Friday, July 27, 2012

Nel nome del padre

Dietro a ogni rock star c'è un depresso? In effetti, quando si approfondiscono le storie private, quelle lontane dal palcoscenico, di molti di essi, sembra essere davvero così. Un caso su tutti, quello di Kurt Cobain, morto suicida a 27 anni non perché come lo hanno dipinto i media era uno dei tanti sballati eroinomani che cercavano l'eccesso. Semplicemente, non aveva mai superato il trauma del divorzio dei genitori. Venendo a giorni più recenti, su Amy Winehouse si potrebbero scrivere trattati di psicologia. In un articolo straordinariamente profondo (e anche molto lungo) pubblicato sulla rivista americana New Yorker, dedicato a Bruce Springsteen, il Boss cita un altro musicista, poco noto in Italia, ma di assoluto valore (sua ad esempio la colonna sonora premiata con l'Oscar del fin "O Brother Where Art Thou?"), T-Bone Burnett.



"Tutto il significato del rock'n'roll sta nella parola papà" dice Burnett. "Un lungo imbarazzante urlo per tuo padre", aggiunge Springsteen. Che significa? Semplice: diventare un musicista rock, spiega Springsteen, vuol dire reclamare quell'attenzione che i nostri padri non hanno saputo darci: "Ehi meritavo un po' più di attenzione di quella che mi hai dato" aggiunge Springsteen. Come a dire: se stanotte sono qui su di un palco a spaccarmi le tonsille è perché voglio farti vedere che valgo qualcosa. Papà. Sapere che questo trauma lo ha vissuto - e lo vive tutt'oggi seppure in maniera meno devastante di una volta - lo stesso Springsteen, fa un certo effetto. Il musicista americano, per come lo conosciamo noi spettatori dai suoi concerti, è piuttosto quella figura paterna che noi stessi avremmo sempre desiderato. In un suo concerto, lui ci conforta, ci rassicura, ci dà speranza, ci invita a non mollare "a inseguire quel sogno" che rende la vita una avventura bella da vivere. Non è quello che fa un buon padre? Eppure Springsteen non ha avuto un padre così, e lo ha cercato a lungo.

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Monday, July 23, 2012

Dinner at the Homesick Restaurant



"Le persone tristi sono le sole autentiche. Possono dirti la verità sulle cose; sanno da sempre che non ci si può fidare di nessuno e che nessun cambiamento nella tua vita, per quanto grande, alla fine ti impedirà di essere quella che eri all’inizio: persa e sola, seduta su una tela cerata a guardare gli altri che nuotano a farfalla."

- [Anne Tyler, L’amore paziente]

Thursday, July 19, 2012

Do you, Mr. Jones?


(Fotomontaggio di Luca Sky - ovviamente si scherza, gli altri contano eccome)


Chi lo va a vedere per ricordare i bei tempi ne esce deluso, chi è giovane e poco sa di lui sbatte in un attempato signore che gracchia: tutti delusi, o quantomeno confusi. (…) E l’ultimo grande concerto rimane l’MTV Unplugged del 1994. Il Dylan che piaceva a tutti – forse a troppi – è rimasto sull’asfalto di quella strada verso Woodstock.
(Andrea Scanzi, Il Fatto Quotidiano)

Divertito è una parola grossa – racconta Carlo Verdone a Michele Anselmi per ilvostro.it -. Era da tanti anni che non lo sentivo cantare dal vivo. Sono rimasto per rendere omaggio a un grande della musica, a un simbolo della cultura americana. Però… All’inizio era tutto un gracchiare, io e miei amici siamo stati tutto il tempo a cercare di capire che pezzi eseguisse.
(Fotomontaggio di Luca Sky - ovviamente tutti gli altri contano eccome...)

L'ostensione della mummia di Bob Dylan ha richiamato a Barolo 6.000 devoti. Se perfino i russi ad un certo punto si sono domandati se seppellire finalmente quella di Lenin, la compassione suggerirebbe (e non da ieri sera) di riporre ciò che resta della "mangusta di Duluth" in un'urna e celarla all'interno di una montagna sacra a scelta. Da più di dieci anni almeno Dylan si trascina sui palchi di tutto il mondo, ruttando il suo canzoniere tra impietosi gorgoglii e sibili, per non dire di accordi rivoltati in versioni "alternative".
(Guido Harari)

L’Italia è sempre in ritardo. Era il 1991 quando il New Musical Express titolava a tutta pagina: “Ma Bob Dylan andrebbe eutanizzato?” per poi nell’articolo sparare a grosse cifre che Bob Dylan sì, appunto, vista la pessima qualità dei suoi concerti, sarebbe meglio subisse una eutanasia e si togliesse di torno per sempre. Il tempo ha detto chi aveva ragione e chi ha torto: se nel 1991 Dylan effettivamente era in scarsa forma, ce ne vuole per dire che il suo ultimo concerto bello è stato Mtv Unplugged del 1994. Non cito neanche la meraviglia dei concerti del 2000, uno dei vertici della sua intera carriera, ma anche nel 2011 fece concerti di una bellezza e intensità estreme.

