Saturday, May 31, 2008

Catch the wind

Il posto è la periferia di Milano, anche se adesso rimessa a nuovo. Dove un tempo sorgevano acciaierie e gigantesche fabbriche, adesso c'è uno spazio per concerti. L'occasione è una "celebrazione" dei 40 anni del '68. Ovviamente Francesco De Gregori non è invitato. Mentre si esibiscono "reduci" come gli Stormy Six con ospiti Eugenio Finardi e poi anche Claudio Rocchi e non so chi altri, nei camerini assisto a un piccolo concerto privilegiato. Leggende del passato sonoqui stasera, ghosts upon the road,come direbbe uno di loro, e se ti domandi che ci azzeccano loro qui con questa celebrazione, la risposta è semplice. Sono qui per fare quello che hanno sempre fatto, e fatto benissimo: cantare le loro (bellissime) canzoni.
In uno spazietto angusto del backstage, Danny Thompson imbraccia il suo grosso basso acustico. Ehi, questo è l'uomo che ha suonato nei dischi di Nick Drake, per dirne uno. Solo questa idea fa trascendere tempo e spazio e mi aspetto di vedere l'allampanata figura di Nick varcare la soglia della porta della stanzetta dove ci troviamo. Invece arriva il piccolo uomo che fu chiamato "il rivale di Bob Dylan", che andò in India con i Beatles, che scrisse la colonna sonora della Londra psichedelica, di cui Joan Baez una volta disse: "Se devo pensare a un musicista che ha incarnato più di tutti lo spirito del Flower Power, quello è Donovan". E Donovan prende la sua chitarra tutta colorata e si mette a improvvisare.
Intanto il mio vecchio amico Eric Andersen sta firmando degli autografi. Insieme a Phil Ochs fu il più autorevole esponente del Greenwich Village non appena Bob Dylan se ne andò per volare alto nelle sue visioni anfetaminiche da like a rolling stone. Una volta Leonard Cohen disse che decise di diventare un cantautore dopo essere rimasto affascinato dalla sua Violets Of Dawn.
Prima uno e poi l'altro saliranno sul palco di questa periferia milanese bagnata dalla pioggia, e ancora una volta canteranno le loro canzoni. Senza tempo, fuori del tempo. Una chitarra acustica e poco altro. Quelle canzoni e tanto basta. Per catturare ancora una volta il vento. Catch the wind.

Wednesday, May 28, 2008

Donne

Ho un debole per le donne. A parte non essere capaci di guidare la macchina, sono in tutto migliori di noi maschietti. Si portano sulle spalle il peso del mondo da quando questo è stato creato, e ancora hanno il senso dello humour. Capisco Leopardi, che nella bellezza di Silvia vedeva un rimando a Dio. E no, non credo a boiate come “l’uguaglianza dei sessi” o “dovrebbero esserci più ministri donne”. Siamo diversi, uomini e donne, e loro sono molto meglio di noi. Solo per il fatto che ci permettono di venire al mondo.
In musica, da anni, se non ci fossero donne come Lucinda Williams, Emmylou Harris, Liz Phair, Beth Orton, Natalie Merchant, Aimee Mann, Sinéad O’Connor, Mindy Smith, Tift Merritt, Kasey Chambers, Sheryl Crow, Edie Brickell, Ani DiFranco, Rickie Lee Jones, Patti Smith, Margo Timmins, Juliana Hatfield, Victoria Williams – e potrei andare avanti a lungo – avrei smesso di ascoltare dischi.
Ne ho incontrate diverse, facendo il mio lavoro. Di Beth Orton e Sheryl Crow ho già parlato abbastanza. Adesso parlerò di tre ragazze speciali, la prima delle quali Natalie Merchant.

Non mi piaceva particolarmente il gruppo in cui militava negli anni 80, i 10,000 Maniacs, ma appena cominciata la carriera solista non potei che apprezzarla. Per la presentazione del suo primo disco solista venne a Milano, per una conferenza stampa e uno showcase. Alla conferenza stampa se ne stava seduta con le gambe incrociate e i lunghi capelli neri raccolti in una lunga treccia, sembrava la classica ragazzina americana di campagna che aveva appena sfornato una torta di mele. Al concerto per pochi invitati conquistò tutti con una energia e una carica formidabili, inclusa una lunga versione di Sympathy For The Devil degli Stones. Con un sorriso serafico stampato sul volto, si aggirava per la sala – riconosciuto solo da me- il suo nuovo manager, un certo Jon Landau.
Qualche anno dopo avevo appuntamento telefonico con lei per una intervista. Mi rispose con un sonoro sbadiglio e le voce decisamente assonnata, ma in italiano quasi perfetto. In effetti era a letto, come mi spiegò, la sera prima aveva fatto un concerto. Del tutto disinteressata a promuovere il suo nuovo disco, mi raccontò di aver studiato italiano a Firenze e per convincermi della bontà dei suoi studi si mise a cantarmi una canzone di Lucio Battisti. Non scorderò più la sua dolce voce sexy che mi sussurrava nell’orecchio. Dopo di che, quando ci mettemmo a parlare di George Harrison allora da poco scomparso, pensò bene di cantarmi anche la sua If I Needed Someone. Un concerto telefonico privato di Natalie Merchant, e poi dicono che questo sia un brutto lavoro.

