Saturday, December 31, 2011

Sleepless nights (no more)

Che il 2012 vi porti notti addormentate - io me lo auguro - e non più notti insonni



love

Tuesday, December 27, 2011

The road goes on forever and the party never ends

I know Jesus is on that mainline
Tell Him what you want
Jesus is on that mainline
Tell Him what you want
Jesus is on that mainline
Tell Him what you want
Call Him up and tell Him what you want

(cantata al funerale di Carlo Carlini, da Angelo Leadbelly Rossi)


Quella strada percorsa milioni di volte. A ogni ora del giorno e della notte, alba, tramonto, notte fonda e pomeriggio. Con qualunque tempo, neve, ghiaccio, sole, primavera e autunno. Di corsa, perché bisognava correre quando Carlo Carlini chiamava per un nuovo concerto: “the road goes on forever and the party never ends” dicevamo, e per molti anni è stato davvero così. Quella strada che poco a poco lasciava le code e le fabbriche e puntava in mezzo ai boschi, era come svoltare ed entrare in una realtà parallela. Poi il grande fiume argentato, il Blue River, il Mississippi di noialtri con quel ponte di fero che sembrava davvero di svoltare verso New Orleans. Oggi quella strada che mi mancava da tanto tempo mi riporta in quei posti, svolto e rivedo la sala dei tanti concerti, battaglie rock infinite. Ma questa volta non c’è un concerto e devo proseguire. Mi ha detto Paola, figlia di Carlo, “vieni martedì a dare il penultimo saluto a papà”. Già è proprio così e grazie Paola per avermelo fatto capire: quando una persona cara muore non è un addio per sempre, è solo il penultimo saluto prima dell’ultimo vero saluto, quello che durerà per l’eternità. Quando ci rivedremo. Non avrebbe senso quello che abbiamo vissuto qua, altrimenti, se un funerale fosse solo l’ultimo saluto.

Il giorno prima di morire Carlo aveva postato due video sulla sua pagina Facebook, che era diventato il modo per rimanere in contatto dopo anni di lontananza. Uno era del suo grande eroe amatissimo Bob Dylan: “It’s not dark yet, but its getting there”, non è ancora buio, ma lo sta diventando. Scorre un brivido a vedere che aveva scelto proprio quella canzone, come se Carlo avesse avuto un’intuizione, che quelle erano le sue ultime ore prima che scendesse il buio. Poi ne aveva postato un altro, di quello che era il suo grande eroe e amore ancora più grande: pochi lo sapevano, Carlo adorava Elvis. Ricordo la prima volta che andai a casa sua e mi mostrò tutti quei vinili fantastici di Elvis. Il video che aveva postato erano due canzoni gospel fatte da Elvis, due preghiere rivolte a Gesù, e anche qui viene un brivido: vecchio amico, ti stavi davvero preparando al grande viaggio? Stavi cercando di farcelo capire? Eri pronto, forse?

Qua all’abbazia di San Donato c’è un sole abbagliante, che giornata meravigliosa. Ci sono un sacco di volti mai più rivisti da anni e riabbracciati con commozione. Ci sono i figli di Carlo, c’è un sacco di gente, la chiesa è gremita. Lacrime certo, ma anche tanti sorrisi e serenità: non è certo un addio, questo. Raffaella, la figlia maggiore, ha parole che spaccano ricordando Carlo, e rivelando il mistero sconosciuto ai più, ma anche facendoci sorridere: “Quando hai 4 anni e sei figlia di Carlini, non puoi non ascoltare Bob Dylan”.



E mi si spalanca un flashback doloroso, ma allo stesso tempo dolcissimo di ricordi. “Per l'amicizia profonda che ci lega, ci basterebbe guardarci negli occhi per vedere trascorrere tutti quei momenti in quegli anni passati in nome della Musica... Mio padre ti ha sempre sentito vicino”, mi ha scritto nei giorni scorsi Paola. E’ stato così, oggi, un abbraccio lungo e le nostre lacrime a mischiarsi tra di loro sulle nostre spalle reciproche. Davvero non avevamo bisogno di dirci altro. E mi rendo conto che se sono quello che sono oggi, nel bene e nel male, lo devo a persone come Carlo, che hanno contribuito a farmi diventare quello che sono rendendo concreta e vivibile una passione, quella per la musica, che sarebbe rimasta istintività adolescenziale. Davvero nella vita ci si incontra per un motivo, nulla è mai casuale, ognuno ti è messo davanti nella strada della vita per farti capire un po’ meglio il tuo destino. Lo si capisce dopo però, col tempo, mai nel momento che accade. Carlo aveva una passione, quella per la musica e dunque per la Bellezza, ma non l’ha tenuta per sé. Ha voluto condividerla con chiunque e nel fare questo ha fatto la cosa più grande che un uomo possa fare sulla terra, condividere la Bellezza. Non si può fare di più nella vita, e pochi riescono a farlo.

Quanti ricordi e quante storie potrei raccontare. Milionate. Ma se il concerto, quei concerti (Uncle Tupelo, non sapevamo manco chi fossero; Ani Di Franco alla birreria Il Glicine prima che diventasse trendy per tutti gli altri; Neal Casal, da solo e con una folgorante band; tanto per dire dei giovani che aveva l’intuizione di portare per primo in Italia. E i grandi vecchi che da copertine sbiadite di vecchi vinili improvvisamente diventavano carne e ossa. Uno dei primissimi concerti che vidi a Sesto Calende fu Richard Thompson in coppia con Danny Thompson, potete immaginare che evento) erano eventi straordinari, con Carlo l’evento cominciava sempre dopo il concerto. Oppure prima. Ricordo certe notti tornando da un concerto, Carlo che cambiava improvvisamente strada e ci portava in qualche sperduta osteria o ristorante che solo lui conosceva. Il momento più bello per lui era quello e ci teneva a fartelo capire. Insieme, pochi intimi, una tavolata allegra, conviviale, come in famiglia, buon vino rosso e cibi fantastici. E grappa naturalmente: ne abbiamo convertiti di yankee al vero liquore, eh Carlo?Amava la vita Carlo, e il calore della vita. Quei musicisti americani abituati a disgustose road house o MacDonald’s di periferia rimanevano estasiati da tutto ciò. Poi, sempre, si tirava fuori una chitarra in mezzo ad avventori stupiti nel vedere tanta felicità semplice, e si cantava e si rideva. La madre di tutti questi eventi ovviamente fu quella cena, fine dicembre 1994, ristorante La Biscia di Sesto Calende: in mezzo a noi, seduti ai tavoli, Joe Ely, Alejandro Escovedo, Eric Andersen, Luigi Grechi, Rick Danko e poi ognuno a passarsi la chitarra e condividere canzoni. Indimenticabile. Cose che voi umani non potete immaginare. Lui ce le ha fatte vivere veramente.

Ogni volta con lui era un imprevisto e una sorpresa. Ti prendeva da mezzo al pubblico dove aspettavi che cominciasse il concerto e ti diceva, fammi un favore vai in albergo a prendere John. Che era John Prine, non so se mi spiego, e io ad accompagnare John Prine sulla mia macchina insieme verso il teatro. Cazzo. Oppure mentre finiva il soundcheck, a cui permetteva sempre di assistere se lo volevi, diceva, devo andare da una parte, puoi aspettare che finisce e accompagnarlo al ristorante? E ti lasciava da solo con Steve Forbert. Cazzo. E ancora: puoi accompagnarlo all’aeroporto domattina presto? Era Ramblin’ Jack Elliott, il compagno di strada di Woody Guthrie e il maestro di Bob Dylan, e così vivevo uno scampolo privato di Rolling Thunder Revue. E gli episodi da sganasciarsi, come quando fece venire, ancora una volta primo in Italia, i Phish a suonare in una Sala Marna gremita di Pish-head, i ragazzi americani che avevano seguito la band fino nella sperduta provincia italiana. Che a mezzanotte, nell’intervallo fra un set e l’altro, si buttarono a fare il bagno nel Ticino, con l’intera stazione dei carabinieri di Sesto Calende (tre in tutto) che non sapevano cosa fare per farli uscire dall’acqua. Una scena leggendaria, degna di un film di Totò.

E Chip Taylor, il fratello di Join Voight, l’uomo da marciapiede, che martella la chitarra cantando la sua Wild Thing (uno dei cinque brani immorali della storia del rock): un ricordo fiammeggiante e indelebile. Ci credo che poi Chip scrisse una canzone per te. Tu eri una “wild thing”, Carlo. Quante volte ci siamo messi a tavolino a fare i conti per far suonare Bob Dylan a Sesto Calende, in sala Consiliare? Dunque: ci stanno cento persone, se ognuno è disposto a pagare il biglietto centomila lire… no, io sono disposto a pagarne anche 200mila… ecco allora dunque dovremmo riuscire a pagargli il cachet. Insomma, non siamo mai riusciti a concludere l’affare. Ma va bene così.

Ho un ricordo, adesso, più vivo degli altri. Dopo anni che non sentivo più fisicamente la tua voce, amico, la sento come se avessi finito di parlarmi un minuto fa. E notte fonda, fondissima, siamo fuori della casa, quella di campagna, quella pink house in mezzo ai boschi della tua Woodstock personale che era anche il nostro rifugio. Siamo tornati da un concerto e tu dici, be’ ma cosa vai a fare a casa così tardi, resta qui. Non posso Carlo, ho una moglie e dei figli a casa. Va bene ok, ma è ancora presto, prima beviamoci ancora un po’ di vino: “the road goes on forever and the party never ends”. Bere non per fare gli scemi, ma perché bere insieme è più bello, anzi è proprio bello, ti lega per la vita, e si vorrebbe sempre rimandare il momento dei saluti. Stringere il tempo, fermare il tempo, come solo possono fare le nostre canzoni.

