"Se fossi diventato famoso come Springsteen sarei sicuramente morto, ma se Springsteen non fosse diventato famoso sarebbe morto lui"
Quarant'anni fa circa un ragazzo del New Jersey esordiva nel bel mondo del rock'n'roll. Erano anni quelli, i primi settanta, dove la mancanza di un disco significativo da parte di Bob Dylan, la cui ombra continuava a proiettarsi su tutta la musica rock nonostante fossero emerse dozzine di nuove talentuose star, si faceva sentire in modo lancinante. Di fatto Bob Dylan era dai tempi di "Blonde on Blonde", 1966, che non faceva un disco degno del suo nome, a parte "John Wesley Harding", e anche quello era uscito nei primi giorni del gennaio 1968. Troppo.
Quando questo ragazzo del New Jersey, dai lunghi capelli biondi e il viso angelico pubblicò il suo esordio (era il 1973) intitolato "Aquashow" ci furono lodi sperticate da parte della stampa che contava: eccolo, abbiamo trovato il nuovo Dylan che tanto ci mancava. L'allora famoso critico di Rolling Stone, Paul Nelson, recensendo questo disco, lo etichettava come "the Best Dylan since 1968". Quell'etichetta fu una maledizione, più che una benedizione.
In realtà Elliott Murphy, questo il nome di quel ragazzo, aveva una cifra artistica tutta sua, che ancora oggi si fa fatica a identificare. La presenza in quel disco di un brano intitolato Like a Great Gatsby (che nell'edizione americana, per evitare problemi di copyright fu intitolata Like a Crystal Microphone) avrebbe dovuto fornire qualche indizio. Elliott Murphy infatti era - ed è - uno dei più letterati autori rock di sempre, che riusciva nell'ambiziosa operazione di far suonare F. S. Fitzgerald come una rock star.
Quarant'anni dopo, quel ragazzo oggi 65enne, ha deciso di riprendere in mano quel disco per "decostruirlo". Lo ha infatti reinciso dandogli sfumature e profondità inedite, in una operazione che non è per nulla nostalgica, ma ricca di emozione e significati come lo era quarant'anni fa. Il risultato, "Aquashow Deconstructed" pubblicato dalla coraggiosa etichetta italiana Route 66 e che sarà in vendita il prossimo 9 marzo, è straordinariamente affascinante. Abbiamo parlato con Elliott Murphy per indagare quel mistero ancora aperto di quarant'anni fa e il suo significato attuale.
Il tuo disco "Aquashow" venne pubblicato in un anno particolare, il 1973, che per molti segna anche la fine dell'epoca d'oro della musica rock. Critici musicali come Lester Bangs dicevano infatti già allora che questa musica era stata uccisa dall'industria, che aveva perso la sua innocenza.
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Tuesday, March 03, 2015
Monday, June 16, 2014
Siamo tutti ammutinati
Quando nel 1998 David Gray pubblica il disco "White Ladder" non pensa certo che due anni dopo diventerà un best seller a livello mondiale. Lui infatti lo pubblica in modo indipendente, convinto che seguirà la sorte dei due precedenti dischi che ha già inciso, cioè lo compereranno solo in pochi. Il disco invece finisce nelle mani del cantante e leader della Dave Matthews Band che nel 2000 lo fa ripubblicare per una etichetta con distribuzione mondiale.
Poco dopo succederà anche a un collega irlandese, tale Damien Rice, che pubblicato sommessamente un disco intitolato "O", nel giro di pochi mesi lo vedrà frantumare ogni classifica di vendita. Che sta succedendo? Niente, succede quel che è giusto succeda. Ciclicamente e per motivi misteriosi, il grande pubblico scopre e riscopre la bellezza senza fine della canzone d'autore.
David Gray e Damien Rice sono solo gli ultimi affidatarii di una torcia che non smetterà mai di bruciare fino a quando un uomo sulla terra saprà cantare. "Ancora oggi ci sono in giro un sacco di bravissimi cantautori, ma è difficile per loro farsi notare. Il mainstream è molto ostile nei loro confronti. La musica è diventata una forma di stupidità conclamata e cercare di darle un significato oggigiorno non è cosa facile. Faccio parte di una tradizione molto ricca, quella dei cantautori, ma non puoi stare fermo sui tuoi allori, c'è una sfida dietro ogni angolo, devi stare sempre con la guardia molto alta" dice David Gray in questa intervista che presenta il suo nuovo disco, "Mutineers".
clicca su questo link per leggere l'intervista
Poco dopo succederà anche a un collega irlandese, tale Damien Rice, che pubblicato sommessamente un disco intitolato "O", nel giro di pochi mesi lo vedrà frantumare ogni classifica di vendita. Che sta succedendo? Niente, succede quel che è giusto succeda. Ciclicamente e per motivi misteriosi, il grande pubblico scopre e riscopre la bellezza senza fine della canzone d'autore.
David Gray e Damien Rice sono solo gli ultimi affidatarii di una torcia che non smetterà mai di bruciare fino a quando un uomo sulla terra saprà cantare. "Ancora oggi ci sono in giro un sacco di bravissimi cantautori, ma è difficile per loro farsi notare. Il mainstream è molto ostile nei loro confronti. La musica è diventata una forma di stupidità conclamata e cercare di darle un significato oggigiorno non è cosa facile. Faccio parte di una tradizione molto ricca, quella dei cantautori, ma non puoi stare fermo sui tuoi allori, c'è una sfida dietro ogni angolo, devi stare sempre con la guardia molto alta" dice David Gray in questa intervista che presenta il suo nuovo disco, "Mutineers".
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Monday, March 24, 2014
She is with the band
Un giorno di metà anni settanta, salì su un aereo e da Londra, dov'era nata, andò fino a Los Angeles. Aveva vent'anni, Sylvie Simmons, e in quel modo incosciente realizzò il suo sogno più grande, vivere la sua vita dentro alla musica. Oggi vive a San Francisco ed è una delle più quotate scrittrici rock del mondo, una delle pochissime donne ad aver fatto breccia in un ambiente fortemente maschilista, quello del giornalismo musicale. Il suo ultimo libro, la biografia di Leonard Cohen, "I'm Your Man" (pubblicato anche in Italia da Caissa Italia Editore), è un best-seller mondiale tradotto in oltre dieci lingue. Dopo aver collaborato con le maggiori riviste musicali degli anni 70 e 80, come Cream e Sound, scrive oggi sin dal primo numero per quella che è la miglior rivista musicale del mondo, Mojo, per la quale ha realizzato dozzine di interviste straordinarie, come quei cinque giorni passati insieme a Johnny Cash a casa sua pochi mesi prima che questi morisse.Con lei abbiamo parlato di "quel piccolo sciocco pezzo di musica che si ama così tanto da stare male".
Nel film di Cameron Crowe, "Almost Famous/Quasi famosi" c'è una frase detta da una delle protagoniste a un musicista: "Non riuscite a capire cosa significhi amare così tanto un piccolo, sciocco pezzo di musica o una band, da starci male": E' davvero possibile stare male per una canzone?
Assolutamente, credo profondamente che la musica possa suscitare una passione così forte come l'amore per un uomo, una donna, un bambino, un animale. Sin da quando ero una bambina, ero ossessionata con la musica in tutte le sue forme, ho sempre desiderato una vita nella musica, ma non ero sicura di come poter fare. Deve essere un percorso che segui per conto tuo, la mia passione per la musica batte ogni altro tipo di passione.
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Nel film di Cameron Crowe, "Almost Famous/Quasi famosi" c'è una frase detta da una delle protagoniste a un musicista: "Non riuscite a capire cosa significhi amare così tanto un piccolo, sciocco pezzo di musica o una band, da starci male": E' davvero possibile stare male per una canzone?
Assolutamente, credo profondamente che la musica possa suscitare una passione così forte come l'amore per un uomo, una donna, un bambino, un animale. Sin da quando ero una bambina, ero ossessionata con la musica in tutte le sue forme, ho sempre desiderato una vita nella musica, ma non ero sicura di come poter fare. Deve essere un percorso che segui per conto tuo, la mia passione per la musica batte ogni altro tipo di passione.
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Wednesday, October 09, 2013
La guerra nei nostri cuori
Non capita spesso di intervistare una band che ha appena pubblicato il suo nuovo disco e nel frattempo si è sciolta. Al sottoscritto non era mai successo, almeno. E' quello che invece è successo ai Civil Wars, un nome che visto come sono andate le cose, è tutto un programma, come si suol dire. Una guerra civile, una guerra interna che ha portato alla disintegrazione di una delle più interessanti realtà del neo-folk americano, fenomeno che in questi ultimi anni grazie al successo mondiale di gruppi come Mumford and Sons, Fleet Foxes o Avett Brothers ha riportato alla ribalta la grande tradizione musicale americana e anglo sassone. Anche i Civil Wars, benché ancora sconosciuti in Italia, hanno goduto di questo successo con il loro disco di esordio, "Barton Hollow", premiato con ben due Grammy come miglior disco folk e miglior disco country. L'omonima pubblicazione che esce in questi giorni avrebbe dunque dovuto essere la consacrazione del duo, composto dalla bella e brava Joy Willliams e da John Paul White, seconda voce e straordinario chitarrista acustico. Magari avrà successo comunque, sta di fatto che a disco non ancora uscito i due hanno annunciato pubblicamente un momento di stasi e di ritiro dalle scene: non ci saranno concerti a promuovere l'uscita e nessuno sa se i due torneranno insieme.
Una storia tormentata, che ricorda frizioni interne tra membri dello stesso gruppo, ad esempio quella dei Fleetwood Mac che in mezzo a dissapori e storie d'amore andate male producevano il loro capolavoro "Rumours".
CLICCA SU QUESTO LINK PER LEGGERE L'INTERVISTA A JOY WILLIAMS DEI CIVIL WARS
Una storia tormentata, che ricorda frizioni interne tra membri dello stesso gruppo, ad esempio quella dei Fleetwood Mac che in mezzo a dissapori e storie d'amore andate male producevano il loro capolavoro "Rumours".
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Friday, January 25, 2013
Tutti hanno un cuore
