Monday, September 30, 2013

Una città chiamata Giubileo

“Quando mi drogavo diventavo un mostro”: così ha detto di se stesso in una recente intervista Elton John, vittima soprattutto della cocaina per oltre vent’anni. Un mostro, ma anche un pessimo autore di canzoni: quello che era stato uno dei più brillanti musicisti della sua epoca, dall’esordio nel 1969 più o meno fino all’uscita del disco “Blue Moves” nel 1976 (in mezzo capolavori della storia della musica moderna come il disco con il suo nome del 1970, “Tumbleweed Connection”, “Madman across the water”, “Goodbye Yellow Brick Road”, “Captain Fantastic” e altri ancora) finì perso in una dozzinale e plastificata musichetta da Mtv. E’ interessante notare che a fronte delle vendite plurimilionarie in tutto il mondo del suo primo periodo, in Italia Elton John è conosciuto maggiormente per il suo periodo peggiore, quello degli anni 80 e 90, il che forse suggerisce una cosa o due sui gusti di massa del pubblico italiano.



Ma tornando a Sir Reginald, essere riuscito a disintossicarsi e a frequentare gli ambienti giusti, quelli ad esempio di musicisti giovani come Ryan Adams che lo hanno spinto a ripensare al suo periodo d’oro, piuttosto che stilisti di moda e principesse – anche quelle morte – lo ha riportato magicamente a fare nuovamente ottima musica. Certo, non paragonabile a quella della prima metà degli anni 70, ma il disco “Songs from the West Coast” del 2001 fu uno sbalorditivo ritorno alla forma con una collezione di canzoni di invidiabile classe.


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Friday, September 27, 2013

Pillole di saggezza (e non c'è niente da capire)

Pensieri del giorno.

1. C'è una cosa che in tutto questo ambaradan penoso nessuno dice. La legge Severino potrebbe essere anti costituzionale? Se è vero, ma quanto è grave un fatto come questo? Come possono dei ministri dello Stato ideare, confezionare e approvare una legge che non è costituzionale? E come possono dei parlamentari dello Stato votare una legge non costituzionale? E' di una gravità inconcepibile, di una cialtroneria ultra terrena. E soprattutto: quante leggi in Italia esistono che sono anti costituzionali e che vengono applicate giornalmente senza problema solo perché non interessano Silvio Berlusconi? Ma cosa è l'Italia? Cosa sono gli italiani? Non c'è niente da capire.


2. Processo di appello, caso Melania Rea. Parla il marito, unico sospettato di averla uccisa: "Tradivo mia moglie, ma l'amavo". Una dichiarazione che è molto più politica di quanto si possa pensare nella sua contraddizione in termini, non una barzelletta perché c'è di mezzo il massacro e la morte di una donna e che solleva la stessa domanda: ma cosa è l'Italia? Cosa sono gli italiani? Non c'è niente da capire.

Thursday, September 26, 2013

Stranded

Ogni tanto torno a sfogliarlo. E’ uno dei più bei libri in assoluto sulla musica rock e probabilmente per questo non è mai stato tradotto in italiano. A leggerlo si capisce perché e si capisce cosa vuol dire scrivere di musica per un anglo-americano e per un italiano. C’è un abisso in mezzo e forse se questo libro fosse stato tradotto ai tempi avrebbe permesso di far nascere una generazione di scrittori rock anche in Italia. “Stranded: rock and roll for a desert island” uscì la prima volta nel 1978, poi è stato ristampato innumerevoli volte e tutt’oggi conserva la freschezza di un approccio che non è nozionismo, intellettualismo, piacioneria fini a se stessi. Qua è la vita quella che conta, e come l’ascolto di un disco possa far emergere la nostra vita e il desiderio del nostro cuore tutto intero.
Affidato a vari autori, ognuno alle prese con il suo disco da isola deserta, basta leggere il primo di questi racconti per capire quale sia l’abisso che ci separa. Nick Tosches, che per colpa di una editor un po’ troppo femminista, una Laura Boldrini dei suoi tempi insomma, rischiò di rimanere fuori del libro, non dice nemmeno quale sia il suo disco da isola deserta. Lo fa intuire: “gli Stones hanno sempre fatto capolino da dietro le mie spalle”, ma non lo dice chiaramente se non nelle ultimissime righe. Piuttosto parla delle paranoie di fine anni sessanta, di droga e di disoccupazione. Di vita. Connessa al rock’n’roll ovviamente. Ecco, probabilmente l’abisso fra noi italiani e loro è che la musica rock per problemi culturali non è mai appartenuta alle nostre vite ma è sempre stata solo una sorta di colonna sonora di sottofondo di cui citare le b side e le edizioni rare, magari.
In Stranded c’è poi naturalmente la più grande e straordinaria recensione mai scritta di un singolo disco, quella che Lester Bangs fece di Astral Weeks di Van Morrison. E non ci sono i classici del rock, non ci sono i migliori dischi in senso assoluto, cosa che sarebbe impensabile non includere in un libro italiano sullo stesso tema. Ci sono i dischi che hanno avuto a che fare con la vita degli autori, i quali, altro particolare importante, nel corso degli anni hanno smesso tutti di scrivere di musica rock a tempo pieno.



