Thursday, May 31, 2012

Cosa sarà

Qualche mese fa, nel buio di un minuscolo camerino perso da qualche parte nella bassa padana, parlando di colleghi cantautori che annunciavano il ritiro dalle scene, Francesco De Gregori mi confidava, un po' perplesso dalla notizia: "Ma come si fa a vivere senza musica?". Difficile, quasi impossibile, per chi della musica non ha fatto un mestiere come tanti, e neanche una passione, un hobby. Della musica ne ha fatto invece un mezzo, anzi il mezzo, per scrutare la vita, il fascino del suo mistero: come si fa a vivere senza musica? Sarebbe come strapparsi un braccio. Le sapeva bene queste cose un grande amico di De Gregori, e cioè Lucio Dalla, morto nel modo più vero e più bello per chi ha vissuto sempre di musica. La mattina dopo un concerto preparandosi a un altro concerto che avrebbe dovuto tenere quella sera stessa.


Per la prima volta dalla scomparsa di Dalla, Francesco De Gregori, che con lui aveva condiviso canzoni e concerti per molti anni, parla della sua morte e di quanto gli manchi. Quando Lucio è morto, De Gregori aveva rifiutato di rilasciare ogni commento, troppo provato dal dolore di quella morte. Adesso, che qualche mese di distanza ha permesso se non di cancellare il dolore, almeno di metabolizzarlo, lo può fare: "Non c’è solo la mancanza, ma proprio un distacco improvviso, qualcosa con la quale ti sembra di non poter fare i conti. La verità è che tutto è scritto e dobbiamo convivere anche con il distacco e il rimpianto. Ma lui lascia dietro di sé qualcosa di vivo, di non definitivo e quindi di vitale e questa in qualche modo è una consolazione". In questa intervista concessa in esclusiva a IlSussidiario.net, De Gregori parla anche in anteprima del nuovo disco a cui sta lavorando e dei concerti che terrà questa estate, tra cui alcuni insieme al grande musicologo ed esperto di musica folk Ambrogio Sparagna.

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Wednesday, May 30, 2012

President Bob



"Non c'è un gigante più grande di Bob Dylan nella storia della musica americana"

(Barack Obama)







The coolest guy in the world

Sunday, May 27, 2012

Love letter

I hold this letter in my hand
A plea, a petition, a kind of prayer
I hope it does as I have planned
Losing her again is more than I can bear
I kiss the cold, white envelope
I press my lips against her name
Two hundred words We live in hope
The sky hangs heavy with rain

Love Letter Love Letter
Go get her Go get her

(Nick Cave)

Ti amo Beth. Come ho potuto dimenticarti? Adesso ho capito perché in questi ultimi anni sono stato così male. Ehi, anche tu però ci hai messo del tuo, Beth. Sono sei anni che sei sparita. Mi hai lasciato lì, per le strade di Dublino, con una canna in tasca che mi aveva dato la mia amica Ritzy nei cessi di un pub, e sei sparita dietro al palco. Dio come eri bella quell’ultima sera, così bella che avevo anche dimenticato di avere un spinello in tasca quando sono entrato e ti controllavano anche le mutande all’ingresso. Non lo sapevo, tu lo sapevi invece, ovviamente. Dentro di te c’era già quel bambino che aspettavi, e la felicità nei tuoi occhi quella sera a Dublino non era solo per la musica, era per quel segreto che ti portavi dentro. Cazzo sei anni però sono tanti. Ovvio che uno finisce per cascare nelle prime trappole che la vita gli mette davanti e a farsi del male, un cazzo di male.



Stanotte ho ripreso dal nulla uno dei tuoi dischi. Come ho fatto a dimenticarti? Ti ricordi nei camerini di quello schifo di club a Milano dove avevi appena suonato? Avevi suonato da dio come sempre, anzi da dea, ma che postaccio. A ripensarci oggi però era il posto giusto. Sembrava quasi di essere al CBGB’s negli anni settanta, col pavimento ricoperto di piscio come mi ha sempre descritto quel posto il mio amico Elliott Murphy. Nel camerino ci siamo subito venuti incontro, sembrava non aspettassimo altro: quasi ci siamo baciati sulla bocca nella foga di scambiarci due baci sulle guancia. I tuoi best bit quella notte chi li può dimenticare?