Dove batte oggi il "cuore" di Antonello Venditti? Per un artista che ha fatto di questa parola un grande uso, quasi il centro della sua poetica, è difficile dare una risposta: "Sinceramente non lo so" dice durante una conversazione con ilsussidiario.net. "Il mondo oggi è sempre più frammentato, la delusione e l'illusione sono dietro l'angolo, soprattutto per la mia generazione che ha vissuto e ancora per certi versi vive certi grandi ideali. Io ad esempio a questi ideali non rinuncio, ma bisognerebbe essere capaci di seminarli di nuovo, nelle giovani generazioni".
Antonello Venditti sta per arrivare a Milano, dove si esibirà per due concerti esclusivi nella bella cornice del Teatro Arcimboldi i prossimi 29 e 31 gennaio, due dei tanti concerti cominciati al momento dell'uscita del suo ultimo disco, "Unica", e che proseguono senza sosta, segno di un passione per la musica live che ha pochi paragoni fra gli artisti della sua generazione. "Il cuore di tutti noi" dice ancora "risente di questa sottile angoscia che si è insinuata in tutti: bisognerebbe ricominciare tutto da capo, averne il coraggio".
CLICCA SU QUESTO LINK PER LEGGERE L'INTERVISTA AD ANTONELLO VENDITTI
Antonello Venditti sta per arrivare a Milano, dove si esibirà per due concerti esclusivi nella bella cornice del Teatro Arcimboldi i prossimi 29 e 31 gennaio, due dei tanti concerti cominciati al momento dell'uscita del suo ultimo disco, "Unica", e che proseguono senza sosta, segno di un passione per la musica live che ha pochi paragoni fra gli artisti della sua generazione. "Il cuore di tutti noi" dice ancora "risente di questa sottile angoscia che si è insinuata in tutti: bisognerebbe ricominciare tutto da capo, averne il coraggio".
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Friday, January 18, 2013
Marabel
C'è il cuore, e c'è la croce. Ma non c'è la sconfitta. Da sempre Massimo Bubola attraversa la canzone italiana come una sorta di profondo pensatore, quasi un profeta dell'Antico testamento che scandaglia la condizione dell'uomo, inevitabilmente alle prese con una battaglia quotidiana tra la propria miseria e la cattiveria del mondo senza mai rinunciare a questa battaglia, forte della consapevolezza che la redenzione e la speranza sono possibili.
Attivo discograficamente fin dalla metà degli anni settanta, accolto artisticamente da Fabrizio De André che poco più che ventenne lo chiamò a comporre insieme a lui due tra i dischi più belli dello scomparso cantautore genovese, "Rimini" e "L'indiano", Bubola porta dentro di sé le radici forti del suo popolo, quello veneto, alle prese con le contraddizioni dell'epoca moderna, un'epoca che ha fatto di tutto per togliere dall'uomo il suo cuore.
Lo fa ancora in modo straordinariamente riuscito nel nuovo disco che sarà nei negozi a fine mese, dal titolo esemplificativo: "In alto i cuori". Come si fa a tenere in alto il proprio povero cuore tra l'aridità di un'epoca che celebra la falsità della televisione come modello di vita, che ammazza i bambini per strada, che affossa le famiglie sotto il peso delle tasse? Tutte cose che nel disco vengono raccontate in musica (Hanno sparato a un angelo, dedicata alla bambina cinese uccisa in braccio al proprio padre per le strade di Roma esattamente un anno fa), con un amalgama di sonorità rock come solo Bubola sa fare in Italia.
CLICCA SU QUESTO LINK PER LEGGERE L'INTERVISTA A MASSIMO BUBOLA
Attivo discograficamente fin dalla metà degli anni settanta, accolto artisticamente da Fabrizio De André che poco più che ventenne lo chiamò a comporre insieme a lui due tra i dischi più belli dello scomparso cantautore genovese, "Rimini" e "L'indiano", Bubola porta dentro di sé le radici forti del suo popolo, quello veneto, alle prese con le contraddizioni dell'epoca moderna, un'epoca che ha fatto di tutto per togliere dall'uomo il suo cuore.
Lo fa ancora in modo straordinariamente riuscito nel nuovo disco che sarà nei negozi a fine mese, dal titolo esemplificativo: "In alto i cuori". Come si fa a tenere in alto il proprio povero cuore tra l'aridità di un'epoca che celebra la falsità della televisione come modello di vita, che ammazza i bambini per strada, che affossa le famiglie sotto il peso delle tasse? Tutte cose che nel disco vengono raccontate in musica (Hanno sparato a un angelo, dedicata alla bambina cinese uccisa in braccio al proprio padre per le strade di Roma esattamente un anno fa), con un amalgama di sonorità rock come solo Bubola sa fare in Italia.
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Thursday, October 18, 2012
Angeli & fantasmi
A volte torna con un suo disco. Discreto, gentile, senza quei modi un po' presuntuosi che talvolta caratterizzano altri esponenti della musica italiana che spesso si considerano il centro del mondo. Eppure Luigi Grechi di ragioni per considerarsi tale ne avrebbe tante. Adesso che è tornato a usare anche il suo cognome paterno, De Gregori - già, perché lui è il fratello più grande di un certo Francesco De Gregori - che per tutta la sua carriera aveva nascosto in cambio di quello materno, proprio per quel suo carattere gentile che non ha mai voluto favoritismi o scorciatoie, Luigi sembra voler reclamare qualcosa di suo. Fa bene: è stato lui ad aprire la strada della canzone d'autore a una generazione di pargoli che senza di lui forse avrebbero faticato di più a trovare il successo. Stiamo parlando di suo fratello, di Antonello Venditti e tanti altri, che lui, un po' più grande di loro come anni, ha tenuto a battesimo ed educato musicalmente.
Ha fatto loro conoscere i grandi della canzone d'autore americana a cui poi si sono ispirati, ha insegnato a stare su di un palco. Oggi Luigi pubblica uno dei suoi lavori discografici migliori, in una carriera rada di titoli, ma non di grandi canzoni, basti pensare a quella Il bandito e il campione che suo fratello ha portato in classifica. "Angeli e fantasmi" recupera brani già incisi e ne regala di nuovi, sempre su quella strada intensa di narrarorie di storie e di autore elegante, tra il folk nordamericano e la tradizione popolare italiana. Ad accompagnarlo musicisti di classe quali Paolo Giovenchi e Stefano Parenti, Francesco Bellani, Fiore Benigni, Leonardo Petrucci, Andrea Tarquini alla chitarra, Alessandro Valle a dobro e pedal-steel e Franz Mayer al contrabbasso ad arco. Un disco da ascoltare a lungo, come un bel libro che non si finsice mai di sfogliare.
CLICCA SU QUESTO LINK PER LEGGERE L'INTERVISTA A LUIGI GRECHI DE GREGORI
Ha fatto loro conoscere i grandi della canzone d'autore americana a cui poi si sono ispirati, ha insegnato a stare su di un palco. Oggi Luigi pubblica uno dei suoi lavori discografici migliori, in una carriera rada di titoli, ma non di grandi canzoni, basti pensare a quella Il bandito e il campione che suo fratello ha portato in classifica. "Angeli e fantasmi" recupera brani già incisi e ne regala di nuovi, sempre su quella strada intensa di narrarorie di storie e di autore elegante, tra il folk nordamericano e la tradizione popolare italiana. Ad accompagnarlo musicisti di classe quali Paolo Giovenchi e Stefano Parenti, Francesco Bellani, Fiore Benigni, Leonardo Petrucci, Andrea Tarquini alla chitarra, Alessandro Valle a dobro e pedal-steel e Franz Mayer al contrabbasso ad arco. Un disco da ascoltare a lungo, come un bel libro che non si finsice mai di sfogliare.
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Thursday, October 11, 2012
Sedici modi di dire felicità
Non è negli eventi che si forma la condivisione. La condivisione si definisce nella pratica quotidiana, non è invece con l'emergenza che si risolve qualcosa". In un momento storico in cui gli eventi dedicati a situazioni di emergenza invece si moltiplicano, colpisce una frase così. Ma Niccolò Fabi è uno che sa stupire. La testimonianza di positività e speranza con cui ha reagito alla tragedia che lo ha colpito (la morte della figlioletta di 22 mesi) è un esempio. Il giorno dopo una acclamata presentazione del suo nuovo disco, "Ecco", alla Fnac di Milano ci ritroviamo a discutere di condivisione, ispirati da una frase che a entrambi piace molto, quella che il protagonista del film "Into the Wild" lascia come epitaffio davanti alla sua morte: "La felicità è reale solo se condivisa".
Il protagonista di quella tragica storia, Christopher McCandles, realmente esistito, se ne accorge quando è troppo tardi, dopo anni passati a fuggire da tutti e da tutto. Per Niccolò la condivisione è qualcosa che supera gli eventi, ma anche le situazioni contingenti: "Certo, la famiglia è il primo luogo dove si sperimenta questa condivisione, ma può anche diventare un luogo utilitaristico dove ci si chiude e ci si estranea" dice. "Invece io penso a qualcosa che travalichi e diventi sociale, nel senso di mettere al corrente gli altri delle tue idee e della tua vita, dare la possibilità di avvicinarsi a te, e quindi non essere protezionistici nei propri confronti". Niccolò Fabi è di nuovo tornato alla sua attività, la musica. Ha appena pubblicato un gran bel disco "Ecco" e lo sta presentando in giro per l'Italia. A Milano c'erano centinaia di persone così tante che la sala della Fnac di via Torino non riusciva a contenere, segno di un pubblico sempre più numeroso e affettuoso nei suoi confronti.
CLICCA SU QUESTO LINK PER LEGGERE L'INTERVISTA A NICCOLO' FABI
Il protagonista di quella tragica storia, Christopher McCandles, realmente esistito, se ne accorge quando è troppo tardi, dopo anni passati a fuggire da tutti e da tutto. Per Niccolò la condivisione è qualcosa che supera gli eventi, ma anche le situazioni contingenti: "Certo, la famiglia è il primo luogo dove si sperimenta questa condivisione, ma può anche diventare un luogo utilitaristico dove ci si chiude e ci si estranea" dice. "Invece io penso a qualcosa che travalichi e diventi sociale, nel senso di mettere al corrente gli altri delle tue idee e della tua vita, dare la possibilità di avvicinarsi a te, e quindi non essere protezionistici nei propri confronti". Niccolò Fabi è di nuovo tornato alla sua attività, la musica. Ha appena pubblicato un gran bel disco "Ecco" e lo sta presentando in giro per l'Italia. A Milano c'erano centinaia di persone così tante che la sala della Fnac di via Torino non riusciva a contenere, segno di un pubblico sempre più numeroso e affettuoso nei suoi confronti.
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Monday, September 10, 2012
Quella sera, a casa di Miles Davis