Così ecco, questo è stato il nostro penultimo saluto in attesa di quello eterno, amico carissimo di cento battaglie. Anche il funerale è stato un evento. Scommetto che il primo a venirti incontro dentro i cancelli dell’Eden è stato Elvis, seguito da Rick Danko e poi Jesse Guitar Taylor. Ti aspettavano, avevano bisogno di un promoter come te in paradiso. Io penso alle parole di Paola, ancora una volta, e cerco di sorridere in questa tristezza che adesso che il sole meraviglioso di oggi pomeriggio è calato, mi prende con un magone insopportabile: “Che Dio ci benedica tutti”. E ci aggiungo le parole del tuo amato Bob Dylan: “Possa Dio avere pietà di tutti noi”. Grazie di tutto, Carlo, il mio debito enorme.Provo le stesse parole che Joe Henry ha scritto sulla tua pagina di Facebook: "Ricordo il mio primo tour con lui come qualcuno ricorda il suo servizio militare: davvero quel tour mi fece diventare uomo, dal punto di vista professionale". E' stato così per tutti quelli che ti hanno incontrato.

Friday, December 23, 2011

Carlo


Carlo Carlini (2 febbraio 1949 - 23 dicembre 2011), Eric Andersen, Sesto Calende, dicembre 1994

Ha fatto diventare carne e sangue quei volti che per noi erano solo fotografie su di un vinile. Per poco, ha reso reale e possibile quello che era irreale e lontano. E' stato il padre che non avevamo mai avuto, ci ha insegnato quello che valeva la pena sapere. Grazie Carlo, non stare via troppo.Dobbiamo ancora far venire Bob Dylan a Sesto Calende.

Wednesday, December 21, 2011

Un milione di piccoli pezzi (di Natale)

Leave your home
Change your name
Live alone
Eat your cake

Vanderlyle crybaby, cry
All the borders are risin’
Still no surprisin’ you
Vanderlyle crybaby, cry
Man, it’s all been forgiven
Swan’s are a swimmin’
I’ll explain everything to the geeks

All the very best of us string ourselves up for love

(The National)

Fra sei mesi giorno più giorno meno faccio 50 anni, ma stanotte di anni addosso ne sento 5.000. Tutto il peso del mondo, in quella che è la notte più lunga dell'anno e anche la più fredda, si direbbe. Ecco perché ho tirato fuori una bottiglia di Old Grand-Dad e verso quel Kentucky Bourbon whiskey ripetutamente nel bicchiere. Era dal concerto di Paul McCartney che non toccavo alcol e quasi ci stavo dentro benone. Ma stanotte no, non è possibile.

Quando ero un ragazzotto ci trovavamno con altri sbandati a casa di questa coppia di cui credo di aver già parlato che si prendeva cura di noi cani randagi in perenne fuga. Lui, un cristone di George Harrison epoca concerto per il Bangla Desh solo alto un metro e novanta, avrà avuto allora poco più di trent'anni eppure ripeteva sempre: quando avrò 50 anni mi sparo. Lui adesso di anni ne deve avere più di 60 e io di finire la mia corsa a 50 anni ci metterei la firma. No, non è mica un caso di tendenze suicide.

E' che mi sembra di aver vissuto due o tre vite allo stesso tempo, e mi pesano tutte anche perché ognuna di esse è ben infarcita di sconfitte quotidiane. Una volta un tizio mi disse che più si invecchia e più la vita si fa dura e non fa sconti. Non ho mai avuto sconto alcuno e negli ultimi due, tre anni è stata una accelerazione compulsiva di catastrofi che spezzerebbero la schiena a un rinoceronte. Se tanto mi dà tanto, sarà un helter skelter sempre più devastante.

Ne ho fatte di tutti i colori e ne ho viste di tutti i colori: che altro mi devo aspettare dopo i 50? Quello che c'era da fare è stato fatto, quello che c'era da vedere si è visto e quello che c'era da ascoltare...

A volte giro per la casa e li vedo che mi osservano di nascosto. Sembra che abbiano degli occhietti maliziosi che mi fanno cenno nell'oscurità. Prendi me. No, prendi me. Ultimamente non prendo più nessuno. Sono i miei dischi. Sono là ovunque. Non ho più tempo per ascoltarli e sinceramente neanche tanta voglia di farlo. Però sono presenze affettuose, sono come dei cari amici che ti aspettano sempre, per offrirti ancora un magical mystery ride. Sento il loro affetto pulsante. Non si stancano mai loro. Io sì, sono stanco. Mi fermerei volentieri qui, insieme a loro. Amici che non ti tradiscono mai, nessuna pacca sulla spalla e nessun cazzo di "come stai" frase che ormai ho abolito dal mio uso e proibisco a chiunqe di rivolgermi. "Sto", risponde sempre. Come si deve stare? Si vive, dunque stiamo. Tanto non ci credo che tu stai bene. Di quante menzogne quotidiane è fatta la vita.

Quest'anno non mi riesce neanche di fare una lista di dischi migliori o di concerti più belli. Oh sì, di concerti belli ne ho visti parecchi quest'anno, alcuni davvero formidabili. Ma è come se il mio ultimo momento musicale si fosse fermato a un anno più indietro. Un concerto di bellezza e di tensione uniche. La tristezza che si fa trascendenza. Quella sera che ho visto i National e ho visto le finestre abbaglianti di luci colorate della cattedrale che si illuminavano dietro le loro canzoni. Che notte. Che concerto. E' ancora tutto intero dentro di me e me lo tengo stretto.

L'altro giorno ho trovato una frase di un grande vecchio del rock che è morto qualche anno fa, ci siamo anche incrociati alcune volte sul sentiero verso le stelle. Diceva: "La canzone è il rifugio ultimo della civiltà umana, è un luogo di riposo per un cuore solo e traduce l’anima della cultura per tutti". E' così, e tanto mi basta per affrontare altri 50 anni.

Buon Natale, da parte di Matt Berninger dei National. Amo quest'uomo. E' quello nelle foto qua sotto con le sue bambine. La vita, credo, andrebbe affrontata così come fanno loro...



Sunday, December 18, 2011

The Velvet Revolution

La tragedia dell'uomo moderno non è che conosce sempre meno del significato della sua vita, ma che ne è interessato sempre di meno
Vaclav Havel (5 ottobre 1936 – 18 dicembre 2011)



Ognuno ha il governo che si merita. C'è chi ha il governo dei tecnici e dei professori, c'è chi a capo del suo governo ha avuto uno scrittore e poeta. In questo secondo caso, visto che non è stato il primo e l'unico, Vaclav Havel è stata l'eccezione alla regola che dice che gli scrittori siano dei pessimi governanti. Lui era un grande scrittore e un grande governante. Non solo: ha governato il Paese che con il suo sacrifico, la sua lunga lotta, il carcere, ha contribuito a portare alla libertà.


In un blog come questo, che si astiene per quanto può dall'entrare in politica - lo fanno già tutti - Vaclav Havel lo ricordiamo anche perché la sua concezione di politica era fortemente connessa allo spirito del rock'n'roll. Di presidenti finiti sulle copertine di riviste musicali ce ne sono stati, anche di quelli che invitano alle celebrazioni delle loro elezioni fior fiore di rock stars. Vaclav Havel, anche in questo, era diverso: lo spirito del rock'n'roll non era per lui una scusa per circondarsi di nomi noti e guadagnare i voti dei fani di quei musicisti. Per Havel, lo spirito del rock'n'roll era parte integrante del suo essere uomo, artista, politico.


A fine anni 60, durante un viaggio a New York, un amico aveva consigliato ad Havel di comprare il disco di una band definita "interessante". Quel disco era The Velvet Underground & Nico. Per Havel, un ascolto illuminante. Nel 1976, quattro artisti di Praga che appartenevano alla troupe dei Plastic People, chiaramente influenzati dai plastic people di Frank Zappa, furono arrestati e posti sotto processo perché il loro spettacolo era considerato sovversivo e "minacciavano la pace". Nel loro repertorio, figuravano anche canzoni del primo album dei Velvet Underground. Havel seguì tutto il processo contro i Plastic People: aveva capito che qualcosa stava succedendo, nel monolite stalinista che opprimeva da decenni il suo Paese. Si ricordò del disco comprato a New York anni prima. Il testo che scrisse in difesa dei quattro artisti avrebbe dato vita a quel grandioso documento, Carta 77 (l'anno del punk, una coincidenza?) che avrebbe portato Havel in carcere, ma seminato i semi della futura rivoluzione. Una rivoluzione che non a caso si chiamò Velvet Revolution.


Anni dopo, incontrando Lou Reed a Praga, da presidente di una Cecoslovacchia finalmente libera, le prime parole che Vaclav Havel disse a Reed furono: "Lo sai che sono presidente grazie a te?".

Tuesday, December 13, 2011

After Midnight

Paris in the morning is beautiful,
Paris in the afternoon is charming,
Paris in the evening is enchanting,
but Paris after midnight… Is magic.