Comunque seppur mai tradotto in Italia, il concetto di disco da isola deserta è stato saccheggiato anche da noi. Un concetto ovviamente impossibile, ma mi sono divertito a pensare quale potrebbe essere il mio vero disco da isola deserta, seguendo le categorie di chi scrisse questo libro. E mi sono stupito a vedere che non è un disco di Bob Dylan. E’ CSN II, il secondo disco di Crosby, Stills e Nash (manco Young c’è), uscito nel 1977. I motivi sono tanti, non sono ovviamente solo musicali anche se qui la gran parte delle canzoni sono bellissime. Ha piuttosto a che fare con l’incredibile tasso di narratività e realismo contenuto in questo disco, di cui tempo fa avevo già cercato di parlare. Con il mischiarsi di tre personalità diverse con storie diverse che si alternano a narrare un momento cruciale della loro vita, la raggiunta maturità, il vuoto interiore per il crollo di utopie e ideologie, la paura di cosa sarà il domani, l’assoluta sincerità e onestà nel narrare la comune condizione umana. Il che lo rende un disco che non smetteresti mai di ascoltare, come un film rivisto un milione di volte. Sì, in un’isola deserta ci starebbe bene.

Sunday, September 22, 2013

Il tempo. In una bottiglia

Di lui, musicalmente, ne parlerà in modo più approfondito e appropriato l’amico David Nieri in un articolo che uscirà a breve su ilsussidiario.net. A me va solo di ricordare le emozioni, l’unica cosa che mi riesce bene (a volte, non sempre). Jim Croce è nome dimenticato, mai menzionato ne circoli e nelle enciclopedie che contano, o canzonato quando lo si fa. Di lui, che morì il 20 settembre di quarant’anni fa in un incidente aereo degno di quello di Buddy Holly – forse è per questo che dicono che la grande musica rock sia finita nel 1973 – ci si può solo domandare cosa avrebbe fatto, musicalmente, in questi quarant’anni in cui non c’è stato. Stava appena cominciando ad assaporare il successo: la sua formula di country, pop, R&B aveva fatto girare la testa anche a Frank Sinatra – non certo l’ultimo pirla – che ne aveva incisa la sua Babd Bad Leroy Brown.

Ma io ricordo solo che erano passati tre, forse tre e mezzo, anni dalla sua morte, quando sentii per la prima volta alla radio I've Got a Name (che bello averla risentita recentemente nella colona sonora di Django Unchained di Tarantino, uno che di musica se ne intende) grazie a quel santo uomo del vigile di Lavagna che alla sera faceva il dj in non ricordo più quale radio, quel vigile musicofilo che ci diede il nostro battesimo e la nostra educazione musicale. Sentire I've Got a Name alla radio nel buio della tua cameretta era come volare altissimo in spazi siderali stratosferici dove il blu buca il blu. Quella voce, un po’ burina un po’ romantica, così calda. Jim Croce.



Con Jim Croce fu un autentico rapporto radiofonico, come nella miglior tradizione della miglior musica. I’ll Have to say I Love You che sbuca improvvisamente dalla preziosa radio in legno di papà, una radio così Seventies, mentre stai passandole accanto e ti devi fermare, bloccare immediatamente per non perderne una nota di quella malinconia copiosa che ne esce fuori. Si può essere così tristi mentre si è innamorati? Sì, e molto di più. Jim Croce lo sapeva.




C’era poi Alabama Rain e c’era quella ragazzina che veniva di corsa da Sestri Levante a Chiavari per andare a scuola. Amava lo sport e correva, correva sempre. I lunghi, lunghissimi capelli, il viso da indiana: come non innamorarsene? Quel pomeriggio sotto la pioggia a salire dentro l’ospedale in costruzione di Sestri, da soli, girando fra le scale di cemento, a indovinare il profumo di quei lunghi capelli. E fu così che una volta, un pomeriggio di sole, venne correndo a casa mia, senza avvertire, come la più meravigliosa delle sorprese. E mentre lei se ne stava in piedi sorridendo davanti alla finestra che dava sul cielo e sul mare blu, e io me ne stavo muto nella mia timidezza, la radio pensava a dare le parole, facendo fuoriuscire Alabama Rain di Jim Croce. Lei sparì, probabilmente correndo, e non ne ho mai più saputo niente. Chissà se corre ancora tra Sestri e Chiavari lungo il mare. Io, che non le ho saputo dire quanto fossi innamorato di lei, ascolterò un’altra volta Alabama Rain. E anche tutte le altre canzoni di Jim.