Oppure a Verona, anni prima, la città degli amanti. Perché ho scelto di venire a Verona? ‘Cause is fucking beautiful. Come te Beth. Ricordo ancora la prima tua foto, su uno sgualcito magazine inglese, tu mezza sdraiata sul bancone del bar a succhiare una cannuccia di non so cosa ci potesse essere nel bicchiere. Amore a prima vista, ovvio, come le prime note di She Cries Your Name. E ehi, sugar boy, it’s all over now. Hai tolto l’azzurro dal cielo e la mia vita intera è cambiata quando hai detto addio. La realtà non sopravvive mai a quello che sembra promettere. Ma a volte può essere anche meglio, chissà.



Le tue canzoni mi facevano stare bene allora, ho smesso di ascoltarle e sono stato male. Me lo merito. Ma anche tu Beth, hai dimenticato il tuo sugar boy da sei anni. Torna presto Beth, non voglio cadere in altre trappole. Don’t wanna know about evil, ne ho già visto abbastanza di male. Ricordi quando mi hai chiesto da accendere quel pomeriggio sulla porta della sala stampa? Tra tanti, sei venuta dritta da me a chiederlo, e io lo sapevo che tu avevi detto che chiedere di accendere una sigaretta è il modo migliore per abbordare qualcuno. Mi hai abbordato, e io ti ho amata.



Come sta la tua bambina? Adesso andrà già a scuola e no, non sono geloso del suo papà. Ti amo lo stesso, vedi che razza di amore. Quando esce il tuo disco nuovo? Quando ti rivedrò, su di un palcoscenico? Ok, quando vuoi tu, prendi il tuo tempo, non ti affrettare. Ho ritrovato i tuoi dischi l’altra notte, il miglior biglietto d’amore che uno possa avere. Questa galaxy of emptiness è finita, se anche Dio lo vorrà.

Friday, May 25, 2012

L'attesa di Hopper




"Edward Hopper, pittore statunitense famoso soprattutto per i ritratti della solitudine nella vita americana contemporanea". Oibò, se prendiamo un Bob Dylan o un Lou Reed o tanti altri, potremmo definirli così: "musicista rock statunitense famoso soprattutto per le canzoni sulla solitudine nella vita americana contemporanea". A me invece piace definire Hopper un pittore rock. Quante copertine di dischi si potrebbero fare con i suoi dipinti? Una montagna. Quegli interni di squallidi motel, le stazioni della benzina lungo le highway americane, quegli interni di bar di notte in una grande metropoli, quei cuori spezzati davanti a una tazza di caffè: più rock di così non ce n'è.

Quello che però tutti o quasi non dicono è che in realtà Hopper non era il pittore della solitudine. Hopper è stato il pittore dell'attesa, che è una cosa ben diversa dalla solitudine. Attende chi ha incontrato qualcuno, è solo chi non ha mai incontrato nessuno. Nei quadri di Hopper poi c'è la medesima sospensione temporale che c'è in una canzone rock. Nei suoi quadri i personaggi spesso fanno qualcosa (cucire con la macchina da cucire, sfogliare un giornale, fumare, usare le posate), ma il loro gesto è congelato in una sospensione eterna, mentre ogni movimento, luce, azione intorno a loro accade senza interferire con essi. Non è come una canzone rock, che sospende il tempo e lo prolunga almeno fino a quando dura una canzone? E' proprio così. Quante colonne sonore rock si potrebbero abbinare ai quadri di Hopper.




Sunday, May 20, 2012

Radio Rock/ Le strade grigie di Dave Matthews

Quando si presentarono al pubblico italiano — era all'incirca la metà degli anni Novanta — furono costretti a usare un bizzarro escamotage, almeno per far colpo sui giornalisti (che si sa, se li foraggi bene una recensione positiva non la negano mai). Insieme al loro disco ci venne infatti consegnata una confezione di tipici biscotti al cioccolato americano nonché una salsa anch'essa tipicamente americana per inzupparceli dentro. Sembrava un po' una cosa tipo offerta del supermercato: prendi due, paghi uno. Ma quello che contava era ovviamente la musica, e quella della Dave Matthews Band era musica di serie A.