Sono stato il primo diverse volte quando pensavo lo meritasse a criticare alcuni concerti di Bob Dylan. Dal 2004 al 2010 l’ho trovato io stesso mortalmente noioso, intento ai greatest hits più scontati con una band di soporiferi musicanti e con una voce al limite dell’ascoltabile. Mi sono preso la mia buona dose di insulti per queste critiche, ma non mi sono mai permesso di dire due cose.

1. Che il pubblico che era ai concerti erano “tutti delusi o quantomeno confusi”. Ho sempre visto spettatori entusiasti anche in quegli anni, qualcuno meno, ma comunque da quando si recensiscono gli umori degli spettatori invece che quelli dell’artista sul palco? Sembra un modo per tirarsi dalla propria parte gli spettatori, quasi a dire: avevo i testimoni, avevo ragione io, è andata proprio così. Palle, non è andata così. Non mettiamo in bocca agli altri quello che noi pensiamo debba essere la visione della realtà, cioè la nostra. Siccome io la penso così, erano delusi anche tutti i 6mila che erano a vedere Dylan a Barolo.

2.Non ho mai insultato Bob Dylan anche quando i suoi concerti non mi erano piaciuti. Dargli della mummia non mi sembra il massimo. Può non essermi piaciuto, ma non lo insulto e soprattutto non cerco di proibirgli di esibirsi, anche se lo stesse facendo male. Mi sembra un modo assai poco democratico, mi ricorda gli anni 70 quando si tiravano le molotov sui palchi degli artisti. Tireremo le molotov a Dylan perché la sua voce emette “impietosi gorgoglii e sibili”?

3. E’ solo rock’n’roll, e Bob Dylan è un anziano signore che permette di toccare con mano e con gli occhi e con le orecchie un briciolo delle antiche leggende del rock, dei glory days. Quando non ci sarà più, ci sarà un grande vuoto anche sul palcoscenico di Barolo. Non fanno esibizioni molto più esaltanti di Dylan il B.B.King (87 anni) visto pochi giorni fa a Milano o altri vecchietti del rock, ma nessuno sputa veleno e rabbia su di loro. Su Dylan sì. Volete sapere perché? Perché è sempre valido il vecchio adagio: “qualcosa sta succedendo qui ma tu non sai cosa, do you Mister Jones?”.

Siete tutti Mister Jones, siamo tutti Mister Jones, non è mai troppo tardi per accettarlo. Bob Dylan ci ha dato così tanto in un certo periodo della sua vita come mai nessun altro nella storia del rock, che vorremmo ci desse ancora così tanto. Vorremmo cioè continuasse a spargere sangue sui solchi per riempire il nostro vuoto esistenziale. Ovviamente non è possibile, ma personalmente sono felice che nel 2012 ci sia ancora qualcuno che, non avendolo mai visto prima, possa dire: ho visto un concerto di Bob Dylan. E' abbastanza, dovremmo solo essergli grati per questo.

E va da sé che quell’adagio ha bisogno di un altro adagio per essere valido: “Per vivere fuori della legge bisogna essere onesti”. Lui, con i suoi acciacchi, Bob Dylan onesto lo è. Ma gli altri?

Tuesday, July 17, 2012

Non è più tempo di pogare

Gli inglesi sono belli quando sono su di un palcoscenico. Certi inglesi. Quegli inglesi. In una estate che passerà ai ricordi come l’estate dei fantasmi – prima quello di Jim Morrison, adesso quello di Joe Strummer – una settimana dopo nello stesso posto io l’ho visto. Mr Stay Free, perduto in un supermarket, should I stay or should I go. E anche stand by me, Mick, stand fucking by me please. Non ho mai visto i Clash. Non ho visto suonare dal vivo Joe Strummer, ma l’ho intervistato. Non ho intervistato Mick Jones, ma l’ho visto suonare dal vivo. E finalmente sono felice, missione compiuta, quel che doveva essere è stato.



