"I can't say that I'm sorry for the things that we done at least for a little while, sir me and her we had us some fun", non posse dire che mi dispiace di quell che abbiamo fatto, almeno per un po', signore, io e lei ci siamo divertiti.
Una grande canzone è quella che è in grado di superare la collocazione temporale del momento in cui viene scritta e pubblicata. Restare attuale cioè anche se l'argomento è circoscritto a un particolare episodio. Quasi mai l'autore è consapevole che una determinata canzone potrà avere questo risultato, essa nasce come particolare esigenza di un preciso sentimento vissuto dal suo autore che, quando è onesto verso il suo lavoro, diventa solo lo strumento espressivo di qualcosa che si impone per essere comunicato. Nel suo caso Springsteen lo ha descritto perfettamente: "Le mie canzoni conoscono me più di quanto io conosca me stesso".
Di fronte alla strage continua e apparentemente senza senso che accompagna questo luglio rosso (di sangue) Nebraska di Bruce Springsteen chiede di emergere dagli anfratti del tempo e con autorità si impone come chiave interpretativa di quel qualcosa che è il "male". Come sempre nel caso di un grande disco, esso verrà a bussare nel momento che esso lo ritiene più opportuno. Un ascolto antico, quasi rimosso, nello scaffale delle cose scontate improvvisamente cadrà da quello scaffale per farsi raccogliere d irti, anche più di trent'anni dopo: ascoltami, io sono qui per essere ascoltato.
E' impossibile, leggendo e ascoltando quei versi messi a inizio di questo articolo, non vedere davanti a noi le facce dei ragazzini che stanno insanguinando l'Europa: "Io e lei ce ne andammo a fare un giro, signore, e dieci persone innocenti sono morte (…) ho ucciso ogni cosa che ho incontrato". A questo livello, l'altro, l'alterità e la sua morte sono un fastidio da togliersi di dosso come una zanzara nella calura estiva. Ma procura anche "divertimento" di fronte all'assenza di significato che la vita è diventata. Non si è più nemmeno in grado di distinguere quello che è bene o male: abbiamo ucciso, ma almeno per un po' ci siamo divertiti. Potrebbe dirlo qualunque tagliagole dell'esercito del califfato islamico, là in Siria e in Iraq.
Ai ragazzi di origine algerina o tunisina o afgana, per qualche curioso effetto che oltrepassa la nostra volontà, si sovrappone improvvisamente il volto di Charles Raymond "Charlie" Starkweather, autore, tra il 21 e il 29 gennaio 1958 di dieci omicidi (il 30 novembre 1957 aveva già ucciso un'altra persona) in un caso di furia omicida durato circa due mesi, mentre si spostava in fuga dal natio Nebraska al Wyoming accompagnato dalla fidanzata 14enne Caril Ann Fugate.
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Wednesday, August 03, 2016
Wednesday, June 22, 2016
You can't stop us on the road to freedom
“Faccio musica da uno spazio introverso per un business estroverso”. Così disse alcuni anni fa Van Morrison nel corso di una intervista con la Bbc. Poco sappiamo, o niente, del travaglio che significa essere un performer, di quello che c'è dietro e dentro quelle figure che vediamo su un palcoscenico, a cui chiediamo tutto e da cui ci aspettiamo tutto. Quelle facce che abbiamo visto centinaia di volte sulla copertina di un disco, amato, idolatrato e magari anche poi schifato. Cosa ne sappiamo veramente di loro? Nulla. Solo qualche indizio colto qua e là e che pochi sanno cogliere, mentre egoisticamente divoriamo la loro carne.
Dichiarazioni colte qua e là in anni recenti, quando questi personaggi raggiunta una certa età hanno cominciato ad aprirsi, hanno svelato solo in parte quel terrore dell’esibizione, perfettamente descritto da The Band nel brano Stage Fright (paura del palcoscenico) che accompagna persone che in quanto artisti nella gran parte soffrono di personalità fragili, contradditorie, a volte depresse. La paura del palcoscenico ha distrutto carriera - e vita di numerosi straordinari artisti, uno su tutti Nick Drake. Ma ne ha salvate molte altre.
Negli anni 90, con una carriera decennale costellata di successi, Van Morrison scrisse un brano che si intitolava “Underlying Depression” che si potrebbe tradurre con “depressione sottostante, nascosta”: “Depressione nascosta, devo strisciare nella mia stanza, depressione nascosta non ne voglio sapere della luna in giugno (“moon in june” è il classico verso che defniva le canzoncine d'amore, nda), fuori c’è una cavalcata di clown che mi fanno sentire giù di morale (…) devo fare qualche concessione quando ogni cosa va bene, devo contare le benedizioni, mi aiutano a superare la notte, nella mia vita c’è amore quanto ci sono problemi e conflitti e una depressione nascosta”. Convivere con uno stato di depressione.
Leonard Cohen ci ha vissuto per quasi cinquant’anni della sua vita: “La depressione è stato un problema per tutta la mia vita e ho provato, come tutti, i diversi modi di trattarla. Sai, la droga, le donne, l'arte, la religione ... si tenta di tutto .... Beh, sai, c'è depressione e depressione. Nel mio caso depressione non è solo il blues, la tristezza. Non è proprio come il giorno dopo una sbornia del fine settimana ... oppure la ragazza che aspettavi e non si è presentata o qualcosa del genere, non è così. Il mio è stato un caso di depressione acuta. Si tratta di un tipo di violenza mentale che fa smettere di funzionare correttamente da un momento all'altro. Si perde qualcosa da qualche parte e improvvisamente si sta in preda a una sorta di angoscia del cuore e dello spirito". Guarito improvvisamente a oltre 70 anni di età, sul palcoscenico, scherzando, diceva: “Da allora ho preso un sacco di Prozac, Paxil, Wellbutrin, Effexor, Ritalin, Focalin, ... ho anche studiato profondamente le filosofie e le religioni, ma finalmente l'allegria ha sfondato la porta”.
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Dichiarazioni colte qua e là in anni recenti, quando questi personaggi raggiunta una certa età hanno cominciato ad aprirsi, hanno svelato solo in parte quel terrore dell’esibizione, perfettamente descritto da The Band nel brano Stage Fright (paura del palcoscenico) che accompagna persone che in quanto artisti nella gran parte soffrono di personalità fragili, contradditorie, a volte depresse. La paura del palcoscenico ha distrutto carriera - e vita di numerosi straordinari artisti, uno su tutti Nick Drake. Ma ne ha salvate molte altre.
Negli anni 90, con una carriera decennale costellata di successi, Van Morrison scrisse un brano che si intitolava “Underlying Depression” che si potrebbe tradurre con “depressione sottostante, nascosta”: “Depressione nascosta, devo strisciare nella mia stanza, depressione nascosta non ne voglio sapere della luna in giugno (“moon in june” è il classico verso che defniva le canzoncine d'amore, nda), fuori c’è una cavalcata di clown che mi fanno sentire giù di morale (…) devo fare qualche concessione quando ogni cosa va bene, devo contare le benedizioni, mi aiutano a superare la notte, nella mia vita c’è amore quanto ci sono problemi e conflitti e una depressione nascosta”. Convivere con uno stato di depressione.
Leonard Cohen ci ha vissuto per quasi cinquant’anni della sua vita: “La depressione è stato un problema per tutta la mia vita e ho provato, come tutti, i diversi modi di trattarla. Sai, la droga, le donne, l'arte, la religione ... si tenta di tutto .... Beh, sai, c'è depressione e depressione. Nel mio caso depressione non è solo il blues, la tristezza. Non è proprio come il giorno dopo una sbornia del fine settimana ... oppure la ragazza che aspettavi e non si è presentata o qualcosa del genere, non è così. Il mio è stato un caso di depressione acuta. Si tratta di un tipo di violenza mentale che fa smettere di funzionare correttamente da un momento all'altro. Si perde qualcosa da qualche parte e improvvisamente si sta in preda a una sorta di angoscia del cuore e dello spirito". Guarito improvvisamente a oltre 70 anni di età, sul palcoscenico, scherzando, diceva: “Da allora ho preso un sacco di Prozac, Paxil, Wellbutrin, Effexor, Ritalin, Focalin, ... ho anche studiato profondamente le filosofie e le religioni, ma finalmente l'allegria ha sfondato la porta”.
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Tuesday, June 14, 2016
"Desire" 40 anni dopo: furore e desiderio, quel fuoco che non si è mai spento
La mia seconda figlia in questi giorni sta facendo gli esami di terza media. Immagini e ricordi lontani nel tempo sbucano fuori. Quarant'anni fa anche io facevo quegli stessi esami. E mi ricordo...
Il ragazzino curvo sul foglio, nel grande tavolo della sala. Sfoglia continuamente un minuscolo dizionario italiano-inglese, poi prende la penna e annota ogni singola parola: “the”, articolo, “il”. Bene, commenta. Va avanti così in quell’impresa impossibile, tradurre i testi di quelle canzoni di “quel” disco. Più difficile quando trova espressioni non contemplate nel vocabolarietto, tipo “son of a bitch” o "nigger".
Una mattina a scuola il prof di tedesco chiede alla classe di portargli “uno di quei dischi di quei cantanti che ascoltate sempre, mi interessa capire l’uso dell’inglese moderno”. Lui gli porta ovviamente “quel” disco, che per lui è “il” disco (anche perché non poteva permettersene economicamente tanti in prima superiore e comunque era il disco che gli stava cambiando la vita, anche se non se ne rendeva ancora bene conto). Il giorno dopo il prof torna in classe sbraitando e mollandogli malamente indietro il disco: “Ma che razza di inglese è questo, poi è pieno di parolacce, i Beatles sì che cantano usando un inglese scolasticamente perfetto!”. Ecco un buon motivo per starsene alla larga dai Beatles pensa, accarezzando teneramente il suo disco.
Anni dopo, a una cena super posh (cercatelo sul vocabolario) con i dirigenti americani di Mtv che stavano per aprire i loro uffici in Italia, la manager chiede ai giornalisti: “Come avete imparato l’inglese?”. Silenzio. “Ascoltando i dischi rock, immagino”. Tutti alzano la mano: io sì! Anche io! Certo! A lui il pensiero va a quei lunghi pomeriggi spesi a tradurre quelle canzoni, non si alzava dal tavolo neanche se i suoi amici, come fino a poche settimane prima, venivano a chiamarlo per andare a giocare a pallone o se in televisione c'era il suo programma preferito. "In realtà" disse alla donna "io ho imparato l'americano, non l'inglese". Era vero.
D’altro canto non poteva farne a meno. Da quella sera che per puro caso, chiuso in cucina dai genitori che ricevevano nel salotto buono degli ospiti, facendo zapping sugli unici due canali disponibili, Rai Uno e Rai Due, era incappato in quella figura inquietante. Aveva smesso di fare qualunque cosa stesse facendo, non poteva togliere gli occhi dallo schermo della tv e non poteva far altro che ascoltare. Pareti, sedie, casa: nulla esisteva più. Una figura enigmatica, ma talmente carismatica da reclamare attenzione senza fare il minimo sforzo. Come si dice in gergo, "bucava lo schermo". Giacca di pelle nera, una capigliatura stile afro, la chitarra, occhi pieni di furore che lanciavano saette minacciose verso di lui. Voleva essere ascoltato. Si imponeva. Era come una sorta di profeta dell’ultima ora che chiamava a uscire dall’angolo in cui ti eri nascosto. Pentitevi peccatori bastardi, sembrava dire. E tu sapevi che aveva ragione anche se non capivi una parola di quello che cantava.
La voce. Incazzata, rabbiosa, veemente, spigolosa, apocalittica, ma allo stesso tempo sprigionava una melodia strana, magica, ipnotica. Ammaliante. E soprattutto incalzante: non si esce vivi da qui, suggeriva misteriosamente. Non era una bella voce no. Non come quelle dei cantanti che ascoltavano i suoi fratelli maggiori, ad esempio i Beatles. Era una sorta di angelo vendicatore. Una canzone lunghissima che non finiva più. Fece in tempo a sentire dai presentatori il titolo: Hurricane. Da quel momento lo scopo della sua vita fu sapere quanto più possibile di quel cantante che, seppe da suo fratello, si chiamava Bob Dylan. Il primo passo doveva essere comprare il disco che, sebbene uscito a gennaio, era in quella tarda primavera ancora il suo ultimo e conteneva quella canzone: si intitolava "Desire". Internet era probabilmente qualcosa che non era ancora nella mente dei suoi creatori e a metà degli anni 70 scoprivi che un disco era uscito anche mesi dopo la pubblicazione.
A giugno, quando ebbe tra le mani le 5mila lire, regalo per la promozione all’esame di terza media, si recò alla Standa dove sapeva si vendevano i dischi. Chiese alla commessa “l’ultimo di Bob Dylan” ma lei non sapeva quale fosse. Lui le disse il titolo, “Desire”. Lei non lo trovava mentre l’angoscia cominciava a stringergli lo stomaco: ma io devo averlo! diceva a se stesso. Ah eccolo, disse la commessa. Sollievo. Ma si chiama “Desiré” (alla francese). Pagò e lo portò via ripetendo fra sé e sé: presuntuosa ignorante.