Midnight in Paris



Il giochino alla fine è fin troppo facile. Ad esempio, lo ha già fatto la mia amica Manu "Blue Eyes" sul suo status di Facebook: "Dodici rintocchi... e... arriva un taxi nero con su Dylan e John Lennon, che mi invitano a salire, mi offrono un joint e si va ad una festa dove ci sono Allen Ginsberg, Gregory Corso, Donovan e The Band al completo…". E' il giochino che viene spontaneo appena si esce dalla visione dello straordinariamente bello ultimo film di Woody Allen, Midnight in Paris. Anche io ho voluto provarlo subito appena uscito dalla sala, ma come quasi sempre succede, mia moglie non mi ha capito mentre blateravo. In realtà, grazie al non avermi capito, mi sono fermato un attimo dubbioso perché non saprei neanche io in quale epoca avrei voluto andare a finire nello spassoso - ma emozionante - viaggio indietro nel tempo che ogni sera a mezzanotte il protagonista del film va a fare, sorta di Cenerentola back to the future. Il primo pensiero è stato: gli anni 70, alle serate dei Led Zeppelin o degli Stones, backstage con Andy Warhol e groupie assortite, al Max Kansas City di New York. Però io negli anni 70 ci ho vissuto veramente, anche se da ragazzino e in zone meno interessanti di quelle.


Midnight in Paris
è un film incantevole. Soprattutto perché per la prima volta dopo decenni Woody Allen lascia perdere quel suo cinismo ossessivo "la vita è una merda" che onestamente aveva un po' rotto le palle. Ad esempio nel, per me noioso e davvero brutto Basta che funzioni (Whatever Works). Sono infatti rimasto sbigottito quando il protagonista del film a un certo punto dice: "La vita è un mistero". E la tipa risponde: "Questo è il presente: è un po' insoddisfacente perché la vita è insoddisfacente". Cioè nulla basta a soddisfarci in questa vita terrena, eppure è un mistero che ci cattura. Tutto il film si gioca infatti nel desiderio di sfuggire il presente per un passato giudicato meglio di quanto si sta vivendo. Avanti e indietro nel tempo, per scoprire che ogni passato rimanda a un altro passato, e alla fine quello che conta è il presente. Con la speranza di un cambiamento possibile, come avviene nell'ultima scena conclusiva. Rarissimo in un film di Woody Allen.



Un film incantevole che esalta tutta la bellezza e la magia di Parigi, ed essendoci appena stato mi sono divertito a rivedere tutti i luoghi che avevo attraversato. La frase migliore però rimane quella che il protagonista rivolge alla ragazza che è l'amante di tutti i personaggi della Parigi anni 20, da Picasso a Modigliani: "Con te le groupie fanno un salto di qualità". Lei ovviamente non capisce. Genio di Woody Allen.

Ripensandoci, alla fine però c'è un'epoca in cui vorrei recarmi, qualche sera, dopo lo scoccare della mezzanotte. Memphis, Tennesse, studi della Sun Records. A sentire e guardare Johnny Cash, Elvis e Jerry Lee Lewis che registrano i loro capolavori. E dopo andare con loro in un juke joint ad ascoltare vecchi bluesmen e bere Bourbon. Sì, mi piacerebbe davvero guardare in faccia Elvis e come il protagonista del film rimanere incantato dal privilegio di un incontro così. Non sarà Hemingway, o Salvator Dalì, o Picasso, o Gertrude Stein, ma che diavolo, ognuno ha il suo dopo mezzanotte che si merita.

Tuesday, December 06, 2011

Vagabondi del Dharma. Per sempre

- perché il cielo è blu?

- perché il cielo è blu

- voglio sapere perché il cielo è blu

- il cielo è blu perché tu vuoi sapere perché il cielo è blu
Dharma Bums, J.K.

Riprendere in mano libri letti 30 o più anni fa è cosa bella. Provoca sentimenti bizzarri. Rileggere Jack Kerouac, che per la mia vita fu devastatante tanto quanto un disco di Bob Dylan nel senso che mi diede la struttura e l'apertura necessarie con cui affrontare la vita, conferma che anche nelle letture, come con le canzoni, non ci si finisce per caso, ma si è destinati ad andarci a sbattere. Trenta e più anni dopo posso dire che Truman Capote aveva abbastanza ragione, ad esempio: Kerouac non era un grande scrittore. In italiano poi perde parecchio: ne ho letti un paio, di suoi libri, in inglese, è il risultato è molto diverso, è senz'altro più affascinante per la musicalità intrinseca in quella lingua. Rileggere oggi The Dharma Bums - I vagabondi del Dharma, trovo una prosa fastidiosamente spontanea, senza alcuna cura nel linguaggio, come ascoltare qualcuno che ti parla a raffica davanti agli occhi. Ma questo era il Kerouac del flusso di coscienza: non gliene fregava un tubo della forma, perché aveva cose da raccontare. E quelle cose affascinano ancora oggi.

Rileggere oggi I vagabondi del Dharma, trovo angolature e sentimenti che ai tempi non avevo percepito. In quella lotta continua, tra desiderio di pace cosmica e fuga dai vizi e dagli eccessi e il continuo ricadere nel vizio, c'è tutta la realtà dell'uomo e ciò che avrebbe portato Kerouac a morire così malamente. Non solo l'alcolismo, effetto della morte stessa, ma il dolore di non riuscire ad accettare la realtà nonostante lo sforzo di adeguarsi ad essa. E un continuo duello, quello che fa lo scrittore in queste pagine, tra la percezione di un infinito buono a cui affidarsi ricercato nell'annullamento zen di una sbornia mistica e la impossibilità di essere fedeli a questo desiderio. Tutto è vano e corrutibile, nulla è fedele a quanto ci era apparso essere. Una umanità, quella di Kerouac, così immensamente vera e realista, che per forza di cose doveva soccombere a se stessa.

Poi a un tratto ebbi il più terribile impeto di pietà per gli esseri umani, quali che fossero, le loro facce, le bocche dolenti, caratteri, tentativi di essere gai, piccole impertinenze, il sentirsi perduti, le loro cupe e vuote spiritosaggini così presto dimenticate: Oh, a che scopo? Sapevo che il suono del silenzio era dovunque e perciò tutto dovunque era silenzioso. E se dovessimo svegliarci all'improvviso e vedere che quel che credevamo questo e quello, non è per niente né questo né quello? Salii barcollando la collina, salutato dagli uccelli e guardai tutte quelle figure raggomitolate assopite sul pavimento. Chi erano tutti quegli strani fantasmi abbarbicati insieme a me alla breve sciocca avventura terrena? E io chi ero?

Ma ci sono pagine, la prima metà, ancora così straordinariamente intense e meravigliosamente ispirative. La descrizione della scalata delle montagne californiane ti fa essere realmente lì, con i pazzi santi boddisatva che insieme a lui sfidano le altezze per inebriarsi della bellezza: ogni sassolino, ogni filo d'erba, ogni panorama e ogni orizzonte si schiude davanti a te che leggi con un realismo e una vividezza che ammutolisce. Ricordo quando, dopo aver letto questo libro la prima volta, credo adi aver avuto 16 o 17 anni, con alcuni amici andammo a passare delle giornate nel casolare antichissimo della famiglia di uno di essi, sui monti dell'entroterra della mia città di mare. Un giorno decidemmo di scalare una montagna lì vicino (che non era il Matterhorn Peak nella Sierra Nevada che scalavano Kerouac e i suoi amici, ma molto più conforme a noi si chiamava Monte Porcile...). Ricordo ogni istante di quella giornata ancora oggi: l'aria purificata dalla brezza montana, l'immensa distesa di erba verde luccicante, la mandria di cavalli selvaggi incontrati a metà salita a cui demmo da mangiare dele fette di salame, la vetta e il panorma stordente da lassù da cui si poteva vedere in fondo distendersi il mare blu, la discesa correndo a perdifiato finendo in un bosco fitto e per puro caso alle fonti di un'acqua minerale che manco sapevamo fosse lì.

Matterhorn Peak

Pura bellezza zen cosmica e totale che ha nutrito la mia anima e il mio cuore a tutt'oggi ("Non si può cadere da una montagna" è il proverbio zen che bisognerebbe stamparsi in mente, come lo coniò Kerouac da quelle vette)e che tutt'oggi mi permette di sopravvivere nella decadenza che ogni giorno si impossessa sempre più di me, del mio corpo e della mia mente. E senza questo libro, non avrei mai gustato quei momenti di totale infinito che vissi quel giorno e che porto ancora con me, a cui affidarsi per non impazzire nell'oggi. Perciò, siamo vagabondi del Dharma ancora oggi. Per sempre. Da qualche parte, un giorno salirò di nuovo su quella montanga, e allora la mia corsa stanca sarà finita per sempre. Non si può cadere da una montagna. Fino ad allora, siamo vagabondi del Dharma.

Nel profumo etereo, misteriosamente antico, vidi che la mia vita era una immensa luminosa pagina bianca e che potevo fare qualsiasi cosa volessi

Sunday, December 04, 2011

Se a piangere sono i ministri

Cosa vuol dire cosa è successo stasera, lo capiremo solo fra qualche anno. Quello che fa piangere veramente, è che nessuno ci ha ancora detto di chi è la colpa per quello che sarà questo futuro di sacrifici, che non saranno semplicemente sacrifici, ma peggio, molto peggio. E sacrifici per cosa, non ce lo dicono nemmeno, probabilmente perché hanno paura a dircelo, come hanno paura a dirci i nomi di chi ci ha messo in questa situazione. Sacrifici per ricostruire quel sistema malato, marcio, quella finanza ignobile che governa il mondo occidentale ormai da almeno vent'anni e che questi sacrifici serviranno a renderla efficiente e dominatrice anche per le prossime generazioni.