Guardarsi allo specchio alla mattina, per Harvey Brooks, deve essere un po' come guardare allo specchio la storia del rock. Non è da tutti aver infatti suonato con gente del calibro di Bob Dylan, Jim Morrison, Miles Davis, Stephen Stills, Mike Bloomfield, Jimi Hendrix, Richie Havens e tanti altri. E non in un momento qualunque, ma quando questi personaggi erano all'apice della loro creatività e popolarità: con Dylan ad esempio ha registrato forse il suo disco più importante di sempre, "Highway 61 Revisted", con Miles Davis ha preso parte al suo capolavoro "Britches Brew". Ma la storia dei suoi incontri musicali Harvey Brooks, oggi felicemente residente in Israele, lontano dallo stress di un music business che comunque non è più quello dei tempi gloriosi che lui contribuì a creare, la racconta lui stesso nel corso di questa intervista esclusiva con Ilsussidiario.net.
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Tuesday, February 07, 2012
Glory days (chiuso per noia, schifo e disgusto)
All’anima fa bene un po’ di nostalgia, l’amore è come un ladro ch’è stato derubato. Non te ne sei accorto e adesso che ci siamo, tu già te ne vai via è forse per questo che non ho ancora imparato a dirti: tu per me sei importante anche se non ci sei. Ecco perché ho ancora un sentimento dentro che non mi fa morire, ma neanche vivere
(Teatro degli Orrori, Nostalgia)
Ci ho messo quasi tre anni per riprenderne in mano uno. Erano sempre stati lì, davanti ai miei occhi, ma solo il pensiero mi dava disgusto e fastidio. Adesso che sono riusciti a sfogliarli di nuovo, scopro che le pagine si stanno rapidamente ingiallendo. Come un cadavere va in decomposizione, anche tutta la fatica che c'era dietro ogni singolo numero di quella rivista se ne va a farsi fottere. Rido e sorrido a rileggere qualche articolo, scopro che Glen Hansard venen alla Casa 139 e non solo non ci andai, ma mandai a intervistarlo qualcun altro. Quante cose mi perdevo ed è proprio il colmo visto che vivevo solo di musica. Poi leggo certe cose che scrivevo e mi domando se ero davvero io a scriverle o un altro che si era impossessato di me. Caerte cose erano davvero straordinariamente belle, non tutte, ma alcune sì. Oggi non saprei e non potrei scriverle più. E mi domando: a che cazzo è servito scriverle? Non sono diventato ricco, non riesco manco quasi a pagare il mutuo. Una faccia da pirla mi diceva sempre, magari non potrai fare le vacanze in Messico (come se le faceva lui) ma sempre meglio che dover timbrare il cartellino in banca. Genio. Non ho cambiato il mondo. Non ho neanche cambiato il quartiere, come diceva invece Rick Danko. Non ho insegnato a nessuno a scrivere di musica a giudicare da quello che si legge intorno. Mi hanno buttato per la strada con un calcio nel culo. A nessuno è fregato un cazzo tanto ci sarebbe sempre stato un altro a prendere il mio posto. Penso che butterò via tutte quelle riviste, la vita ha già buttato via me. Leggo David Foster Wallace e mi rendo conto che a 24 anni scriveva cose che a cinquant'anni non sono ancora riuscito a immaginare. Tutto è vanità.
- Non ti ricordi di me?
- No, il tuo nome e la tua faccia non mi dicono niente.
- Eppure mi avevi baciato, una volta, forse due.
- Ma sono passati più di trent'anni come si fa a ricordarsi.
- Non lo so, io non dimentico nulla, soprattutto un bacio. In quei tre secondi mi hai fatto sentire voluto bene. Come si fa a dimenticare qualcuno a cui si è voluto bene?
- Ci sono un sacco di cose belle a cui dedicarsi, nella vita. Accontentati.
- Non posso, non ci riesco.
- Alla fine sarai felice come tuti gli altri. Solo, sarai l'ultimo a saperlo.
- Siamo impegnati in un gioco in cui non possiamo vincere. Alcuni fallimenti sono migliori di altri. Questo è tutto. Addio.
- Addio. Mi mancherai.
- Non è vero. Nessuno manca a nessuno, in realtà. E' solo un problema di abitudini.
I miei dischi sono come piccoli crocefissi di plastica. Risplendono nel buio, alcuni di più, altri di meno, certi sono macchiati di sangue. Ognuno ha una sua storia da raccontare, la mia storia. Forse per quello ci giro attorno ed evito accuratamente di prenderli in mano. Poi succede che per un motivo li devi andare a toccare. Te ne finisce in mano uno e c'è dentro un mondo. E poi, cazzo, che bello che è. Come ho fatto per quas dieci anni a non riascoltarlo più. E' uno di quei cd che sanguinano. Smile, when you're down and out. Sorridi quando sei giù e a terra. Non sono mai riuscito a sorridere neanche quando sono allegro, figuriamoci quando sono giù. Ma questa musica è così straordinariamente bella, consolatoria e purificatrice. I primi tre pezzi in sequenza ne fanno un classico di ogni tempo: Smile; I'm Gonna Make You Love Me; What led Me To This Town. Il disco perfetto. Sangue nei solchi, sangue dalla plastica di un cazzo di cd. Ricordo quella mattina piena di sole che entrai nella saletta dad aspettare che arrivassero loro, i Jaywhaks. Entrarono come figure mitologiche, come un ritorno al futuro. Erano diventati una grande, grandissima pop band come non se ne trovavano più in giro. Mi ero dimenticato di averli incontrati, di persona. Uomini d'America, big stars cadute per sbaglio a Milano. Negli uffici della Piera. Che ne sapete voi di chi era la Piera. In quegli uffici passai del tempo anche con Michelle Shocked, i suoi occhi profondi e segnati di dolore. Mi ero dimenticato anche di questo. Ormai il cervello si disfa pezzetto per pezzetto. O semplicemente quello era un altro, io è un altro. Ecco il sangue. Tornati dalle ferie un giorno, letto che la Piera era morta. "Vites vaffanculo vieni qui a fare l'intervista" e quando la Piera chiamava non avevi il coraggio di dirle di no, gentile come era sempre con tutti e ciascuno. Nel suo armadio, come uno scrigno dei tesori, tutti pescavano cd e musica gratis, da lei ce n'era sempre. Adesso anche i Jayhawks sono spariti come la Piera. E Michelle Shocked. Le porte si chiudono dietro di loro e quello che ero io. Baby, baby, baby.
I made shoes for everyone even you while I still go barefoot
(Teatro degli Orrori, Nostalgia)
Ci ho messo quasi tre anni per riprenderne in mano uno. Erano sempre stati lì, davanti ai miei occhi, ma solo il pensiero mi dava disgusto e fastidio. Adesso che sono riusciti a sfogliarli di nuovo, scopro che le pagine si stanno rapidamente ingiallendo. Come un cadavere va in decomposizione, anche tutta la fatica che c'era dietro ogni singolo numero di quella rivista se ne va a farsi fottere. Rido e sorrido a rileggere qualche articolo, scopro che Glen Hansard venen alla Casa 139 e non solo non ci andai, ma mandai a intervistarlo qualcun altro. Quante cose mi perdevo ed è proprio il colmo visto che vivevo solo di musica. Poi leggo certe cose che scrivevo e mi domando se ero davvero io a scriverle o un altro che si era impossessato di me. Caerte cose erano davvero straordinariamente belle, non tutte, ma alcune sì. Oggi non saprei e non potrei scriverle più. E mi domando: a che cazzo è servito scriverle? Non sono diventato ricco, non riesco manco quasi a pagare il mutuo. Una faccia da pirla mi diceva sempre, magari non potrai fare le vacanze in Messico (come se le faceva lui) ma sempre meglio che dover timbrare il cartellino in banca. Genio. Non ho cambiato il mondo. Non ho neanche cambiato il quartiere, come diceva invece Rick Danko. Non ho insegnato a nessuno a scrivere di musica a giudicare da quello che si legge intorno. Mi hanno buttato per la strada con un calcio nel culo. A nessuno è fregato un cazzo tanto ci sarebbe sempre stato un altro a prendere il mio posto. Penso che butterò via tutte quelle riviste, la vita ha già buttato via me. Leggo David Foster Wallace e mi rendo conto che a 24 anni scriveva cose che a cinquant'anni non sono ancora riuscito a immaginare. Tutto è vanità.
- Non ti ricordi di me?
- No, il tuo nome e la tua faccia non mi dicono niente.
- Eppure mi avevi baciato, una volta, forse due.
- Ma sono passati più di trent'anni come si fa a ricordarsi.
- Non lo so, io non dimentico nulla, soprattutto un bacio. In quei tre secondi mi hai fatto sentire voluto bene. Come si fa a dimenticare qualcuno a cui si è voluto bene?
- Ci sono un sacco di cose belle a cui dedicarsi, nella vita. Accontentati.
- Non posso, non ci riesco.
- Alla fine sarai felice come tuti gli altri. Solo, sarai l'ultimo a saperlo.
- Siamo impegnati in un gioco in cui non possiamo vincere. Alcuni fallimenti sono migliori di altri. Questo è tutto. Addio.
- Addio. Mi mancherai.
- Non è vero. Nessuno manca a nessuno, in realtà. E' solo un problema di abitudini.
I miei dischi sono come piccoli crocefissi di plastica. Risplendono nel buio, alcuni di più, altri di meno, certi sono macchiati di sangue. Ognuno ha una sua storia da raccontare, la mia storia. Forse per quello ci giro attorno ed evito accuratamente di prenderli in mano. Poi succede che per un motivo li devi andare a toccare. Te ne finisce in mano uno e c'è dentro un mondo. E poi, cazzo, che bello che è. Come ho fatto per quas dieci anni a non riascoltarlo più. E' uno di quei cd che sanguinano. Smile, when you're down and out. Sorridi quando sei giù e a terra. Non sono mai riuscito a sorridere neanche quando sono allegro, figuriamoci quando sono giù. Ma questa musica è così straordinariamente bella, consolatoria e purificatrice. I primi tre pezzi in sequenza ne fanno un classico di ogni tempo: Smile; I'm Gonna Make You Love Me; What led Me To This Town. Il disco perfetto. Sangue nei solchi, sangue dalla plastica di un cazzo di cd. Ricordo quella mattina piena di sole che entrai nella saletta dad aspettare che arrivassero loro, i Jaywhaks. Entrarono come figure mitologiche, come un ritorno al futuro. Erano diventati una grande, grandissima pop band come non se ne trovavano più in giro. Mi ero dimenticato di averli incontrati, di persona. Uomini d'America, big stars cadute per sbaglio a Milano. Negli uffici della Piera. Che ne sapete voi di chi era la Piera. In quegli uffici passai del tempo anche con Michelle Shocked, i suoi occhi profondi e segnati di dolore. Mi ero dimenticato anche di questo. Ormai il cervello si disfa pezzetto per pezzetto. O semplicemente quello era un altro, io è un altro. Ecco il sangue. Tornati dalle ferie un giorno, letto che la Piera era morta. "Vites vaffanculo vieni qui a fare l'intervista" e quando la Piera chiamava non avevi il coraggio di dirle di no, gentile come era sempre con tutti e ciascuno. Nel suo armadio, come uno scrigno dei tesori, tutti pescavano cd e musica gratis, da lei ce n'era sempre. Adesso anche i Jayhawks sono spariti come la Piera. E Michelle Shocked. Le porte si chiudono dietro di loro e quello che ero io. Baby, baby, baby.
I made shoes for everyone even you while I still go barefoot
Friday, January 27, 2012
Alta fedeltà
Heaven is whenever we can get together
Sit down on your floor and listen to your records
Heaven is whenever we can get together
Lock your bedroom door and listen to your records
(Craig Finn-Hold Steady)
Sembra abbia appena timbrato il cartellino e sia uscito dall'ufficio postale dove fa l'impiegato. Potrebbe essere un nerd che più nerd non si può: grassottello, un po' stempiato, occhialoni da vista. Invece fa il musicista rock. Non è proprio una star, anzi è l'antitesi della rock star. È Craig Finn, leader e cantante degli Hold Steady, una voce che assomiglia in modo impressionante a quella del giovane Bruce Springsteen e una serie di canzoni formidabili.
Poco popolari dalle nostre parti (come sempre, d'altro canto, quando rock fa rima con qualità), in America e nel Regno Unito gli Hold Steady sono tra i gruppi recenti più amati, complice lo splendido ultimo disco della band, "Heaven is Whenever", che ha fatto innalzare ulteriormente le loro quotazioni, e una fama da live act grintoso e pulsante (anche ascoltarli dal vivo è una possibilità che in Italia ci viene negata).
A tutto questo vanno ad aggiungersi adesso le canzoni del suo primo disco solista ("Clear Heart Full Eyes"), un disco che conferma quanto di buono si sia detto su questo personaggio. Craig Finn potrebbe uscire da un libro di Nick Hornby, ad esempio "Alta fedeltà": come i protagonisti di quel bellissimo romanzo, il cantante americano è un fan della musica rock e la sua vita ne è segnata.
“La musica rock è parte di ciò che siamo” ha detto in una conversazione con IlSussidiario.net. “Sono un grandissimo fan della musica rock, è qualcosa che mi definisce come persona. Quando pensi al modo in cui la musica e le parole si intersecano fra di loro, non è solo una questione di parole e musica. Le due cose insieme possono creare qualcosa di così eccitante e di intenso per l'ascoltatore e fargli provare ciò che il rock'n'roll dovrebbe sempre: essere liberi, selvaggi, intelligenti, ispirati. Ecco cosa penso che una canzone rock debba essere e credo che sia sempre stata”.
CLICCA SU QUESTO LINK PER LEGGERE L'INTERVISTA A CRAIG FINN
Sit down on your floor and listen to your records
Heaven is whenever we can get together
Lock your bedroom door and listen to your records
(Craig Finn-Hold Steady)
Sembra abbia appena timbrato il cartellino e sia uscito dall'ufficio postale dove fa l'impiegato. Potrebbe essere un nerd che più nerd non si può: grassottello, un po' stempiato, occhialoni da vista. Invece fa il musicista rock. Non è proprio una star, anzi è l'antitesi della rock star. È Craig Finn, leader e cantante degli Hold Steady, una voce che assomiglia in modo impressionante a quella del giovane Bruce Springsteen e una serie di canzoni formidabili.
Poco popolari dalle nostre parti (come sempre, d'altro canto, quando rock fa rima con qualità), in America e nel Regno Unito gli Hold Steady sono tra i gruppi recenti più amati, complice lo splendido ultimo disco della band, "Heaven is Whenever", che ha fatto innalzare ulteriormente le loro quotazioni, e una fama da live act grintoso e pulsante (anche ascoltarli dal vivo è una possibilità che in Italia ci viene negata).
A tutto questo vanno ad aggiungersi adesso le canzoni del suo primo disco solista ("Clear Heart Full Eyes"), un disco che conferma quanto di buono si sia detto su questo personaggio. Craig Finn potrebbe uscire da un libro di Nick Hornby, ad esempio "Alta fedeltà": come i protagonisti di quel bellissimo romanzo, il cantante americano è un fan della musica rock e la sua vita ne è segnata.
“La musica rock è parte di ciò che siamo” ha detto in una conversazione con IlSussidiario.net. “Sono un grandissimo fan della musica rock, è qualcosa che mi definisce come persona. Quando pensi al modo in cui la musica e le parole si intersecano fra di loro, non è solo una questione di parole e musica. Le due cose insieme possono creare qualcosa di così eccitante e di intenso per l'ascoltatore e fargli provare ciò che il rock'n'roll dovrebbe sempre: essere liberi, selvaggi, intelligenti, ispirati. Ecco cosa penso che una canzone rock debba essere e credo che sia sempre stata”.
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Monday, January 23, 2012
Tallest girls on earth
We only sing sad songs
(First Aid Kit)
La location dell'incontro non potrebbe essere più azzeccata, nel nome e nell'architettura. "Vinile", un nuovo locale in zona Porta Venezia, a Milano. Solo il nome provoca sussulti in quanti sono cresciuti a dosi massicce di padelloni neri con i solchi, secoli prima che la musica diventasse "liquida". Anche ciò che si scorge dalle vetrine provoca sussulti: autentici dischi in vinile, giradischi mai più rivisti da decenni di tutte le fogge. Varcare la soglia è come varcare la porta di un'altra dimensione, avvalorata dalle persone che il cronista deve incontrare.
Alte ragazze svedesi incontrano Micro, straordinario boss della Spin-Go, l'etichetta che le distribuisce in Italia
In realtà, le persone in questione sono giovanissime, 18 e 21 anni rispettivamente, ma dal look (capelli lunghi hippy style, camiciole colorate, stivali cowboy style) si adattano perfettamente nell'ambientazione: invece di Milano, anno 2012, potrebbe essere Haight-Ashbury, San Francisco, anno 1967. Lo sottolineano loro stesse, Johanna e Klara, due ragazze svedesi che come ogni ragazza svedese superano il metro e 70 abbondante, quanto il locale sia adatto alla musica che fanno e alla musica che piace loro. Sono le sorelle Soderberg giunte fino a qui per presentare il loro secondo disco, ma in effetti il primo vero e proprio prodotto ufficiale, realizzato da una autentica casa discografica, "The Lion's Roar" (pubblicato in Italia da Spin-go).
CLICCA SU QUESTO LINK PER CONTINUARE A LEGGERE L'ARTICOLO E L'INTERVISTA
(First Aid Kit)
La location dell'incontro non potrebbe essere più azzeccata, nel nome e nell'architettura. "Vinile", un nuovo locale in zona Porta Venezia, a Milano. Solo il nome provoca sussulti in quanti sono cresciuti a dosi massicce di padelloni neri con i solchi, secoli prima che la musica diventasse "liquida". Anche ciò che si scorge dalle vetrine provoca sussulti: autentici dischi in vinile, giradischi mai più rivisti da decenni di tutte le fogge. Varcare la soglia è come varcare la porta di un'altra dimensione, avvalorata dalle persone che il cronista deve incontrare.