Ho scoperto Aimee Mann, come quasi tutti, dopo averne sentito i brani nella colonna sonora di Magnolia. Eppure era già in giro negli anni 80 con una improbabile band da Mtv, i Till Tuesday. Affrancatasi da quell’immagine, ha cominciato a sfornare dischi uno più bello dell’altro, sorta di Elvis Costello al femminile e per di più americana. Canzoni che trattano di rapporti di coppia come faceva solo, tanti anni fa, Joni Mitchell, con la stessa apparente distaccata autorevolezza, come delle sedute psicanalitiche in cui lei stessa si esamina insieme all’ascoltatore.Entro nella saletta dove accoglie i giornalisti per le interviste, e lei è lì, seduta su un divano con le lunghissime gambe accavallate. Non è bella. È bellissima. Non è una bellezza perfetta, la sua, ma quegli occhi grandi da cerbiatto impaurito romperebbero il cuore di ghiaccio di un eschimese, e rivelano tutta la sua vulnerabilità nascosta in quel fisico da vichinga. Bionda, biondissima. Deve andare a fare shopping da Armani perché una sua canzone è stata candidata all’Oscar e deve presentarsi in mezzo alle grandi star di Hollywood fra pochi giorni, non vuole fare brutte figure.
Non vincerà, ma comunque le dico che potrebbe andare in televisione anche in jeans e scarpe da tennis che non potrebbe mai fare brutta figura. Due anni dopo, non essendo ancora mai venuta a suonare da noi, al telefono le dico che sono pronto a volare a Londra per non perdermi il suo show: “Yeah, Paolo... come to see me” mi dice sensualmente. "Paolo" così non me l'hai mai detto nessuna: per un attimo dimentico di essere sposato e soprattutto che lei è sposata con il fratello di Sean Penn. Non vorrei trovarmelo davanti, vista la fama che hanno i fratelli Penn… per fortuna un anno dopo sarebbe finalmente venuta a suonare a Milano. Concerto da favola, ovviamente, ma niente più inviti da parte sua.

Se c’è una cantante che dopo Patti Smith ha incarnato al meglio l’essenza della donna incazzata e orgogliosa, quella è Chrissie Hynde. La prima volta che la incontro, insieme ad altri due colleghi, è il trentennale di Woodstock e a lei, che quel giorno che Neil Young avrebeb cantato nella sua Ohio era una dei manifestanti della Kent University quando quattro di questi vennero uccisi, mi viene da chiedergli quale pensa sia l’eredità della generazione di Woodstock. “Un sacco di morti per droga” dice in tono sprezzante, e vaffanculo all’etica hippie. Non le manda a dire, Chrissie, non l’ha mai fatto, ma dopo ogni tagliente battuta le esce un sorrisetto dolcissimo da quella bocca altrimenti sempre indurita da una ghigno degno di Keith Richards. Evidentemente ha un cuore anche lei, penso.
Un paio di anni dopo dobbiamo incontrarci di nuovo, c’è un nuovo disco di cui parlare, e questa volta ho appuntamento da solo. Arrivo davanti alla porta della suite del grande albergo milanese dove alloggia, busso, nessuno risponde, noto che è socchiusa. Timidamente mi affaccio nella camera della piccola suite, e la prima cosa che scorgo è un letto non rifatto e un paio di scarpe rosse coi tacchi buttate alla rinfusa nel corridoio. Scena perfetta per un documentario sul “sex drugs and rock’n’roll”, penso, quando la sua manager esce dal bagno e mi comunica che Chrissie sta tornando dallo shopping, devi aver pazienza qualche minuto. E io che già mi immaginavo di venir trascinato tra le coltri di quel letto disfatto al suono della sua The Adultress.
“I love Bob Dylan, I love him rock, I love him folk, I love him gospel… I love him anything he do” mi dirà più tardi quando tocco l’argomento “Zimmerman”. Non so se al suo attuale compagno si rivolga con la stessa traboccante passionalità di quando pronuncia il nome “Bob Dylan”…
Quando ci salutiamo mi chiede di consigliarle quali pezzi dovrebbe suonare con i Pretenders nel corso di una prossima serata milanese: “I love everything you do” è l’ovvia risposta. Detto con meno sex appeal di quanto ne abbia lei, ovviamente.

Vorrei parlare anche di "Crazy Mary", la dolcissima Minnie del rock, Victoria Williams. Magari un'altra volta. Per adesso, una foto a cui tengo molto.

Sunday, May 25, 2008

Lacrime in paradiso

Uno sfracello di canzoni bellissime. Non che uno non lo sapesse già, ma è il primo pensiero che ti viene in mente dopo essere stato "assalito" per quasi tre ore dalle canzoni di Claudio Chieffo, ascoltate in questo concerto tributo di stasera, 23 maggio 2008, a Desio. E poi, senza nulla togliere agli straordinariamente bravi interpreti, Giovanni Fasani e Benedetto Chieffo, la percezione netta che una voce come quella di Claudio Chieffo, per arrampicarsi senza alcuna evidente fatica come lo abbiamo visto fare per anni su quelle arditissime melodie, era davvero di un altro mondo. Inarrivabile.
Una voce che pensavamo di aver perso, ma che abbiamo ritrovato questa sera, grazie al coraggio e alla determinazione di Benedetto Chieffo, che l'ha celebrata con consapevolezza e con lui un gruppo di musicisti semplicemente straordinari. Da Walter Muto che ha curato gli arrangiamenti e diretto la super band sul palco, a Carlo Pastori, che ha guidato la produzione di un evento che sulla carta sembrava impossibile portare a termine. Invece ce l'hanno fatta e i sorrisi che questi musicisti (impossibile citarli tutti: andate sui dischi di Chieffo, leggete un nome dei suoi accompagnatori in studio, e lo troverete là, su quel palco) si scambiavano non erano solo di complicità per quanto riuscivano a fare, ma erano di sorpresa per loro stessi: sorprendersi a suonare canzoni così belle. Ma come potremo mai dimenticarle,adesso? sembravano dirsi tra di loro.
(Martino e Benedetto Chieffo; sullo sfondo, Walter Muto. Foto di Stefania Malapelle)
Momenti di pura commozione, come quando sullo schermo dietro alla band si legge il titolo del prossimo brano, Martino e l'imperatore, e sul palco sale proprio lui, Martino Chieffo, a cui quel brano fu dedicato quando veniva al mondo, trent'anni fa circa.
E davanti un popolo, pronto a lasciarsi andare a un canto virile seppur commosso quando il pezzo lo richiede, senza che nessuno glielo dicesse loro, evidentemente educati per tanti anni a quelle canzoni da lui, "il capobanda": "Ma non avere paura", che era quello che Chieffo ci aveva sempre detto, basta affidarsi a un Altro e che paura allora possiamo avere? Oppure a rimanere in un silenzio fatto di preghiera, quando viene cantata Stella del mattino.