E' una sconfitta, totale, per tutti. Qualcuno ne uscirà fuori sano e salvo, gli amici di chi ci ha ridotti così: "Some people never worked a day in their life, don't know what work even means". Gente che non ha mai lavorato nella loro vita, gente che non sa nemmeno cosa voglia dire lavorare. Lo diceva Bob Dylan già cinque anni fa, e nessuno capiva di cosa stesse parlando: "The buyin' power of the proletariat's gone down, Money's gettin' shallow and weak, Well, the place I love best is a sweet memory, It's a new path that we trod, They say low wages are a reality, If we want to compete abroad". Adesso lo sappiamo, e non è un bel sapere. No, non lo è per niente.

There's an evenin' haze settlin' over town
Starlight by the edge of the creek
The buyin' power of the proletariat's gone down
Money's gettin' shallow and weak
Well, the place I love best is a sweet memory
It's a new path that we trod
They say low wages are a reality
If we want to compete abroad

My cruel weapons have been put on the shelf
Come sit down on my knee
You are dearer to me than myself
As you yourself can see
While I'm listening to the steel rails hum
Got both eyes tight shut
Just sitting here trying to keep the hunger from
Creeping it's way into my gut

Meet me at the bottom, don't lag behind
Bring me my boots and shoes
You can hang back or fight your best on the frontline
Sing a little bit of these workingman's blues

Well, I'm sailin' on back, ready for the long haul
Tossed by the winds and the seas
I'll drag 'em all down to hell and I'll stand 'em at the wall
I'll sell 'em to their enemies
I'm tryin' to feed my soul with thought
Gonna sleep off the rest of the day
Sometimes no one wants what we got
Sometimes you can't give it away

Now the place is ringed with countless foes
Some of them may be deaf and dumb
No man, no woman knows
The hour that sorrow will come
In the dark I hear the night birds call
I can feel a lover's breath
I sleep in the kitchen with my feet in the hall
Sleep is like a temporary death

Well, they burned my barn, and they stole my horse
I can't save a dime
I got to be careful, I don't want to be forced
Into a life of continual crime
I can see for myself that the sun is sinking
How I wish you were here to see
Tell me now, am I wrong in thinking
That you have forgotten me?

Now they worry and they hurry and they fuss and they fret
They waste your nights and days
Them I will forget
But you I'll remember always
Old memories of you to me have clung
You've wounded me with your words
Gonna have to straighten out your tongue
It's all true, everything you've heard

In you, my friend, I find no blame
Wanna look in my eyes, please do
No one can ever claim
That I took up arms against you
All across the peaceful sacred fields
They will lay you low
They'll break your horns and slash you with steel
I say it so it must be so

Now I'm down on my luck and I'm black and blue
Gonna give you another chance
I'm all alone and I'm expecting you
To lead me off in a cheerful dance
I got a brand new suit and a brand new wife
I can live on rice and beans
Some people never worked a day in their life
Don't know what work even means

Meet me at the bottom, don't lag behind
Bring me my boots and shoes
You can hang back or fight your best on the frontline
Sing a little bit of these workingman's blues

Thursday, December 01, 2011

La chiesa del Sacro Cuore Sanguinante di Gesù, situata da qualche parte a Los Angeles, California

Black girls just wanna get fucked all night
(Some Girls, The Rolling Stones)


Ops, Mick, l'hai combinata grossa. Ti sei comportato in modo politicamente scorretto ancor prima che fosse inventata la definizione di politicamente corretto. Genio. Che altro è il rock'n'roll se non l'attitudine a essere politicamente scorretti. Gli Stones del disco Some Girls lo sapevano ancora bene, questo. Di Fatto, Some Girls che esce in questi giorni in edizione deluxe con tanto di abbondanti brani inediti aggiuntivi. è l'ultimo grande disco della band inglese. Dopo, seguirà tanto mestiere, qualche canzone ancora piacevolmente interessante, ma niente di che oltre ai dei cliché abusati e strabuzzati. Come mi disse una decina di anni fa John Mellencamp, "Gli Stones di Satisfaction mettevano paura. Oggi non saprei dire che cosa comunicano". Some Girls, se non mette paura, mette fastidio, provoca, e soprattutto eccita parecchio.



Si dice che Some Girls sia il disco di Mick Jagger, e il testo della canzone che dà il titolo all'album lo confermerebbe: chi altri può dire certe cose delle donne? Keith Richards, allora, era più impegnato a entrare e uscire dalle aule di tribunale per problemi di droga, "prima che lo facessero correre", ma in realtà alla fine questo è un grandissimo disco degli Stones. Si dice anche che sia venuto così per reazione alla scena punk che prendeva in giro proprio loro (e i Beatles), dinosauri del passato. Chissà. Certo è che quasi 35 anni dopo Some Girls suona pimpante, fresco e divertente come i grandi classici del gruppo, come il miglior rock'n'roll dovrebbe essere. C'è una energia, una potenza di fuoco, una necessità impellente di comunicare e di comunicarsi che stupisce tutt'oggi, che annichilisce ed esalta allo stesso tempo. Chitarre sporche, rumorose, ritmica sferragliante e incalzante, e un Mick Jagger esaltante come non mai, dall'inizio alla fine. Anche un classico della black music come Just My Imagination diventa un irresistibile rock'n'roll grezzo e spumeggiante. Ma per capire un disco come Some Girls bisogna sapere cosa furono gli anni 70 per questa band, un libro come quello di Chet Flippo, On the road with the Rolling Stones lo potrà permettere di fare, se lo trovate ancora in giro. Ad esempio la poesia tutta country di Far Away Eyes, così intrisa di una americanità che gli Stones dell'epoca avevano assorbito completamente, e che testimonia una delle verità fondamentali della vita: "Se la tua fortuna se n'è andata, e non riesci ad armonizzare, se sei completamente disgustato, e la tua vita non vale un centesimo, trovati una ragazza dallo sguardo sperso nel vuoto". Certe ragazze, si sa, possono salvare la vita nei momenti più disgraziati. Certe ragazze.



Se Some Girls venne definito la risposta punk degli Stones a Sex Pistols e compagnia, in realtà le radici punk degli Stones vanno cercate ben prima di questo disco. Ad esempio in un concerto tenuto a Bruxelles nell'anno di gloria 1973, l'anno di Almost Famous, uno degli anni più gloriosi di questa storia. Con geniale coincidenza, dagli archivi della band esce una sorta di boootleg series, inaugurata proprio con un concerto in Belgio di quell'anno. Maximun rock'n'roll, quello che si ascolta in questo disco che per forza di cose insieme al live del 1969 vola subito nella top five dei migliori album dal vivo della band. Una potenza devastante, un tiro micidiale dall'inizio alla fine, che ridicolizza i recenti pur belli concerti degli Stones. Certo, la cocaina e lo speed fornivano carburante sufficiente a quei tempi per giustificare tanta energia, ma un Mick Jagger così cialtrone, così sguaiato, così rock'n'roll non si ricordava più. Altro che gruppi punk. Charlie Watts, con buona pace del simpatico settantenne che conosciamo oggi, era di una forza ritmica impressionante, così Richards che grazie allo straordinario Mick Taylor poteva permettersi di sostenere tutto con una mitragliatrice spara riff incandescente. Un disco che brucia di calore vivo, hard to handle, difficile da maneggiare, ma tutto da godere. Da ascoltare immediatamente prima di Some Girls per avere le coordinate giuste con cui muoversi. Il resto, si sa, è solo divertimento: it's only rock'n'roll, but we like it.

Tuesday, November 29, 2011

Trippin' the live fantastic

Quando, nel 1970, i Beatles si sciolgono definitivamente dopo una lenta agonia, John Lennon rilascia uno dei suoi tipici caustici e apparentemente cinici commenti: "Il sogno è finito". Intendendo con ciò il sogno che aveva rappresentato l'avventura della più grande band del decennio appena finito, ma anche il sogno che quella band aveva elargito al mondo: senza i Beatles non ci sarebbero state le utopie e le speranze dei Sixties.

Quarant'anni e più dopo la fine di quel sogno, Paul McCartney ha rimesso insieme i cocci di quel sogno e lo ha mostrato, tutto intero nella sua bellezza, durante i due concerti italiani del suo On the Run Tour 2011, che si concluderà dopo una manciata di date nella natia Liverpool il prossimo 20 dicembre. Per McCartney, infatti, i Beatles non avrebbero mai dovuto finire: se negli ultimi mesi del 1969 tentò una battaglia impossibile, nei decenni trascorsi ha pazientemente rimesso in piedi un puzzle che era troppo bello perché si scomponesse definitivamente.


(Foto di Paolo Brillo)

Lo ha fatto perché lui, Paul McCartney, era "il" Beatle: ne è sempre stata l'anima più profonda, lo sperimentatore cosmico, il traghettatore verso sonorità impensabili, il tessitore dell'utopia. Con buona pace di John Lennon, dischi come Sgt Pepper's o Abbey Road è McCartney che ha fatto in modo che esistessero.

PER CONTINUARE A LEGGERE LA RECENSIONE DEL CONCERTO DI PAUL MCCARTNEY AL FORUM DI ASSAGO CLICCA SU QUESTO LINK

Friday, November 25, 2011

Natale il 31 gennaio



Show me the place, where you want your slave to go
Show me the place, I’ve forgotten I don’t know
Show me the place where my head is bend and low
Show me the place, where you want your slave to go

Show me the place, help me roll away the stone
Show me the place, I can’t move this thing alone
Show me the place where the word became a man
Show me the place where the suffering began

The troubles came I saved what I could save
A shred of light, a particle away
But there were chains so I hastened to the hay
There were chains, a lot of chains Like a spade

Show me the place, where you want your slave to go
Show me the place, I’ve forgotten I don’t know
Show me the place where my head is bend and low
Show me the place, where you want your slave to go

The troubles came I saved what I could save
A shred of light, a particle away
But there were chains so I hastened to the hay
There were chains so I loved you like a slave

(Leonard Cohen, Show me the Place)

Salvate i soldini a Natale se i nuovi padroni dell'Europa Sarkozy e Merkel ve ne lasciano ancora qualcuno. I due regali-regaloni da fare-farsi quest'anno arrivano più di un mese dopo Christmas time. In contemporanea. Lo stesso giorno infatti escono due dischi di cui uno, ovvio, è imperdibile e non si accettano scuse per lasciarlo lì, sugli scaffali virtuali del vostro negozio online. Almeno a giudicare dalle premesse. Dovrebbe cioè essere molto differente dall'ultimo suo lavoro, quel Dear Heather che aveva scontentato anche me che adoro quasi ogni secondo della musica di Leonard Cohen. Old Ideas a giudicare dal primo brano messo in Rete sembra avere parecchio di più.




