Friday, September 28, 2012

She: the devil?

Da un ventennio almeno a questa parte gran parte dei dischi migliori li fanno le donne. In un ambiente fortemente maschilista come è quello della musica rock, le donne hanno sempre dovuto farsi largo a spallate, e quando sono riuscite a farcela era perché “sembravano degli uomini che facevano rock”, anche se loro ovviamente non volevano fosse così. E’ il caso delle prime eroine del genere, Janis Joplin, Grace Slick, Patti Smith. Qualche eccezione ovviamente, grazie a spiriti tutti femminili come Joni Mitchell o Sandy Denny che hanno rivendicato con forza la loro identità. Poi, dalla metà degli anni 90, è stata una esplosione: troppe per citarle tutte, con una capacità espressiva che ha fatto a pezzi tanti maschietti. Si sono imposte come era giusto che fosse, capaci di prendersi lo spazio che meritavano, perché da sempre le donne sono quelle che soffrono di più, e quindi hanno più cose da raccontare, e lo sanno fare con una grazia. con una urgenza e una sincerità che incantano e travolgono.
Tra queste, due donne di età, storie e generazioni diverse, pubblicano in questi giorni i loro nuovi dischi. Diverse, ma uguali. Il diavolo e l’acqua santa, verrebbe da dire a una prima immagine superficiale. La prima, Rickie Lee Jones, sulle scene dalla fine degli anni 70; la seconda dall'inizio dei 90. La prima, sopravvissuta a ogni genere di decadenza e vizio: sedotta e abbandonata da Tom Waits, protagonisti insieme ad altri balordi della vita bohémienne del Sunset Strip d L.A., lasciata come fa ogni buon maschietto quando le cose si fanno troppo complicate all’alcol e all’eroina. Da cui è uscita con difficoltà, grazie alle sue sole forze. La seconda, Beth Orton, esplosa improvvisamente dalla scena dei club dance inglesi grazie all’amicizia con "quelli che contano" di quella scena, William Orbit e i Chemical Brothers, che la lanciano come la novità: la folktronica, folk più elettronica.
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Friday, September 21, 2012

Premiata ditta Mumford e figli

Un anno e mezzo fa circa, sul palcoscenico dell'evento più importante dell'industria musicale mondiale, i Grammy Awards, si esibivano tutti insieme un gruppo di personaggi bizzarri, eterogenei, anche un po' mal messi, non certo in sintonia con il glamour di quel tipo di eventi. In mezzo al palco, il principe della musica folk di ogni tempo, il settantenne Bob Dylan; intorno a lui, con espressioni adoranti, giovani cadetti del neo folk, pronti a raccogliere da lui la torcia. Che naturalmente Dylan si guardò ben dal lasciar cadere a terra: chi altri può prendere il suo posto? Siamo seri, nessuno. Per Avett Brothers e Mumford and Sons (questi i due gruppi che lo accompagnavano quella sera) fu però non solo la notte della propria vita in termini di gratificazione personale, ma fu anche il meritato riconoscimento da parte dell'industria musicale di un fatto nuovo nel mondo discografico o di ciò che ne resta. Nell'ondata di folk acustico o quasi che ha invaso l'etere negli ultimi tre, quattro anni - non se ne ascoltava così tanto dai tempi del folk revival nei primi anni 60 - , dei molti sicuramente gli inglesi Mumford and Sons sono quelli che hanno colto il successo commerciale e l'apprezzamento trasversale maggiore. Merito della loro attitudine fracassona, della capacità di coniugare melodie accattivanti (leggasi pop) a una grinta che ha pochi eguali. Sorta di Clash del neo folk, per il loro vigoroso impatto sonico, i M&S piacciono alla gente che piace: ai giovani e ai giovanissimi, a quelli di destra e a quelli di sinistra, ai maschietti e alle femminucce, ai signori attempati e alle signore dal capello bianco, ai miscredenti e ai credenti. CLICCA SU QUESTO LINK PER CONTINUARE A LEGGERE LA RECENSIONE DI "BABEL" DI MUMFORD & SONS