La Dave Matthews Band in qualche modo, biscotti a parte, sottolineava la sua americanità, e forse per questo in Italia non è mai esplosa a livello di successo come tante altre band di quel periodo storico, basti pensare ai Pearl Jam.
Di fatto, la DMB ha inventato uno stile così originale e unico, proprio fondendo le mille facce della musica americana, che in nel nostro Paese è sempre rimasta indigesta. Il loro sound che butta dentro folk, jazz, rock, progressive, fusion, cantautorato, New Orleans, R&B è America al cento per cento, dispiegata in un cocktail sonico che fa dell'improvvisazione la marcia in più.

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Wednesday, May 16, 2012

Sunny-Californi-ay Bikini-Beach-Bunny baseball-capped

Se c'è qualcosa ancorché parzialmente buono, la tv - satellite e non - la fa sparire. Così è stato per il canale Live di Sky che trasmetteva concerti integrali, alcuni davvero belli (Ike and Tina Turner 1970, ad esempio, o James Brown a Montreux). Il mio preferito era però un filmato dei Beach Boys, gruppo che non sono mai riuscito a farmi piacere più di tanto a parte le inevitabile canzoni che piacciono a tutti. Adesso poi i Beach Boys verranno a suonare a Milano, ma che Beach Boys che sono morti tutti o quasi? Forse dovrebbero chiedere che sia concesso un permesso speciale a Charles Manson, che come sanno tutti aveva un solo unico sogno: far parte dei Beach Boys. Visto che non se lo presero, si mise a organizzare stragi.




Il filmato in questione è uno speciale tv andato in onda nel 1976. "The Beach Boys - Its Ok"
, poi pubblicato anche su dvd con il titolo di Beach Boys Special: Good Vibrations Tour. Contiene immagini relative al tour appunto del 1976, anno memorabile per gli yankee dato che si festeggiavano i duecento anni di esistenza della loro nazione, e memorabile per i BB perché sul palco, seppur in stato catatonico, tornava per la prima volta dopo dieci anni anche Brian Wilson (che sarà - catatonico? - anche a Milano questa estate). Il buon Brian infatti viveva da un decennio senza uscire dal suo letto, troppo terrorizzato di farlo per colpa dell'Lsd che gli aveva mandato in pappa il cervello. Nel film c'è una scena memorabile dove i due futuri Blues Brothers John Belushi e Dan Akroyd vestiti da poliziotti lo vanno a prelevare dal letto e lo costringono a scendere in spiaggia in accappatoio a fare surf.



Il film comunque ti fa capire la grandezza di questa band. Lo fa perché li coglie ormai trentenni maturi, non più ragazzi da spiaggia con ciuffo di traverso, con una dose di glam così eccessivo come si poteva osare solo negli anni 70. Eccessivi e decadenti: ecco perché questo film è così riuscito. Sanno di essere i Beach Boys, uno dei più fottuti grandi gruppi di sempre, sanno di essere delle super star e si godono il loro status symbol fino in fondo, come dire: voi pubblico battete le mani, noi ci godiamo la vita. In questo modo ci si rende conto di cosa abbiano significato veramente i BB: il sogno di surf - good vibrations - California girls sta scomparendo fra le loro mani, anzi era già bello che scomparso anni prima, ma loro se ne infischiano. Per quanto dura il concerto, lo rendono vivo e magnificentemente impossibile.




Quando Dennis Wilson, il batterista figo che morirà annegando ubriaco cadendo dal suo yacht anni dopo, si avvicina al microfono per cantare una stonatissima ma tenerissima ballata, tutto questo appare evidente: California dream, Hotel California, "Mirrors on the ceiling, The pink champagne on ice And she said "We are all just prisoners here, of our own device… Relax, " said the night man, We are programmed to receive. You can check-out any time you like, But you can never leale". Dietro a ogni sogno c'è un incubo, e non è un caso che Charles Manson si sia avvicinato a questi ragazzi. E' impossibile rimanere giovani per sempre, è impossibile che esista davvero la Terra Promessa. Uno a uno i Beach Boys moriranno tutti o quasi, mentre uno di loro va avanti, ma con poco o niente cervello. Ma alla fine di tutto, i Beach Boys sono stati una delle poche vere e autentiche "american band", perché ne hanno incarnato l'essenza più profonda, quella del sogno americano e del suo tragico epilogo. E pensare che non sapevano neanche fare surf.