Dice la sua casa discografica che questo "è identificabile come il più apertamente spirituale tra gli album pubblicati fino ad oggi". Per uno che ha fatto della spiritualità la sua musa, direi che suona stuzzicante. E ancora: "Le dieci canzoni del nuovo disco affrontano con linguaggio poetico alcuni dei più profondi dilemmi dell’umana esistenza: la relazione con un essere trascendente, l’amore, la sessualità, la perdita e la morte". Ci vado a nozze, soprattutto con la perdita. Come il titolo del suo libro, infatti, io sono un "beatiuful loser": beautiful magari poco, perdente tantissimo. E' tutta la vita che perdo. Ma attenzione, perché parla anche Cohen: “Maturando ho capito le istruzioni per l’uso che accompagnavano la mia voce. E queste istruzioni prevedono di non lamentarsi mai in modo casuale. Se proprio bisogna esprimere la grande, inevitabile sconfitta che attende ognuno di noi, bisogna almeno farlo rimanendo entro gli stretti confini della dignità e della bellezza”. Agli ordini Fieldcommander Cohen: la sconfitta quotidiana è il nostro mestiere.



L'altro acquisto invece sarà solo per gli hard core fan, ma sembra promettere assai. Un quadruplo cd che raccoglie ben 73 pezzi quasi tutti incisi per l'occasione: pensate che c'è anche Mark Knopfler che fa Restless Farewell. Wow. Si tratta di Chimes of Freedom: Songs of Bob Dylan Honoring 50 Years of Amnesty International, per festeggiare i 50 anni di Amnesty International. Detro, personaggini per tutti, ma proprio tutti i gusti: Adele, Patti Smith, Pete Townsend, Ke$ha, The Gaslight Anthem, Sting, Jackson Browne, Elvis Costello, Sinead O’Connor, Kris Kristofferson, Bad Religion, Marianne Faithfull, My Chemical Romance, Bryan Ferry, Pete Seeger. Dicono i tipi di Amnesty: “La musica di Bob Dylan è eterna perché cattura in modo unico il nostro struggimento, la nostra gioia, la nostra fragilità e il nostro coraggio. Pochi artisti come lui riescono ad avere una tale profondità nei testi, ispirandoci così tanto e arrivando sempre a superare le nostre aspettative. Noi di Amnesty International siamo immensamente grati nei suoi confronti e nei confronti di tutti gli artisti che hanno contribuito a questo progetto”. Salvate i soldini, se ve ne rimangono ancora. Questi sono (fucking) hard times.

Tuesday, November 22, 2011

On a night like this/ 2

The world is old
The world is great
Lessons of life
Can’t be learned in a day
I watch and I wait
And I listen while I stand
To the music that comes
from a far better land


La storia comincia più o meno una sera di 45 anni fa, quando un ragazzetto di 16, 17 anni con i soldi probabilmente scroccati ai genitori con la scusa di una serata al pub si reca invece a vedere un concerto rock. Il luogo è Newcastle, profonda Inghilterra operaia. Sul palco quella sera sta per andare in scena il più straordinario concerto rock da quando Elvis si è esibito allo stadio di Seattle lanciando l’urlo “good rockin tonight” o da quando i Beatles hanno spaccato le televisioni di milioni di americani all’Ed Sullivan Show. “This is not british music, this is american music. Aw come on” dice il magrissimo cantante americano sul palco, così pieno di anfetamine quasi da saltare in aria. Per il ragazzetto inglese è tutto, la sua vita cambia, anche se ancora non lo sa.

Luglio 2007, Londra, Kensington High
, saletta riservata di un ristorante super posh. Quel ragazzetto è un uomo di quasi sessant’anni che annuisce e sorride gentilmente a ogni cosa che gli dico. Fu una sorpresa che lui decise di non inserire quella canzone sul disco che tu avevi prodotto? Ride alla grande, per farsi improvvisamente serio: “No, non rimasi sorpreso da quella scelta. Sapevo già che tipo di personaggio è. Lo vidi la prima volta nel 1966 a Newcastle: ero già un suo fan, rimasi un suo fan e sarò sempre un suo fan ”.


Nella Ville Lumièere, la Gay Paree come la chiama l'americano, non va in onda nessun duetto, ma si percepiscono vibrazioni di una forza così inenarrabile da arrivare da ogni angolo del palco. Musica che arriva da un altro mondo, migliore di questo probabilmente. L’inglese, da tempo, è diventato anche lui una star, e le loro strade si sono già incrociate in molti strabilianti modi. E’ tutto rimandato a qualche sera dopo: i duetti improvvisamente sono tre, poi diventano quattro poi ancora cinque, con l’inglese che accompagna il cantante americano con la sua chitarra. A Milano sono solo tre le canzoni, ma per il tempo che durano sul palco c’è quel ragazzetto di 17 anni che sta cercando di rivivere la notte che gli cambiò la vita: Ah this is not british music, this is american music. C’è una intensità così violenta, così devastante come solo quando due astri collidono, due soli si incendiano, due cuori immensi si sfiorano. Anche l’americano vive questi momenti come se il tempo fosse adesso quello di Newcastle, 1966.

“Lo vidi la prima volta nel 1966 a Newcastle: ero già un suo fan, rimasi un suo fan e sarò sempre un suo fan ”.

Londra, Hammersmith Apollo, teatro di un milione di sanguinanti battaglie rock. E’ l’ultima sera, l’ultima tentazione, l’ultimo rimpianto. Il tour, questo tour, finisce qua. Anche stasera a inizio del suo set, lui, l’inglese, è salito sul palco e ha suonato tre canzoni con l’americano, formidabili come sempre. Poi, inaspettatamente, senza che neanche lu’americano se lo aspettasse, è risalito per l’ultimo bis. L’americano a modo suo è evidentemente contento, si muove attorno alla tastiera come un bambinetto davanti a un giocattolo nuovo. La canzone è Forever Young. All’inglese tocca di cantare la seconda strofa per intero, poi l’americano e l’inglese si scambiano un verso ciascuno nell’ultima terza strofa. Quando l’inglese canta “may your song always be sung”, che la tua canzone possa essere cantata per sempre, fa un ampio gesto col braccio destro e indica vistosamente lui, l’americano. Il pubblico impazzisce. L’americano aspetta di finire il brano, poi si avvicina all’inglese e lo abbraccia. C’è un significato in ogni cosa, in ogni decisione, in ogni istante: le strade si incrociano, gli eventi accadono, la scintilla si illumina, ogni cosa va al suo posto. E’ tutto già scritto, è tutto già deciso, prima, in un tempo immemorabile.


(Foto di Paolo Brillo - copyright reserved)

Mark Knopfler ha pagato il suo debito a Bob Dylan, che quella sera di un secolo fa, di un tempo immemorabile, gli aveva cambiato la vita. Era un suo fan allora, è ancora un suo fan oggi. Che questa canzone possa essere cantata per sempre, anche per noi, così da pagare ogni debito. Guardiamo, e aspettiamo, mentre ascoltiamo quella musica che arriva da un mondo molto migliore.



Friday, November 18, 2011

Una panchina vuota. A Soho Square

An empty bench in Soho Square.
If you’d have come you’d have found me there

But you never did ‘cos you don’t care and I’m so sorry baby

I don’t mind loneliness too much but when I met you I was touched

And that was good enough for me but do we always have to be sorry

Why can’t we just be happy baby?

One day you’ll be waiting there, no empty bench in Soho Square

And we’ll dance around like we don’t care

And I’ll be much too old to cry

And you’ll kiss me quick in case I die before my birthday


A Soho Square c'è una panchina. E' vuota la maggior parte dell'anno, ma in un giorno speciale si riempie di gente, attorno. Soho Square è un angolo di verde e di silenzio nel cuore più vero di Londra, Soho. Ci sono capitato per puro caso anni fa mentre cercavo l'albergo dove dovevo incontrare per una intervista Shawn Colvin. Sono rimasto spiazzato, sbucando dall'intricato dedalo di vicoli e vicoletti che costituiscono Soho, il quartiere della musica e della vita notturna, in cui ogni metro parla di storia e di storie di uomini e donne. Qui c'è la chiesa di San Patrizio di cui ho parlato altre volte, dove dentro dormono tranquilli i barboni sulle panche e sotto si estendono chilometri di antiche catacombe. Soho Square è un rifugio, e come tutti i rifugi è il luogo degli innamorati. E' un luogo che sprizza magia, solitudine, amore e raffinata melanconia, tipicamente british. Ogni volta che vado a Londra passo da Soho Square, a respirare tutte queste cose e portarmele via.