In realtà, le persone in questione sono giovanissime, 18 e 21 anni rispettivamente, ma dal look (capelli lunghi hippy style, camiciole colorate, stivali cowboy style) si adattano perfettamente nell'ambientazione: invece di Milano, anno 2012, potrebbe essere Haight-Ashbury, San Francisco, anno 1967. Lo sottolineano loro stesse, Johanna e Klara, due ragazze svedesi che come ogni ragazza svedese superano il metro e 70 abbondante, quanto il locale sia adatto alla musica che fanno e alla musica che piace loro. Sono le sorelle Soderberg giunte fino a qui per presentare il loro secondo disco, ma in effetti il primo vero e proprio prodotto ufficiale, realizzato da una autentica casa discografica, "The Lion's Roar" (pubblicato in Italia da Spin-go).
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Saturday, June 05, 2010
I shall be released

"Your article could, quite literally save a life". Il tuo articolo potrebbe letteralmente salvare una vita. Uhm. Già. Quella che mi ha appena scritto queste parole via e-mail non è la solita rock star a cui sono avezzo da un ventennio a questa parte, e non stiamo parlando di consigli su come smettere di bere o peggio. E' il presidente di una delle più importanti organizzazioni di assistenza ai malati di cefalea a grappolo, una donna di 44 anni che soffre anche lei di quella malattia così come ne soffre uno dei suoi figli. Che cos'è la cefalea a grappolo non ne ho più voglia di parlarne, mi è pesato abbastanza leggerne e vedere dei video mentre facevo ricerche per quest'articolo. Ne trovate abbastanza su wikipedia, se volete saperne. E' comunque una terribile malattia bastarda, così bastarda che la chiamano anche "mal di testa da suicidio", perché la gente che ne soffre arriva a un tal punto di disperazione da suicidarsi. Non se ne conoscono tutt'oggi le cause scatenanti né si conoscono cure adeguate e ufficialmente valide.
Helen, comunque, mi ci sono imbattuto per puro caso quando in redazione, visto che siamo sempre abituati a fare i fenomeni, abbiamo detto, ci vuole una bella intervista, ma ci vuole un esperto americano della faccenda. Poi ho intervistato anche un esperto italiano, che conosceva anche lui l'OUCH, l'organizzazione di cui Helen è presidente e che anche lui ha definito questa associazione il miglior aiuto che esista al mondo per questi poveri malati. Helen doveva solo essere un'altra di tante interviste, si è trasformata nei giorni in qualcosa di più. "Nessuno mi aveva fatto domande così profonde e appassionate su questa malattia", mi ha detto ad esempio Helen. Il fatto è che non capita tutti i giorni sentirsi dire che un tuo articolo può salvare la vita di qualcuno. E' una bella responsabilità. E' vero che noi "rocker" siamo soliti dire che una canzone può salvare la vita, e che "l'altra notte un dj mi ha salvato" anche lui "la vita", ma sono in fondo frasi buone appunto per una canzone, foss'anche di un genio come Lou Reed. Una canzone non può salvare la vita, al limite renderla più sopportabile. Be', a dire il vero negli ultimi due mesi la musica forse non mi ha salvato la vita, ma certamente ci è andata vicina, molto vicina, ma questa è un'altra storia che nessuno ha voglia di sentire.
Io non credo che neanche un articolo di giornale possa salvare una vita, eppure Helen ci crede: "Mi è capitato spesso di parlare con gente così depressa da pensare veramente al suicidio come la sola possibilità di uscire dal dolore. Poi è capitato loro di leggere un articolo sulla cefalea a grappolo e hanno capito che non erano dei pazzi, condannati a un dolore insopportabile. Il fatto che tu abbia scritto un articolo sul una tale condizione orribile, una condizione che molte persone non sanno capire e con cui non sanno come comportarsi, aiuterà molte persone e molte famiglie a capire e a esserne aiutate. Non succede spesso che un articolo di un giornale possa cambiare la vita di una persona, ma te lo posso garantire: il tuo articolo riuscirà a farlo".
God bless you Helen, dovunque tu sia.
The Organisation for the Understanding of Cluster Headaches www.ouch-us.org
Wednesday, August 19, 2009
Safe in heaven, dead