Uno sfracello di grandissime canzoni, una dopo l'altra. Per uno che nei lontani anni 70, come me, aveva mandato a memoria un brano come Il viaggio ascoltandolo dal disco La casa (era il 1977) sognando di vederla un giorno eseguita dal vivo così, con tutti quegli straordinari musicisti: eccoli lì, adesso, da Massimo Bernardini che percuote il suo basso allo straordinario Marcello Colò alla batteria che ci danno dentro ebbri di musica.

Will the circle be unbroken? si chiedono gli americani in una delle loro canzoni popolari più belle, e ieri il "cerchio si è ricomposto". Quando ad esempio Fabrizio Scheda, accompagnatore e arrangiatore di Chieffo per decenni, ha attaccato con forza, quasi strappando le corde della sua chitarra - come a dire: Claudio eccomi qui ancora una volta - Il popolo canta la sua liberazione; Flavio Pioppelli, intenso come sempre, oppure quel geniale pazzo incontenibile di Mark Harris a fuggire sui tasti di pianoforte ancora una volta, come ai vecchi tempi.
Perché, certo, come ai vecchi tempi a ogni inizio canzone tutti aspettavamo di vedere da un momento all'altro spuntare sul palco la sua figura, imponente, quella di Claudio Chieffo. Che comunque era lì, naturalmente, più presente che mai, a consegnarci le sue canzoni perché nessuno le dimentichi e sempre più gente le possa conoscere.

Uscendo, vedo tra la folla vedo il viso di Marta, moglie di Claudio a cui tante, tantissime delle canzoni sentite stasera sono state dedicate o ispirate. Una volta Chieffo mi disse di aver un giorno capito che "era lei la persona con cui ero destinato a passare la mia vita quando ho capito che senza di lei non arrivavo a Lui e senza di Lui non arrivavo a lei. È di questo che parlano canzoni come La ballata dell’amore vero e Come la rosa".
Le stringo con un po' di imbarazzo la mano e l'unica cosa che mi viene da dirle è "hai dei figli stupendi". Lei sorride, si schernisce e dice "Abbiamo solo cercato di fare il meglio che potevamo. Adesso stanno andando per la loro strada". Ed è bella, la strada.
Ci sono lacrime stasera a Desio, e ci sono lacrime in paradiso. Ma nessuno, né quaggiù né lassù, sta piangendo di tristezza. Tutt'altro.

Thursday, May 22, 2008

Goin' down the road (feelin' bad)


Una volta all'anno, sempre di questo periodo, devo fare il mio pit-stop. Cambiare le gomme e quant'altro. Una volta all'anno, sempre tra la fine di aprile o quella di maggio - non chiedetemi perché - mi sparo 3, 4 giorni di febbre altissima, le tonsille mi escono dalle orecchie e mediamente ho visioni da day after.
Credo che sia l'accumulo di stress a esplodere a precise cadenze annuali. Poi si riprende la strada, the road, sentendosi meglio. Se solo vivessi in una città a misura d'uomo e non in questo inferno alla Blade Runner di Milano, non avrei questi crolli. Feelin' bad...

Uno che non ha bisogno di soste alcuna, lo sappiamo, è Bob Dylan. Lui si ricarica automaticamente ogni volta che sale su di un palco, sorta di terminator del rock'n'roll. Fra qualche giorno compie 67 anni, età pensionistica già superata, e verrà presto dalle nostre parti: il 15 giugno a Trento, il 16 a Bergamo e il 18 ad Aosta. Credo che quest'anno sarà la prima volta, da quando lo vidi nel 1984, che non andrò a vederlo. Ho sentito alcuni brani da un concerto tenuto qualche sera fa: un amico scozzese ha definito la voce di Dylan "una imitazione dei mugolii di Elephant Man" e sentendo questa Tryin' to get to Heaven direi che ha ragione. Ma non solo la voce: da anni ormai, da quando è andato via l'ottimo Freddy Koella a fine 2003, si è circondato di un gruppo di musicisti incapaci di dare il benché minimo spessore alle sue canzoni: arrangiamenti sempre identici, sorta di tentativo di fare del funk-blues, che si tratti di Mr Tambourine Man o Can't Wait, nessuno spunto strumentale, insomma una noia mortale. Scalette sempre identiche, con pezzi scelti dagli ultimi due dischi più "i grandi classici": insomma Dylan goes to Las Vegas. E' dal 2004 che non mi diverto più a un suo concerto, gli ho dato chance di "resurrezione" fino ad adesso, fidandomi della sua abilità a svolte impossibili, ma ci rinuncio.
La bella notizia che riguarda Bob Dylan, piuttosto, è questa: a settembre o forse in autunno, esce il nuovo episodio della Bootleg Series. Un doppio cd che - finamente - non è dedicato solamente agli anni 60, ma contiene brani inediti registrati in studio nel periodo anni 80, 90 e Duemila. Ecco allora le agognate outtake di Time Out Of Mind compresa la versione originale di Mississippi e la favoleggiata Girl on the Red River Shore, outtake di Oh Mercy e Under the Red Sky e altro ancora. Troppa grazia.

E chiudo con uno che on the road (senza sentirsi male) ci va poco, ma forse proprio per questo invecchia con grazia. Tom Waits sarà in Europa questa estate per una manciata di concerti, tra cui tre serate a Milano il 17, 18 e 19 luglio al teatro degli Arcimboldi. Non ha mai suonato a Milano nella sua carriera e mancava dal nostro Paese dal 1999. Inutile dire che, con il ritorno di Leonard Cohen a luglio, è l'altro evento musicale dell'anno. Prezzi altini (120 e 90 euro), ma il posto li vale. In vendita da domani su ticketone.
E da domani anche io torno on the road... feelin' bad...