"Desire" pubblicato nei primi giorni di gennaio 1976, fu il 17esimo disco della carriera di Bob Dylan, cominciata con il primo album del 1962. E’ un disco unico fra i suoi tanti capolavori, frutto di un periodo particolare di genialità e passione creativa, quando il cantante tornò nei luoghi dove aveva mosso i primi passi da sconosciuto per diventare il più acclamato artista rock degli anni 60 insieme a Beatles e Stones. Tornò al Greenwich Village di New York, dove ancora sopravvivevano i suoi antichi compagni di quei giorni antichi e riprese possesso del suo ruolo, riscoprendo chi era.
Accompagnato da una violinista zigana incontrata per caso sui marciapiedi del Village e portata in studio, da una sezione ritmica potente e pulsante come un treno nel seguire le sue linee musicali irregolari e improvvisate, e dalla voce meravigliosa di Emmylou Harris, l’ex compagna di Gram Parsons (che si dannò per riuscire ad armonizzare con lui, incapace di aspettare gli altri e sempre avanti), con l'aiuto nel comporre alcuni testi del commediografo di Broadway Jacques Levy, Dylan incise in alcune sedute di registrazioni caotiche la versione rock di Furore di Steinbeck e le visioni dei Vagabondi del Dharma di Jack Kerouac. Un disco che è la messa in scena della New York degli anni 70, delle sue contraddizioni e dei suoi eroi perdenti, di un'America a metà strada nel suo percorso, piena di dubbi e interrogativi.
Rubin Hurricane Carter, il pugile condannato all’ergastolo per un omicidio che non aveva mai commesso; il boss della mafia Joey Gallo che diventa una sorta di Robin Hood che abita e muore nelle Main Streets di Martin Scorsese. La regina degli zingari incontrata nel sud della Francia a cui dedica una preghiera yiddish straziante in One More Cup of Coffee; fuorilegge, santi e peccatori in fuga nel Messico di Pancho Villa inseguiti da un Pat Garrett fuori tempo massimo, in Romance in Durango; un’isola dell’Oceano Pacifico dove un terremoto travolge, come nel film di John Houston L’isola di corallo (anche se lì era un uragano), l’ambasciatore sovietico, un greco, una donna con un cappello di panama, un soldato omosessuale, un giocatore d’azzardo, il portiere di un albergo, lì esiliati dal mondo della normalità apparente, uniti nella morte. E poi la moglie di Dylan, la cui relazione stava andando a pezzi, dipinta come “un mistico angelo” tra le piramidi egiziane, Isis, Iside, la dea egizia della fertilità in un blues apocalittico seduto al pianoforte come fosse una marcia funebre. Nel disco anche il tempo di uno scherzetto, sorta di spot per un’agenzia di viaggi esotica inesistente – chi diavolo mai avrebbe voluto andare in vacanza in Mozambico? - , Mozambique, a discapito di capolavori registrati in quelle session e lasciati fuori, come Abandoned Love. Ma chi conosce Dylan sa che da ogni suo disco restano sempre fuori uno o due capolavori. Non sarebbe un genio se avesse le idee chiare sulla sua stessa arte e su se stesso.
Il disco si chiude con una disperata implorazione, che porta il titolo della moglie stessa, Sara. Dicono le leggende che mentre Dylan stava registrando questa canzone, lei fosse dietro al vetro dello studio di registrazione. Un momento di cinema verità, di vita, arte, amore e odio che culminano in un momento fotografato per l’eternità. Dopo il divorzio della coppia, un paio di anni dopo, questa canzone non sarebbe mai più stata eseguita dal vivo.
Con Hurricane infine Bob Dylan, come a inizio carriera, era tornato a essere la voce degli ultimi, di tutti gli“aching ones whose wounds cannot be nursed (…) the countless confused, accused, misused, strung-out ones an’ worse”. L’America guardava a lui di nuovo come il punto di riferimento, sembrava essere di nuovo colui che “indica la strada” e magari adesso, là dove i presidenti americani affondavano negli scandali e nella mancanza di alcuna ispirazione, in un paese che usciva con le ossa rotte da una guerra inutile e che aveva ucciso i suoi giovani migliori, lui era in grado di portarla fuori dalle paludi del post Vietnam, Bob Dylan stava invece già guardando oltre.
Desire (che all’interno conteneva lunghe note poetiche di Allen Ginsberg, entusiaste, tanto da scrivere di un nuovo rinascimento poetico, simile a quanto accaduto nel 1955 - i poeti beat - e nel 1965 - la controcultura) fu l’ultimo grande successo discografico di Bob Dylan, un milione di copie vendute solo in Italia, ai primi posti in molte classifiche del mondo. Tutte queste canzoni sono state rimosse dal suo autore: quando l’arte incontra la vita troppo profondamente, quello che resta è sangue nei solchi. Lui era comunque già andato via, altrove, a inseguire il mistero della vita, mai pago e per sempre incapace di rimanere nello stesso posto con le stesse persone. “Un milione di facce ai miei piedi ma tutto quello che vedo sono occhi scuri”.
Ma per noi mortali le canzoni restano e il disco può suonare ancora e ancora. Le ferite che sono diverse per ciascun ascoltatore si riaprono e si richiudono con consolazione a ogni ascolto: “Metti su un disco e gli angeli si radunano intorno” aveva promesso Dylan.
Bob Dylan mi ha preso una sera dal mondo dell’innocenza per darmi mille visioni di un lento treno dove il tempo non interferisce, e un tamburino magico quando il dolore senza senso scompare; attraverso giorni di crescita e attraverso le lotte con il mondo e con me stesso, con il sapore agrodolce della solitudine, come un uccello ferito sul filo della luce. Le sue parole taglienti come lama di rasoio mi marchiarono a sangue per lunghi anni, dandomi come una barriera per respingere gli assalti del mondo e del male sino a che venne il momento di pagare il prezzo alla vita e non bastò più nemmeno quello scudo. Ma ancora, in certi momenti, faccio ritorno a quella barriera, un luogo della mente e dell’anima dove io sono io e nessun altro può entrarci. E lì mi sento salvo, al sicuro dal male del mondo. Quelle canzoni sono rimaste. Come un tatuaggio marchiato a fuoco nel sangue. Come un segno. Come un urlo.
Adesso sorrido, insieme a quel ragazzino di quaranta anni fa curvo sul foglio, che non avrebbe mai pensato che quarant'anni dopo Bob Dylan potesse ancora fare dischi e concerti. Sono stato fortunato: quale titolo più bello e autentico poteva avere il primo disco della mia vita di questo: “desire”, desiderio. Il desiderio di una vita piena di occasioni e incontri, di bellezza e felicità impiantato nel cuore, quello che hanno tutti gli uomini e le donne della terra. Non sapevo di averlo, un disco me lo tirò fuori. Ci sarebbe stato un prezzo da pagare, perché per vivere all’altezza del nostro desiderio si prendono pugni in faccia, calci nel sedere, a volte lo eliminiamo noi perché fa troppo male, a volte si palesa inaspettato in un paio di occhi, in un tramonto, in una notte stellata. A volte in una carezza, altre, spesso, in una bottiglia di vino da quattro soldi lanciata a frantumarsi contro gli scogli. A volte fa male, davvero male. Come un cavatappi infilato nel cuore, o come un uccello sul filo che il vento butta giù. Quel desiderio che nessuno può togliermi, se non io. Quel desiderio di essere alla fine accolto da un abbraccio che non finisce più: Oh sister when I come to knock on your door Don't turn away you'll create sorrow Time is an ocean but it ends at the shore You may not see me tomorrow.
Quella sera che fui mandato in cucina per non disturbare.
Ps: l'autore ci tiene a precisare che oggi ama e adora i Beatles...
Il ragazzino curvo sul foglio, nel grande tavolo della sala. Sfoglia continuamente un minuscolo dizionario italiano-inglese, poi prende la penna e annota ogni singola parola: “the”, articolo, “il”. Bene, commenta. Va avanti così in quell’impresa impossibile, tradurre i testi di quelle canzoni di “quel” disco. Più difficile quando trova espressioni non contemplate nel vocabolarietto, tipo “son of a bitch” o "nigger".
Una mattina a scuola il prof di tedesco chiede alla classe di portargli “uno di quei dischi di quei cantanti che ascoltate sempre, mi interessa capire l’uso dell’inglese moderno”. Lui gli porta ovviamente “quel” disco, che per lui è “il” disco (anche perché non poteva permettersene economicamente tanti in prima superiore e comunque era il disco che gli stava cambiando la vita, anche se non se ne rendeva ancora bene conto). Il giorno dopo il prof torna in classe sbraitando e mollandogli malamente indietro il disco: “Ma che razza di inglese è questo, poi è pieno di parolacce, i Beatles sì che cantano usando un inglese scolasticamente perfetto!”. Ecco un buon motivo per starsene alla larga dai Beatles pensa, accarezzando teneramente il suo disco.
Anni dopo, a una cena super posh (cercatelo sul vocabolario) con i dirigenti americani di Mtv che stavano per aprire i loro uffici in Italia, la manager chiede ai giornalisti: “Come avete imparato l’inglese?”. Silenzio. “Ascoltando i dischi rock, immagino”. Tutti alzano la mano: io sì! Anche io! Certo! A lui il pensiero va a quei lunghi pomeriggi spesi a tradurre quelle canzoni, non si alzava dal tavolo neanche se i suoi amici, come fino a poche settimane prima, venivano a chiamarlo per andare a giocare a pallone o se in televisione c'era il suo programma preferito. "In realtà" disse alla donna "io ho imparato l'americano, non l'inglese". Era vero.
D’altro canto non poteva farne a meno. Da quella sera che per puro caso, chiuso in cucina dai genitori che ricevevano nel salotto buono degli ospiti, facendo zapping sugli unici due canali disponibili, Rai Uno e Rai Due, era incappato in quella figura inquietante. Aveva smesso di fare qualunque cosa stesse facendo, non poteva togliere gli occhi dallo schermo della tv e non poteva far altro che ascoltare. Pareti, sedie, casa: nulla esisteva più. Una figura enigmatica, ma talmente carismatica da reclamare attenzione senza fare il minimo sforzo. Come si dice in gergo, "bucava lo schermo". Giacca di pelle nera, una capigliatura stile afro, la chitarra, occhi pieni di furore che lanciavano saette minacciose verso di lui. Voleva essere ascoltato. Si imponeva. Era come una sorta di profeta dell’ultima ora che chiamava a uscire dall’angolo in cui ti eri nascosto. Pentitevi peccatori bastardi, sembrava dire. E tu sapevi che aveva ragione anche se non capivi una parola di quello che cantava.
La voce. Incazzata, rabbiosa, veemente, spigolosa, apocalittica, ma allo stesso tempo sprigionava una melodia strana, magica, ipnotica. Ammaliante. E soprattutto incalzante: non si esce vivi da qui, suggeriva misteriosamente. Non era una bella voce no. Non come quelle dei cantanti che ascoltavano i suoi fratelli maggiori, ad esempio i Beatles. Era una sorta di angelo vendicatore. Una canzone lunghissima che non finiva più. Fece in tempo a sentire dai presentatori il titolo: Hurricane. Da quel momento lo scopo della sua vita fu sapere quanto più possibile di quel cantante che, seppe da suo fratello, si chiamava Bob Dylan. Il primo passo doveva essere comprare il disco che, sebbene uscito a gennaio, era in quella tarda primavera ancora il suo ultimo e conteneva quella canzone: si intitolava "Desire". Internet era probabilmente qualcosa che non era ancora nella mente dei suoi creatori e a metà degli anni 70 scoprivi che un disco era uscito anche mesi dopo la pubblicazione.
A giugno, quando ebbe tra le mani le 5mila lire, regalo per la promozione all’esame di terza media, si recò alla Standa dove sapeva si vendevano i dischi. Chiese alla commessa “l’ultimo di Bob Dylan” ma lei non sapeva quale fosse. Lui le disse il titolo, “Desire”. Lei non lo trovava mentre l’angoscia cominciava a stringergli lo stomaco: ma io devo averlo! diceva a se stesso. Ah eccolo, disse la commessa. Sollievo. Ma si chiama “Desiré” (alla francese). Pagò e lo portò via ripetendo fra sé e sé: presuntuosa ignorante.
"Desire" pubblicato nei primi giorni di gennaio 1976, fu il 17esimo disco della carriera di Bob Dylan, cominciata con il primo album del 1962. E’ un disco unico fra i suoi tanti capolavori, frutto di un periodo particolare di genialità e passione creativa, quando il cantante tornò nei luoghi dove aveva mosso i primi passi da sconosciuto per diventare il più acclamato artista rock degli anni 60 insieme a Beatles e Stones. Tornò al Greenwich Village di New York, dove ancora sopravvivevano i suoi antichi compagni di quei giorni antichi e riprese possesso del suo ruolo, riscoprendo chi era.
Accompagnato da una violinista zigana incontrata per caso sui marciapiedi del Village e portata in studio, da una sezione ritmica potente e pulsante come un treno nel seguire le sue linee musicali irregolari e improvvisate, e dalla voce meravigliosa di Emmylou Harris, l’ex compagna di Gram Parsons (che si dannò per riuscire ad armonizzare con lui, incapace di aspettare gli altri e sempre avanti), con l'aiuto nel comporre alcuni testi del commediografo di Broadway Jacques Levy, Dylan incise in alcune sedute di registrazioni caotiche la versione rock di Furore di Steinbeck e le visioni dei Vagabondi del Dharma di Jack Kerouac. Un disco che è la messa in scena della New York degli anni 70, delle sue contraddizioni e dei suoi eroi perdenti, di un'America a metà strada nel suo percorso, piena di dubbi e interrogativi.