Tuesday, May 15, 2012

Cps

"Succedono cose davvero terribili. L’esistenza e la vita spezzano continuamente le persone in tutti i cazzo di modi possibili e immaginabili"
David Foster Wallace


Nelle sale d'aspetto dei Cps non c'è mai cattivo odore. Non c'è alcun odore. Nelle sale d'aspetto dei Cps non c'è sporcizia, c'è assenza di sporcizia, ma c'è un senso latente di sporco. I Cps non sono mai o quasi vecchi e cadenti, semplicemente non sono. Sono strutture ambigue, indefinibili.

Le persone che trovi nelle sale d'aspetto dei Cps rispondono sempre allo stesso tipo di tipologia umana. Come dei replicanti buoni per ogni singolo Cps. C'è l'obeso trentacinquenne che ha trovato nel mangiare compulsivo il modo di tener lontane le sue ansie. C'è l'anziano in tuta, ordinato, taglio di capelli ben fatto, baffi come ti aspetti per quelli della sua età. C'è la madre di mezza età gonfia di psicofarmaci che ne deformano il viso ancora in parvenza bello, gli occhi indicibilmente tristi. C'è il vecchio dalla barba mal tenuta, i jeans sporchissimi, ma la camicia pulita, un sacchetto sempre nella mano. C'è il giovane ansiolitico, agitato, cappello da baseball che ogni cinque minuti si avvicina allo sportello a chiedere se sono pronte le sue pillole. Incazzoso e pronto, sembra, ma non succede mai, a spaccare il vetro che lo divide dall'infermiera.



Anche gli operatori rispondono tutti a una tipologia identica. Infermiere cinquantenni alternativamente stressate o incredibilmente gentili. Dottoresse mal vestite, ma dalle grandi capacità finite al Cps chissà per quale motivo, e odiosi dottori che si credono Freud reincarnato.

Nelle sale d'attesa dei Cps c'è la stessa presenza che aleggia ovunque. E' l'assenza, quella che trovi in tutte le sale d'attesa dei Cps. Sale d'attesa di una presenza che qui non entrerà mai. L'assenza della vita. I malati l'hanno rifiutata e la tengono lontana, perché la vita fa male. Le infermiere e i dottori hanno rinunciato a illudere i malati che la vita si può recuperare. C'è assenza di qualunque sentimento qua dentro.

Gli occhi di tutti, pazienti e personale curante, rispecchiano la stessa assenza di presenza.

C'è un grande vuoto nelle sale d'attesa dei Cps. Ma forse c'è meno vuoto lì dentro che altrove, dove la gente fa la vita "normale". Almeno quelli che vanno al Cps se ne tornano a casa con le pilloline magiche che fanno sentire per un po' il sapore antico della vita. Di cui, in fondo, non è che abbiano questa grande nostalgia.

Wednesday, May 09, 2012

My everything hurts


I'm not sure where this river goes

but we have no choice but to follow

(Midlake, It Cover The Hillsides)

Arriva un momento quando il corpo deve buttare fuori tutto quello che non può contenere. Il corpo non sopporta più di tanto la fatica della tristezza e come il sudore dopo una lunga corsa, deve buttare fuori quello che tu non riesci a buttare fuori. Così ci si inginocchia davanti alla tazza del cesso a vomitare pillole, alcol, stanchezza e angoscia. Una volta bastava una partita di pallone a eliminare le tossine e il veleno. Non fa bene ad esempio leggere ogni giorno che qualcuno si è ammazzato. No, no fa bene, ma stavano solo cercando di eliminare la tossina più grossa, quella più velenosa, la vita.

“Perché, caro signore, non sappiamo da che cosa sia fatto, ma c’è, c’è, ce lo sentiamo tutti qua, come un’angoscia nella gola, il gusto della vita, che non si soddisfa mai, che non si può mai soddisfare, perché la vita, nell’atto stesso che la viviamo, è così sempre ingorda di se stessa, che non si lascia assaporare. Il sapore è nel passato, che ci rimane vivo dentro”

L. Pirandello

Il passato è come una stradina che si apre da una strada più grande, e conduce a casette di mattoni rosse tra alberi e cespugli. Dove c’è una casa uguale ma diversa alle altre dove lei un giorno di primavera umida e bagnata dalla pioggia venne ad aprirti sorridendo. Più tardi avrebbe detto di conoscerti da sempre. “E' come se non ci fossimo visti per tanti lunghi anni, adesso ci siamo ritrovati". Questa conversazione che stiamo avendo è già accaduta, un pensiero come un flash.