Sunday, May 18, 2008

L'angelo di Lione

Era il 1992 e un amico mi suggerì di comprare questo disco, Switchblades Of Love, di tale Steve Young. Il nome “mi suonava una campanella”: già, era l’autore di quella (bella) Seven Bridges Road, che appariva in apertura del disco live degli Eagles uscito nel 1980. Sul retro copertina, il nome del produttore, Steven Soles, uno degli eroi della Rolling Thunder Revue, fu abbastanza da convincermi all’acquisto. Non me ne pentii. Dall’iniziale Have A Laugh, voce dylaniana su base mariachi, fino a un brano che non avrei dimenticato mai più, scritto insieme al bravo Tom Russell. Si intitolava The Angel Of Lyon. Oltre alla struggente melodia, una storia da brivido, quella di un uomo che lascia tutto, vende ogni sua ricchezza, fa voto di povertà e parte per la città francese di Lione, sperando di ritrovare quella persona – o forse era una visione – vista su uno dei suoi ponti: “Ebbe una visione di Anna Maria con un rosario fra le mani… disse, parto per il Paradiso, a cercare l’angelo di Lione… e cantò l’Ave Maria, o almeno le parti che si ricordava… chiuse gli occhi e vide due fiumi, la Rhome e la Sonne... lo spirito maschile e femminile della città di Lione…”.

L’8 dicembre a Lione si festeggia “la Festa della Luce”, in ringraziamento alla Vergine Maria che salvò la città da una epidemia nel medio evo. Durante questo evento la popolazione mette delle candele alle finestre e si organizzano imponenti manifestazioni di luce davanti ai monumenti, ad esempio intorno alla cattedrale di St. Jean.
Giugno 1993, e sono arrivato a Lione dopo un viaggio non stop da Milano, passando sotto al Monte Bianco. Scopro che la città è attraversata da due fiumi, Rhome e la Sonne, da tanti ponti che conducono nel centro medievale e affascinante della città. Sono qui per vedere Bob Dylan, naturalmente, che il concerto che ho visto a fine giugno (giorno del mio compleanno peraltro) è stato indimenticabile, di una bellezza esagerata. Ne voglio ancora. Di fatto, questo di luglio 1993 passerà alla storia come il primo concerto di Bob Dylan annullato in trent’anni di carriera. Che culo. Bob Dylan ha il mal di schiena, problema che diventerà drammatico nel 1995, quando in diverse serate si esibisce addirittura seduto sulla piattaforma del batterista senza chitarra. Tantè, io e la moglie facciamo i turisti. Lione è davvero magica. I ponti, le luci... Incontriamo anche John Jackson e Bucky Baxter della band di Dylan che si stanno comprando un cono gelato. Si fanno due chiacchiere. Più tardi, davanti a una chiesa, incrociamo anche il batterista extraordinaire Winston Watson, anche con lui qualche simpatica battuta.
In seguito, volendo tornare in albergo, mi perderò una infinità di volte cercando di capire il ponte giusto da attraversare, perché la città vecchia è circondata dai due fiumi.
Girando in macchina, a volte mi sembra di vedere un vecchio barbone con una candela in mano alla ricerca di qualcuno. Di una visione forse. O di Anna Maria con il rosario fra le dita.


Stanotte nella cattedrale mille candele stanno bruciando, le tiene accese suor Eva Maria, a mano a mano che si van consumando, e dentro ai vicoli come in sogno trascina il passo lo straccione, il vecchio scemo fuori di testa per il suo angelo di Lione
E cantò l’Ave Maria almeno i versi che ricordava mentre fissava sui vecchi muri la propria ombra che lo seguiva e attraversò quei due sacri fiumi, il Rodano e la Sonne e l’acqua scura come il MISTERO di quell’angelo di Lione


Maggio 2008, è il mese di Maria. Nel nuovo disco di Francesco De Gregori che esce il 23 proprio di questo mese particolare, c’è una ripresa di Angel of Lyon. L’aveva tradotta il fratello, il bravo Luigi Grechi, anni fa in un suo cd. Mi ritornano in mente i ponti di Lione, quelle anime perse in giro per la città mentre si fa scuro, Bob Dylan da qualche parte, candele accese al ristorante e fuori di una chiesa. È una storia bellissima quella che il cantautore chissà come mai, ha deciso di far sua in questo nuovo lavoro.
Era una persona vera, un angelo o una visione, quella che quell’uomo vide un giorno su un ponte e per cui rinunciò a tutto? Poco importa. È il mistero che De Gregori canta. È quella visione che cerchiamo tutti, ogni giorno, distrattamente o più coscientemente. E infatti De Gregori parla di "trascendenza del mistero dell'amore": "Una canzone diversa che mi ha affascinato per il suo testo impenetrabile. La definirei una canzone sull’impenetrabilità... la trascendenza dei misteri d’amore".
Nella versione originale, Steve Young dice “i due sacri fiumi… non rivelarono mai il segreto dell’angelo di Lione”.
Anche il volto di una donna, la sua bellezza, in fondo è un rimando al mistero. La trascendenza dei misteridell'amore.
A Lione, la città delle luci e dei ponti, si può perdere la propria vita e trovare in cambio il Mistero.

Friday, May 16, 2008

"This is something I wanted to do from a long time"


Il dylaniano (inteso come fan di Bob) non avrà difficoltà a ricordare il look che suo padre aveva quando salì sul palco del Ryman Auditorium di Nashville, quasi 40 anni fa, ospite del Johnny Cash Show, per quello che fu il momento di passaggio alle atmosfere semplici della country music.
Quasi lostesso look, taglio di capelli incluso, che aveva Jakob Dylan quando ha presentato il suo primo disco solista, qualche sera fa, il bellissimo Seeing Things, in un concerto che adesso è possibile vedere a questo link
http://music.yahoo.com/promo-31904706

Divertente il momento di domande da parte di alcuni fan decisamente emozionati: "Se io sono la voce della mia generazione?" ha risposto piuttosto sconcertato a uno che gli chiedeva tale "inopportuna", ma simpatica domanda. "Certo che lo sono!" ha risposto. Jakob, per citare il film che cito sempre, "is too cool for rock'n'roll".