Rubin Hurricane Carter, il pugile condannato all’ergastolo per un omicidio che non aveva mai commesso; il boss della mafia Joey Gallo che diventa una sorta di Robin Hood che abita e muore nelle Main Streets di Martin Scorsese. La regina degli zingari incontrata nel sud della Francia a cui dedica una preghiera yiddish straziante in One More Cup of Coffee; fuorilegge, santi e peccatori in fuga nel Messico di Pancho Villa inseguiti da un Pat Garrett fuori tempo massimo, in Romance in Durango; un’isola dell’Oceano Pacifico dove un terremoto travolge, come nel film di John Houston L’isola di corallo (anche se lì era un uragano), l’ambasciatore sovietico, un greco, una donna con un cappello di panama, un soldato omosessuale, un giocatore d’azzardo, il portiere di un albergo, lì esiliati dal mondo della normalità apparente, uniti nella morte. E poi la moglie di Dylan, la cui relazione stava andando a pezzi, dipinta come “un mistico angelo” tra le piramidi egiziane, Isis, Iside, la dea egizia della fertilità in un blues apocalittico seduto al pianoforte come fosse una marcia funebre. Nel disco anche il tempo di uno scherzetto, sorta di spot per un’agenzia di viaggi esotica inesistente – chi diavolo mai avrebbe voluto andare in vacanza in Mozambico? - , Mozambique, a discapito di capolavori registrati in quelle session e lasciati fuori, come Abandoned Love. Ma chi conosce Dylan sa che da ogni suo disco restano sempre fuori uno o due capolavori. Non sarebbe un genio se avesse le idee chiare sulla sua stessa arte e su se stesso.
Il disco si chiude con una disperata implorazione, che porta il titolo della moglie stessa, Sara. Dicono le leggende che mentre Dylan stava registrando questa canzone, lei fosse dietro al vetro dello studio di registrazione. Un momento di cinema verità, di vita, arte, amore e odio che culminano in un momento fotografato per l’eternità. Dopo il divorzio della coppia, un paio di anni dopo, questa canzone non sarebbe mai più stata eseguita dal vivo.
Con Hurricane infine Bob Dylan, come a inizio carriera, era tornato a essere la voce degli ultimi, di tutti gli“aching ones whose wounds cannot be nursed (…) the countless confused, accused, misused, strung-out ones an’ worse”. L’America guardava a lui di nuovo come il punto di riferimento, sembrava essere di nuovo colui che “indica la strada” e magari adesso, là dove i presidenti americani affondavano negli scandali e nella mancanza di alcuna ispirazione, in un paese che usciva con le ossa rotte da una guerra inutile e che aveva ucciso i suoi giovani migliori, lui era in grado di portarla fuori dalle paludi del post Vietnam, Bob Dylan stava invece già guardando oltre.
Desire (che all’interno conteneva lunghe note poetiche di Allen Ginsberg, entusiaste, tanto da scrivere di un nuovo rinascimento poetico, simile a quanto accaduto nel 1955 - i poeti beat - e nel 1965 - la controcultura) fu l’ultimo grande successo discografico di Bob Dylan, un milione di copie vendute solo in Italia, ai primi posti in molte classifiche del mondo. Tutte queste canzoni sono state rimosse dal suo autore: quando l’arte incontra la vita troppo profondamente, quello che resta è sangue nei solchi. Lui era comunque già andato via, altrove, a inseguire il mistero della vita, mai pago e per sempre incapace di rimanere nello stesso posto con le stesse persone. “Un milione di facce ai miei piedi ma tutto quello che vedo sono occhi scuri”.
Ma per noi mortali le canzoni restano e il disco può suonare ancora e ancora. Le ferite che sono diverse per ciascun ascoltatore si riaprono e si richiudono con consolazione a ogni ascolto: “Metti su un disco e gli angeli si radunano intorno” aveva promesso Dylan.
Bob Dylan mi ha preso una sera dal mondo dell’innocenza per darmi mille visioni di un lento treno dove il tempo non interferisce, e un tamburino magico quando il dolore senza senso scompare; attraverso giorni di crescita e attraverso le lotte con il mondo e con me stesso, con il sapore agrodolce della solitudine, come un uccello ferito sul filo della luce. Le sue parole taglienti come lama di rasoio mi marchiarono a sangue per lunghi anni, dandomi come una barriera per respingere gli assalti del mondo e del male sino a che venne il momento di pagare il prezzo alla vita e non bastò più nemmeno quello scudo. Ma ancora, in certi momenti, faccio ritorno a quella barriera, un luogo della mente e dell’anima dove io sono io e nessun altro può entrarci. E lì mi sento salvo, al sicuro dal male del mondo. Quelle canzoni sono rimaste. Come un tatuaggio marchiato a fuoco nel sangue. Come un segno. Come un urlo.
Adesso sorrido, insieme a quel ragazzino di quaranta anni fa curvo sul foglio, che non avrebbe mai pensato che quarant'anni dopo Bob Dylan potesse ancora fare dischi e concerti. Sono stato fortunato: quale titolo più bello e autentico poteva avere il primo disco della mia vita di questo: “desire”, desiderio. Il desiderio di una vita piena di occasioni e incontri, di bellezza e felicità impiantato nel cuore, quello che hanno tutti gli uomini e le donne della terra. Non sapevo di averlo, un disco me lo tirò fuori. Ci sarebbe stato un prezzo da pagare, perché per vivere all’altezza del nostro desiderio si prendono pugni in faccia, calci nel sedere, a volte lo eliminiamo noi perché fa troppo male, a volte si palesa inaspettato in un paio di occhi, in un tramonto, in una notte stellata. A volte in una carezza, altre, spesso, in una bottiglia di vino da quattro soldi lanciata a frantumarsi contro gli scogli. A volte fa male, davvero male. Come un cavatappi infilato nel cuore, o come un uccello sul filo che il vento butta giù. Quel desiderio che nessuno può togliermi, se non io. Quel desiderio di essere alla fine accolto da un abbraccio che non finisce più: Oh sister when I come to knock on your door Don't turn away you'll create sorrow Time is an ocean but it ends at the shore You may not see me tomorrow.
Quella sera che fui mandato in cucina per non disturbare.
Ps: l'autore ci tiene a precisare che oggi ama e adora i Beatles...
Thursday, April 28, 2016
Songs of love & hate
"Spero che moriate e che la vostra morte venga presto, seguirò il vostro feretro in un pallido pomeriggio e starò a guardare mentre vi seppelliscono e resterò sulla vostra tomba fino a quando sarò certo che siate morti". Bob Dylan è uno che sa odiare, non c'è dubbio. D'altro canto la prima canzone "vaffanculo" della storia del rock, che fosse dedicata agli ex compagni "politicamente impegnati" o a una ex fidanzata poco conta: Positively Fourth Street è una tale ondata di disprezzo e di odio come nessuno mai prima e mai dopo. Bob Dylan non ha mai scritto canzoni di pietà, di misericordia, di patetica fratellanza fondata sul nulla, non avrebbe cioè mai potuto scrivere Imagine.
Anche quando si converte alla "religione dell'amore", il cristianesimo, la sua fede è iniettata di odio, rancore e vendetta.
Slow Train Comin' è un disco che fa paura. Se si supera la barriera ideologica del buonismo di sinistra, quella che fece scandalizzare tutti i superstiti del 68 ancora in circolazione (in risposta a Gotta Serve Somebody, John Lennon scrisse e registrò il brano Serve Yourself, velenosa parodia della forte religiosità presente nella canzone di Dylan. Nel suo diario, a proposito del brano di Dylan, Lennon scrisse: «La produzione di Jerry Wexler è pessima, il cantato patetico, e il testo veramente imbarazzante» *) si scopre un disco che non sa cosa sia la carità. La musica di Slow Train Comin' si adegua perfettamente a questa notte di ira furibonda che attraversa le canzoni. E' dura, aspra, taglia in due l'ascoltatore. Dopo aver sentito Change my way of thinkin', ai tempi, un mio amico rimase senza parole per lunghi secondi poi commentò: "Bob Dylan non ha mai fatto rock così duro nella sua vita".
Liberati i cavalli, bagnatosi nelle acque di un Giordano che assomiglia di più all'Acheronte, spogliatosi dei vestiti glam da super star, da nuovo Elvis, che aveva indossato nel tour mondiale di un anno prima, Bob Dylan esce adesso da una palude putrida della Louisiana, da un campo di cotone del Mississippi, da un juke joint dell'Alabama con indosso qualche straccio. E' la reincarnazione di Robert Johnson tornato dall'inferno per dire che il mondo intorno è andato a puttane ed è destinato a implodere. I decenni che sono seguiti a questo disco hanno dimostrato come la profezia contenuta in questo disco si sia avverata.
L'unico che ai tempi dell'uscita del disco se ne accorse fu Charles Shaar Murray di NME, che descrisse il messaggio delle canzoni "sgradevole e pieno d'odio". In Italia il problema non si poneva neanche perché già ai tempi di Street Legal Stampa Alternativa definiva Dylan "un traditore che ha rinnegato tutto il suo passato e un porco fascista". Per il fondatore e direttore di Rolling Stone Jann Wenner questo disco, scrisse nella sua recensione, poteva essere, musicalmente, il miglior disco di Dylan di sempre e certamente il migliore dai tempi dei Basement Tapes. Risentito oggi, quasi quarant'anni dopo, Slow Train Comin' suona fresco e potente esattamente come allora, anzi di più, perché è cresciuto ancora e di musica così brutale oggi non se ne sente più.
Bob Dylan - Precious Angel di butterflyah
Anche Nick Cave ne colse il contenuto reale, citando il brano di apertura, Gotta serve somebody: «Quel trascinarsi predatorio dell'apertura, le liriche intrecciate, la voce logora e seducente, l'immensa mancanza di carità nel suo messaggio, il senso di agonia del tutto...Mi trovavo in un bar, l'avevo ascoltata al jukebox e mi guardai in giro, domandandomi come mai le vite di tutti i presenti non fossero state immediatamente cambiate da quell'ascolto».
Le chitarre taglienti come rasoi implacabili di Mark Knopfler dettano le cadenze dei brani, la ritmica martellante e pulsante è ossessiva e inquietante, le voci femminili sono indietro, come registrate in un'altra stanza e più che un coro gospel sembrano le voci di anime dannate che spingono per tornare in vita. E la voce. Lou Reed la definirebbe "vicious": è strisciante e brutale, è incazzosa e viscerale: "Gli uomini imploreranno Dio di ucciderli, ma loro non saranno in grado di morire". Oh mercy? No mercy!
Cosa successe in quegli studi dell'Alabama in quelle notti in cui fu registrato il disco, nessuno lo sa, neanche il leggendario produttore Jerry Wrexler: "Non avevo idea che si fosse lasciato coinvolgere in questa storia dei Cristiani Rinati finché non cercò di coinvolgermi. Gli dissi: Guarda Bob, hai a che fare con un incallito ateo ebreo di 62 anni. Non c'è speranza per me. Limitiamoci a fare 'sto disco, va bene?".
Come è durata per tutto il disco, la rabbia si ricompone solo alla fine. Le acque del Mississippi per la prima volta si placano. La performance vocale che Dylan rilascia da solo al pianoforte in When He return è il vertice di ogni sua performance vocale (anche se il Grammy per la performance vocale dell'anno andò a Gotta serve somebody), un gioiello di forza e di sentimento e tenerezza e compassione.
Anni dopo, Dylan avrebbe così commentato: "Quel periodo in cui fui un Cristiano Rinato fu parte della mia esperienza di vita. Doveva accadere. Quando vengo coinvolto in qualcosa, vengo coinvolto in maniera totale, non marginale". Non ci sono mezze misure nella vita e nell'arte. Per questo Bob Dylan è sempre stato il più grande artista rock. Qualunque cosa l'uomo faccia, deve servire Dio o il Diavolo, non esistono vie di mezzo e bisogna decidere da che parte schierarsi. Il bene e il male esisteranno sempre.
* Lennon's Lost Diary Tape (5th September 1979), The Complete Lost Lennon Tapes, Vol. 17
Anche quando si converte alla "religione dell'amore", il cristianesimo, la sua fede è iniettata di odio, rancore e vendetta.
Slow Train Comin' è un disco che fa paura. Se si supera la barriera ideologica del buonismo di sinistra, quella che fece scandalizzare tutti i superstiti del 68 ancora in circolazione (in risposta a Gotta Serve Somebody, John Lennon scrisse e registrò il brano Serve Yourself, velenosa parodia della forte religiosità presente nella canzone di Dylan. Nel suo diario, a proposito del brano di Dylan, Lennon scrisse: «La produzione di Jerry Wexler è pessima, il cantato patetico, e il testo veramente imbarazzante» *) si scopre un disco che non sa cosa sia la carità. La musica di Slow Train Comin' si adegua perfettamente a questa notte di ira furibonda che attraversa le canzoni. E' dura, aspra, taglia in due l'ascoltatore. Dopo aver sentito Change my way of thinkin', ai tempi, un mio amico rimase senza parole per lunghi secondi poi commentò: "Bob Dylan non ha mai fatto rock così duro nella sua vita".
Slow Train Coming - Bob Dylan from summer soul channel on Vimeo.