Forse perché non le ho mai chiesto nulla che quella notte nacque un'amicizia semplice e bella. Erano tempi, inizio anni 90, che della Nanda si erano dimenticati tutti. Non era ancora scattato quel meccanismo di sponsorizzazione che avrebbe accompagnato i suoi ultimi anni, quando personaggi che non avevano mai avuto nulla a che fare con lei e con il suo mondo facevano a gara per averla sul palco o sui loro libri. Lei era davvero sola in quei giorni, e malata. Andavo nella sua casa in via Senato a Milano, rigorosamente dopo le 8 di sera, una casa grande e buia, piena di pile di libri disordinati ovunque, anche sulle seggiole. Non sapevi mai dove sederti. Una infermiera se ne andava e lei compariva, piegata sul suo bastone. Piangeva, tanto. Nessuno mi cerca più. Mi lasciava frugare nei suoi armadi, tra i libri. Roba da far paura: gli originali del San Francisco Chronicle, libri con dediche di Hemingway. Mi permetteva di prendere quello che volevo, per fotocopiarmeli. Il romanzo autografo mai finito di Neal Cassady. Fossi stato lo stronzo che non sono mai riuscito ad essere avrei potuto sparire con quel ben di dio, farci dei soldi e magari anche una carriera.
Dopo andavamo a cena in Corso Venezia, un bel ristorante dove era accolta come una principessa. E finalmente la Nanda sorrideva. Prendeva sempre a fine cena una spremuta di mandarino. Non ci avevo mai pensato. Adesso bevo sempre anche io spremuta di mandarino.