A chi gli ha chiesto quale sia stata la prima canzone che lo abbia colpito da ragazzo, ha risposto (ma già lo sapevo...) Lost in the Supermarket dei Clash. Nessun dubbio sui suoi ottimi gusti musicali, come nessun dubbio sulle sue straordinarie qualità di autore e interprete... la voce della sua generazione...

Thursday, May 15, 2008

Two lane blacktop

"Andiamo.
Dove?
Non lo so, l'importante è andare

(Jack Kerouac, On the road)

La strada, il viaggio, ben prima dello scrittore simbolo della Beat Generation, sono i miti americani per eccellenza. Con la differenza che una volta si viaggiava verso una meta, sfuggente e difficile da acchiappare quanto si vuole, ma un obbiettivo c'era: the promised land, la terra promessa.
Una volta che la si è raggiunti, ci si è resi conto che neanche una terra promessa basta a soddisfare il desiderio di infinito dell'uomo, e allora via, si riprende a viaggiare. Senza meta.

Decine se non centinaia di canzoni rock hanno cantato questo disagio on the road. Due su tutte, Running on Empty di Jackson Browne ("Non so dove sto correndo, sto solo correndo, correndo sul nulla, correndo alla cieca, verso il sole, sto correndo all'indietro") e Racing in the Streets di Bruce Springsteen.
Quest'ultima in particolare si ispira a un bellissimo - quanto tristissimo - film semisconosciuto, quello che dà il titolo a questo post, in italiano Strada a due corsie.
Uscito nel 1971, poco dopo il road movie per eccellenza Easy Rider, di quel film ne rovesciava la logica tutta "quanto è bello vivere on the road con il vento nei capelli" (sempre che non ti imbattevi in due rednecks dal fucile facile come successo ai due protagonisti del film, peraltro...). Two lane blacktop raccontava di chi si muove solo per riempire il proprio male di vivere, la strada come vuoto esistenziale.

Impersonato da due improbabili corridori di corse clandestine, non a caso due musicisti rock, James Taylor e Dennis Wilson dei Beach Boys, di pochissime parole, ma efficaci a rappresentare due ex hippie a cui delle utopie non era rimasto nulla, più simili a due esponenti della X Generation di vent'anni dopo con il loro cupo nichilismo, si svolge sulle strade secondarie d'America, tra paesaggi squallidi, ragazzine che si passano di mano come fossero bottiglie di coca-cola (e tanti saluti ai nuovi rapporti uomo-donna inaugurati dalla rivoluzione sessuale di quegli anni), sfide impossibili con altri come loro.
Il film finisce squallidamente come squallida è l'esistenza dei protagonisti. Restano le parole di Bruce Springsteen, scritte anni dopo, a commento:
I met her on the strip three years ago
In a Camaro with this dude from L.A.
I blew that Camaro off my back and drove that little girl away
But now there's wrinkles around my baby's eyes
And she cries herself to sleep at night
When I come home the house is dark
She sighs "Baby did you make it all right"
She sits on the porch of her daddy's house
But all her pretty dreams are torn
She stares off alone into the night
With the eyes of one who hates for just being born
For all the shut down strangers and hot rod angels
Rumbling through this promised land
Tonight my baby and me we're gonna ride to the sea
And wash these sins off our hands
Tonight tonight the highway's bright

Wednesday, May 14, 2008

Microboredom

“Sfuggi la micro-noia grazie alle mille cose che puoi fare con il tuo cellulare” (pubblicità di una compagnia telefonica americana)


Fra un po’ con i cellulari ci faremo anche la pizza, e la gente sarà sempre annoiata. Ne ho uno da circa dieci anni, il che vuol dire che ho vissuto benissimo per i precedenti 35 anni della mia vita, il mondo ha sempre girato e soprattutto non mi rompevano le palle all’ora di cena (se mi dimentico di spegnerlo).
Ma come sempre è l’uso che se ne fa, delle cose della vita. Ad esempio ai concerti, dove guai a chi non scatta una foto, filma una canzone da mettere su Youtube, telefona all’amico per fargli sentire un pezzo o gli manda sms a ripetizione.
C’è un gap generazionale, quando la gente non sa più come fare esperienza della vita senza la tecnologia a disposizione” ha detto Carrie Brownstein, del gruppo Sleater-Kinney. E ha ragione, dannatamente ragione.
Mi ricordo diversi anni fa, a un concerto degli Shivaree (quelli di quella allampanata ex fotomodella che ebbero solo un hit single, grazie a uno spot televisivo peraltro credo di un cellulare). Eravamo quattro gatti e a un certo punto uno delle prime file ha passato il suo cellulare alla cantante: lei lo ha preso tranquillamente e si è messa a fare una bella conversazione non so con chi, la zia o la nonna del simpatico spettatore.

Il Dallas Morning News ha recentemente raccolto una serie di divertenti osservazioni da parte di alcuni musicisti su questa tecnologia anti-noia. I titoletti per sezione li ho inventati io: potremmo fareuna antologia delle canzoni da telefonia.

Pictures of Lily

“È una cosa estremamente irritante, vedere tutta quella gente tenere in mano quei piccoli pezzetti orribili di luce” Roger Waters

“È come se non fossero neanche lì presenti: perché non li mettete via e ascoltate la musica?” Bill Frisell

“Mi fanno uscire di testa, i cellulari sono utili, ma c’è un prezzo da pagare” Steve Earle

“Dal punto di vista del performer, è frustrante vedere un mare di cellulari al posto delle facce. C’è un problema quando la gente è così occupata a documentare il momento al punto da dimenticarsi di vivere il momento stesso” Carrie Brownstein, del gruppo Sleater-Kinney


I’m sending an sms to the world…

“È una cosa interessante. Invece di battere le mani, si mettono a fare blogging” Michael Stipe

“I cellulari non mi infastidiscono. Un pubblico che è così entusiasta da filmare la band con il cellulare, è un pubblico che si sta emozionando con la band” Stewart Copeland

“Vedo la gente che telefona ai loro amici e dice: Indovina dove sono? A un concerto di Roger Waters!, così per fare impressione su di loro. È un modo per sentirsi importanti” Roger Waters

“Tutti questi nuovi giocattoli, la gente per un po’ si diverte a giocare con essi. Ma prima o poi capiranno quanto sono disumani” T-Bone Burnett

Ma alla fine di tutto: micro o macro noia, perché la vita non è mai abbastanza e cerchiamo stampelle "tecnologiche" in continuazione?