Liberati i cavalli, bagnatosi nelle acque di un Giordano che assomiglia di più all'Acheronte, spogliatosi dei vestiti glam da super star, da nuovo Elvis, che aveva indossato nel tour mondiale di un anno prima, Bob Dylan esce adesso da una palude putrida della Louisiana, da un campo di cotone del Mississippi, da un juke joint dell'Alabama con indosso qualche straccio. E' la reincarnazione di Robert Johnson tornato dall'inferno per dire che il mondo intorno è andato a puttane ed è destinato a implodere. I decenni che sono seguiti a questo disco hanno dimostrato come la profezia contenuta in questo disco si sia avverata.
L'unico che ai tempi dell'uscita del disco se ne accorse fu Charles Shaar Murray di NME, che descrisse il messaggio delle canzoni "sgradevole e pieno d'odio". In Italia il problema non si poneva neanche perché già ai tempi di Street Legal Stampa Alternativa definiva Dylan "un traditore che ha rinnegato tutto il suo passato e un porco fascista". Per il fondatore e direttore di Rolling Stone Jann Wenner questo disco, scrisse nella sua recensione, poteva essere, musicalmente, il miglior disco di Dylan di sempre e certamente il migliore dai tempi dei Basement Tapes. Risentito oggi, quasi quarant'anni dopo, Slow Train Comin' suona fresco e potente esattamente come allora, anzi di più, perché è cresciuto ancora e di musica così brutale oggi non se ne sente più.
Bob Dylan - Precious Angel di butterflyah
Anche Nick Cave ne colse il contenuto reale, citando il brano di apertura, Gotta serve somebody: «Quel trascinarsi predatorio dell'apertura, le liriche intrecciate, la voce logora e seducente, l'immensa mancanza di carità nel suo messaggio, il senso di agonia del tutto...Mi trovavo in un bar, l'avevo ascoltata al jukebox e mi guardai in giro, domandandomi come mai le vite di tutti i presenti non fossero state immediatamente cambiate da quell'ascolto».
Le chitarre taglienti come rasoi implacabili di Mark Knopfler dettano le cadenze dei brani, la ritmica martellante e pulsante è ossessiva e inquietante, le voci femminili sono indietro, come registrate in un'altra stanza e più che un coro gospel sembrano le voci di anime dannate che spingono per tornare in vita. E la voce. Lou Reed la definirebbe "vicious": è strisciante e brutale, è incazzosa e viscerale: "Gli uomini imploreranno Dio di ucciderli, ma loro non saranno in grado di morire". Oh mercy? No mercy!
Cosa successe in quegli studi dell'Alabama in quelle notti in cui fu registrato il disco, nessuno lo sa, neanche il leggendario produttore Jerry Wrexler: "Non avevo idea che si fosse lasciato coinvolgere in questa storia dei Cristiani Rinati finché non cercò di coinvolgermi. Gli dissi: Guarda Bob, hai a che fare con un incallito ateo ebreo di 62 anni. Non c'è speranza per me. Limitiamoci a fare 'sto disco, va bene?".
Come è durata per tutto il disco, la rabbia si ricompone solo alla fine. Le acque del Mississippi per la prima volta si placano. La performance vocale che Dylan rilascia da solo al pianoforte in When He return è il vertice di ogni sua performance vocale (anche se il Grammy per la performance vocale dell'anno andò a Gotta serve somebody), un gioiello di forza e di sentimento e tenerezza e compassione.
Anni dopo, Dylan avrebbe così commentato: "Quel periodo in cui fui un Cristiano Rinato fu parte della mia esperienza di vita. Doveva accadere. Quando vengo coinvolto in qualcosa, vengo coinvolto in maniera totale, non marginale". Non ci sono mezze misure nella vita e nell'arte. Per questo Bob Dylan è sempre stato il più grande artista rock. Qualunque cosa l'uomo faccia, deve servire Dio o il Diavolo, non esistono vie di mezzo e bisogna decidere da che parte schierarsi. Il bene e il male esisteranno sempre.
* Lennon's Lost Diary Tape (5th September 1979), The Complete Lost Lennon Tapes, Vol. 17
Monday, April 04, 2016
Una ragione per cui credere
Gli angloamericani, si sa, non hanno una grande dimestichezza con il latino che al massimo è popolare per loro come un dialetto dell'Africa del sud. Non stupisce dunque che su siti, forum e youtube si trovino domande di chiarimento sul "misterioso linguaggio" che accompagna il finale della versione di Bird on the Wire, pezzo composto da Leonard Cohen, inciso da Tim Hardin nel 1971.
Si tratta appunto di latino, i versi "Dona nobis pacem", dona a noi la pace, compresi nel canto "Agnello di Dio" che si esegue tutte le domeniche durante la messa nelle chiese cattoliche.
In realtà anche per noi italiani che discendiamo in parte dagli antichi latini e che questa lingua studiamo a fondo a scuola, quei versi messi nel finale di quella particolare canzone, anche se ci sono familiari, mettono i brividi e inquietudine, davvero suonano come un linguaggio misterioso, arcano, tombale. Che ci fanno in una canzone rock?
Quando Tim Hardin incide il brano di Cohen che apparirà in apertura del disco omonimo uscito nel 1971, il suo ultimo disco inciso in patria, ha trent'anni e una rovinosa dipendenza dall'eroina. Morirà pochi anni dopo, neanche quarantenne, nella solitudine e nella miseria, con una ex moglie e una figlia abbandonate chissà dove.
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Si tratta appunto di latino, i versi "Dona nobis pacem", dona a noi la pace, compresi nel canto "Agnello di Dio" che si esegue tutte le domeniche durante la messa nelle chiese cattoliche.
In realtà anche per noi italiani che discendiamo in parte dagli antichi latini e che questa lingua studiamo a fondo a scuola, quei versi messi nel finale di quella particolare canzone, anche se ci sono familiari, mettono i brividi e inquietudine, davvero suonano come un linguaggio misterioso, arcano, tombale. Che ci fanno in una canzone rock?
Quando Tim Hardin incide il brano di Cohen che apparirà in apertura del disco omonimo uscito nel 1971, il suo ultimo disco inciso in patria, ha trent'anni e una rovinosa dipendenza dall'eroina. Morirà pochi anni dopo, neanche quarantenne, nella solitudine e nella miseria, con una ex moglie e una figlia abbandonate chissà dove.
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Monday, February 08, 2016
La fede e la grazia
Fede e grazia. La cantante le invoca con la voce che sembra una lenta litania. Fede e grazia. Parole che non si sentono più dire da nessuno. Perché implicano l'ammissione del nostro bisogno. Faith and Grace è la canzone che chiude il doppio, doloroso, ma incredibilmente bello, ultimo disco di Lucinda Williams, "The Ghosts of Highway 20", dodici minuti interminabili che ti lasciano inchiodato sul posto a bocca aperta.
Le sue origini profondamente sudiste, ambientate fra le paludi fangose abitate da spiriti dolenti della Louisiana, le pesche dolci amare della Georgia, la solitudine abbacinante dell'Alabama, le luci al neon di Nashville l'hanno resa la Flannery O'Connor del rock. Gothic rock. Predicatori che hanno venduto l'anima al diavolo, la schiena di Parker sanguinante del volto di Cristo inciso nella pelle, la malinconia della vita che si spegne nell'ansia delle possibilità perdute, la magnificenza di una catapecchia ai bordi dei campi di cotone.
"The Ghosts of Highway 20" è un disco di fantasmi, è una lunga riflessione sulla morte, una manciata di canzoni sfregiate dal tempo, che non chiedono perdono eppure potenti.
In realtà il concetto di canzone comunemente conosciuto è fatto a pezzi in questo disco. Ogni brano è come una improvvisazione, una declamazione poetica che serve da motivazione per andare oltre, in una dimensione trascendentale che paradossalmente porta allo spasimo estremo la canzone stessa. Per fare ciò, Lucinda Williams si è messa accanto due musicisti straordinari, il meglio sulle corde dell'America contemporanea, il polistrumentista Greg Leisz e il chitarrista jazz Bill Frisell. A loro lascia campo totale, le loro chitarre, le slide, gli effetti sonori straripanti di colori autunnali strazianti si intersecano e si elevano ad altitudini immense, portando ogni brano del disco a superare abbondantemente i cinque minuti, dodici nel caso del brano conclusivo. Non sentirete altre chitarre del genere in nessun altro disco quest'anno.
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Le sue origini profondamente sudiste, ambientate fra le paludi fangose abitate da spiriti dolenti della Louisiana, le pesche dolci amare della Georgia, la solitudine abbacinante dell'Alabama, le luci al neon di Nashville l'hanno resa la Flannery O'Connor del rock. Gothic rock. Predicatori che hanno venduto l'anima al diavolo, la schiena di Parker sanguinante del volto di Cristo inciso nella pelle, la malinconia della vita che si spegne nell'ansia delle possibilità perdute, la magnificenza di una catapecchia ai bordi dei campi di cotone.
"The Ghosts of Highway 20" è un disco di fantasmi, è una lunga riflessione sulla morte, una manciata di canzoni sfregiate dal tempo, che non chiedono perdono eppure potenti.
In realtà il concetto di canzone comunemente conosciuto è fatto a pezzi in questo disco. Ogni brano è come una improvvisazione, una declamazione poetica che serve da motivazione per andare oltre, in una dimensione trascendentale che paradossalmente porta allo spasimo estremo la canzone stessa. Per fare ciò, Lucinda Williams si è messa accanto due musicisti straordinari, il meglio sulle corde dell'America contemporanea, il polistrumentista Greg Leisz e il chitarrista jazz Bill Frisell. A loro lascia campo totale, le loro chitarre, le slide, gli effetti sonori straripanti di colori autunnali strazianti si intersecano e si elevano ad altitudini immense, portando ogni brano del disco a superare abbondantemente i cinque minuti, dodici nel caso del brano conclusivo. Non sentirete altre chitarre del genere in nessun altro disco quest'anno.
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Monday, October 05, 2015
La schiena di Parker
“Ogni sera c’è del rossetto sulla sua camicia, ogni mattina lei lo lava via. Aveva sentito dire che in ogni vita una parte della vita stessa deve cadere, così lei passa la sua serata pregando che arrivi un po’ di quella pioggia del sud” (Southern Rain, Cowboy Junkies). Se Flannery O’Connor fosse stata una cantante rock, sicuramente avrebbe militato nei Cowboy Junkies, prendendo il posto della deliziosa e brava Margo Timmins come vocalist della band. Soprattutto, avrebbe scritto i testi delle canzoni di quel gruppo. In realtà li scrive benissimo Michael Timmins, chitarrista e songwriter quasi unico della band canadese. Southern Rain fa parte di un disco, “Black Eyed Man” che per molti versi incarna misteriosamente lo spirito della grande scrittrice americana.
Non è l’unico, Michael Timmins, ad aver incarnato quello spirito in campo rock. Flannery O’Connor è una delle maggiori influenze in certo songwriting rock, da Bruce Springsteen a Nick Cave a Bono degli U2 per citare le super star, fino a Jim White, Mary Gauthier, Natalie Merchant e Lucinda Williams per dire di quelli che hanno avuto riscontri commerciali meno eclatanti. Anche Rob Zombie, cantante e regista cinematografico di film horror ha attinto, portandolo all’ecceso, in quel folklore sudista dal sapore gotico e noir che la O’Connor rese in libri e racconti memorabili.
Ma che cosa una band composta da tre fratelli e un amico canadesi abbiano saputo individuare nella scrittrice non lo sapremo mai, ma d’altro canto non importa neanche. Non sappiamo neanche se Michael Timmins abbia letto e apprezzato quei libri, sta di fatto che in “Black Eyed Man” salta all’occhio una corrispondenza con molti dei racconti della O’Connor. C’è un tratto distintivo che accomuna tutti gli autori rock che in qualche modo si possono avvicinare alla scrittrice e che si ritrova in questo disco: avere il coraggio di andare a curiosare negli angoli più oscuri del cuore dell’uomo, in quei posti dove il male e la violenza, fosse anche per pochi istanti, inabitano e si manifestano.
“Black Eyed Man”, titolo del disco dei Junkies uscito nel 1992, d’altro canto sarebbe stato un titolo perfetto anche per Flannery, un titolo evocatore ad esempio di Parker’s Back, La schiena di Parker. Che cosa è infatti un “uomo dall’occhio nero” se non una persona che sta al confine tra peccato e redenzione, con un piede negli inferi e il capo piegato indietro a vedere se c’è ancora il suo angelo custode a porgergli la mano? Lo stesso tipo di personaggio che fa capolino in quel racconto della O’Connor, un uomo che rifiuta la fede, odia la moglie e si nasconde dal mondo.
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Non è l’unico, Michael Timmins, ad aver incarnato quello spirito in campo rock. Flannery O’Connor è una delle maggiori influenze in certo songwriting rock, da Bruce Springsteen a Nick Cave a Bono degli U2 per citare le super star, fino a Jim White, Mary Gauthier, Natalie Merchant e Lucinda Williams per dire di quelli che hanno avuto riscontri commerciali meno eclatanti. Anche Rob Zombie, cantante e regista cinematografico di film horror ha attinto, portandolo all’ecceso, in quel folklore sudista dal sapore gotico e noir che la O’Connor rese in libri e racconti memorabili.