Che la terra ti sia lieve, grande italiano d’America, l’unico dei folksinger di casa nostra e di Brooklyn. Morto in quel cielo blu che ci hai fatto toccare con mano.

Thursday, September 12, 2013

Se anche Silvio Berlusconi ha un'anima

Estate 1976. Le immagini alla televisione mostrano l'ex presidente Richard Nixon entrare in un ospedale dove la moglie è stata da poco ricoverata per un infarto. E' un uomo piuttosto devastato quello che le telecamere riprendono, non ha più niente del fiero detentore del potere del paese più potente al mondo. Lo scandalo Watergate, che ne distrusse carriera e immagine, lo aveva già conciato male. Neil Young, che è in tour e si trova nella camera di un motel insieme al figlio Zeke, sta guardando quelle immagini alla televisione. Poi prende la chitarra, scrive una canzone e quella sera la esegue in concerto. "Credo di essermi sentito triste quel giorno per Richard Nixon" dirà.

La canzone è Campaigner(in un primo momento in modo molto appropriato era stata intitolata "Requiem for a President"), una delle più belle composizioni di Neil Young, pubblicata solo sul disco antologico Decade nel 1977. Il modo in cui è registrata è geniale: la musica arriva da lontano, il volume è basso e aumenta sempre di più; al termine della canzone la musica sfuma abbassandosi sempre di più. Dà l'immagine di qualcuno che arriva, racconta la sua triste storia e poi altrettanto tristemente se ne va. Young, acerrimo nemico di Richard Nixon, combattuto fieramente con brani di accusa spietata come Ohio, sente compassione per il suo vecchio nemico, ormai cacciato dal potere e colpito dalla vita: "se anche Richard Nixon ha un'anima".



L'immagine dei potenti sul viale del tramonto, anche se combattuti politicamente, è infatti qualcosa di estremamente triste. Tolto loro il potere, a questi uomini non rimane più nulla Le analogie di quel Richard Nixon con Silvio Berlusconi sono evidenti. La lotta per il potere che il leader del Pdl sta combattendo in questi giorni è una lotta per la vita: senza potere non sarò più nessuno, sembra dire. Difficile trovare compassione per lui, ma certo la disperazione che certe sue immagini ultimamente hanno trasmesso colpiscono, così come le frasi e il comportamento di alcuni dei suoi figli: dentro la solitudine di Arcore si combatte per rimanere in vita. Peccato che la vita vera è un'altra cosa, la vita non è il potere.



Nessuno in Italia scriverà mai una canzone come Campaigner per Silvio Berlusconi: l'odio politico che si respira in Italia non ha paragoni all'estero e non è una bella cosa, qualunque cosa si possa pensare del Cavaliere.

Dicono che nei suoi ultimi anni Nixon, prendendo parte ad alcune interviste televisive, fosse quasi arrivato sul punto di chiedere pubblicamente scusa all'America. Chissà se Silvio Berlusconi farà mai altrettanto.

Hospitals have made him cry
But there’s always a freeway in his eye
Though his beach got too crowded for a stroll.
Roads stretch out like healthy veins
And wild gift horse strain the reins
Where even Richard Nixon has got soul.

Friday, September 06, 2013

Alla fine ne resterà uno solo

Non dovrei scrivere di certe cose lo so, ma non resisto. Sarà che il mio blog si è classificato terzo tra i dieci migliori, ma adesso mi sento libero di dire tutto quello che mi passa per la testa. O anche no. E' che siamo tutti così imbruttiti.

Si è suicidato, moglie e due figli, il super manager perché non ce la faceva più a sopportare i ritmi di lavoro chiesti dall'amministratore dell'azienda (una delle banche più importanti al mondo). Certo un super manager trova facilmente alternative di lavoro, di soldi ne ha già messi via abbastanza, ma può essere che uno ami il suo lavoro, desideri continuare a farlo e non ce la faccia più a tenere quei ritmi, no?
Ricordo una ventina di anni fa quando a una conferenza sentii parlare un italiano che lavorava in Inghilterra, non un super manager. Raccontava che i ritmi di lavoro imposti stavano diventando così oberanti che ormai quasi nessuno riusciva a mettere su famiglia: 12, 14 ore al giorno e chi ha tempo per moglie e figli? Oggi è così anche in Italia, con la differenza che quasi sempre a certi orari di lavoro corrispondono stipendi miserabili.