A Soho Square c'è una panchina vuota quasi tutti i giorni dell'anno, tranne in un giorno speciale, dove alcune persone vi si radunano attorno. E' la panchina di Kirsty MacColl, che a Soho Square dedicò una bellissima canzone dal titolo omonimo, che diceva "C'è una panchina vuota a Soho Square, se ci verrai mi ci troverai, ma tu non ci vieni perché non te ne importa. Ma un giorno sarai lì ad aspettare, non ci sarà nessuna panchina vuota a Soho Square e danzeremo come se non ce ne importasse nulla e sarò troppo vecchia per piangere, e mi bacerai velocemente, nel caso io muoia prima del mio compleanno".


Kirsty MacColl, che tutti ricordiamo per il suo meraviglioso duetto con Shane MacGowan nel brano Fairytale of New York, è morta prima del suo compleanno, uccisa da un motoscafo di un milionario messicano entrato dove non si doveva entrare con un motoscafo, dove Kirsty stava nuotando con il figlio. Riuscì a salvare la vita del figlio, ma venne investita dalla barca morendo sul colpo. Era il 10 ottobre del 2001. Dieci anni fa. Da allora ogni 10 ottobre fan e amici si radunano introno alla panchina di Soho Square, su cui hanno messo una targhetta con alcuni versi della canzone di Kirsty.

Pochi giorni fa è morto, di tumore, anche un grandissimo della canzone inglese, Jackie Leven. C'è evidentemente una qualche maledizione sui grandi cantori folk inglesi, che in un modo o nell'altro muoiono tutti prima del tempo e malamente. Nick Drake, John Martyn, Bert Jansch, adesso Jackie. Vite maledette, troppo intense per rimanere su questa terra troppo a lungo. Jackie Leven scrisse un album intitolato The Mystery of Love Is Greater Than the Mystery of Death. Incise anche la sua versione di Soho Square di Kirsty, una bellissima versione. Non so se i due si siano mai incontrati in vita, conosciuti, seduti insieme su quella panchina. Ma sono sicuro che adesso quella panchina non sarà mai più vuota e abbandonata, neanche negli altri giorni dell'anno. Perché a Soho Square c'è adesso una panchina dove siedono per sempre Kirsty e Jackie: il mistero dell'amore è più grande del mistero della morte. E supera la morte. Questo dicono le canzoni.

Tuesday, November 15, 2011

On a night like this

Un amico, mentre discutevamo nella nebbia fonda fonda quasi fossimo stati due serial killer sulle rive del Tamigi invece di essere nella bassa padana fuori del Forum di Assago, diceva: con quelli della sua generazione, un concerto è sempre commemorazione e nostalgia. Con Dylan, invece, è accadimento nel presente. Concordo. Al terzo concerto nel giro nel giro di cinque mesi (non mi accadeva da secoli) sono stato preso per l'ennesima volta in contropiede e lasciato a farmi l'eco di me stesso proprio come l'eco diabolico di Mister Jones. Li avevo lasciati tre settimane fa, Dylan e la "sua" band, intenti in uno spettacolo a base di blues del più intenso e minaccioso, li ho ritrovati ieri sera come la più straordinaria, selvaggia, virulenta, insomma una autentica "badass rock'n'roll band". Anzi, no: una autentica rockabilly band che la nebbia ha vomitato fuori dagli studi della Sun con ciqnuant'anni di ritardo.
Anche l'eterno brutto anatroccolo del gruppo, Stu Kinball, è sbocciato come un fiore e spacca con un paio di assolo da paura stasera. Un amico dagli spalti del Forum mi messaggia per chiedere perché "Dylan fa quelle cose alla pianola". Non lo so e comunque non è una pianola. Forse crede di essere Brian Auger, o Manfred Mann, o Augie Meyers oppure quel dimenticato piccolo tastierista della Sun Records: lo trovo incredibilmente efficace, specie in quel delizioso e stordente riff boogie insistente di Levee's Gonna Break. Sì, una rockabilly band con l'intensità e l'impianto audio dei Metallica. Highway 61, che a giugno all'Alcatraz era stata stucchevole e zoppicante, stasera è il Midnight Train che sferraglia pauroso nella notte piena di nebbia. Ovvio che qua fuori quando usciremo ci aspetterà il midnight rambler per tagliarci la gola. Stu e Charlie Sexton dialogano con un godimento alle stelle e il loro godimento arriva a fiotti sul pubblico. Era dal 2003, dai tempi belli di Freddy Koella, che la Dylan band non esprimeva tanto sangue e passione. Le prime tre canzoni, poi, quando sul palco c'era Mark "sultan of swing" Knopfler sono devastanti e accecanti. L'ex Dire Straits ha tenuto in piedi con una potenza di tiro impressionante tutta la band, dando struttura, vigore, direzione di tiro tanto che quando è sceso dal palco e sul palco è rimasto solo "spirit on the water", è sembrato crollare tutto. Per fortuna ci si è ripresi presto.
Ma che potenza di fuoco si è ascoltata con lui sul palco durante Leopard Skin Pill Box Hat; che dolcezza piena di mestizia si è incanalata in Its all over now Baby Blue. Quanto swing purissimo in Things Have Changed. Valeva la pena di correre fino a qui anche se i pezzi sono stati solo tre e non cinque come in altre serate. Un altro amico messaggia anche lui dagli spalti: "Charlie Stackalee Sexton e c'è anche l'hunchback of Notre dame che gli porta le armoniche". Su quel palco stanotte potrebbe succedere di tutto. Anni fa qualcuno disse che durante certi concerti e durante certe canzoni, Dylan e la sua band sembrano essere a bordo di una macchina gettata a trecento all'ora su una strada piena di curve e ostacoli. E che si divertano come pazzi a imboccare quella strada a quella velocità con il rischio di uscirne fuori e spaccarsi il muso sul vetro. Ieri sera è stato così per gran parte del concerto. Personalmente, ho preso la proposta, rarissima, di Simple Twist of Fate come un regalo preziosissimo, da autentico gentleman che esprimeva così tutto il suo apprezzamento per il pubblico milanese. In quei minuti come solo nei suoi momenti migliori Dylan era una maschera in totale trasformazione che riassumeva, disfava e raccontava i mille volti della sua esistenza. Impressionante: ecco the original vagabond in carne e ossa, anche lui sputatto da questa nebbia benedetta.
Ma ieri sera ho goduto immensamente per una Thunder on the Mountain che non avevo mia apprezzato: stavo imboccando la via obbligatoria della toilette, mi sono dovuto fermare e tornare indietro. Quello che stava succedendo sul palco era impossibile. Ma era autentico. Accadeva, ancora una volta, nel momento. "People are crazy and times are strange": mai come ieri sera mi sono sentito libero come a un concerto rock. In un mondo che è sempre più dominato da gente impazzita, in tempi che sono fottutamente strani, l'unico posto dove sentirsi liberi è un concerto rock. Come questo, ovviamente.

Post scriptum: così preso nell'entusiasmo della musica fatta fino a pochi secondi prima, a Bob Dylan esce un urlo che sembra quasi un canto. Come se la canzone eseguita poc'anzi non fosse finita in realtà. Vuole presentare la sua band, come fa ogni sera. "Hello friends, I want to introduce my baaaaaaaaaaand right now!". Entusiasmo e gioiosità, robe rare, in pubblico, da parte di quest'uomo. E mi viene in mente una immagine: questo è il ragazzino di 17 anni che cinquant'anni fa al liceo di Hibbing, la sua scuola, si era esibito in un mini set di selvaggio rock'n'roll con la sua piccola band di ragazzini come lui, i Golden Chords. Non è un caso che allora come oggi fosse davanti a delle tastiere, pianoforte, pianola, organetto. L'incontenibile entusiasmo di allora è lo stesso di oggi. Questa è la mia band.


Tutte le foto sono copyright di Paolo Brillo (uomo fotografia dell'anno)

Thursday, November 10, 2011

Brucetellers

Pour me a drink Theresa
In one of those glasses you dust off
And I'll watch the bones in your back
Like the stations of the cross


Dunque, ho scoperto che, attraverso la grafologia, lo studio della calligrafia di Bruce Springsteen, il nostro esprime "una nozione del bello e soprattutto di bene". Lo sospettavo. E che ha anche il bisogno di "elevarsi" per sfuggire a una paura innata dell'indifferenza altrui: in questo senso ci sarebbe da parte sua "una ricerca inconscia di identificazione al principio paterno, al padre quale rappresentante della legge e dell'autorità". Da un punto di vista escatologico, un sentimento di dipendenza dal Padre, con la P maiuscola. Ho sempre sospettato anche questo.

Scopro questa e un sacco di altre cose, tanta roba insomma, nel libro Brucetellers: un libro che mi sto divertendo un sacco a leggere, e io non mi diverto mai, o quasi. Divertirsi, nel leggere un libro, non significa farsi risate come davanti a uno Zelig qualsiasi, ma vuol dire apprendere con piacere. Scopro anche che in questo bel libro, il cui ricavato andrà completamente in beneficenza alla Fondazione dell'Ospedale Pediatrico Meyer di Firenze, ci sono anche io. Questo non è molto divertente ed è anche riciclato, nel senso che la mia mancanza ormai cronica di tempo libero mi ha obbligato a mandare un pezzo che scrissi anni fa, dopo il concerto di San Siro del 2003. Peccato: avrei potuto piuttosto raccontare che invece di incontrare Springsteen, come sembra abbiano fatto tutti i fan italiani leggendo queste pagine, ho incontrato e intervistato piacevolmente Patti Scialfa e Little Steven. Ma chissenefrega, no, di loro due.

