Questa è casa mia, ci mancava solo che aggiungesse.




"I wanna know if love is real", voglio sapere se l'amore è reale, concreto, vero. Quel verso della sua canzone più celebre, Born to Run, scritta quando era un giovane incazzato con la vita e il mondo, è risuonato ieri sera un po' come il senso stesso della carriera di questo artista, che della sfida a se stesso e alla vita ha fatto la sua missione. Capire cioè se quella che solitamente è una promessa vana e fragile e corruttibile (lo ha detto anche cantando una commovente e rarissima The Promise seduto da solo al pianoforte: "Quando la promessa si è spezzata, ho incassato solo qualcosa dai miei sogni") come è quella del rock'n'roll invece possa essere qualcosa che dà consistenza e spessore alla vita stessa. Non posso darvi la vita eterna, ma posso darvi la vita, qui e adesso, disse una volta durante uno dei suoi spettacoli.

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Wednesday, June 06, 2012

Believe or explode

"Volevo capire l'esperienza umana nella sua interezza", disse una volta Patti Smith. Se l'abbia capita non lo sappiamo, bisognerebbe chiederlo a lei, certamente Patti Smith si è immersa fino in fondo nell'esperienza umana in modo tale da toccarne ogni aspetto, perdendosi e ritrovandosi, facendo cioè quello che ogni essere umano seriamente impegnato con il suo desiderio di felicità dovrebbe fare. Non si è fermata alle apparenze, come succede molto spesso nel mondo della musica rock o anche della poesia, i due ambiti espressivi dove da sempre l'artista si muove, dove l'inganno è sempre dietro l'angolo e cascarci è facilissimo. Non ha insomma ridotto l'esperienza a un particolare, e così facendo è stata testimome a se stessa e al suo pubblico di una grande verità spesso tralasciata: che l'esperienza umana va colta in tutti i fattori che la costituiscono.



"Sono un'artista americana e non ho colpe", disse un'altra volta, sottolineando questo suo impegno con l'esistenza che non è sceso mai a patto con nulla, fossero l'ideologia di moda in quel momento o le esigenze assassine del mondo dello spettacolo. Questa sua voglia di capire l'esperienza umana l'ha portata talvolta in posti che solitamente sono off limits per una rock star. Qualche anno fa, invitata a esibirsi a Savona, Patti Smith, saputo dell'esistenza di un santuario dedicato alla Vergine Maria poco distante, chiede di poterlo visitare. Lì, il 18 marzo 1536 era apparsa, a un anziano Pastore, Antonio Botta, la Madonna. Nella cappella del santuario che ricorda questa apparizione, Patti Smith si inginocchia, bacia il pavimento e prega a lungo. Alla sera, durante il concerto, più volte giunge le mani in preghiera e ringrazia Antonio, il pastore, "per essere stato tramite tra la Vergine e noi”.


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Saturday, June 02, 2012

La fraternità dei barbudos


Prendi Chris Robinson, cantante della più straordinaria, autentica e mirabolante rock band americana degli ultimi 25 anni (i Black Crowes); prendi Neal Casal, uno dei migliori songwriter, ma anche chitarristi degli ultimi 25 anni; prendi Adam MacDougall (tastierista dei Black Crowes); prendi un ottimo batterista di studio, George Sluppick; prendi Mark "Muddy" Dutton bassista dei Burning Tree la band di Marc Ford che già, è stato membro fondatore di quella fantastica band, i Black Crowes, Avrete sicuramente un bel mucchio di barbe lunghe, capelli lunghi e facce da hippie stralunati che si domandano quale buco spazio – tempo li ha scaraventati nel 2012 portandoli via da una qualche comune persa tra la California e l’Arizona, in attesa di partire per il festival di Woodstock.



Per noi che invece la musica ci piace ascoltarla, avremo un disco bellissimo, uno dei migliori in assoluto di questo primo scorcio dell’anno. Avremo infatti un “rituale da luna piena”. E noi con questa sorta di rituali ci andiamo a nozze. Big Moon Ritual è il tiolo del disco della Chris Robinson Brotherhood che esce ii 5 giugno: sette canzoni in tutto, una copertina che sembra quelle di Sid Griffin, vecchio spirito buono dell’arte psichedelica, e un viaggio cosmico alla ricerca dello spirito di Jerry Garcia. Che Chris Robinson infatti fosse innamorato folle dei primi anni 70 lo sapevamo attraverso la sua ex band, i Black Crowes, tra Faces, Stones e quant’altro. Con questo disco sfoga invece tutto il suo amore per i Grateful Dead che già si era intravisto ai tempi dei BC, specie nel periodo più psichedelico della band, tra il 1996 e il 97 (chi era al Palalido di Milano nel ’96 sa cosa intendo). Ma anche l’altro immancabile spirito guida di tutti i cuori buoni, Gram Parsons, omaggiato a profusione nell’iniziale e irresistibile Tulsa Tomorrow.



Canzoni che viaggiano oltre i sette minuti, chitarre liquide che risuonano tra la luna e il cosmo più lontano, la voce di Chris mai così pulita e piena di sentimento. Un disco pieno di incanto e vibrazioni infinite. E non è finita. A settembre esce il già il secondo disco della CRB, inciso contemporaneamente a questo, The Magic Door, e noi non vediamo già adesso l’ora di varcare quella porta magica. Intanto ci sediamo sotto al cielo stellato e invochiamo la luna, mentre questi sacerdoti del rock ci mettono in comunicazione con il Grande Uno.

Sangue nei solchi del cuore

“Bob Dylan è in città, c’è bisogno di catturare qualcosa di magico”. La “città” è ovviamente New York, al telefono John Hammond, il più gran...

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