L'uomo, oggi, è puro strumento da sfruttare, quasi fossimo tornati di colpo alla classe operaia dell'800, quando si lavorava 14 ore al giorno sette ore su sette. Certo, oggi te lo vendono a colpi di sogni fascinosi: ambiente figo, lavoro cool, esperienze trendy. Ma intanto la vita va a puttane e la gente si ammazza. Perché solo e sempre di sfruttamento si tratta, che sia nel mondo occidentale e post capitalista che sia il terzo mondo. Siamo circondati, e questa volta è vero.

Dicono poi che per far ripartire le economie bisogna aumentare i consumi, ho sentito dozzine di esperti di economia e anche sindacalisti dirlo. Ma consumi di che? Ma è così difficile capire che sia ovvio e giusto che l'industria automobilistica stia fallendo? Quando giravano un po' di soldi ci hanno fatto credere che se non cambi la macchina una volta all'anno sei un povero coglione. Invece la macchina dovrebbe durare tutta la vita, almeno fino a quando non si rompe: da delinquenti produrne sempre nuovi e inutili modelli.
Aumentare i consumi? E' solo un cane che si morde la coda: il consumo oggi è solo fuffa, oggettivistica del tutto inutile, grazie alla buon anima di Steve Jobs che ha sdoganato l'inutilità come bene di consumo. Aumentare i consumi di iphone, ipad,schermi televisivi e minchiate assortite. Questo consumo del superfluo uccide l'uomo e sputtana le economie, creando una falsa economia che quando va in crisi manda in merda tutto il resto, veri consumi inclusi. L'altro giorno ho letto una notizia straordinaria, i dati dei consumi in Italia negli ultimi mesi: crollano gli alimentari, resistono e crescono due cose soltanto, il Viagra e gli Smartphone. Verrebbe da ridere se non ci fosse da piangere: Viagra e Smartphone? Ma che cazzo di mondo è diventato?
Datemi due paia di scarpe all'anno, del cibo per la mia famiglia, qualche paiao di jeans, una giacca e un po' di mutante. I miei consumi sono questi, il resto è ladrocinio del cuore e della mente.

"C'era sempre un vecchino che mi portava o le frittelle, o il vino, o le salsicce" mi raccontava una amica. Che normalmente lavora come lavoriamo tutti, ma riesce a ritagliarsi spazi speciali. Un paio di mesi all'anno, quando riesce a farsi prendere, lavora al frantoio poco lontano da casa: "A parte che pagano abbastanza bene (io lavorando due/tre giorni alla settimana ho guadagnato quasi 1000 euro), ma poi guarda lavori con le mani, sei a contatto coi vecchini, lavori anche la notte, ti mangi pane e olio e stai in campagna, una meraviglia". Ecco. Questa è la bellezza che ci hanno tolto, la vita vera, il cuore e l'anima. Questo mondo è fallito, è marcio, puzza di cadavere.
Sia pace all'anima di chi si ammazza perché non regge più i ritmi del superfluo e del ladrocinio che oggi il mondo del lavoro impone. Datemi un frantoio e vi salverò l'economia.

Tuesday, September 03, 2013

Sai cos'è l'isola di Wight?

"Arrivai all'isola di Wight insieme ai Beatles. Insieme assistemmo al concerto, poi dopo andammo nei camerini a incontrare Bob (Dylan). Era contento, soddisfatto del concerto che aveva appena fatto. I Beatles avevano portato gli acetati di Abbey Road che sarebbe uscito dopo poco. Ci mettemmo ad ascoltarlo, bevemmo qualcosa. L'atmosfera era rilassata e gioiosa". Così racconta Tom Paxton, folksinger del Greenwich Village, vecchio amico di Dylan, del concerto all'isola di Wight del 31 agosto 1969, pubblicato pochi giorni fa all'interno della versione deluxe del nuovo Bootleg Series, il volume 10, che raccoglie bani inediti o versioni differenti di quelli pubblicati nei dischi usciti nel 1970, "Selfportrait" e "New Morning". Una descrizione certamente diversa da quella che fecero i media dell'epoca, che giudicarono complessivamente poco efficace o anche scadente quella esibizione, la prima di Bob Dylan dal maggio 1966, e che sarebbe rimasta anche l'ultima (a parte un paio di apparizioni estemporanee, al concerto per il Bangladesh e a quello di capodanno di The Band) fino al gennaio 1974.



L'aspettativa d'altro canto per quella esibizione era enorme: Dylan era stato invitato un paio di settimane prima a esibirsi al festival di Woodstck, che si era tenuto proprio in quella location perché Dylan ci abitava, a sottolineare quanto il pubblico rock volesse un ritorno sulle scene delmusicista che aveva cambiato la storia della musica, ma lui aveva rifiutato.





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Sangue nei solchi del cuore

“Bob Dylan è in città, c’è bisogno di catturare qualcosa di magico”. La “città” è ovviamente New York, al telefono John Hammond, il più gran...

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