Nel libro ho scoperto personaggi straordinari alcuni dei quali avevo tra i millantamila amici di Facebook: li ho ritrovati in molti qua dentro, scoprendo che su FB mi chiedono tantissimi fan di Springsteen la loro amicizia, quando io, a giudicare da certe mailing list, dovrei essere il nemico numero uno di Springsteen (perché a-me-mi dischi come Working on a Dream sembranno dischi dei Pooh peggiori e il karaoke della E Street Band degli ultimi anni non lo reggo). Non è un caso che nella lista dei post più letti del mio blog, al primo posto c'è sempre questo qua. Mi sovviene in aiuto la straordinaria, divertente e brillante descrizione della Springsteen-fandom che fa Il Cala, in apertura libro. Un genio, il Calandriello, come tutti i liguri d'altronde.

In Brucetellers ho ritrovato amici musicisti che non vedo di persona da decenni, come Graziano Romani o Massimo Bubola, colleghi giornalisti idem, come Ermanno Labianca (straordinario il ritratto di Bruce che accende dei ceri dentro San Petronio) e Mauro Zambellini, fan dal cuore bello come Angela Del Rosso che apre citando Leonard Cohen: che classe, baby. Ho ammirato il talento di Gianluca Morozzi che mi ha fatto ricordare che a Verona nel 1993 c'ero anche io: tanto poco mi piacque quello show che me l'ero dimenticato. Insomma, belle pagine piene di vibranti ricordi, da spizzicare qua e là, saltando tra le pagine, per lungo tempo. Good job, mi viene da dire a chi ha avuto questa pensata: un libro, un diario commosso, per ricordare un amico che non c'è più. Bellissimo, come ho sentito dire a Bruce in innumerevoli concerti italiani.

Un tale lavoro fatto bene che mi ha fatto venir voglia di rimettermi in discussione: vediamo se sono pirla davvero o no, mi sono detto. Ho rimesso su in sequenza Magic e Working on a Dream. Be', Magic mi suona ancora esattamente come la recensione che scrissi al tempo: una prima metà straordinariamente bella, strepitosa, una seconda metà affannosamente così così. E Working? Be', i Pooh, anche nei loro momenti peggiori hanno fatto di meglio. Shoot me now! I love Bruce, mi spiace: per tutta la vita avrò davanti quell'immagine dell'uomo in piedi sul pianoforte che vidi quella sera a Mister Fantasy in tv, a sfidare il mondo e soprattutto me stesso. Cosa chiedere di più, a chi ha avuto la fortuna di imbattersi in certi maestri, istigatori della bellezza?

In realtà, mi viene in mente adesso quello che avrei potuto scrivere pr Brucetellers. E non avrei scritto di Bruce. No, avrei scritto di un personaggio straordinario la cui faccia e il cui gesto più di vent'anni dopo ce li ho ancora scolpiti nella mente. Era il 23 luglio 1988. Avevamo passato una giornata orribile, nel catino torrido dello Stadio Comunale di Torino il cui momento migliore era stato il lancio di pomodori verso Claudio Baglioni. Poi ore di pseudo folksinger e insopportabili pop star. Ma era venuta l'ora, quella per cui il 90% delle persone aveva riempito lo stadio. Davanti a me un ragazzo sfatto e annichilito proprio come mi sentivo io. E' un attimo: quella voce e le chitarre che sferragliano il riff di Cadillac Ranch. Il ragazzo davanti a me si toglie in mezzo secondo la t shirt e la lancia in aria con un urlo di soddisfazione incontenibile, rimanendo a torso nudo per tutto il resto del concerto. Mai gesto fu più rock di quel gesto, un gesto di liberazione totale, cose che solo Springsteen poteva far accadere. Forse quel ragazzo è tra gli autori di Brucetellers. devo scoprirlo. Così allora, Teresa, versami un altro drink.Guarderò le ossa della tua schiena ancora una volta, come si guarda una Via Crucis.

Saturday, November 05, 2011

Genova resiste


Tragedie come quella di ieri succedono ogni giorno in tutto il mondo. Ovvio che quando colpiscono ciò che hai di più caro, ti costringono a reagire maggiormente, anche se non è bello, anche se non bisognerebbe mai ignorare tutto il dolore del mondo. Questa volta però è un orrore che si ripete, in modo ingiustificato. Quella foto qua sopra è la prima pagina de Il Secolo XIX del 1970: 41 anni fa, l'alluvione a Genova fece 25 morti. Ieri ne ha fatti 7, tra cui tre bambini, annegati come topi. Le colpe di chi amministra Genova e la Regione Liguria sono immense, hanno le mani lorde di sangue, perché non solo non hanno mai risolto alla radice in 41 anni una situazione metropolitana a perenne rischio, ma perché hanno mandato la gente a morire per strada in situazione di allarme due. C'è da chiedere al signor sindaco di Genova se sappia cosa significi un allarme due: le scuole dovevano restare chiuse, la gente invitata a non uscire. Una mamma è morta annegata per essere andata a prendere il figlio a scuola. Una città in mano a degli irresponsabili che verrebbe voglia di chiamare assassini.

Io amo Genova. Conosco ogni centimetro di questa città come si conosce il corpo della donna che ami. Genova mi ha sempre accolto come una madre nelle mie fughe, da casa, da scuola. E' una città misteriosa, Genova, piena di piccoli angoli nascosti e meravigliosi: li conosco tutti. In quegli angoli nascosti ho incontrato i miei primi amori di ragazzino, nei bar fumosi e puzzolenti ho bevuto il mio primo vino, alle donne di vita nei carrugi ho detto di no quando mi chiamavano sorrideno ad andare da loro. Al molo dove decenni prima partivano gli emigranti ho passato ore a sognare quei volti davanti ai moderni transatlantici immensi. Da Principe a Brignole ho attraversato ogni anfratto decine di volte. Sono ammutolito davanti alla Lanterna che neanche davanti all'Empire State Building e mi sono commosso dentro palazzi antichi chiusi al mondo e pieni di segreti. Ho corso e urlato alle manifestazioni e ho visto qui, a Genova, il mio primo cocnerto: David Bromberg, 1979. E ci ho visto Allen Ginsberg recitare il suo mantra con il mio primo grande amore sognando che eravamo Renaldo & Clara. Dallo stadio Marassi sono fuggito una volta durante Genoa - Inter, le mie due squadre del cuore, per colpa un diluvio torrenziale, partita interrotta, correndo bagnati fradici per le strade a cerca rifugio. Ti amo Genova. Non riesco a perdonare quello che continuano a farti. Belin.

Thursday, November 03, 2011

Disoccupati (e) credenti

Debutta oggi a Roma al teatro Manhattan lo spettacolo "Disoccupati credenti", che vi resterà in scena fino al 6 novembre (nei giorni 3-4-5 novembre alle ore 21, e il 6 alle ore 18). Si tratta di una piece scritta da Enzo Jannacci - che ha curato anche la regia - insieme all'attore e musicista Osvaldo Ardenghi, che da tempo collabora con Jannacci. Nata su idea di Ardenghi nel 1994 con la collaborazione di Jannacci, è stata adesso aggiornata dai due con diversi riferimenti al contesto attuale e dopo essere stata presentata in passato in diverse scuole, arriva per la prima volta nella Capitale. Si tratta di un testo comico sul coraggio di essere se stessi, senza scorciatoie, che prende in giro la maleducazione, il modo di evadere dal quotidiano tra alcol, pasticche e guida pericolosa e dove entra in scena anche il Nazareno.



Jannacci, nel corso di questa conversazione esclusiva con IlSussidiario.net, ci ha spiegato il senso e i retroscena dello spettacolo: per tutti gli appassionati dello straordinario autore di canzoni, interprete, attore e scrittore milanese una bella notizia, la possibilità cioè che questo spettacolo approdi anche nei teatri. In tempi poveri di grandi emozioni come quelli che stiamo vivendo, c'è bisogno di ritrovare un autore come lui. C'è bisogno infatti, come diceva lo stesso Jannacci parlando delle canzoni, di turbamento: "La canzone deve lasciar turbati", disse una volta. E così un'opera teatrale. Qualunque cosa. Perché siamo fin troppo assuefatti alla banalità, al grande nulla o, peggio, alla paura. C'è bisogno di qualcosa che smuova il cuore. "Io sono un tipo pericoloso", ci dirà nel corso di questa intervista. Perfetto, abbiamo bisogno di gente pericolosa.



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Tuesday, November 01, 2011

Loutallica!

"Una collaborazione insolita sarebbe stata tra Metallica e Cher. Questa è una collaborazione ovvia"
(Lou Reed)


È il 1975 quando i negozi di dischi si apprestano a ricevere uno dei dischi più assurdi e misteriosi del tempo (quel tempo; col tempo, ci saremmo abituati a ben altre assurdità). Si intitola "Metal Machine Music", è un doppio album e ne è l'autore una delle figure più controverse della storia del rock, ma certamente una delle più geniali: Lou Reed.

L'ex Velvet Underground che ha lanciato da qualche anno una brillante carriera solista con dischi di spessore lirico e musicale straordinario, come "Transformer" e "Berlin" è personaggio che vive nella penombra dei bassifondi newyorchesi, tra droga e travestiti. È il maledetto del rock per eccellenza, ma anche uno dei più brillanti cantori del lato oscuro dell'animo umano, della sua miseria e della sua perdizione senza redenzione.

Da qualche tempo la sua casa discografica insiste perché pubblichi musica abbastanza commerciale per sfondare in classifica. Lui risponde con un doppio vinile di laceranti feedback, di rumorismo sonico, di musica strafottente e cacofonica senza parole. Un disastro commerciale totale che però risulterà negli anni influente per un sacco di band di rock alternativo e che getta i semi per una collaborazione che si compirà più di trent'anni dopo.