Gli inglesi sono pazzi, ma certi inglesi sanno farti sentire uno di loro, nel senso di un amico, come nessun altro. Se si buttano su di un palcoscenico con quattro chitarre, tre cantanti diversi che vanno e vengono, due deliziose ragazzine coriste, un basso sosia quasi di Paul Simonon, gente che entra ed esce dal palco bevendo birra facendo filmini, loro sanno fare un tale casino che è l’antitesi di un concerto rock, ma è molto meglio di un concerto rock, che è sempre come essere alla festa di San Patrizio che non centra un cazzo perché sono inglesi e allora è come essere al carnevale di Brixton. The guns of Brixton. Caciaroni, ubriaconi e cazzoni, con in mezzo una star, di quelle vere: lo capisci dal vestito elegante, ma la faccia da anti star, vecchio e pelato come me e quasi tutti quelli sotto al palco, ma le movenze di sempre, quelle di Mick fucking Jones. Come se fosse passato qualcuno al pub a chiamare quelli che c'erano e pa portarseli sul palco, birre che stavano bevendo comprese. E allora: Train Vain subito, a spaccare il muro senza esitazioni, Bank Robber che di questi tempi ci sta eccome cazzo se ci sta e derubiamole queste banche di merda, Rock the Casbah e Should I stay or should I go.

Lui ha un sorriso debordante per tutto il tempo, sono trenta anni che non le suona più queste canzoni ed è il momento per farle un’ultima volta, quest’anno che sono dieci tristissimi anni che Joe non c’è più. Loro che avevano giurato che i Clash non si sarebbero mai più riuniti mantenendo la promessa.

E vorrei pogare ma non riesco a pogare perché inopportune lacrime arrivano a salutare i quattro dell’apocalisse, quelli di Radio Clash, quelle rare rarissime persone che hanno il dono misterioso di rendere più bella la vita della gente. Rock the fucking casbah e rimani per favore Mick. Facci pogare come se non ci fosse un domani. In questa sera di zanzare in questa sera di Milano in questa sera di Brixton per sempre. In questa sera di fantasmi. Londra sta chiamando.

Saturday, July 14, 2012

I like music that bops


"I like New York in june I like a Gershwin tune how about you"

Una lodevole iniziativa, quella in atto in questo periodo, di rendere disponibili attraverso un noto settimanale diversi dischi di Frank Sinatra del suo periodo probabilmente migliore, gli anni cinquanta. E' il periodo infatti in cui lo straordinario interprete lascia la Columbia Records dove aveva inciso negli anni quaranta, mettendosi in luce con un repertorio che ai tempi era stato definito per teenager. Anche Frank Sinatra insomma è stato un idolo del pop, anche se il pop di allora era ovviamente diverso da quello dei nostri giorni. Certo, aveva mostrato di che pasta era fatto, ma il suo momento migliore doveva ancora arrivare. Peccato che i cd in questione, nonostante il prezzo abbordabile (9,90 euro ciascuno) siano ristampe risalenti al 1998, dunque una masterizzazione già antiquata e soprattutto edizioni con un libretto di accompagnamento non molto esaltante, anche se contenenti note scritte da esperti americani molto illuminanti. Una operazione che sa di svuotamento di fondi di magazzino, in questi tempi di musica liquida scaricabile dalla Rete che sta uccidendo il compact, ma che è ben accetta. E anche molto. Sono parecchie infatti le sorprese a cui si troverà davanti chi deciderà di seguire queste uscite fino in fondo, sorprese che faranno piazza pulita di tanti luoghi comuni legati al vecchio Blue Eyes.



La prima delle quali risponde a una domanda: la musica rock è assordante? Le chitarre elettriche sparate a tutto volume fanno male alle orecchie? I dischi dei Metallica al giusto volume (il massimo, ovvio) sono inascoltabili? Evidentemente chi dice cose del genere non ha mai ascoltato un disco di Frank Sinatra a tutto volume, e queste ristampe della Capitol lo fanno capire. Provate a fare un viaggio in autostrada con la manopola a quel livello (quello alto) ascoltando "Songs for Swinging Lovers" o "Come Dance with Me!", vi sfidiamo a riuscire ad arrivare fino alla fine dell'ascolto. A dimostrazione che a volte c’è più rock’n’roll dove il rock’n’roll non dovrebbe esserci, e che il rock'n'roll vero non sono chitarre elettriche, basso e batteria, ma piuttosto una attitudine che apparteneva già a Sinatra. Alcuni di questi dischi infatti sono talmente debordanti nella loro musicalità che suonano ancora oggi di una freschezza e di una potenza sonica da far paura.

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Thursday, July 12, 2012

Non è solo rock'n'roll


Non andate in Oxford Street a cercarlo: il Marquee, come si chiamava allora, aperto nel 1958 come un club dove si suonava jazz e anche skiffle, la musica pre rock'n'roll che amavano anche i giovanissimi McCartney e Lennon, già nel 1964 aveva cambiato indirizzo, anche se di pochi metri. Si era spostato al 90 di Wardour Street. Ma oggi non dovete cercarlo neanche lì. Anzi potete fare a meno di cercarlo in quanto ha chiuso definitivamente nel 2008 dopo essere stato spostato altre innumerevoli volte, fino all'ultima sede, in Leceister Square. La domanda invece da porsi è: perché, con le migliaia di locali musicali a che ci sono a Londra, dovreste mettervi in cerca proprio del Marquee?