Ma che cosa una band composta da tre fratelli e un amico canadesi abbiano saputo individuare nella scrittrice non lo sapremo mai, ma d’altro canto non importa neanche. Non sappiamo neanche se Michael Timmins abbia letto e apprezzato quei libri, sta di fatto che in “Black Eyed Man” salta all’occhio una corrispondenza con molti dei racconti della O’Connor. C’è un tratto distintivo che accomuna tutti gli autori rock che in qualche modo si possono avvicinare alla scrittrice e che si ritrova in questo disco: avere il coraggio di andare a curiosare negli angoli più oscuri del cuore dell’uomo, in quei posti dove il male e la violenza, fosse anche per pochi istanti, inabitano e si manifestano.
“Black Eyed Man”, titolo del disco dei Junkies uscito nel 1992, d’altro canto sarebbe stato un titolo perfetto anche per Flannery, un titolo evocatore ad esempio di Parker’s Back, La schiena di Parker. Che cosa è infatti un “uomo dall’occhio nero” se non una persona che sta al confine tra peccato e redenzione, con un piede negli inferi e il capo piegato indietro a vedere se c’è ancora il suo angelo custode a porgergli la mano? Lo stesso tipo di personaggio che fa capolino in quel racconto della O’Connor, un uomo che rifiuta la fede, odia la moglie e si nasconde dal mondo.
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Monday, September 21, 2015
Stone alone
Che cosa fa una pietra quando non rotola? Non si lascia coprire di muschio se questa pietra si chiama Keith Richards. Si guarda dentro, riscopre quello che ha accumulato in una lunga vita, un amore grande così per la musica in tutta la sua interezza e ne fa un bel disco. Che è poco "rolling" e molto "stone" nel senso che Richards a differenza di Jagger è ben fisso sulle radici della musica. Come una pietra. Un po' come Bob Dylan che ormai da molti anni vive in un mondo antico e fa musica che appartiene all'era pre rock'n'roll: il blues, il jazz, il folk, il country precedenti alla rivoluzione di Elvis. Che poi sono la cifra stessa che costituisce il rock'n'roll.
Anche il chitarrista degli Stones nel suo nuovo disco solista, "Crosseyed Heart", a ventitré anni di distanza dal precedente (con questo tre in tutto nella sua carriera) percorre queste strade, tanto che l'unico vero pezzo che ha il sapore e l'eccitazione della sua band appare solo a un certo punto, Trouble, anche se gli indizi qua e là non mancano. Un disco raffinato, cantato con un cuore (strabico, perché è un cuore che si è giocato tutto nella vita) purissimo, dove emerge tutta l'onestà di un artista che ha dedicato ogni attimo dell'esistenza a qualcosa di più grande di lui, la musica. Canta Bene in questo disco, Keith Richards, stupendo visto che non è mai stato un cantante vero e proprio, certo non all'altezza dell'amico/nemico Jagger, ma questo lo sanno tutti. In "Crosseyed Heart" supera se stesso declinando la voce come un vecchio crooner pieno di affetto e sincerità.
I brani di Richards solista, come già ci avevano mostrato i due dischi precedenti, sono un po' pezzi degli Stones prima della lavorazione di Mick Jagger. Scarni, essenziali, tenuti su da riff squadrati e implacabili. Jagger poi li colora e li fa diventare quella festa grande che sappiamo. Ma in "Crosseyed Heart" Keef va oltre e incide una serie di brani che portano lontano, perfetti per un noir di Raymond Chandler. E' un viaggio alle radici, compiuto quasi tutto di notte, tra ricordi, fantasmi e promesse infrante.
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Anche il chitarrista degli Stones nel suo nuovo disco solista, "Crosseyed Heart", a ventitré anni di distanza dal precedente (con questo tre in tutto nella sua carriera) percorre queste strade, tanto che l'unico vero pezzo che ha il sapore e l'eccitazione della sua band appare solo a un certo punto, Trouble, anche se gli indizi qua e là non mancano. Un disco raffinato, cantato con un cuore (strabico, perché è un cuore che si è giocato tutto nella vita) purissimo, dove emerge tutta l'onestà di un artista che ha dedicato ogni attimo dell'esistenza a qualcosa di più grande di lui, la musica. Canta Bene in questo disco, Keith Richards, stupendo visto che non è mai stato un cantante vero e proprio, certo non all'altezza dell'amico/nemico Jagger, ma questo lo sanno tutti. In "Crosseyed Heart" supera se stesso declinando la voce come un vecchio crooner pieno di affetto e sincerità.
I brani di Richards solista, come già ci avevano mostrato i due dischi precedenti, sono un po' pezzi degli Stones prima della lavorazione di Mick Jagger. Scarni, essenziali, tenuti su da riff squadrati e implacabili. Jagger poi li colora e li fa diventare quella festa grande che sappiamo. Ma in "Crosseyed Heart" Keef va oltre e incide una serie di brani che portano lontano, perfetti per un noir di Raymond Chandler. E' un viaggio alle radici, compiuto quasi tutto di notte, tra ricordi, fantasmi e promesse infrante.
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Sunday, August 30, 2015
Abramo sull'autostrada 61
Il 30 agosto di cinquant'anni, un ragazzino ebreo che aveva da poco compiuto 24 anni pubblicò un disco che si intitolava "Highway 61 Revisited". Cinquant'anni dopo quasi tutti sono concordi nel definirlo il più importante disco rock di sempre. "Chiunque abbia un po' di sale in zucca sa che Highway 61 Revisited è il più grande disco rock della storia" mi disse ad esempio una volta uno che di musica rock sa una o due cose, artista rock lui stesso di vaglia, John Mellencamp.
Pubblicato secondo disco di una trilogia che spezzerebbe le reni a qualunque altro collega, e di fatto nessuno si è mai avvicinato a tali vertici, tanto che John Lennon in quei mesi del 1965 si alzò in piedi e come membro dell'allora gruppo rock più importante del pianeta, si azzardò a dire: "E' Bob Dylan che ci mostra la strada". "Highway 61 Revisited" nonostante tanta gloria non è forse ancora stato ancora esplorato a fondo. Gli altri due dischi per la cronaca sono "Bringing It All Back Home" di pochi mesi precedente a questo e "Blonde on Blonde" di meno di un anno successivo. Insieme costituiscono la trilogia più esplosiva, emozionante, affascinante e rivoluzionaria di sempre, tanto che l’irrompere sulle scene musicali della seconda metà degli anni 60 di gruppi rock e di solisti successiva ad essi non sarebbe stata minimamente ipotizzabile. La canzone radiofonica di tre minuti era spazzata via (il 45 giri di Like a Rolling Stone venne pubblicato su due facciate, e nonostante questo schizzò in testa a tutte le classifiche) e come disse Joni Mitchell ascoltando un brano delle session di “Highway 61 Revisited” pubblicato su singolo, Positively 4th Street, “adesso in una canzone si può davvero parlare di tutto, anche mandare a fanculo le persone”. La musica rock era stata liberata e con essa nulla sarebbe stato più uguale a prima. Ma soprattutto quello che Bob Dylan introduceva, ad esempio con Mr. Tambourine Man, era mettere in primo piano in una canzone l’io, punto centrale del dramma umano, che le ideologie e il moralismo borghese dell’America del dopo guerra aveva nascosto sotto i detriti del consumismo volgare, delle ipocrisie piccolo borghesi, della superiorità anche razziale: WASP, “white anglo saxon protestant”, quelli che probabilmente avevano fatto fuori lo scomodo JFK. Costringendo tra l’altro lo stesso Dylan ad abbandonare l’impegno politico dopo la notizia della sua morte.
Quel linguaggio musicale e lirico inedito ancora oggi viene guardato da chiunque prenda in mano una chitarra (non ci sarebbe mai stato un Bruce Springsteen, per dirne uno, senza questi tre dischi). Quei tre dischi sono stati il più completo, ambizioso e avventuroso ritratto in musica dell'America, dei suoi fantasmi, delle sue promesse mancate, delle sue radici, mai inciso da un artista rock.
Se si vuole sapere cosa fu l'America degli anni 60 non servono trattati sociologici, interpretazioni politiche, discussioni filosofiche. Basta ascoltare questi dischi in sequenza. Se il vostro cervello non esploderà davanti a questa potenza sonica e lirica, allora avrete di che meditare per il resto della vostra vita. Non è un caso ad esempio che le Black Panther, il movimento afroamericano para terroristico, nacque quando i due fondatori passarono un pomeriggio ad ascoltare senza sosta il brano Ballad of a Thin Man, contenuto in "Highway 61".
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Pubblicato secondo disco di una trilogia che spezzerebbe le reni a qualunque altro collega, e di fatto nessuno si è mai avvicinato a tali vertici, tanto che John Lennon in quei mesi del 1965 si alzò in piedi e come membro dell'allora gruppo rock più importante del pianeta, si azzardò a dire: "E' Bob Dylan che ci mostra la strada". "Highway 61 Revisited" nonostante tanta gloria non è forse ancora stato ancora esplorato a fondo. Gli altri due dischi per la cronaca sono "Bringing It All Back Home" di pochi mesi precedente a questo e "Blonde on Blonde" di meno di un anno successivo. Insieme costituiscono la trilogia più esplosiva, emozionante, affascinante e rivoluzionaria di sempre, tanto che l’irrompere sulle scene musicali della seconda metà degli anni 60 di gruppi rock e di solisti successiva ad essi non sarebbe stata minimamente ipotizzabile. La canzone radiofonica di tre minuti era spazzata via (il 45 giri di Like a Rolling Stone venne pubblicato su due facciate, e nonostante questo schizzò in testa a tutte le classifiche) e come disse Joni Mitchell ascoltando un brano delle session di “Highway 61 Revisited” pubblicato su singolo, Positively 4th Street, “adesso in una canzone si può davvero parlare di tutto, anche mandare a fanculo le persone”. La musica rock era stata liberata e con essa nulla sarebbe stato più uguale a prima. Ma soprattutto quello che Bob Dylan introduceva, ad esempio con Mr. Tambourine Man, era mettere in primo piano in una canzone l’io, punto centrale del dramma umano, che le ideologie e il moralismo borghese dell’America del dopo guerra aveva nascosto sotto i detriti del consumismo volgare, delle ipocrisie piccolo borghesi, della superiorità anche razziale: WASP, “white anglo saxon protestant”, quelli che probabilmente avevano fatto fuori lo scomodo JFK. Costringendo tra l’altro lo stesso Dylan ad abbandonare l’impegno politico dopo la notizia della sua morte.
Quel linguaggio musicale e lirico inedito ancora oggi viene guardato da chiunque prenda in mano una chitarra (non ci sarebbe mai stato un Bruce Springsteen, per dirne uno, senza questi tre dischi). Quei tre dischi sono stati il più completo, ambizioso e avventuroso ritratto in musica dell'America, dei suoi fantasmi, delle sue promesse mancate, delle sue radici, mai inciso da un artista rock.
Se si vuole sapere cosa fu l'America degli anni 60 non servono trattati sociologici, interpretazioni politiche, discussioni filosofiche. Basta ascoltare questi dischi in sequenza. Se il vostro cervello non esploderà davanti a questa potenza sonica e lirica, allora avrete di che meditare per il resto della vostra vita. Non è un caso ad esempio che le Black Panther, il movimento afroamericano para terroristico, nacque quando i due fondatori passarono un pomeriggio ad ascoltare senza sosta il brano Ballad of a Thin Man, contenuto in "Highway 61".
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Monday, June 08, 2015
Sorella Morfina
“On the saxophone and tequila, Bobby Keys”. Così Mick Jagger introduce al pubblico il sassofonista morto nel dicembre del 2014 per complicazioni dovute a cirrosi epatica. Quella malattia che si prende quando si beve troppo, anche troppa tequila. Sono parole pronunciate prima dell’esecuzione live di Hony Tonk Women uno di quei brani caratterizzati proprio dal sax del musicista texano oltre a naturalmente a Brown Sugar che resterà sempre la sua signature song grazie al suo intervento poderoso di sassofono. Bobby Keys non c’è più come tanti altri eroi di quei giorni lontani, i giorni in cui, il primo maggio 1971, usciva l’album degli Stones “Sticky Fingers” forse il loro disco più perfetto e mitizzato in una lista di dischi straordinari. Si paga un prezzo per avvicinarsi così tanto al sole, come Icaro ha insegnato, e quei musicisti che in quei giorni quando il rock’n’roll era all’apice della “golden age” hanno pagato prezzi molto alti. Credete che a loro sia importato? Assolutamente no, perché quando sei dentro a quel vento impetuoso, quando sei “jumpin’ jack flash”, quando sei a colloquio con Dio tutti i giorni, il resto non ha importanza.
“Sticky Fingers” esce in questi giorni in una super versione de luxe con il disco originale rimasterizzato e altri due cd contenenti versioni alternative – ad esempio una spettacolare Brown Sugar in versione bluesy con Eric Clapton alla chitarra e Al Kooper al pianoforte – e un disco e mezzo dal vivo registrato a Leeds in Inghilterra nel marzo 1971 e al Marquee Club di Londra nello stesso periodo. Insieme ad altri dischi di quegli anni, diventa così la versione definitiva di un periodo storico mai più ripetuto da nessuno, neanche dagli stessi Stones. Un periodo in cui scrivere e cantare canzoni corrispondeva alla vita e musicisti e pubblico erano una comunità unica, dove non c’era divismo ma si condivideva il sogno che quel mondo immaginato dalla musica fosse un mondo alternativo possibile al cinismo, alla noia, alla menzogna dei genitori.