Friday, September 14, 2012

Songs of love and hate


La canzone d'amore per forza di cose è univoca. C'è uno - o una, dipende dal sesso del cantante - che si rivolge a una lei o a un lui. L'altro nella maggior parte dei casi non ha voce in capitolo. Deve subire tutto quello che l'amante o ex amante ha da dire senza possibilità di repliche. Fino a quando la canzone è una tenera dedica d'amore, va anche bene: meno, quando il lui o la lei scarica invettive come se piovesse. Meglio allora definirle, come fece Leonard Cohen, canzoni di odio piuttosto che d'amore. Ma il medium è fatto così, ed è anche giusto che sia così. Bob Dylan in questo come in tutto il resto è stato maestro. Quando ha dovuto vomitare la sua rabbia non si è mai tirato indietro, massacrando la sua povera lei di turno: Sei un'idiota bambina, è una meraviglia che tu sappia ancora respirare, cantava in Idiot Wind tanto per capirci. Nel nuovo straordinario disco, "Tempest", c'è però una canzone d'amore che non è proprio di odio e neanche d'amore. E' bizzarra, è quasi un dialogo, il testo salta subito su come qualcosa di diverso dall'usuale sul tema. E' la bellissima Long and Wasted Years, una delle massime performance vocali del nostro di sempre.


Perché diversa? A un primo ascolto è il solito tema di un lui che si lamenta di lei, una storia agli sgoccioli. Sì, è così, ma la differenza che i due stanno ancora insieme. Lo si capisce quando lui dice di sentirla parlare nel sonno. Due che si sono separati ovviamente non dormono più insieme. Invece qui abbiano una coppia dove l'amore è finito, che sta insieme per qualche ragione, come fanno tante coppie, specie quelle che hanno avuto una lunga relazione, fatta appunto di "long and wasted years", lunghi anni sprecati.


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Monday, September 10, 2012

Quella sera, a casa di Miles Davis


Guardarsi allo specchio alla mattina, per Harvey Brooks, deve essere un po' come guardare allo specchio la storia del rock. Non è da tutti aver infatti suonato con gente del calibro di Bob Dylan, Jim Morrison, Miles Davis, Stephen Stills, Mike Bloomfield, Jimi Hendrix, Richie Havens e tanti altri. E non in un momento qualunque, ma quando questi personaggi erano all'apice della loro creatività e popolarità: con Dylan ad esempio ha registrato forse il suo disco più importante di sempre, "Highway 61 Revisted", con Miles Davis ha preso parte al suo capolavoro "Britches Brew". Ma la storia dei suoi incontri musicali Harvey Brooks, oggi felicemente residente in Israele, lontano dallo stress di un music business che comunque non è più quello dei tempi gloriosi che lui contribuì a creare, la racconta lui stesso nel corso di questa intervista esclusiva con Ilsussidiario.net.


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Friday, September 07, 2012

Expecting rain


Sin da quando, alla fine degli anni 70, ebbi modo di sentire le prime note della sua chitarra e della sua voce, le canzoni di Mark Knopfler, con o senza Dire Straits, nella loro stragrande maggioranza, hanno per me sempre evocato la pioggia. Quella di Londra, soprattutto. A quei tempi Londra era esclusivamente il Big Bang per me, e non sapevo manco che ci piove quasi tutto l'anno, ma quella immagine di grigiore, marciapiedi bagnati, luci fioche sono immediatamente scattate in me. Non sto dicendo di una visione negativa, pessimista o fallimentare che quelle musiche suscitavano in me. Tutt'altro: la pioggia mi ha sempre suscitato una immagine consolatoria, perché la dove piove, c'è anche una casa, o anche soltanto un pub, che ti aspettano caldi per tirare via il freddo e l'umidità.



A Londra poi nel corso degli anni ci sono stato dozzine di volte e devo dire che sono sempre stato piuttosto fortunato: raramente nei miei soggiorni londinesi ha piovuto. A parte una folle e devastante notte in cui in acido vagavo tra Carnaby Street e Soho cercando un locale misterioso dove ero convinto avesse suonato Nick Drake e che finalmente trovai ormai completamente zuppo: sicuramente in quel buco nascosto nel vicolo più stretto di Soho, Nick Drake doveva averci suonato. O fu solo l'effetto dell'acido a convincermi di ciò.