Tuesday, May 13, 2008

Papa was a rolling stone

Il post di qualche giorno fa su Staggerlee mi induce a riflettere sul mio conflittuale rapporto con la musica afroamericana. Per motivi culturali, noi italiani non siamo indotti ad appassioanrci alla black music, eccetto per le sue forme più conosciute e facilmente assimilabili (ad esempio l'R&B che tracima nel rock'n'roll dei Blues Brothers, qui citati anch'essi pochi giorni fa). Siamo - o sono - più facilmente attratti dalle forme bianche di musica, quell'hillbilly music che poi è diventata folk e poi country e poi pop. Si tratta di orecchiabilità, in fondo.
Anche il blues, il padre di tutta la musica moderna, è per me di difficile ascolto, specialmente quello acustico ante-guerra. Mi trovo meglio con l'electric blues di Chicago, per intenderci quello di Muddy Waters.
Eppure, per una black music oggi mortificata da tonnellate di zucchero e finte vibrazioni erotiche come quelle di una Whitney Houston, o per tonnellate di hip-hop sommerso da campionamenti elettronici, questa musica ha visto sfilare protagonisti formidabili.

Come i Temptations, uno dei tanti gruppi vocali degli anni 60, passati da formule apaprentemente semplici come questo loro primo grande successo, My Girl, un brano che racconta tutta l'innocenza e la bellezza di quel periodo storico,

al funk acido, cattivo, maledetto di Papa Was A Rolling Stone nel giro di pochi anni:


Che è quest'ultima, la storia di uno Staggerlee, trovato morto e pianto dai figli e dalla moglie. Se non avete questo brano tra i vostri cd, procuratevelo: sparatelo a tutto volume, e ne sarete terrorizzati.
I Temptations hanno vissuto la vita di Staggerlee: giovani, belli, eleganti (i loro passi di danza sono più eccitant di un assolo di chitarra), pieni di successo, sono morti tutti nelle circostanze più disgraziate: suicidio, droga, malattia. Ma hanno lasciato pagine tra le più belle della musica tutta, bianca o nera, di sempre.

Monday, May 12, 2008

Ritratto di un finto giocatore


Ovviamente che quello nella foto qua sopra è un finto giocatore lo posso dire io che sono interista; gli altri pensino a preoccuparsi di centrare l’obbiettivo Mitropa Cup. Si chiama Coppa Uefa? Vabbé, è la stessa cosa oggigiorno.
Non mi lamento del fatto che l’Inter si trovi a un solo punto di distanza dalla Roma a una giornata dalla fine. Il campionato è più bello e la Roma si merita la possibilità di vincerlo visto il buon gioco espresso, nonostante i tanti aiuti arbitrali avuti (devono vendere la società a qualche magnate americano, no? Se vincono lo scudetto, si incassa di più). Non mi lamento perché l’Inter, con tante sfortune e tanti guai ha comunque fatto un ottimo campionato e non è facile essere sempre in testa per due anni consecutivi.

Ma non è solo lui il finto giocatore. Questo - in particolare - ieri ha dato bello sfoggio di un protagonismo al limite della schizofrenia: ha voluto tirare a tutti i costi il calcio di rigore anche se non spettava a lui litigando con i suoi compagni, si è sempre fatto trovare fuori della sua posizione, finanche respingendo un tiro di un suo compagno diretto in porta con il suo sederone e così facendo fregandosene sempre delle indicazioni a cui dovrebbe ubbidire un serio professionista. Perché di seri professionisti nel mondo del calcio non ce ne sono più. Quando apri i giornali, trovi su di loro solo notizie di festini e orgie al limite della pedofilia, migliaia di euro spesi per dei trans o per la coca, presuntuosi malati di protagonismo come quello che ieri ha voluto tirare il calcio di rigore a tutti i costi.

I calciatori un tempo erano lì per far vedere ai giovani i buoni valori di amicizia, sana competizione, solidarietà, rispetto delle regole. Adesso sono dei puttanieri malati di protagonismo. Ovvio, in una società che ha decretato la morte di qualunque valore educativo, che anche il calcio sia così. Quello che mi fa star male è vedere, come ho visto qualche giorno fa, un bambinetto con su la maglia di Ronaldo. Così piccolo che forse non sa ancora leggere; immagino quando ha visto la foto del suo eroe sul giornale recentemente e ha chiesto a suo papà perché Ronnie era lì, cosa avrà riposto il genitore al figlio: “Vedi Carletto, stai indossando la maglia di uno che va a puttane e non si accorge nemmeno di aver invitato in camera tre travestiti”.Cos'è un travestito, papà?

Io intanto ieri sera ho bruciato la maglietta di Materazzi che avevo comprato l’anno scorso. Non ci vado in giro – sempre che lo scudetto lo vinciamo – con il nome di uno che non ha rispetto dei suoi compagni di squadra. Ci avrà anche fatto vincere lo scudetto dell’anno scorso, ma con quello che ha fatto ieri ha infangato quello che rimaneva del gioco del calcio.Lo dico da anni: il calcio è come il rock'n'roll. Morto.