La storia ha insegnato che quel mondo non è stato possibile realizzarlo, anche se per poco tempo è sembrato possibile. Il fatto che certi sogni non diventino realtà non vuol dire che non valga la pena continuare a sognarli, anche perché costituiscono la natura stessa del nostro io, del nostro cuore. Chiudere la porta vuol dire lasciar morire quanto di più vero abbiamo dentro.
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“Sticky Fingers” esce in questi giorni in una super versione de luxe con il disco originale rimasterizzato e altri due cd contenenti versioni alternative – ad esempio una spettacolare Brown Sugar in versione bluesy con Eric Clapton alla chitarra e Al Kooper al pianoforte – e un disco e mezzo dal vivo registrato a Leeds in Inghilterra nel marzo 1971 e al Marquee Club di Londra nello stesso periodo. Insieme ad altri dischi di quegli anni, diventa così la versione definitiva di un periodo storico mai più ripetuto da nessuno, neanche dagli stessi Stones. Un periodo in cui scrivere e cantare canzoni corrispondeva alla vita e musicisti e pubblico erano una comunità unica, dove non c’era divismo ma si condivideva il sogno che quel mondo immaginato dalla musica fosse un mondo alternativo possibile al cinismo, alla noia, alla menzogna dei genitori.
La storia ha insegnato che quel mondo non è stato possibile realizzarlo, anche se per poco tempo è sembrato possibile. Il fatto che certi sogni non diventino realtà non vuol dire che non valga la pena continuare a sognarli, anche perché costituiscono la natura stessa del nostro io, del nostro cuore. Chiudere la porta vuol dire lasciar morire quanto di più vero abbiamo dentro.
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Monday, April 06, 2015
Just another American band
Won't you tell your dad, get off my back
Tell him what we said 'bout 'Paint It Black'
Rock 'n Roll is here to stay
Come inside where it's okay
And I'll shake you
Non tutte le storie rock sono storie di successo, anzi. Ma il mancato successo non è sinonimo di scarsità artistica, esattamente come i primi posti in classifica non significano automaticamente essere un bravo autore di canzoni o un buon interprete. Tutt'altro. Le storie rock sono fatte di momenti, imprevedibili svolte, fortune o sfortune. Non solo: chiunque pensi che una buona recensione serva a lanciare al successo un artista, dovrà ricredersi dopo aver letto questa storia.
I Big Star infatti non hanno ricevuto soltanto un paio di buone recensioni: sono riusciti ad esibirsi davanti a un centinaio dei migliori scrittori rock d'America tutti in una volta e ad esaltarli tutti, uno per uno. Ma il successo è rimasto una chimera, e la loro breve storia è finita con un incidente mortale d'automobile e una lenta ma implacabile decadenza mentale. Gli elementi per fare di quella dei Big Star una storia unica e allo stesso tipicamente rock ci sono tutti, inclusa la morte di uno dei due leader, Chris Bell, alla fatidica età di 27 anni, quella del "club dei 27" (Jim Morrison, Brian Jones, Jimi Hendrix, Janis Joplin, Kurt Cobain…).
Ma soprattutto, nel breve spazio di tempo che i Big Star sono esistiti (tre dischi più una improbabile reunion) ci hanno lasciato uno sfracello di bellissime canzoni e un genere musicale che ha influenzato dozzine di gruppi rock, alcuni dei quali tra i più amati e seguiti di sempre.
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Rock 'n Roll is here to stay
Come inside where it's okay
And I'll shake you
Non tutte le storie rock sono storie di successo, anzi. Ma il mancato successo non è sinonimo di scarsità artistica, esattamente come i primi posti in classifica non significano automaticamente essere un bravo autore di canzoni o un buon interprete. Tutt'altro. Le storie rock sono fatte di momenti, imprevedibili svolte, fortune o sfortune. Non solo: chiunque pensi che una buona recensione serva a lanciare al successo un artista, dovrà ricredersi dopo aver letto questa storia.
I Big Star infatti non hanno ricevuto soltanto un paio di buone recensioni: sono riusciti ad esibirsi davanti a un centinaio dei migliori scrittori rock d'America tutti in una volta e ad esaltarli tutti, uno per uno. Ma il successo è rimasto una chimera, e la loro breve storia è finita con un incidente mortale d'automobile e una lenta ma implacabile decadenza mentale. Gli elementi per fare di quella dei Big Star una storia unica e allo stesso tipicamente rock ci sono tutti, inclusa la morte di uno dei due leader, Chris Bell, alla fatidica età di 27 anni, quella del "club dei 27" (Jim Morrison, Brian Jones, Jimi Hendrix, Janis Joplin, Kurt Cobain…).
Ma soprattutto, nel breve spazio di tempo che i Big Star sono esistiti (tre dischi più una improbabile reunion) ci hanno lasciato uno sfracello di bellissime canzoni e un genere musicale che ha influenzato dozzine di gruppi rock, alcuni dei quali tra i più amati e seguiti di sempre.
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Wednesday, November 05, 2014
Lo! And behold! (an american epic)
“Nella grande musica folk c’è un mistero, c’è magia, c’è verità e c’è la Bibbia. Non potrò mai avvicinarmi a tanto, ma ci proverò” (Bob Dylan, New York Daily News, maggio 1967)
Era l'estate dell'amore, era l'estate del 67. Ed era l'anno della musica magica, colorata, psichedelica. I Beatles si erano inventati la saga del Sergente Pepper e a San Francisco non ci potevi andare se non avevi un fiore tra i capelli. A Monterey salivano alte nel cielo farfalle colorate e le chitarre bruciavano sul palco. Era l'estate di pace & amore, era l'anno delle buone vibrazioni. Era il momento in cui Londra diventava swingin' e i Pink Floyd sognavano che tutti facevano l'amore su astronavi dirette verso spazi siderali. Le gonne diventavano mini, i capelli degli uomini sempre più lunghi, qualcuno andava in India a trovare il senso della vita e le droghe erano sempre di più e sempre più sconvolgenti. Il mondo stava cambiando, era l'anticipo dell'era dell'Acquario, e ogni cosa era possibile.
Ma qualcuno di tutto questo sconvolgimento cosmico non ne sapeva nulla o almeno lo ignorava.
Lassù, sulle Catskill Mountains, faceva freddo. Le case di legno erano disperse nei fitti boschi che guardavano dall'alto la meravigliosa vallata del fiume Hudson. Qua il senso di isolamento era totale. Potevi pensare di vivere ancora ai tempi dei primi esploratori che si imbattevano in qualche tribù indiana. Oppure nel tardo ottocento, quando quassù erano rimasti solo boscaioli, trafficanti di whisky clandestino, predicatori che fuggivano il demonio.
Anche loro in un certo senso erano fuggiti. Uno soprattutto. Era fuggito da una vita che lo stava ammazzando. Curiosamente, se non erano state le droghe, i contestatori che ogni sera si radunavano davanti al palco, le fan invasate che cercavano di strappargli i vestiti di dosso, i giornalisti a caccia di rivelazioni mistiche e rivoluzionarie, a ucciderlo - quasi - erano state proprio queste montagne solitarie.
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Era l'estate dell'amore, era l'estate del 67. Ed era l'anno della musica magica, colorata, psichedelica. I Beatles si erano inventati la saga del Sergente Pepper e a San Francisco non ci potevi andare se non avevi un fiore tra i capelli. A Monterey salivano alte nel cielo farfalle colorate e le chitarre bruciavano sul palco. Era l'estate di pace & amore, era l'anno delle buone vibrazioni. Era il momento in cui Londra diventava swingin' e i Pink Floyd sognavano che tutti facevano l'amore su astronavi dirette verso spazi siderali. Le gonne diventavano mini, i capelli degli uomini sempre più lunghi, qualcuno andava in India a trovare il senso della vita e le droghe erano sempre di più e sempre più sconvolgenti. Il mondo stava cambiando, era l'anticipo dell'era dell'Acquario, e ogni cosa era possibile.
Ma qualcuno di tutto questo sconvolgimento cosmico non ne sapeva nulla o almeno lo ignorava.
Lassù, sulle Catskill Mountains, faceva freddo. Le case di legno erano disperse nei fitti boschi che guardavano dall'alto la meravigliosa vallata del fiume Hudson. Qua il senso di isolamento era totale. Potevi pensare di vivere ancora ai tempi dei primi esploratori che si imbattevano in qualche tribù indiana. Oppure nel tardo ottocento, quando quassù erano rimasti solo boscaioli, trafficanti di whisky clandestino, predicatori che fuggivano il demonio.
Anche loro in un certo senso erano fuggiti. Uno soprattutto. Era fuggito da una vita che lo stava ammazzando. Curiosamente, se non erano state le droghe, i contestatori che ogni sera si radunavano davanti al palco, le fan invasate che cercavano di strappargli i vestiti di dosso, i giornalisti a caccia di rivelazioni mistiche e rivoluzionarie, a ucciderlo - quasi - erano state proprio queste montagne solitarie.
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Monday, September 22, 2014
Dacci oggi il nostro problema popolare
E' bello diventare vecchi. Ce lo dice Leonard Cohen, 80 anni appena compiuti e un disco nuovo nuovo che esce in questi giorni, "Popular Problems". Un disco che fa venir voglia di ridere. Non un riso beota come quello a cui siamo abituati, ma un riso di gioia, come quello di un bambino. Vecchio e bambino in fondo è la stessa cosa, entrambi hanno una innocenza che si perde nella strada di mezzo, anche se questo nostro mondo moderno ci fa credere che essere anziani è una cosa brutta e allora meglio soluzioni facili come l'eutanasia legalizzata per evitare il problema.
No, c'è un modo di diventare vecchi, che è davvero bello. Certo, dipende da come si è vissuta la vita. Se la si è sprecata in sogni, ideologie, simboli fasulli, superficialità, quelli di cui ci inondano le pubblicità televisive, diventare vecchi sarà un incubo. Se la vita la si è spesa alla ricerca della Bellezza, essere vecchi porterà al disvelarsi di questa ricerca.
Non che il nuovo disco del poeta canadese sia così gioioso, almeno per quanto riguarda le liriche, che tratteggiano invece un mondo infernale dove la violenza, lo stupro, la guerra, le ingiustizie sono cibo quotidiano (Ho visto gente morire di fame / Eccidi, stupri / I villaggi bruciati / E loro in fuga / Non potevo incontrare i loro sguardi / Fissavo le mie scarpe / Era acido, era tragico / Quasi come il blues). Ma è il modo con cui Cohen affronta questi "problemi popolari", perché ce li hanno tutti anche se fanno finta di non vedere, che è illuminante e rasserenante.
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No, c'è un modo di diventare vecchi, che è davvero bello. Certo, dipende da come si è vissuta la vita. Se la si è sprecata in sogni, ideologie, simboli fasulli, superficialità, quelli di cui ci inondano le pubblicità televisive, diventare vecchi sarà un incubo. Se la vita la si è spesa alla ricerca della Bellezza, essere vecchi porterà al disvelarsi di questa ricerca.
Non che il nuovo disco del poeta canadese sia così gioioso, almeno per quanto riguarda le liriche, che tratteggiano invece un mondo infernale dove la violenza, lo stupro, la guerra, le ingiustizie sono cibo quotidiano (Ho visto gente morire di fame / Eccidi, stupri / I villaggi bruciati / E loro in fuga / Non potevo incontrare i loro sguardi / Fissavo le mie scarpe / Era acido, era tragico / Quasi come il blues). Ma è il modo con cui Cohen affronta questi "problemi popolari", perché ce li hanno tutti anche se fanno finta di non vedere, che è illuminante e rasserenante.
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Tuesday, July 29, 2014
I giorni del Fillmore
Erano ottime giornate per andare in moto, erano i giorni dell’estate Indiana dalle parti di Macon, Georgia, profondo sud degli States. Il giovane baffuto e dai lunghi capelli biondi amava andare in moto, specie con quel grosso chopper Harley Davidson che aveva comprato da un ragazzo della sua città. Sembrava una di quelle moto del film Easy Rider, uscito al cinema solo un paio di anni prima, con le forcelle modificate apposta per farlo assomigliare di più alle motociclette di Peter Fonda e Dennis Hopper. Quelle forcelle però lo rendevano difficile da guidare e poi aveva bisogno di gomme nuove, aveva giusto telefonato il giorno prima a un gommista per farsele procurare.
Quel pomeriggio del 29 ottobre 1971 erano quasi le 18 e 45 quando il ragazzo sulla motocicletta cercò di superare un grosso camion che stava svoltando a sinistra davanti a lui, solo che l’autista di quel camion decise non si sa perché di fermarsi bloccando la carreggiata. Il motociclista sembrò riuscire a schivarlo con eleganza poi invece improvvisamente volò in aria perdendo il casco e sfracellandosi a terra. In qualche modo aveva sbattuto contro il grosso gancio che pendeva dietro al camion. Quando lo raccolsero respirava ancora. Lo portarono in ospedale. Alle 20 e 40 di quello stesso giorno Duane Allman, 24 anni, viene dichiarato morto.