Tutto questo per dire che anche il nuovo, bellissimo disco di Mark Knopfler, Privateering, comincia con una canzone bellissima che mi ha subito evocato le strade del West End bagnate di pioggia. Knopfler non ha mai fatto disco da solista brutti, il mio preferito rimane Shangri-La, ma questo nuovo - addirittura un doppio cd - è un capolavoro, diviso in parti uguali in torridi Chicago blues elettrici e in delicate ballate di celtic folk, di country blues. Su tutte un pezzo che per me è già la nuova Fairytale of New York dei Pogues. Si intitola Radio City Serenade ed è un'ode delicata e commovente ad altre strade, quelle di New York, che è facile immaginare bagnate anch'esse di pioggia appena Knopfler comincia a cantare, e dedicata anche al Radio City Music Hall, il più leggendario posto di musica della Grande Mela, quello a cui Woody Allen dedicò parte del suo bellissimo Radio Days.

Così, mi viene da pensare: in contemporanea Bob Dylan e Mark Knopfler sono usciti in questi giorni con i due dischi più belli dell'anno. E fra poco, negli Stati Uniti, si ritroveranno di nuovo a fare concerti insieme. Quali magie dell'altro mondo sapranno evocare in quelle notti, con questi brani nuovi da proporre? E soprattutto, quanta pioggia sapranno evocare?

Wednesday, September 05, 2012

Roll on, Bob

"The circus is in town", il circo è arrivato in città, cantava Dylan qualche decennio fa nella celeberrima Desolation Row. La canzone stessa era un circo: dentro, c'erano Cenerentola e T.S. Eliot, il gobbo di Notre Dame e il Buon Samaritano, Einstein e il Fantasma dell'Opera. In una galleria fantasmagorica di personaggi veri o usciti dalle pagine dei libri e dagli schermi dei cinema, Bob Dylan all'apice della sua visionarità poetica rinchiudeva questi rappresentanti dell'umanità in un vicolo, quello della desolazione. Quarant'anni e passa dopo, quel circo di umanità dolente torna a farci visita nelle canzoni di "Tempest", un acuto da parte di un artista che non ci sorprendeva così da molti anni, almeno dieci, quando era uscito il suo ultimo disco davvero degno di nota, "Love and theft". Qui troviamo infatti Charlotte la prostituta, Maria la madre di Gesù e la Regina delle Fate, Leonardo Di Caprio e Al Pacino, Cleopatra e John Lennon.



E' una umanità diversa, meno disperata e fallimentare, anzi qualcuno di essi è simbolo della salvezza stessa, che sia quella eterna o quella del rock'n'roll, e che non meritano questa volta di essere rinchiusi in un vicolo della desolazione. Ma allo stesso tempo, non sono degni di stare insieme ai comuni mortali: adesso siamo noi infatti, a vivere in un vicolo della desolazione. Loro ne sono fuggiti, per i loro meriti o per le loro colpe, e stanno da qualche parte in una Repubblica Invisibile dove solo i giusti possono ambire a entrare. Un Dylan spumeggiante, irresistibile, che tratteggia un mondo non sull'orlo dell'abisso, come ha fatto più o meno per tutta la sua carriera, lanciando profezie di ogni tipo (molte delle quali rivelatesi reali), ma un mondo che nell'abisso c'è già precipitato. Siamo in un'epoca indefinibile, in una città tinta di sangue scarlatto, che si chiama Duquesne (che esiste davvero ed è - non a caso - una città fantasma nelle montagne dell'Arizona): da qui questi personaggi osservano lo sfacelo del nostro mondo. Quella accennata nel disco è un'epoca che va dagli antichi primi re romani al Far West al naufragio del Titanic, ma è ovvio che ogni riferimento è del tutto attuale.

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Sangue nei solchi del cuore

“Bob Dylan è in città, c’è bisogno di catturare qualcosa di magico”. La “città” è ovviamente New York, al telefono John Hammond, il più gran...

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