Sei il tempo che non passerà mai perché io ti terrò sempre nel mio profondo dove ci sono le persone che amo e dove ora ci sei anche tu

Il passato è un mercato afro caraibico dove entri da un cancello stregato e quando sei dentro non trovi più l’uscita. Il passato è una fregatura perché il tempo in realtà non esiste e le parole sono dette solo per placare l'ansia del momento, già sapendo che le parole e il tempo non consistono. E’ un sogno impazzito sognato mentre cerchi di svegliarti. Una volta desideravo spaccare gli orologi per fermare il tempo. Adesso neanche più quello, lascio che il tempo mi trascini come il grande fiume. Non abbiamo altra scelta che seguire quel fiume.

"E’ inutile indagare le occasioni mancate. Non sai mai se ti sei salvato dalla morte, o ti sei perso la vera vita"

- Nessuno si salva da solo.

FUCK YOU FUCK YOU FUCK YOU

Fuck you. Fuck you. Fuck you for rejecting me by never being there, fuck you for making me feel like shit about myself, fuck you for bleeding the fucking love and life out of me, fuck my father for fucking up my life for good and fuck my mother for not leaving him, but most of all, fuck you God for making me love a person who does not exist. FUCK YOU FUCK YOU FUCK YOU


Sarah Kane

Friday, May 04, 2012

Radio Rock/ 5

PERFECT DAY – Lou Reed, album: “Transformer”; anno di pubblicazione: 1972 -Just a perfect day, you made me forget myself. I thought I was someone else, someone good” (“Una giornata perfetta, mi hai fatto dimenticare di me stesso. Ho creduto di essere qualcun altro, qualcuno che è buono”). Chi non vorrebbe essere buono, almeno per un giorno? Forse nessuno in realtà, convinti che siamo già tutti buoni. Abbiamo ragione, sappiamo che fare, sappiamo come agire e distinguere il male dal bene. Almeno fino a quando la vita non chiede il conto e ci sbatte in faccia la realtà: che no, non è vero che siamo buoni, magari un po’, ma non lo siamo veramente. 




Poi ci sono quelli che hanno rinunciato completamente a porsi la domanda. Ma poi: chi non vorrebbe passare una giornata perfetta, dove ogni cosa ha senso e ci dà quella pienezza che in tutti gli altri giorni non riusciamo mai a toccare con mano? In Perfect Day, uno dei brani più celebri della lunga carriera di Lou Reed, la domanda si pone perché Lou Reed sa bene di non essere buono.
Un tempo si diceva “peccatore”, ma oggi questa parola ha perso il vero significato di una condizione esistenziale che è comune all’uomo per la sua stessa natura fatta di fragilità estrema e incapacità a fare il bene. A meno di essere così presuntuosi da pretendere di esserne capaci. 


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Wednesday, May 02, 2012

aiRIEm - rapid eye movement

Hey kids, rock and roll Nobody tells you where to go, baby -

Negli anni 80, diciamo dal 1982 al 1988, seguivo essenzialmente due musicisti, Bob Dylan e Bruce Springsteen. Nel senso che solo di loro continuavo a comprare i dischi o andare ai concerti. Tanti motivi mi tenevano lontano dalla musica: Mtv non aiutava certo a farsi venire voglia di comprare i dischi. Ovviamente nonostante il mio periodo sabbatico non potevo fare a meno di venire a contatto con la musica. Dei due gruppi rock più celebrati usciti fuori da quel decennio ho sempre pensato la stessa cosa: bravissimi a fare dei gran singoli, inutili sulla lunga distanza, cioè quella dell'album per intero. Gli U2 poi dopo Achtung Baby (che è bellissimo tutto per intero) non hanno più fatto manco brani singoli belli. I R.E.M. sì. Avevo provato ad avvicinarli seriamente proprio nel 1988, quando grazie a un negozio di dischi a noleggio sotto casa (sì, negli anni 80 per un breve periodo c'era anche questo) avevo preso Green. Mi piacevano solo Stand e Orange Crush. Mi erano piaciuti poi Out of Time e Automatic for the People. Li vidi dal vivo nel tour di New Adventures in Hi-Fi e penso sia stato uno dei concerti più noiosi della mia esistenza. Ma hanno continuato a fare delle grandi canzoni. Così qualche mese fa ho comprato ‪Part Lies, Part Heart, Part Truth, Part Garbage‬ (titolo bellissimo) la loro antologia su doppio cd che copre l'intera carriera, dai tempi indie a quelli del superstardom. E' il mio disco dell'anno. E' un classico di ogni tempo, al pari di antologie da urlo come Decade di Neil Young o Biograph di Dylan. Dischi che racchiudono una storia, un'era, un mondo misterioso che è possibile avvicinare e riscoprire in nuovi inaspettati dettagli ogni volta. Dischi inesauribili. Quello dei Rem ha il solo difetto di avere al suo interno una brutta-brutta canzone (uno dei tre inediti), A Month of Saturdays, e di aver escluso uno dei loro brani più belli, Drive, non si capisce perché.