Ieri sera ho chiamato l'amico Jacksie per dirgli che la Nanda se n'era andata. C'era anche lui quell'ultima volta con me ed Eric. Mi ha detto che qualche giorno fa se n'è andato anche Francesco, era il chitarrista di Eric Andersen quando il cantautore si esibiva in Italia. L'avevo conosciuto due anni fa a un loro concerto a Bergamo. Si vedevano i segni della malattia, ma lui diceva di sentirsi bene. Invece è andato anche lui, in questo agosto che farà pure un caldo torrido e bastardo, ma dentro di me sento freddo, con tutti questi amici che se ne vanno. "Care stelle", come ha detto la mia amica Clara.
Fossi stato bastardo nella mia vita oggi avrei una carriera. Invece sono sempre il solito sfigato, ma va bene così. Non ho una carriera, ma da ieri sera, ne sono certo, in questo grande meraviglioso cielo blu di agosto c'è una stella in più, e credo anche che, "al sicuro, in cielo" - safe in heaven dead come deciva il suo grande amico Jack Kerouac - ho una preghiera in più assicurata per la mia anima di peccatore.
Nessuno mi aveva chiamato Dottor Vites. Nessuno, adesso, lo farà più.
Tuesday, November 04, 2008
Top Ten Interviews

1. Paul McCartney, ovviamente, per i motivi detti nei giorni scorsi. Insomma, quando mi ha chiamato al telefono e si è messo a dirmi "Hey Paolo where are you" al solo sentire "quella" voce mi sfilavano davanti la copertina di Sgt Pepper, il concerto allo Shea Stadium, John e Paul ad Amburgo... E io, totalmente stordito "Sono in ufficio" e lui "No, in che città". Ah "Milano, Italy...". Geeez. Il carisma di un uomo così,comunque, è uscito tutto fuori in quei pochi minuti di telefonata: autorevolezza, coscienza del proprio ruolo nella storia, ma anche incapacità a contenere la propria umana simpatia, come quando si è messo a improvvisare una canzone al telefono... O alla fine come quando in una scnea di Help! mi ha salutato con: "Fireman rules!".

3. Patti Smith,ancora una telefonica, nel 2004, bella lunga quasi un'ora. Lei è intensa con le risposte allo stesso modo in cui declama le sue poesie, materna con un povero fan come il sottoscritto che quando le dice che per tutti quegli anni in cui era stata via dalle scene ci era mancata tanto, risponde: "Non me ne sono mai andata, non sono mai stata via, ero sempre con voi. Quando cambiavo i pannolini ai miei figli, pensavo a voi". Quasi ti metteresti a piangere.
4. Joe Strummer, un anno circa prima che morisse, intervistato di persona qua a Milano. Non ho molto da dire se non che sono grato di aver condiviso un'ora della sua vita prima che fosse troppo tardi. Mi manchi,Joe.


7. Beth Orton. Non è un pezzo di storia del rock, ma io sono innamorato di lei. E tanto basta. Di persona, nel 2002, nella sua camera d'albergo a Verona, la città degli amanti...
8. Joe Boyd. Non è un musicista, ma se ne ha fatte di robe... compreso produrre il primo 45 giri dei Pink Floyd e soprattutto produrre Nick Drake (era anche a Newport 65, quel giorno che Dylan attaccò la spina alla chitarra...). Lo apprezzo ancor di più quando taglia corto: "Una bella canzone deve costringermi a chiudere il televisore, mettere via il giornale che sto leggendo, non fare più nulla e ascoltare solo quella. Non mi succede più da vent'anni".
9. Bob Neuwirth, 2002. Questa è quasi una intervista stile Rolling Stone, durata mesi: in macchina, mentre lo portavo a un concerto in Svizzera; al telefono da Los Angeles; nel camerino di uno squallido piccolo club milanese. Chi è? Be', il fratello di sangue di Bob Dylan negli anni 60, l'amante di Janis Joplin, quello che doveva aiutare Jim Morrison a smettere di bere ma si ubriacava più di lui eccetera eccetera. "Chi cazzo sei, un agente del Kgb? Smettila di fare domande": come si fa a non volergli bene.

Thanx for the music, everybody.
Monday, July 14, 2008
Richard il pazzo
Here's a thought for every man
Who tries to understand what is in his hands
He walks along the open road of Love & Life
surviving if he can
As they took his soul they stole his pride
And as he faced the sun he cast no shadow
(Noel Gallagher,Oasis, Cast No Shadow)
In un giorno di caldo abberrante come ogni giorno di estate milanese di otto anni fa, mi sveglio e comincio a prepararmi a una giornata in cui avrò occasione, in due momenti diversi, di avvicinarmi alla storia del rock, antica e moderna. All'ora di pranzo (come lo può essere per una rock star, l'ora di pranzo) ho appuntamento con Richard Ashcroft, ex cantante dell'unico gruppo inglese degli anni 90 che mi abbia procurato qualche emozione, i Verve, per parlare del suo primo disco solista, Alone with Everybody. Poi dovrò fare in fretta per raggiungere Modena, dove si deve esibire Bob Dylan. Inghilterra e America, il passato e il futuro (già vecchio) del rock.
Perché questa è una sinfonia dolce amara
Cerchi di tirare avanti sei schiavo dei soldi e poi muori
Ti porterò nell'unica strada che abbia mai percorso
Sai, quella che porta nei posti
dove vive tutto il dolore
L'attesa è lunghetta: l'addetta della sua casa discografica mi dice che Richard ha trovato in albergo gli Oasis (che stasera si esibiscono anche loro) e ha fatto bisboccia tutta notte con Liam Gallagher. Mentre bevo un drink e forse anche altri cinque o sei, vedo in un angolo del giardino dell'hotel gli Oasis al completo. Quasi. Manca Noel che dopo una delle proverbiali litigate con il fratello se n'è tornato a casa. Stasera suoneranno senza l'autore dei loro brani e chitarrista principale. Loro, da bravi inglesi, sembrano non essere impressionati del fatto. Liam è lì, in disparte, sembra un po' lo scemo del gruppo a cui nessuno dà rilevanza. Noel è il più grande fan di Ashcroft e dei Verve, a cui ha dedicato la splendida Cast No Shadow.
Finalmente l'incontro con Ashcroft comincia, ma dopo pochi minuti Liam Gallagher si intromette tra noi e parlotta all'orecchio dell'ex cantante dei Verve. Cazzo, penso, la storia del rock inglese del decennio scorso è qui davanti a me. Però, anche quando non è sul palco, questo tiene sempre le mani incrociate dietro la schiena. Da perfetto gentleman si scusa per l'interruzione e se ne va. Con le mani incrociate dietro la schiena.
Tutti questi discorsi sul fatto di invecchiare amore mio mi deprimono
Come un gatto chiuso in un sacco che aspetta di annegare
Stavolta mi sto riprendendo dagli effetti della droga

Non è facile tenere a testa a Richard Ashcroft. Carisma, poi, ne sprigiona a tonnellate. Qualcuno lo ha soprannominato "Mad Richard", Richard il pazzo, per via dei suoi eccessi. Se io avessi passato tutta la notte a bere birra sarei qui ciondoloni incapace di connettere: lui invece è lucidissimo, anche di più - è proprio vero che "the drugs dont work" - e mi rovescia addosso teorie cosmiche sulla reincarnazione, su Dio ("Amo Gesù - bacia il crocefisso d’argento che porta al collo, nda - ma non credo necessariamente a un tipo con la barba seduto su un trono che mi aspetta… "Ladies and gentlemen, we’re floating in space"), accenni a Gram Parsons e all'uso intelligente degli acidi e naturalmente parla delle nuove canzoni. In un momento di lucidità, parla anche del figlio che ha appena avuto, "il modo migliore per fare i conti con la realtà e smettere di pensare di essere una star".
I Verve sono stati un gruppo davvero tosto, anello di congiunzione tra la psichedelia dei 60s, il rock sperimentale tedesco dei primi 70 e la malinconia tutta inglese di Nick Drake. Non capita tutti i giorni che un gruppo tiri fuori pezzi del livello di Sonnet, Lucky Man, Bitter Sweet Symphony, This Is Music e tanti altri. Non li ho mai visti dal vivo, ma dicono che fosse lo spettacolo più incredibile che negli anni 90 si potesse vedere. La chitarra "spacey" del geniale Nick McCabe costruiva strali cosmici e le loro canzoni erano il risultato di jam che in studio andavano avanti per delle mezz'ore. Non ho visto i Verve ma ho avuto la possibilità di vedere Ashcroft due volte, la prima delle quali un paio di giorni prima di quest'incontro, nel piccolo e incantevole Teatro Filodrammatici, venti mentri più a destra della Scala, dove costumi shakespeariani sono posati un po’ ovunque. Ashcroft da solo, con una splendida chitarra made in Nashville, a snocciolare le sue gemme e a commentare: "Visto che sono circondato dai fantasmi di Shakespeare, canterò il mio ‘sonetto’ personale". Anche un sasso si sarebbe commosso. Perché la sua è stata veramente la più bella, carismatica e intensa voce del rock inglese degli ultimi vent'anni.
La musica è la mia vita e io la amo
Giù giù giù andiamo fino a raggiungere il fondo
della nostra anima con questa musica
La coabitazione fra due geni, Ashcroft e McCabe, è costata ai Verve due separazioni. L'ultima, durata ben 11 anni e dopo il loro disco più bello e fortunato, Urban Hymns. Adesso sono tornati. Dicono che dal vivo abbiano coservato tutta la loro magia. Sto ascoltando il nuovo disco, Forth, che uscirà a settembre, durante una anteprima e se alcuni pezzi riaccendono la luce delo loro spacey rock - su tutte Noise Epic, quasi dieci minuti di cavalcata cosmica con accelerazioni, epslosioni e rallentamenti davvero epici - la maggior parte del disco mi sembra "uggiosa", persa in alcune delle meno riuscite ballate di Richard che più che altro ricordano il soft rock da "facciamoci un'altra canna" dei Pink Floyd di Dark Side of the Moon (si capisce che i Floyd mi piacciono poco?).
Probabilmente quando potrò dedicarmi a maggiori ascolti cambierò idea. Il singolo Love Is Noise è già sulla loro pagina MySpace, se per caso siete curiosi.
E Bob Dylan? A un certo punto anche Richard me lo aveva citto, parlando del suo nuovo videoclip ("Mi è venuto in mente Bob Dylan, il video dove si vede anche Allen Ginsberg - Subterranean Homesick Blues - che credo sia il più bel videoclip di tutti i tempi: lui è in piedi in mezzo a un vicolo con dei fogli in mano tutto il tempo, lui mica ha mai fatto cose del genere… voglio dire spogliarsi mezzo nudo durante un videoclip cme ho dovuto fare io"). Raggiungo Modena tra un diluvio e una tromba d'aria tipicamente estive, e lui è là che aspetta. Probabilmente non sa neanche cosa siano i Verve. Attacca un memorabile concerto con Duncan and Brady e la sera dopo a Milano con il canto dei giocatori erranti del XIX secolo, Roving Gambler. Era l'anno di grazia 2000, quando il Never Ending Tour raggiunse il suo apice.
Who tries to understand what is in his hands
He walks along the open road of Love & Life
surviving if he can
As they took his soul they stole his pride
And as he faced the sun he cast no shadow
(Noel Gallagher,Oasis, Cast No Shadow)