Due mesi prima era uscito il primo disco dal vivo della sua band, il terzo della carriera della Allman Brothers Band, di cui Duane insieme al fratello Gregg era il fondatore, il leader e il chitarrista, registrato allo storico Fillmore East di New York, il locale rock per eccellenza di quegli anni. Non un chitarrista qualunque, come la ABB non era una band qualunque. Come ha detto qualcuno, quella band era americana esattamente come il rumore dei condizionatori d’aria che sono immancabili in ogni città americana, fonte di sopravvivenza alle impossibili estati afose di New York, Chicago o del profondo sud, quel profondo sud, la Georgia, da cui provenivano i fratelli Allman.
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Quel pomeriggio del 29 ottobre 1971 erano quasi le 18 e 45 quando il ragazzo sulla motocicletta cercò di superare un grosso camion che stava svoltando a sinistra davanti a lui, solo che l’autista di quel camion decise non si sa perché di fermarsi bloccando la carreggiata. Il motociclista sembrò riuscire a schivarlo con eleganza poi invece improvvisamente volò in aria perdendo il casco e sfracellandosi a terra. In qualche modo aveva sbattuto contro il grosso gancio che pendeva dietro al camion. Quando lo raccolsero respirava ancora. Lo portarono in ospedale. Alle 20 e 40 di quello stesso giorno Duane Allman, 24 anni, viene dichiarato morto.
Due mesi prima era uscito il primo disco dal vivo della sua band, il terzo della carriera della Allman Brothers Band, di cui Duane insieme al fratello Gregg era il fondatore, il leader e il chitarrista, registrato allo storico Fillmore East di New York, il locale rock per eccellenza di quegli anni. Non un chitarrista qualunque, come la ABB non era una band qualunque. Come ha detto qualcuno, quella band era americana esattamente come il rumore dei condizionatori d’aria che sono immancabili in ogni città americana, fonte di sopravvivenza alle impossibili estati afose di New York, Chicago o del profondo sud, quel profondo sud, la Georgia, da cui provenivano i fratelli Allman.
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Thursday, July 10, 2014
Teach your children
Erano i Fab Four americani. Erano i nuovi Beatles. In quell'estate del 1974 nessun altro artista rock era come loro, neppure i Rolling Stones, da anni ormai sulle vette e giustamente definiti "la più grande rock'n'roll band del mondo". Neanche i Led Zeppelin, che furoreggiavano sui palchi da anni, neppure Bob Dylan che pure nel gennaio di quello stesso anno era tornato alle scene dopo otto anni dall'ultima volta con un tour che aveva fatto registrare la più alta richiesta di biglietti della storia. I Beatles, ovviamente, si erano già sciolti. Ma nessuno prima di loro aveva fatto un tour negli stadi. Quella che oggi è la normalità, allora fu un azzardo che spostava in alto ancora una volta l'asticella di un mondo, quello del rock, che sembrava superare se stesso ogni giorno.
Erano giorni straordinari, erano quei giorni in cui, come disse qualcuno, "dei giganti camminavano sulla faccia della terra". Erano i giorni in cui tutto sembrava possibile: mandare a casa un presidente corrotto, Richard Nixon, fermare la guerra in Vietnam e loro quasi ci riuscirono e sì, come diceva una loro canzone, "cambiare il mondo". Decenni prima del "yes we can" di Barack Obama, loro cantavano "we can change the world".
Ma non tutto sarebbe stato così facile. Ogni grande storia chiede un grande prezzo, e loro stessi ne avrebbero pagato le conseguenze, in termini di ricadute, galera, amori finiti male e soprattutto la loro stessa amicizia mandata in malora. Che dietro ogni grande storia di musica ci sono innanzitutto degli amici, ma il successo, il volare troppo vicino al sole prima o poi ti schianta. C'è un limite, e pretendere di superarlo non va bene. Qualcuno lo capisce solo provandoci. Questa comunque sarebbe stata una autentica storia rock, di sesso, droga e appunto rock'n'roll. Con alcune delle più gradi performance musicali che questa storia abbia mai conosciuto.
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Erano giorni straordinari, erano quei giorni in cui, come disse qualcuno, "dei giganti camminavano sulla faccia della terra". Erano i giorni in cui tutto sembrava possibile: mandare a casa un presidente corrotto, Richard Nixon, fermare la guerra in Vietnam e loro quasi ci riuscirono e sì, come diceva una loro canzone, "cambiare il mondo". Decenni prima del "yes we can" di Barack Obama, loro cantavano "we can change the world".
Ma non tutto sarebbe stato così facile. Ogni grande storia chiede un grande prezzo, e loro stessi ne avrebbero pagato le conseguenze, in termini di ricadute, galera, amori finiti male e soprattutto la loro stessa amicizia mandata in malora. Che dietro ogni grande storia di musica ci sono innanzitutto degli amici, ma il successo, il volare troppo vicino al sole prima o poi ti schianta. C'è un limite, e pretendere di superarlo non va bene. Qualcuno lo capisce solo provandoci. Questa comunque sarebbe stata una autentica storia rock, di sesso, droga e appunto rock'n'roll. Con alcune delle più gradi performance musicali che questa storia abbia mai conosciuto.
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Saturday, December 28, 2013
Ritorno al futuro (radio days)
Stanotte dormirò con i fantasmi. Mi sono steso sul letto, ho messo le cuffiette e acceso l’iPod. Aspetto la mezzanotte della fine dell’anno e aspetto anche la fine del mondo, ma non sarò solo. Ho la migliore compagnia possibile, voci che escono dal buio, voci che neanche 50, 60, quasi cento anni di oblio, polvere e maleducazione sono riuscite a spegnere. Sono “le” voci, e questa radio di ritorno al futuro suona una verità incancellabile. Corrono, queste voci di fantasmi pietosi, irati, appassionati, pure innamorati, su frequenze che nessuno può captare. Solo pochi fortunati. Ecco. Ho trovato quella frequenza e posso riposare in pace.
Marcel, un mio vecchio amico canadese, è un uomo straordinario. Tiene accesa la torcia e in puro spirito hippie non l’ha mai spenta: share the music, è il suo motto. Musica donata con gesto caritatevole perché Marcel sa che la musica guarisce. L’ha sempre donata al mondo, usa ancora le vecchie spedizioni postali, ma se è il caso anche la Rete. Marcel che vide Bob Dylan la prima volta a Montreal 1975, giorni di gloria della Rolling Thunder Revue, e poi il pubblico scardinare le poltrone di un teatro dove suonavano i Clash. Adesso va in giro per l’America a cercare vecchi 78 giri, perché sa che lì dentro si nasconde la verità. Ne ha raccolti un bel po’ spendendo a volte anche qualche migliaio di dollari per un pezzo raro. E adesso li condivide con tutti. Li trovate qua.
Rido, mentre aspetto la fine del mondo, e ascolto queste voci di fantasmi, le loro chitarre, il pianoforte. Molti di questi pezzi li avevo naturalmente, ma mi chiedo: mio Dio ma che hanno fatto? Quello che ho ascoltato per anni su cd non è quello che queste voci cantavano. Li hanno bestialmente anestetizzati, troncati, cacciati in un angolo: ecco come suonava veramente invece Chuck Berry, in quello studio: faceva paura, terrorizzava. Altro che happy days. E anche quella chitarra, nel brano dell’idolo dei ragazzini Frankie Lemon: ma assurdo, è cacofonia, è punk, è violenza. E quel pianoforte che sta inventando il boogie, 1928, ma è più rock’n’roll dei Led Zeppelin. Buddy Holly è Sid Vicious. Ma che ci hanno fatto credere per anni? Adesso capisco perché Robert Johnson era la voce del demonio. Perché nessuno sa più registrare un disco? Perché nessuno sa più cantare? Ovvio: non si sopporta ciò che incute timore, ciò che spalanca la Domanda, non si deve convivere con il mistero. Mystery Train.

I fruscii di milioni di ascolti a volte provano a nascondere quelle voci. Non ci riescono. Ed è meraviglioso pensare a quante generazioni di ascoltatori hanno provocato quei fruscii su quei vinili di roccia. La ragazzina nella sua cameretta che ascoltava queste voci di nascosto, l’anziana coppia della fattoria del Nebraska o dei Monti Appalachi mentre pensava al figlio morto sotto l’aratro o in miniera. Mistero. Vita e morte. In un 78 giri.
Un amico mi raccontò una volta che Jackson Browne qualche anno fa si trovò in studio con Bob Dylan che stava registrando. C’era l’iPod di Bob Dylan. Nessuno credeva che Bob Dylan avesse un iPod. Quando uscì un momento dallo studio Jackson Browne si precipitò a vedere che musica ci fosse nell’iPod di Bob Dylan. C’erano queste voci. Quelle dei 78 giri. Ecco perché scrive ancora grandi canzoni.
Stanotte dormirò con i fantasmi. Sono invitato a un capodanno speciale, nel salone di un vecchio albergo abbandonato, che si illumina solo una notte dell’anno. Ci sono fantasmi che cantano, fantasmi che ballano, che ridono, bevono e si innamorano. C’è voluto un lungo cammino, di fedeltà alla musica, per arrivare a questa festa. Io ci sono. Mi sto addormentando con voci che non voglio più smettere di ascoltare. Mister Sandman, abbracciami on blueberry hill.Buon anno.
Marcel, un mio vecchio amico canadese, è un uomo straordinario. Tiene accesa la torcia e in puro spirito hippie non l’ha mai spenta: share the music, è il suo motto. Musica donata con gesto caritatevole perché Marcel sa che la musica guarisce. L’ha sempre donata al mondo, usa ancora le vecchie spedizioni postali, ma se è il caso anche la Rete. Marcel che vide Bob Dylan la prima volta a Montreal 1975, giorni di gloria della Rolling Thunder Revue, e poi il pubblico scardinare le poltrone di un teatro dove suonavano i Clash. Adesso va in giro per l’America a cercare vecchi 78 giri, perché sa che lì dentro si nasconde la verità. Ne ha raccolti un bel po’ spendendo a volte anche qualche migliaio di dollari per un pezzo raro. E adesso li condivide con tutti. Li trovate qua.
Rido, mentre aspetto la fine del mondo, e ascolto queste voci di fantasmi, le loro chitarre, il pianoforte. Molti di questi pezzi li avevo naturalmente, ma mi chiedo: mio Dio ma che hanno fatto? Quello che ho ascoltato per anni su cd non è quello che queste voci cantavano. Li hanno bestialmente anestetizzati, troncati, cacciati in un angolo: ecco come suonava veramente invece Chuck Berry, in quello studio: faceva paura, terrorizzava. Altro che happy days. E anche quella chitarra, nel brano dell’idolo dei ragazzini Frankie Lemon: ma assurdo, è cacofonia, è punk, è violenza. E quel pianoforte che sta inventando il boogie, 1928, ma è più rock’n’roll dei Led Zeppelin. Buddy Holly è Sid Vicious. Ma che ci hanno fatto credere per anni? Adesso capisco perché Robert Johnson era la voce del demonio. Perché nessuno sa più registrare un disco? Perché nessuno sa più cantare? Ovvio: non si sopporta ciò che incute timore, ciò che spalanca la Domanda, non si deve convivere con il mistero. Mystery Train.

I fruscii di milioni di ascolti a volte provano a nascondere quelle voci. Non ci riescono. Ed è meraviglioso pensare a quante generazioni di ascoltatori hanno provocato quei fruscii su quei vinili di roccia. La ragazzina nella sua cameretta che ascoltava queste voci di nascosto, l’anziana coppia della fattoria del Nebraska o dei Monti Appalachi mentre pensava al figlio morto sotto l’aratro o in miniera. Mistero. Vita e morte. In un 78 giri.
Un amico mi raccontò una volta che Jackson Browne qualche anno fa si trovò in studio con Bob Dylan che stava registrando. C’era l’iPod di Bob Dylan. Nessuno credeva che Bob Dylan avesse un iPod. Quando uscì un momento dallo studio Jackson Browne si precipitò a vedere che musica ci fosse nell’iPod di Bob Dylan. C’erano queste voci. Quelle dei 78 giri. Ecco perché scrive ancora grandi canzoni.
Stanotte dormirò con i fantasmi. Sono invitato a un capodanno speciale, nel salone di un vecchio albergo abbandonato, che si illumina solo una notte dell’anno. Ci sono fantasmi che cantano, fantasmi che ballano, che ridono, bevono e si innamorano. C’è voluto un lungo cammino, di fedeltà alla musica, per arrivare a questa festa. Io ci sono. Mi sto addormentando con voci che non voglio più smettere di ascoltare. Mister Sandman, abbracciami on blueberry hill.Buon anno.