Part Lies, Part Heart, Part Truth, Part Garbage‬ scorre in un primo tempo fino ai fasti di Losing My Religion in una cavalcata che stordisce per l'urgenza, la forza, la passione, l'irruenza, di quello che erano i REM anni 80. Non c'è un assolo di chitarra, ma ci sono parti di chitarra di una epicità che non si trovava da nessuna parte in quegli anni. Michael Stipe incanta con una voce che altrettanto - a parte quella di Bono - in quegli anni nessuno poteva permettersi: fuoriesce da ogni scantinato di Athens per raggiungere gli scantinati di tutto il mondo. C'è un tale immenso immaginario nella voce di Michael Stipe pronto a esplorare ogni latitudine umana. E il rock che sanno esprimere in questa parte della loro storia, è la somma di tantissime storie precedenti coniugate in un desiderio fortissimo di racchiuderle tutte. Divertiamoci a scoprire ogni singola parte dell'insieme. Nel secondo tempo di questo doppio cd, Michael Stipe diventa un monaco zen, un predicatore errante, un santo peccatore che esprime una inquietudine straboccante. Malinconia a dosi massicce, tristezza cosmica, serenità solare, pace & dolore: da Everybody Hurts fino a cose recenti come Uberlin è impossibile fermarsi e mettersi ad ascoltare altro. I testi straboccano di confusi - apparentemente - pezzi di realtà messi insieme come un puzzle irrisolvibile: I'm Martin Sheen I'm Steve McQueen I'm Jimmy Dean… Ma in definitiva, chi sono io? C'è una cosa che accomuna tutto quanto Michael Stipe ha scritto nel corso degli anni: una grandissima pietà, una straordinaria identificazione nel dolore e nella solitudine di ogni uomo: not everyone can carry the weight of the world. E sì, everybody hurts. Lo assecondano anche in questo secondo tempo le sempre meravigliose trovate di Peter Buck, perché come in ogni migliore storia del rock è la somma delle parti che crea il fascino completo: Jagger & Richards, anyone?

 

Ho snobbato i Rem, perché nella musica funziona così: è lei che viene a cercare te, non sei tu che cerchi la musica giusta. In determinati periodi della vita essa non saprà comunicarti quanto invece hai bisogno che essa ti comunichi in altri momenti. Si apre allora un tunnel, una autostrada di reciproca comunicazione che va dall'artista al tuo cuore e torna indietro con gratitudine. I Rem finalmente mi hanno trovato e difficilmente potrò abbandonarli. Ascoltando tutto questo doppio cd in sequenza ci si accorge di come i Rem hanno scritto di fatto sempre la stessa canzone, ma l'hanno saputa piegare e indirizzare verso le mille sfaccettature del cuore dell'uomo. Così facendo hanno scritto una epopea melodica che si innalza ai vertici dell'espressione umana. Una Odissea, una Divina commedia rock. Fatta in parte di menzogne, in parte di cuore, in parte di verità e in parte di spazzatura. Hallelujah (che è anche il loro ultimo bellissimo brano scritto insieme dopo averci detto addio).

Sangue nei solchi del cuore

“Bob Dylan è in città, c’è bisogno di catturare qualcosa di magico”. La “città” è ovviamente New York, al telefono John Hammond, il più gran...

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