Sono i primissimi anni Ottanta, invece, quando a San Francisco nasce una band che fa del nuovo verbo metal, l'esposizione della musica rock ai suoi livelli più distorti e rumoristi, il proprio verbo musicale, ma anche il nome. Un nome che qualcuno dei membri è andato forse a scoprire in quel disco di Lou Reed di qualche anno prima. Si chiamano Metallica e diventeranno in breve tempo uno dei gruppi più amati al mondo, pionieri del thrash, della musica più aggressiva che si possa immaginare.

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Saturday, October 29, 2011

Tutto in una notte

Sto soffocando. Non riesco a respirare. A volte mi succede, vado in apnea, colpa anche del catarro di tutti i milioni di sigarette che mi sono fumato e che a notte fonda viene su e blocca la gola. Mi alzo alla velocità della luce, ormai ho imparato come fare appena ne avverto i sintomi. Non come le prime volte che correvo gesticolando per la casa terrorizzando tutti. Passa, in pochi secondi, ma anche questa volta è stata una bella scarica di adrenalina. Non ho più sonno.

(Intendevo pregare, anche, quale mia unica attività, pregare per tutte le creature viventi; capivo che era l'unica attività decente rimasta al mondo. Arrivare in qualche letto di fiume chissà dove, o in un deserto, o sulle montagne, o in qualche capanna del Messico o in una baracca sugli Adirondack, e riposare ed essere buono senza fare nient'altro *)

Vado in cucina, metto su una tisana conchissàcosa e per buona misura ci fumo sopra una sigaretta. Accendo il televisore. A quest'ora, mancano pochi minuti alle due, passano sempre i film migliori. Sono fortunato, quando non dormo a notte fonda becco sempre dei film straordinari di cui non avevo neanche mai sentito parlare. E' così anche stanotte. C'è un film di grande bellezza, Ondine, anche se Colin Farrell è uno degli attori più improbabili si siano mai visti. E che posti meravigliosi, proprio quelli dove vorrei vivere io e vorrei anche fare il pescatore. E le canzoni che canta lei. Sigur Ròs, scopro il giorno dopo. Bene, dovrò decidermi ad ascoltarli finalmente. E' una favola, ma non è una favola e Dio sa se ho bisogno di una favola per riuscire a vivere.



Prendo l'iPhone, che come insegnano non bisogna spegnerlo mai, e controllo la posta già sapendo che sarà una operazione inutile, alle due di notte. Invece no. C'è una e-mail, vedo che è partita da pochi minuti, anche là si dorme poco. Non l'aspettavo e non doveva arrivarmi questa e-mail. Perché? Le porte nella vita non si chiudono mai, in un modo o nell'altro. Stupido pensarlo.

(O Budda la tua luna. O Cristo il tuo scintillìo di stelle sul mare, il mare, Surf, Tangair, Gaviota, il treno che andava a centotrenta l'ora e io caldo com euna caldarrosta nel mio sacco a pelo che tornavo di volo a casa mia per Natale *)

Sono le otto di mattina e mi fermo in portineria a ritirare un pacchetto. Non è più notte, ma è come se lo fosse, visto che praticamente non ho dormito. Aspetto dei dischi. Invece no, ci sono dentro due libri. Uno in particolare. Eccolo. E' tornato a casa, ci ha messo 31 anni. Trentun anni sono un bel po', sono una vita, anzi sono quasi le due vite che avevamo allora sommate insieme. Il lbro dimostra tutti quegli anni e anche di più, come se sopra di lui si fossero scaricate le onde e le sabbie e i dolori del tempo che abbiamo vissuto ciascuno in questi trentun anni. La copertina sgualcita e scolorita, le pagine gialle, giallissime. Non era così trentun anni fa quel libro. Ricordo ancora il giorno che tornai a casa dopo averlo comprato, esultante per aver trovato quella rara prima edizione italiana in rilegatura elegante per sole duemila lire. Era nuovo di pacca, allora, il libro. Poi lo diedi a lei. Metto il libro nella borsa e vado a lavorare. Lo riprendo e lo sfoglio solo alla sera, non sono riuscito a toccarlo per ore. Apro e vedo che dentro lei ci ha scritto il suo nome con il simbolo indiano che allora - ma ce lo avrà anche adesso? - si dipingeva tra le sopracciglia e il mio nome. "Da Paolo Vites". Mi commuove che abbia scritto così. Come a segnare una appartenenza, nonostante tutto: un punto di arrivo e una conferma. In realtà glielo avevo solo imprestato, ma poi come sempre ero scappato a gambe levate ed è rimasto a lei. Non doveva rimandarmelo. Era suo ormai. Eppure ogni cosa ritorna. E le relazioni non si chiudono mai veramente. Restano aperte, devono restare aperte. E' solo questione di tempo, poi tutto tornerà dove deve tornare. Libri, dvd e facce. Come la sua.

Lascia perdere - lascia perdere - hai perso la nave: torna
a san bernardino - piantala di
organizzare l'equipaggio - ogni uomo bada a
se stesso - tu sei un uomo o un te stesso? quando
la guardia costiera arriva sul posto, alzati in piedi
fieramente & dimostra chi sei - non essere un eroe - tutti
sono
degli eroi - sii diverso - non essere un conformista -
dimentica tutte quelle bettole di mare - alzati semplicemente
in piedi e dì "san bernardino" con voce profonda
& monotona... tutt riceveranno il messaggio
il tuo benefattore
Smoky Horny

(Bob Dylan, Tarantola, trentun anni dopo)

* Da I vagabondi del Dharma, Jack Kerouac

Sunday, October 23, 2011

Sunday Morning Music

Questa incompletezza è tutto ciò che abbiamo
Charles Bukowski

E curioso che Joe Henry, nelle note che pubblica nel suo nuovo disco, Reverie (che titolo meraviglioso: "fantasticheria"), parli più volte di consolazione. Se c'è un artista di cui ogni nuovo disco è sempre stato un gesto consolatorio, un momento di pura consolazione sospesa nel tempo e dentro al tempo, quello è Joe Henry. E' così anche questa volta, ma ancor di più che in precedenza, nello straordinariamente bello ultimo disco. Che ovviamente, uscendo quasi a ridosso di un nuovo disco di Tom Waits, farà passare inosservato come sempre accaduto all'uomo del Minnesota, il suo, di disco. Che rispetto a quello di Tom Waits (a proposito, ha smesso di fare rutti e altri rumori assortiti, è tornato a fare canzoni, anche se copiaincollate da tante che aveva già fatto; bei testi comunque) è decisamente meglio, per un artista che talvolta è stato accusato di riprendere appunto la lezione di Tom Waits.



Non è così ovviamente: Joe Henry viene da tutt'altro mondo sonoro e umano, e se il suono che è stato capace di inventare nel corso degli anni a qualcuno è sembrato attingere dall'artista californiano, è solo perché entrambi guardano a un tempo fuori del tempo, un tempo pre rock'n'roll. Joe Henry difatti potrebbe - e dovrebbe - produrre un disco di Tom Waits: a quest'ultimo farebbe solo bene, viste le produzioni eccelse che Henry a saputo fare nel corso degli anni (Solomon Burke, Bettye Lavette, Aimee Mann, Elvis Costello, Allen Touissant, Mose Allison e quelle per i suoi dischi, ovviamente) e che hano oscurato anche la sua discografia tanto sono geniali.

"E' una cosa bizzarra vivere con il senso di una fame inappagabile al tempo stesso della soddisfazione - paura e consolazione - che sbattono sulle tue ossa in modo uguale. Ma no, non c'è alcuna vita oltre al tremolìo, nessuno autentica consolazione per il desiderio, perché il desiderio non vuole essere consolato, solamente sostenuto e trattenuto in quel terribile e sacro stato di bisogno. Così me ne sto seduto sulla spiaggia e aspetto; fumo, rido e ricordo. E' chiaro e fa caldo ma non lo sarà per molto ancora. E tale senso di anticipazione è la sola cosa che ha mai avuto uno scopo nella completa luce del giorno" (Joe Henry)

Reverie potrà ricordare invece quelle pagine scarne ed essenziali, piene di magia acustica appena sfiorata dal jazz, di un disco capolavoro come fu l'antico Shuffletown, abbandonando per un momento certo sperimentalismo. Ne esce una raccolta di canzoni che vaga dalle visioni di un Henry Fonda davanti alla Bank of America, da una camera abbandonata ad Arles dedicata a Vic Chesnutt; dalle sensazioni di un ottobre incipiente che già gela le ossa al fantasma di Odetta. Tutto in modo commovente, con una delicatezza e una gentilezza impossibili da trovare altrove, tutto in modo consolatorio appunto, per prepararci a entrare nell'inverno che ci attende. Come solo Joe Henry sa fare: un amico che non chiede niente, ma offre qualcosa. Che ci attende sempre nella sua "stanza del piccolo uomo": per offrire un bicchiere di whiskey, accenderti un sigaro, chiudere le tende e mettere su un vecchio 78 giri di un tempo nel tempo che non esiste più, ma di cui abbiamo ancora bisogno. Perché siamo fatti tutti così: con un senso di fame inappagabile e un desiderio che ha bisogno solo di essere sostenuto e non di essere spento. Mai, costo quel che costi: "Sono qui da un'ora da quando sono arrivato e sono a tre ore da dove ardo di andare, e forse due da dove ti troverò, tra il mondo e tutto quello che conosco" (JH)

Sangue nei solchi del cuore

“Bob Dylan è in città, c’è bisogno di catturare qualcosa di magico”. La “città” è ovviamente New York, al telefono John Hammond, il più gran...

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