Semplice: nel corso dei decenni è stato il più importante e significativo music club londinese, dove ci hanno suonato tutti, ma proprio tutti dai Led Zeppelin ai Joy Division. Ma soprattutto, il 12 luglio 1962 vi suonò una ancora sconosciuta band di ragazzotti di buona famiglia. Allora si chiamavano The Rollin' Stones. Sul palco quella sera si presentarono Mick Jagger, Keith Richards, Brian Jones, Ian Stewart, Tony Chapman. Bill Wyman, futuro bassista delle pietre rotolanti fino ai primi anni novanta, si sarebbe aggiunto nel dicembre di quello stesso anno, mentre il batterista tutt'oggi in carica, Charlie Watts, sarebbe arrivato nel gennaio del 1963.

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Tuesday, July 10, 2012

Mr. Mojo Risin'

"Please welcome from Los Angeles California, The Doors!". Un saluto, un'introduzione, un grido immortalato in un celebre disco dal vivo dei Doors che ha fatto epoca. Una dichiarazione di appartenenza per una band che non poteva che uscire dal visionario panorama della "city of lights", la città delle luci effimere, delle star, del cinema, del rock, del "Vivi veloce, muori giovane e lascia un bel cadavere". Risentirlo oggi, a 41 anni dalla morte di Jim Morrison, quel saluto fa sempre effetto, anche se adesso è diventato ""Please welcome from Los Angeles California, Ray Manzarek and Robbie Krieger of The Doors!". Perché il terzo membro della band, il batterista John Densmore, ha negato l'utilizzo del nome del gruppo decidendo di non prendere parte a queste reunion che vedono invece il tastierista e il chitarrista originari del gruppo, coadiuvati da ottimi musicisti quali Ty Dennis alla batteria e Phil Chen al basso.



E poi lui, naturalmente, il fantasma, il sosia, il clone di Jim Morrison. Per questo tour che ha toccato anche Milano e Roma, si tratta di Dave Brock, somiglianza impressionante nel volto, nelle movenze e nella voce con il Jim Morrison originale, cantate di una cover band dei Doors.


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Thursday, July 05, 2012

Irish gipsy's heart

C'è una scena, all'inizio del bellissimo film "Once", in cui Glen Hansard, rimasto solo sul marciapiede di Grafton Street a Dublino, dopo aver cantato tutto il pomeriggio per i passanti, canta ancora una canzone. Non ha più un pubblico, se così si possono definire i passanti che ascoltano distrattamente un busker, un cantante da marciapiede, ed è ormai notte, la buia e fredda notte di Dublino. La canzone che segue è un urlo viscerale di dolore, nel vero senso del termine: Hansard si lascia andare a una interpretazione vocale straboccante, che fa tremare i polsi. A guardarlo c'è solo una ragazzina, la protagonista insieme a lui del film. Rimane così colpita che non può fare a meno di andare a conoscerlo e chiedergli il perché di tanta rabbia e dolore.



Così è la musica di questo fantastico ragazzone irlandese, giunto adesso al suo primo disco da solista ("Rhythm and Repose") dopo le esperienze con i Frames prima e con gli Swell Season (lui e Markéta, la ragazza del film, con cui vinse anche un Oscar per la miglior canzone da film).

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Monday, July 02, 2012

Una sera con Alice nel Paese delle Meraviglie


Foto di Filippo De Orchi

Abbiamo dovuto aspettare la bellezza di 25 anni esatti per rivederli in azione su di un palcoscenico italiano. Tom Petty And the Heartbreakers infatti non erano più tornati nella penisola da quando, nell’autunno del 1987, si esibirono come band di accompagnamento di Bob Dylan, ma anche con uno spazio per loro in quanto figuravano come gruppo di apertura di quei concerti. Chi li vide allora, attendeva ormai quasi senza speranza di poterli rivedere in concerto, tanto che su Facebook era nato anche un gruppo intitolato “Riportiamo in Italia Tom Petty and the Heartbreakers”. Una delle più straordinarie realtà musicali della storia della musica rock, la loro mancanza dal nostro Paese era uno di quei grandi misteri italici: qua, ad esempio, non sono mai giunti gruppi imprescindibili per capire a fondo cosa siano musica rock e America, connubio indivisibile, come ad esempio Grateful Dead, Allman Brothers Band o The Band.

La sera del 29 giugno Tom Petty e la sua banda di spezzacuori si sono finalmente materializzati sul palco del Lucca Summer Festival, ed è stata festa grande.

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Sangue nei solchi del cuore

“Bob Dylan è in città, c’è bisogno di catturare qualcosa di magico”. La “città” è ovviamente New York, al telefono John Hammond, il più gran...

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