Friday, May 09, 2008

Verità e bellezza

“Il modo con cui guardiamo il mondo è il modo in cui siamo fatti. Se lo guardiamo da un bel giardino sembra un bel mondo. Salendo più in alto vedrai devastazioni e rapine. Verità e bellezza sono negli occhi di colui che guarda”
(Bob Dylan)

“Qual è la differenza tra un truth teller, una persona che racconta la verità, e un grande cantautore? La differenza proviene dallo scrivere a proposito della sofferenza. Invece di scappare di fronte al dolore, una persona che racconta la verità ci corre dentro. Da qualche parte lungo la mia strada ho capito che la parte più intima di me era anche la parte più universale. Ho capito che è compito dell’artista rivelare l’umana esperienza. Ci deve essere un modo di rivelare la verità e usarla come uno specchio in cui la gente possa riconoscersi”
(Mary Gauthier)

"L’occhio guarda, per questo è fondamentale.
È l’unico che può accorgersi della bellezza
La bellezza può passare per le più strane vie
anche quelle non codificate dal senso comune
E dunque la bellezza si vede
perché è viva e quindi reale
Diciamo meglio che può capitare di vederla
Dipende da dove si svela
Il problema è avere occhi e non saper vedere,
non guardare le cose che accadono,
nemmeno l’ordito minimo della realtà.
Occhi chiusi.
Occhi che non vedono più.
Che non sono più curiosi.
Che non si aspettano che accada più niente.
Forse perché non credono che la bellezza esista.
Ma sul deserto delle nostre strade Lei passa,
rompendo il finito limite
e riempiendo i nostri occhi di infinito desiderio”
(Pier Paolo Pasolini)

Thursday, May 08, 2008

What good am I

100.000 morti. Riesci ad andare a dormire tranquillo, la sera? Ci sono più di 100.000 morti in Birmania. Oltre un milione di persone senza casa. Riesci ad accendere la televisione e guardarti sorridendo X Factor?
Una nazione è stata spazzata via. Il governo indiano aveva avvertito quello birmano del ciclone che stava arrivando, ma se ne sono fregati, perché il popolo non importa quando l’ideologia ottenebra le menti. E adesso stanno anche bloccando gli aiuti internazionali alle frontiere. Perché per loro il popolo, la gente, sono solo delle figurine da usare per la propria visione in cui la vita umana è da gettare, se serve ai loro scopi, nel ciclone. Adesso faranno il loro referendum, mentre ci sono 100.000 morti nelle paludi.

100.000 morti in poche ore. Ma riesci ad andare a dormire tranquillo la sera, pensando a questa ecatombe? Hai visto qualcuno per strada protestare per questo popolo, mentre intanto sono tutti lì a bruciare le bandiere di Israele? No, non ho visto nessuno.

Che buona persona sono, se so e non agisco, se vedo e non parlo, se chiudo le orecchie al cielo pieno di tuoni, che buono sono, se dico cose sciocche e rido in faccia a ciò che il dolore porta, e volgo le spalle mentre tu muori silenziosamente? Che buona persona sono?

What good am I if I'm like all the rest,
If I just turned away, when I see how you're dressed,
If I shut myself off so I can't hear you cry,
What good am I?

What good am I if I know and don't do,
If I see and don't say, if I look right through you,
If I turn a deaf ear to the thunderin' sky,
What good am I?

What good am I while you softly weep
And I hear in my head what you say in your sleep,
And I freeze in the moment like the rest who don't try,
What good am I?

What good am I then to others and me
If I've had every chance and yet still fail to see

If my hands tied must I not wonder within
Who tied them and why and where must I have been

What good am I if I say foolish things
And I laugh in the face of what sorrow brings
And I just turn my back while you silently die,
What good am I?

(Bob Dylan)

Wednesday, May 07, 2008

Soul Man

“Jerry Garcia e i Grateful Dead attaccarono una versione di Can’t Turn You Loose così veloce che era impossibile stargli dietro… Non ho idea di che montagna di coca si fossero fatti prima di salire sul palco… Ma fu una serata leggendaria”.
In un elegante ristorante di una (viceversa) delle zone più malfamate di Milano (avete presente lo squallido alberghetto della periferia di Chicago dove dormono Jake ed Elwood, i Blues Brothers, nell’omonimo film? Quello la cui finestra dà su una linea ferroviaria in cui i treni passano ogni secondo? Ecco, ieri sera lì accanto c’era anche la linea ferroviaria) quello che mi racconta queste cose è una autentica leggenda della musica nera americana, Mr. Lou “Blue” Marini. Stiamo parlando di quel concerto di fine anni 70 in cui i Blues Brothers suonarono un incredibile set prima dei Grateful Dead: che ci azzeccava un gruppo di musicisti R&B tutti vestiti di nero con gli ex re della scena tutta colorata degli hippie? Sulla carta niente, ma nella musica, quella vera, di queste cose ne accadono. È allora che scocca la magia.

Lou Marini è a Milano per produrre un disco di alcuni amici, che sarà, già ve lo annuncio, una autentica bomba.
Ma Lou Marini non è solo Blues Brothers ovviamente. È sulle scene dalla fine degli anni 60, ha suonato con leggende come i Blood, Sweat & Tears, Frank Zappa, Steely Dan e tanti altri. Adesso sta per andare in tour con James Taylor. Parla come farebbe un protagonista di un film di Martin Scorsese, magari proprio Mean Streets. Come fanno solo gli italo-americani di New York: ha sempre una storiella da tirare fuori, condita con esagerazioni che se le raccontassi io non riderebbe nessuno. Ma immaginate di essere a cena con un Danny De Vito, allora sì che la descrizione che Lou fa dell’incontro con una mamma italiana fuori del Grand Hotel di Rimini che spinge una carrozzina su tacchi altissimi e una minigonna di lunghezza pari allo zero, vi farà rotolare sotto al tavolo.

Lo lascio ancora al tavolo, tra un piatto di pasta e uno di insalata: 63 anni che compierà fra poco ma ne dimostra, per l’entusiasmo e anche la forma fisica, la metà. Sweet soul music ti allunga la vita. E mi viene in mente che non gli ho chiesto della sua partecipazione a uno dei dischi che amo di più, un disco di un grande amico, Night Visions di Elliott Murphy. Era il 1976. Ne parleremo un’altra volta, Mr Lou “Blue” Marini…

Sunday, May 04, 2008

That mean ol' man, Stagolee

St. Louis, Mississippi, la sera del giorno di Natale 1895. Due uomini di colore, William Lyons di 25 anni, e Lee Sheldon, due vecchi amici, sono al saloon di Bill Curtis, tra la Eleventh and Morgan Streets. Bevono e discutono appassionatamente. Quando la discussione finisce sulla politica, i toni si scaldano e Lyons dà una manata all'elegante cappello che l'altro indossa. Che non è uno qualunque: è un magnaccia, un "pimp", uno sfruttatore, ma che ha il vizietto di vestirsi in modo incredibilmente elegante. Sheldon gli dice di raccattare immediatamente il cappello. L'altro lo manda a quel paese. A quel punto, Lee Sheldon estrare la sua pistola e gli spara nell'addome, ferendolo mortalmente. Lyons morirà poco dopo. Quell'uomo cattivo, "that mean ol' man Stagolee", si rimette noncurante il suo cappello e si allontana.