Friday, October 11, 2013
New York City serenade
Ci fu un periodo tra il 1969 e il 1973 all'incirca in cui uscirono nei negozi alcuni dei migliori dischi live di tutti i tempi. Non che dopo e anche in anni recenti non ne siano usciti più, ma sicuramente in quei pochi anni si concentrò un tale numero di dischi straordinari come mai più in seguito. Il motivo era semplice: quegli anni corrispondevano infatti allo strapotere della musica live rispetto a quella in studio. Le logiche dei 45 giri, spariti da tempo, ma anche quelle degli lp, le logiche di mercato insomma, si erano infrante contro una voglia di vivere la musica in presa diretta, in comunione, in piena libertà. Era l’epoca dei festival, certamente, ma non solo: i musicisti stessi godevano di questa dimensione che lasciava aperte le porte a ogni genere di improvvisazione e libertà. Basta dare un’occhiata veloce ad alcuni dei titoli dal vivo usciti in quei quattro anni: “Live/Dead” dei Grateful Dead; “The Turning Point” di John Mayall; “Made in Japan” dei Deep Purple; “At Fillmore East” della Allman Brothers Band; “4 Way Street” di CSNY; “Kick Out the Jam” degli MC5; “Get Yer Ya-Ya's Out!” degli Stones; “Mad Dogs & Englishmen” di Joe Cocker. Solo alcuni. Altre band, tipo i Led Zeppelin avrebbero goduto di uscite live inerenti a quel periodo solo decenni dopo, ma comunque testimonianza di quell’epoca unica per la musica dal vivo. In seguito, si fu costretti ad assistere a fenomeni imbarazzanti, cioè il ritoccamento in studio delle performance live, come nel tristemente noto caso degli Eagles. Il loro – vendutissimo – live del 1980 infatti venne corretto in studio per cancellare ogni possibile errore, almeno al 50% ponendo di fatto fine al disco dal vivo come pura improvvisazione rendendolo invece riproposizione di grandi successi il più simile possibile ai dischi in studio.
Tornando a quell’epoca d’oro, tra quella caterva di meraviglie, c’è un altro live, “Rock of Ages” di The Band, uscito nel 1972. Ai tempi un doppio vinile, documentava le quattro serate che il 28, 29, 30 e 31 dicembre 1971 il gruppo che fu accompagnatore di Bob Dylan aveva tenuto all’Academy Of Music di New York.
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Tornando a quell’epoca d’oro, tra quella caterva di meraviglie, c’è un altro live, “Rock of Ages” di The Band, uscito nel 1972. Ai tempi un doppio vinile, documentava le quattro serate che il 28, 29, 30 e 31 dicembre 1971 il gruppo che fu accompagnatore di Bob Dylan aveva tenuto all’Academy Of Music di New York.
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Sunday, September 22, 2013
Il tempo. In una bottiglia
Di lui, musicalmente, ne parlerà in modo più approfondito e appropriato l’amico David Nieri in un articolo che uscirà a breve su ilsussidiario.net. A me va solo di ricordare le emozioni, l’unica cosa che mi riesce bene (a volte, non sempre). Jim Croce è nome dimenticato, mai menzionato ne circoli e nelle enciclopedie che contano, o canzonato quando lo si fa. Di lui, che morì il 20 settembre di quarant’anni fa in un incidente aereo degno di quello di Buddy Holly – forse è per questo che dicono che la grande musica rock sia finita nel 1973 – ci si può solo domandare cosa avrebbe fatto, musicalmente, in questi quarant’anni in cui non c’è stato. Stava appena cominciando ad assaporare il successo: la sua formula di country, pop, R&B aveva fatto girare la testa anche a Frank Sinatra – non certo l’ultimo pirla – che ne aveva incisa la sua Babd Bad Leroy Brown.
Ma io ricordo solo che erano passati tre, forse tre e mezzo, anni dalla sua morte, quando sentii per la prima volta alla radio I've Got a Name (che bello averla risentita recentemente nella colona sonora di Django Unchained di Tarantino, uno che di musica se ne intende) grazie a quel santo uomo del vigile di Lavagna che alla sera faceva il dj in non ricordo più quale radio, quel vigile musicofilo che ci diede il nostro battesimo e la nostra educazione musicale. Sentire I've Got a Name alla radio nel buio della tua cameretta era come volare altissimo in spazi siderali stratosferici dove il blu buca il blu. Quella voce, un po’ burina un po’ romantica, così calda. Jim Croce.
Con Jim Croce fu un autentico rapporto radiofonico, come nella miglior tradizione della miglior musica. I’ll Have to say I Love You che sbuca improvvisamente dalla preziosa radio in legno di papà, una radio così Seventies, mentre stai passandole accanto e ti devi fermare, bloccare immediatamente per non perderne una nota di quella malinconia copiosa che ne esce fuori. Si può essere così tristi mentre si è innamorati? Sì, e molto di più. Jim Croce lo sapeva.
C’era poi Alabama Rain e c’era quella ragazzina che veniva di corsa da Sestri Levante a Chiavari per andare a scuola. Amava lo sport e correva, correva sempre. I lunghi, lunghissimi capelli, il viso da indiana: come non innamorarsene? Quel pomeriggio sotto la pioggia a salire dentro l’ospedale in costruzione di Sestri, da soli, girando fra le scale di cemento, a indovinare il profumo di quei lunghi capelli. E fu così che una volta, un pomeriggio di sole, venne correndo a casa mia, senza avvertire, come la più meravigliosa delle sorprese. E mentre lei se ne stava in piedi sorridendo davanti alla finestra che dava sul cielo e sul mare blu, e io me ne stavo muto nella mia timidezza, la radio pensava a dare le parole, facendo fuoriuscire Alabama Rain di Jim Croce. Lei sparì, probabilmente correndo, e non ne ho mai più saputo niente. Chissà se corre ancora tra Sestri e Chiavari lungo il mare. Io, che non le ho saputo dire quanto fossi innamorato di lei, ascolterò un’altra volta Alabama Rain. E anche tutte le altre canzoni di Jim.
Che la terra ti sia lieve, grande italiano d’America, l’unico dei folksinger di casa nostra e di Brooklyn. Morto in quel cielo blu che ci hai fatto toccare con mano.
Ma io ricordo solo che erano passati tre, forse tre e mezzo, anni dalla sua morte, quando sentii per la prima volta alla radio I've Got a Name (che bello averla risentita recentemente nella colona sonora di Django Unchained di Tarantino, uno che di musica se ne intende) grazie a quel santo uomo del vigile di Lavagna che alla sera faceva il dj in non ricordo più quale radio, quel vigile musicofilo che ci diede il nostro battesimo e la nostra educazione musicale. Sentire I've Got a Name alla radio nel buio della tua cameretta era come volare altissimo in spazi siderali stratosferici dove il blu buca il blu. Quella voce, un po’ burina un po’ romantica, così calda. Jim Croce.
Con Jim Croce fu un autentico rapporto radiofonico, come nella miglior tradizione della miglior musica. I’ll Have to say I Love You che sbuca improvvisamente dalla preziosa radio in legno di papà, una radio così Seventies, mentre stai passandole accanto e ti devi fermare, bloccare immediatamente per non perderne una nota di quella malinconia copiosa che ne esce fuori. Si può essere così tristi mentre si è innamorati? Sì, e molto di più. Jim Croce lo sapeva.
C’era poi Alabama Rain e c’era quella ragazzina che veniva di corsa da Sestri Levante a Chiavari per andare a scuola. Amava lo sport e correva, correva sempre. I lunghi, lunghissimi capelli, il viso da indiana: come non innamorarsene? Quel pomeriggio sotto la pioggia a salire dentro l’ospedale in costruzione di Sestri, da soli, girando fra le scale di cemento, a indovinare il profumo di quei lunghi capelli. E fu così che una volta, un pomeriggio di sole, venne correndo a casa mia, senza avvertire, come la più meravigliosa delle sorprese. E mentre lei se ne stava in piedi sorridendo davanti alla finestra che dava sul cielo e sul mare blu, e io me ne stavo muto nella mia timidezza, la radio pensava a dare le parole, facendo fuoriuscire Alabama Rain di Jim Croce. Lei sparì, probabilmente correndo, e non ne ho mai più saputo niente. Chissà se corre ancora tra Sestri e Chiavari lungo il mare. Io, che non le ho saputo dire quanto fossi innamorato di lei, ascolterò un’altra volta Alabama Rain. E anche tutte le altre canzoni di Jim.
Che la terra ti sia lieve, grande italiano d’America, l’unico dei folksinger di casa nostra e di Brooklyn. Morto in quel cielo blu che ci hai fatto toccare con mano.
Tuesday, September 03, 2013
Sai cos'è l'isola di Wight?
"Arrivai all'isola di Wight insieme ai Beatles. Insieme assistemmo al concerto, poi dopo andammo nei camerini a incontrare Bob (Dylan). Era contento, soddisfatto del concerto che aveva appena fatto. I Beatles avevano portato gli acetati di Abbey Road che sarebbe uscito dopo poco. Ci mettemmo ad ascoltarlo, bevemmo qualcosa. L'atmosfera era rilassata e gioiosa". Così racconta Tom Paxton, folksinger del Greenwich Village, vecchio amico di Dylan, del concerto all'isola di Wight del 31 agosto 1969, pubblicato pochi giorni fa all'interno della versione deluxe del nuovo Bootleg Series, il volume 10, che raccoglie bani inediti o versioni differenti di quelli pubblicati nei dischi usciti nel 1970, "Selfportrait" e "New Morning". Una descrizione certamente diversa da quella che fecero i media dell'epoca, che giudicarono complessivamente poco efficace o anche scadente quella esibizione, la prima di Bob Dylan dal maggio 1966, e che sarebbe rimasta anche l'ultima (a parte un paio di apparizioni estemporanee, al concerto per il Bangladesh e a quello di capodanno di The Band) fino al gennaio 1974.
L'aspettativa d'altro canto per quella esibizione era enorme: Dylan era stato invitato un paio di settimane prima a esibirsi al festival di Woodstck, che si era tenuto proprio in quella location perché Dylan ci abitava, a sottolineare quanto il pubblico rock volesse un ritorno sulle scene delmusicista che aveva cambiato la storia della musica, ma lui aveva rifiutato.
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L'aspettativa d'altro canto per quella esibizione era enorme: Dylan era stato invitato un paio di settimane prima a esibirsi al festival di Woodstck, che si era tenuto proprio in quella location perché Dylan ci abitava, a sottolineare quanto il pubblico rock volesse un ritorno sulle scene delmusicista che aveva cambiato la storia della musica, ma lui aveva rifiutato.
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Wednesday, September 05, 2012
Roll on, Bob
"The circus is in town", il circo è arrivato in città, cantava Dylan qualche decennio fa nella celeberrima Desolation Row. La canzone stessa era un circo: dentro, c'erano Cenerentola e T.S. Eliot, il gobbo di Notre Dame e il Buon Samaritano, Einstein e il Fantasma dell'Opera. In una galleria fantasmagorica di personaggi veri o usciti dalle pagine dei libri e dagli schermi dei cinema, Bob Dylan all'apice della sua visionarità poetica rinchiudeva questi rappresentanti dell'umanità in un vicolo, quello della desolazione. Quarant'anni e passa dopo, quel circo di umanità dolente torna a farci visita nelle canzoni di "Tempest", un acuto da parte di un artista che non ci sorprendeva così da molti anni, almeno dieci, quando era uscito il suo ultimo disco davvero degno di nota, "Love and theft". Qui troviamo infatti Charlotte la prostituta, Maria la madre di Gesù e la Regina delle Fate, Leonardo Di Caprio e Al Pacino, Cleopatra e John Lennon.
E' una umanità diversa, meno disperata e fallimentare, anzi qualcuno di essi è simbolo della salvezza stessa, che sia quella eterna o quella del rock'n'roll, e che non meritano questa volta di essere rinchiusi in un vicolo della desolazione. Ma allo stesso tempo, non sono degni di stare insieme ai comuni mortali: adesso siamo noi infatti, a vivere in un vicolo della desolazione. Loro ne sono fuggiti, per i loro meriti o per le loro colpe, e stanno da qualche parte in una Repubblica Invisibile dove solo i giusti possono ambire a entrare. Un Dylan spumeggiante, irresistibile, che tratteggia un mondo non sull'orlo dell'abisso, come ha fatto più o meno per tutta la sua carriera, lanciando profezie di ogni tipo (molte delle quali rivelatesi reali), ma un mondo che nell'abisso c'è già precipitato. Siamo in un'epoca indefinibile, in una città tinta di sangue scarlatto, che si chiama Duquesne (che esiste davvero ed è - non a caso - una città fantasma nelle montagne dell'Arizona): da qui questi personaggi osservano lo sfacelo del nostro mondo. Quella accennata nel disco è un'epoca che va dagli antichi primi re romani al Far West al naufragio del Titanic, ma è ovvio che ogni riferimento è del tutto attuale.
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E' una umanità diversa, meno disperata e fallimentare, anzi qualcuno di essi è simbolo della salvezza stessa, che sia quella eterna o quella del rock'n'roll, e che non meritano questa volta di essere rinchiusi in un vicolo della desolazione. Ma allo stesso tempo, non sono degni di stare insieme ai comuni mortali: adesso siamo noi infatti, a vivere in un vicolo della desolazione. Loro ne sono fuggiti, per i loro meriti o per le loro colpe, e stanno da qualche parte in una Repubblica Invisibile dove solo i giusti possono ambire a entrare. Un Dylan spumeggiante, irresistibile, che tratteggia un mondo non sull'orlo dell'abisso, come ha fatto più o meno per tutta la sua carriera, lanciando profezie di ogni tipo (molte delle quali rivelatesi reali), ma un mondo che nell'abisso c'è già precipitato. Siamo in un'epoca indefinibile, in una città tinta di sangue scarlatto, che si chiama Duquesne (che esiste davvero ed è - non a caso - una città fantasma nelle montagne dell'Arizona): da qui questi personaggi osservano lo sfacelo del nostro mondo. Quella accennata nel disco è un'epoca che va dagli antichi primi re romani al Far West al naufragio del Titanic, ma è ovvio che ogni riferimento è del tutto attuale.
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