Perché questa è una sinfonia dolce amara
Cerchi di tirare avanti sei schiavo dei soldi e poi muori
Ti porterò nell'unica strada che abbia mai percorso
Sai, quella che porta nei posti
dove vive tutto il dolore
L'attesa è lunghetta: l'addetta della sua casa discografica mi dice che Richard ha trovato in albergo gli Oasis (che stasera si esibiscono anche loro) e ha fatto bisboccia tutta notte con Liam Gallagher. Mentre bevo un drink e forse anche altri cinque o sei, vedo in un angolo del giardino dell'hotel gli Oasis al completo. Quasi. Manca Noel che dopo una delle proverbiali litigate con il fratello se n'è tornato a casa. Stasera suoneranno senza l'autore dei loro brani e chitarrista principale. Loro, da bravi inglesi, sembrano non essere impressionati del fatto. Liam è lì, in disparte, sembra un po' lo scemo del gruppo a cui nessuno dà rilevanza. Noel è il più grande fan di Ashcroft e dei Verve, a cui ha dedicato la splendida Cast No Shadow.
Finalmente l'incontro con Ashcroft comincia, ma dopo pochi minuti Liam Gallagher si intromette tra noi e parlotta all'orecchio dell'ex cantante dei Verve. Cazzo, penso, la storia del rock inglese del decennio scorso è qui davanti a me. Però, anche quando non è sul palco, questo tiene sempre le mani incrociate dietro la schiena. Da perfetto gentleman si scusa per l'interruzione e se ne va. Con le mani incrociate dietro la schiena.
Tutti questi discorsi sul fatto di invecchiare amore mio mi deprimono
Come un gatto chiuso in un sacco che aspetta di annegare
Stavolta mi sto riprendendo dagli effetti della droga

Non è facile tenere a testa a Richard Ashcroft. Carisma, poi, ne sprigiona a tonnellate. Qualcuno lo ha soprannominato "Mad Richard", Richard il pazzo, per via dei suoi eccessi. Se io avessi passato tutta la notte a bere birra sarei qui ciondoloni incapace di connettere: lui invece è lucidissimo, anche di più - è proprio vero che "the drugs dont work" - e mi rovescia addosso teorie cosmiche sulla reincarnazione, su Dio ("Amo Gesù - bacia il crocefisso d’argento che porta al collo, nda - ma non credo necessariamente a un tipo con la barba seduto su un trono che mi aspetta… "Ladies and gentlemen, we’re floating in space"), accenni a Gram Parsons e all'uso intelligente degli acidi e naturalmente parla delle nuove canzoni. In un momento di lucidità, parla anche del figlio che ha appena avuto, "il modo migliore per fare i conti con la realtà e smettere di pensare di essere una star".

La musica è la mia vita e io la amo
Giù giù giù andiamo fino a raggiungere il fondo
della nostra anima con questa musica
La coabitazione fra due geni, Ashcroft e McCabe, è costata ai Verve due separazioni. L'ultima, durata ben 11 anni e dopo il loro disco più bello e fortunato, Urban Hymns. Adesso sono tornati. Dicono che dal vivo abbiano coservato tutta la loro magia. Sto ascoltando il nuovo disco, Forth, che uscirà a settembre, durante una anteprima e se alcuni pezzi riaccendono la luce delo loro spacey rock - su tutte Noise Epic, quasi dieci minuti di cavalcata cosmica con accelerazioni, epslosioni e rallentamenti davvero epici - la maggior parte del disco mi sembra "uggiosa", persa in alcune delle meno riuscite ballate di Richard che più che altro ricordano il soft rock da "facciamoci un'altra canna" dei Pink Floyd di Dark Side of the Moon (si capisce che i Floyd mi piacciono poco?).
Probabilmente quando potrò dedicarmi a maggiori ascolti cambierò idea. Il singolo Love Is Noise è già sulla loro pagina MySpace, se per caso siete curiosi.
E Bob Dylan? A un certo punto anche Richard me lo aveva citto, parlando del suo nuovo videoclip ("Mi è venuto in mente Bob Dylan, il video dove si vede anche Allen Ginsberg - Subterranean Homesick Blues - che credo sia il più bel videoclip di tutti i tempi: lui è in piedi in mezzo a un vicolo con dei fogli in mano tutto il tempo, lui mica ha mai fatto cose del genere… voglio dire spogliarsi mezzo nudo durante un videoclip cme ho dovuto fare io"). Raggiungo Modena tra un diluvio e una tromba d'aria tipicamente estive, e lui è là che aspetta. Probabilmente non sa neanche cosa siano i Verve. Attacca un memorabile concerto con Duncan and Brady e la sera dopo a Milano con il canto dei giocatori erranti del XIX secolo, Roving Gambler. Era l'anno di grazia 2000, quando il Never Ending Tour raggiunse il suo apice.
Tuesday, July 08, 2008
It's only rock'n'roll
If it makes you happy
It can't be that bad
If it makes you happy
Then why the hell are you so sad
È l’estate dei castelli rock. Dopo Bingham nella bassa padana, corriamo adesso sulle highway che portano al mare. Savona è una città orribile, ma la rocca Priamar (nelle cui segrete ci passò del tempo al fresco anche Mazzini) è davvero affascinante, lassù a dominare il porto e con vista fino alla Costa Azzurra lontana. La brezza marina soffia piacevole mentre inforchiamo il ponte levatoio che conduce all’area concerti e un gruppetto di persone ci viene incontro in direzione opposta. Una bella donna piccolina stringe forte in braccio uno splendido bimbo.
È Wyatt, e lei è la mamma rock più affascinante d’America. C’è confusione attorno a lei, di manager, baby sitter e gente varia, ma incrociamo brevemente gli sguardi e lei lascia andare un sorriso. Finalmente ci incontriamo per un concerto, e basta con queste noiose interviste.
Che sarà un gran bel concerto. Era da dieci anni esatti che non la vedevo più all’opera e allora la ragazza del Missouri mi era sembrata troppo leziosa e contratta. In precedenza, l’avevo vista all’indomani del suo primo disco, nel 1994, spigliata e divertente, con il suo tuesday night music club nelle vene, togliersi anche a un certo punto gli stivaloni da cowboy per proseguire a piedi nudi.
Stasera, seppure donna matura, ha recuperato quella voglia di divertirsi e circondata da un ottimo ensemble che sembra uscito dal film Almost Famous per look e sonorità seventies (breve assolo di batteria e percussioni incluso) lascia partire poco meno di due ore di divertimento puro. Ci sono i brani del nuovo Detours – su tutte la caledoiscopica Out Of Our Heads, una festa di note e colori che viaggia dai ritmi caraibici alla gioiosità dei Beatles del White Album – ci sono sorprese graditissime come The First Cut Is The Deepest del primo Cat Stevens che da sola vale il viaggio da Milano fino a qui.
Un piccolo intermezzo semiacustico, seduta sullo sgabello da folksinger con la bella Strong enough in versione country alla Dixie Chicks e poi brani che pochi songwriter degli ultimi 15 anni possono vantare, ad esempio If It Makes You Happy, che ancora risuona della stessa dichiarazioni di intenti che aveva quando fu composta.
Prima c’era stata anche Run Baby Run e penso che Sheryl Crow non ha mai cantato così bene come adesso. Vederla divertirsi, ballare e cantare sul palco, pensando al tumore che solo poco più di un anno fa l’aveva colpita, è un inno alla vita. Semplice come un buon rock’n’roll degli anni 70. Un ultimo bis appropriato: “Tutto quello che voglio fare è divertirmi un po’”.
In fondo, “se ti rende felice, non può essere una cosa brutta”. Poi via nella notte. C’è un bimbo che aspetta, il rock’n’roll lifestyle lasciamolo ai giovani.
It can't be that bad
If it makes you happy
Then why the hell are you so sad