E' l'inizio di una leggenda che diventa immediatamente canzone, con il titolo variante di Stagolee, Stack-a-lee, Stag O Lee, Staggerlee, la prima incisione delle quali viene raccolta nel 1910 da Alan Lomax, e la cui versione più accurata è quella fatta da Mississippi John Hurt. Per anni si era persa memoria del fatto accaduto la sera del 25 dicembre 1895 a St. Louis, si pensava solo una storia frutto della fantasia dei bluesmen. Ma poco importa, leggenda o realtà, perché quel che più importa è il significato stesso della canzone, il primo ritratto del bullo di colore, quello che si è fatto una carriera nella malavita locale e che, nel modo di vestire stesso, ambisce a raggiungere lo status di eleganza e di ricchezza dell'odiato uomo bianco. Non è difficile vedere, nella reazione sproporzionata rispetto al fatto accaduto e nel volere la restituzione del cappello, status symbol di Sheldon, la stessa violenza dei rapper dei giorni nostri che invece del cappello ostentano vistose collane d'oro. Greil Marcus, nel suo Mystery Train, ne ha fatto il ritratto fondamentale nella identificazione di Stagolee con i neri di fine anni 60, primi 70, quelli che dalle giuste rivendicazioni per i diritti civili passano alla lotta armata o diventano i "magnaccia" senza pietà di cento film d'epoca.

Lo "stagolee" era l'uomo di colore alto, quello che non passava inosservato, e Lyons si beccò subito quel soprannome. Le versioni del brano saranno innumerevoli, da Woody Guthrie a Bob Dylan fino a Lloyd Price che nel 1959 ne registra una versione "addomesticata" e arriva al primo posto delle classifiche.
Ma più interessante è scoprire dove, nel corso dei decenni, Stagolee sia andato a nascondersi e a riemergere, sorta di demonio implacabile, in canzoni che ne hanno celato la vera identità lasciandola trapelare in modo subdolo. Addirittura in un disco di Elton John, Blue Moves del 1976, la canzone Shoulder Holster cambia i soggetti, ma non l'azione: una donna è in cerca del suo fidanzato che l'ha tradita, per ucciderlo: "It was just like Frankie and Johnny, it was like Stagger Lee".
Nel 1979, nell'imprenscindibile London Calling dei Clash, Stagolee spunta fuori nella ripresa di Wrong 'em Boyo, vecchia canzone dei giamaicani Rulers: adesso Stagger Lee è l'eroe e Billy il colpevole, l'assassino diventa uno sfruttato in cerca d giustizia personale. Nel 2004, i Black Keys hanno cantato di lui in Stack Shot Billy nel loro disco Rubber Factory.

Ma naturalmente la versione definitiva del brano l'ha fatta Nick Cave, l'unico che può prendere il demonio sottobraccio e condurlo su di un palcoscenico: è su Murder Ballads, ovviamente, e il linguaggio volgare non tragga in inganno, non si vuole scandalizzare nessuno. Staggarlee siamo tutti noi, piuttosto, prima o poi. Ma attenzione: il diavolo esiste davvero. Ogni volta che Nick Cave la esegue dal vivo, giuro di aver visto la sua ombra danzare oscenamente sul muro.

Saturday, May 03, 2008

Mr Tambourine Bruce

Presentato come "l'incredibile Roger McGuinn", qualche sera fa, nella città dove risiede da anni, Orlando, Florida, l'ex leader e fondatore dei Byrds - "negli anni 60 l'unico gruppo americano di cui essere orgogliosi" come diceva Tom Petty - è salito sul palco della E Street Band. Nel corso del tour americano 2008, in quasi ogni città dove si trova a suonare, Springsteen ha preso la bella abitudine di invitare qualche gloria locale. Sono particolarmente contento, ad esempio, del duetto a Houston con il formidabile Alejandro Escovedo, uno che non ha mai raccolto abbastanza rispetto ai bellissimi dischi incisi.

Roger McGuinn, ovviamente, è più di una gloria locale, è una gloria mondiale. "Quando avevo 15 anni" dirà Bruce ad Orlando "comprai il primo disco dei Byrds e lo ascoltai circa 200 volte consecutive nei giorni seguenti". Feci così anch'io quando avevo 14 anni e comprai (solo perché vidi che c'erano diverse canzoni a firma Bob Dylan, non sapevo manco chi fossero) quel disco. Non me ne sono mai stancato e a quello ho aggiunto via via tutti i dischi dei Byrds (e quelli di Roger McGuinn, peraltro, e quelli meravigliosi di Gene Clark, e quelli di David Crosby e anche un paio di Chris Hillman). Sono stati certamente il più grande gruppo americano di tutti i tempi, e non solo nella fase iniziale, ma anche quando, andati via uno dopo l'altro, rimase solo McGuinn con musicisti occasionali, che poi rispondevano sempre a nomi di grandissima classe, ad esempio Gram Parsons.

Hanno attraversato tutto quello che c'era da attraversare, dalla psichedelia affrontata ben prima dei Beatles, all'invenzione del country-rock, il tutto con quel magico suono jingle jangle che ancora oggi si sente in giro, ad esempio nell'ultimo dei REM.
Eccoli, in tutta la loro gloria giovanile, a dar vita a una avventura senza paragoni, a bordo di una magica nave roteante.
byrds

Sangue nei solchi del cuore

“Bob Dylan è in città, c’è bisogno di catturare qualcosa di magico”. La “città” è ovviamente New York, al telefono John Hammond, il più gran...

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