Che sarà un gran bel concerto. Era da dieci anni esatti che non la vedevo più all’opera e allora la ragazza del Missouri mi era sembrata troppo leziosa e contratta. In precedenza, l’avevo vista all’indomani del suo primo disco, nel 1994, spigliata e divertente, con il suo tuesday night music club nelle vene, togliersi anche a un certo punto gli stivaloni da cowboy per proseguire a piedi nudi.
Stasera, seppure donna matura, ha recuperato quella voglia di divertirsi e circondata da un ottimo ensemble che sembra uscito dal film Almost Famous per look e sonorità seventies (breve assolo di batteria e percussioni incluso) lascia partire poco meno di due ore di divertimento puro. Ci sono i brani del nuovo Detours – su tutte la caledoiscopica Out Of Our Heads, una festa di note e colori che viaggia dai ritmi caraibici alla gioiosità dei Beatles del White Album – ci sono sorprese graditissime come The First Cut Is The Deepest del primo Cat Stevens che da sola vale il viaggio da Milano fino a qui.
Un piccolo intermezzo semiacustico, seduta sullo sgabello da folksinger con la bella Strong enough in versione country alla Dixie Chicks e poi brani che pochi songwriter degli ultimi 15 anni possono vantare, ad esempio If It Makes You Happy, che ancora risuona della stessa dichiarazioni di intenti che aveva quando fu composta.

In fondo, “se ti rende felice, non può essere una cosa brutta”. Poi via nella notte. C’è un bimbo che aspetta, il rock’n’roll lifestyle lasciamolo ai giovani.
Tuesday, June 17, 2008
Perdonato dalle lucertole
Quando gli chiedo scusa per non essere riuscito a bloccare “l’invasione” del backstage, lui si gira sorridendo commentando: “E perché, che male c’è?”. Per tutti una stretta di mano, una foto o un autografo.
Canzoni e parole, dunque. Van De Sfroos è passato da reading di poesie inedite come una bella rilettura personale del Padre Nostro (“Scritta” ha detto “quando alcuni mesi fa è morto mio padre e nello stesso tempo mi veniva dato un figlio”) in cui dice cose come “siamo nati per essere aquile e invece ci accontentiamo di essere ranocchi che si gasano per aver preso una mosca” e che “che quando ti metti a nudo c’è un Altro che ti riveste in altro modo”, a tante delle sue splendide canzoni, come la divertentissima e lunghissima Una poma, cabarettistica rilettura della cacciata di Adamo ed Eva dal Paradiso, fino alla toccante New Orleans, dedicata alle tante vittime dell’uragano Katrina.
Consiglio la lettura di questo ottimo resoconto della serata, da cui ho rubato alcune delle foto…
http://talkin-walkin.blogspot.com/2008/06/siamo-tutti-cauboi.html
Friday, June 06, 2008
He's an artist, he don't look back
Qualche giorno fa ho visto uno speciale televisivo sull’attuale campagna elettorale americana. Dicevano che nessuno dei candidati, né Hillary Clinton, né Barack Obama né McCain, ha a tema l’incredibile situazione di povertà che si vive negli Stati Uniti d’America. Cioè che la bella cifra di 50 milioni di americani vive sotto la soglia della povertà e che diverse decine di milioni di altri non se la passa poi molto meglio. Ma nessuno dei candidati, siano i democratici o i repubblicani, ne parla nei loro comizi, semplicemente perché non è un argomento che porta voti. I poveri, in America non vanno a votare, dunque chissenefrega, meglio parlare di argomenti come la guerra in Iraq che scaldano di più le platee e portano più voti.
Sul Times di oggi, il magazine inglese, è uscita una nuova intervista con Bob Dylan. Quando gli viene chiesto della sua visione sulle prossime presidenziali, il musicista americano dice: “L’America di oggi è in uno stato di sollevazione. La povertà è demoralizzante. Non ci si può aspettare che la gente abbia la virtù della purezza quando è povera”. È bello vedere che il cuore di Bob Dylan batte ancora per la sofferenza della gente e che non si perde in manicheismi da politicanti da quattro soldi (“Ring them bells, for the time that flies, For the child that cries When innocence dies”).
Per chi fosse interessato, Dylan dice anche di avere fiducia in Barack Obama: “Ma c’è questo tipo là fuori, che sta redefinendo la natura della politica da zero. Barack Obama. Sta redifinendo il ruolo del politico. Così aspettiamo di vedere cosa succederà. Se ho delle speranze? Sì, spero che le cose possano cambiare. Certe cose devono cambiare”.
L’intera intervista, che ruota essenzialmente sulla mostra dei suoi dipinti che si sta tenendo in questi giorni a Londra senza rivelare granché di particolarmente interessante, la trovate qui: http://entertainment.timesonline.co.uk
Ma mi piace ricordare come saluta il giornalista a termine dell’incontro: “Devi sempre prendere dal passato le cose migliori, lasciare le cose peggiori indietro e andare avanti nel futuro”. Don’t look back, Bob?

Per chi fosse interessato, Dylan dice anche di avere fiducia in Barack Obama: “Ma c’è questo tipo là fuori, che sta redefinendo la natura della politica da zero. Barack Obama. Sta redifinendo il ruolo del politico. Così aspettiamo di vedere cosa succederà. Se ho delle speranze? Sì, spero che le cose possano cambiare. Certe cose devono cambiare”.

Ma mi piace ricordare come saluta il giornalista a termine dell’incontro: “Devi sempre prendere dal passato le cose migliori, lasciare le cose peggiori indietro e andare avanti nel futuro”. Don’t look back, Bob?
Saturday, May 31, 2008
Catch the wind
Il posto è la periferia di Milano, anche se adesso rimessa a nuovo. Dove un tempo sorgevano acciaierie e gigantesche fabbriche, adesso c'è uno spazio per concerti. L'occasione è una "celebrazione" dei 40 anni del '68. Ovviamente Francesco De Gregori non è invitato. Mentre si esibiscono "reduci" come gli Stormy Six con ospiti Eugenio Finardi e poi anche Claudio Rocchi e non so chi altri, nei camerini assisto a un piccolo concerto privilegiato. Leggende del passato sonoqui stasera, ghosts upon the road,come direbbe uno di loro, e se ti domandi che ci azzeccano loro qui con questa celebrazione, la risposta è semplice. Sono qui per fare quello che hanno sempre fatto, e fatto benissimo: cantare le loro (bellissime) canzoni.
In uno spazietto angusto del backstage, Danny Thompson imbraccia il suo grosso basso acustico. Ehi, questo è l'uomo che ha suonato nei dischi di Nick Drake, per dirne uno. Solo questa idea fa trascendere tempo e spazio e mi aspetto di vedere l'allampanata figura di Nick varcare la soglia della porta della stanzetta dove ci troviamo. Invece arriva il piccolo uomo che fu chiamato "il rivale di Bob Dylan", che andò in India con i Beatles, che scrisse la colonna sonora della Londra psichedelica, di cui Joan Baez una volta disse: "Se devo pensare a un musicista che ha incarnato più di tutti lo spirito del Flower Power, quello è Donovan". E Donovan prende la sua chitarra tutta colorata e si mette a improvvisare.
Intanto il mio vecchio amico Eric Andersen sta firmando degli autografi. Insieme a Phil Ochs fu il più autorevole esponente del Greenwich Village non appena Bob Dylan se ne andò per volare alto nelle sue visioni anfetaminiche da like a rolling stone. Una volta Leonard Cohen disse che decise di diventare un cantautore dopo essere rimasto affascinato dalla sua Violets Of Dawn.
Prima uno e poi l'altro saliranno sul palco di questa periferia milanese bagnata dalla pioggia, e ancora una volta canteranno le loro canzoni. Senza tempo, fuori del tempo. Una chitarra acustica e poco altro. Quelle canzoni e tanto basta. Per catturare ancora una volta il vento. Catch the wind.
Intanto il mio vecchio amico Eric Andersen sta firmando degli autografi. Insieme a Phil Ochs fu il più autorevole esponente del Greenwich Village non appena Bob Dylan se ne andò per volare alto nelle sue visioni anfetaminiche da like a rolling stone. Una volta Leonard Cohen disse che decise di diventare un cantautore dopo essere rimasto affascinato dalla sua Violets Of Dawn.
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