“Bob Dylan è in città, c’è bisogno di catturare qualcosa di magico”. La “città” è ovviamente New York, al telefono John Hammond, il più grande scopritore di talenti della storia della musica (tra i tanti, Count Basie, Aretha Franklin, Charlie Christian, Billie Holiday, Bruce Springsteen e ovviamente Bob Dylan). Sta parlando con il produttore Phil Ramone, fondatore e proprietario di quelli che allora sono i più importanti studi discografici di New York, gli A&R Recording, che si trovano dove erano gli studi di registrazione della Columbia negli anni 60, e dove Dylan registrò i suoi capolavori, da Freewheelin’ a Highway 61.
Hammond è perentorio, non ci sono alternative: Dylan è appena tornato alla Columbia, sua casa discografica storica, dopo un anno di esilio alla Geffen. Deve registrare un capolavoro o niente e ancora una volta Hammond sa già che sarà così. E’ la metà di settembre del 1974, e qualcosa di ancor più che magico verrà “catturato”.
Questa è una storia che però comincia prima, esattamente il 14 febbraio precedente, quando Dylan scende dal palco del Forum di Inglewood, Los Angeles, dove è terminato l’ultimo concerto di quello che è stato chiamato il “Comeback tour”.
Dopo otto anni di lontananza dai concerti, a parte qualche apparizione sporadica, il cantautore è tornato a fare un tour, per di più con gli storici accompagnatori di The Band, gli stessi che erano con lui durante l’ultima sua tournée, quella del 1966. Cinque milioni e mezzo di persone, il 7% della intera popolazione americana, aveva fatto richiesta per uno dei circa 500mila posti disponibili per uno dei 40 concerti previsti. Il tutto per una durata di un mese e 11 giorni (diversi concerti si tennero in due appuntamenti in un giorno solo, al pomeriggio e alla sera) in 21 città da una costa all’altra dell’America. Un successo stratosferico, un ritorno atteso come la seconda venuta di Gesù sulla Terra. L’unico che mentre scende le scale del palco è a disagio, insoddisfatto, è lui, Bob Dylan. Quel tour gigantesco, a bordo di jet privati, limousine, suite principesche negli alberghi, guardie del corpo, lo ha lasciato interdetto. Non sono più gli anni 60, pensa, “quando ci divertivamo”. Il mondo della musica degli anni 70 è invece un enorme business. A Dylan questo non basta.
Ma non ci sono solo motivi artistici dietro il suo malumore. Il rock’n’roll può essere pericoloso per le persone sposate. Perché un matrimonio resti in piedi, c’è bisogno di una buona dose di compromesso da entrambe le parti. Per otto anni Dylan è stato il marito e il padre di famiglia perfetto, lassù a Woodstock. Nello stesso tempo la sua vena artistica è andata scomparendo realizzando dischi insulsi di country melenso. Dylan e Sara Lownds, una ex pin up di Playboy che aveva divorziato dal marito fotografo dopo aver avuto da lui una figlia, si erano sposati in gran segreto il 22 novembre 1965, così segretamente che quasi nessuno lo sapeva, neanche le tante amanti e groupie che Dylan aveva a New York. Per molte di loro fu uno shock scoprirlo.
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Monday, October 08, 2018
Wednesday, April 11, 2018
The streets of Rome
Prendiamo al volo la macchina parcheggiata in vicolo della Desolazione, e schizziamo per le strade di Roma, in cerca di un posto ancora aperto dove mangiare qualcosa. Lo troviamo, entriamo e ci troviamo al tavolo al fianco di un signore dalla bella barba bianca tutto vestito di bianco, bianco anche il turbante. Con lui alcune ragazze, splendenti in elegantissimi abiti bianchi anche loro, velo sul capo e un diadema in fronte a unire il copricapo. Sono bellissimi.
Ci guardiamo negli occhi e ci riconosciamo, mezz'ora prima ci eravamo stretti la mano uscendo dalla sala dell'Auditorio Spazio della Musica, che come dice De Gregori ha davvero una acustica infame, benché sia la gloria musicale della capitale. Erano seduti in prima fila ed era impossibile non notarli, rilucevano di bianco come degli angeli, magari scesi tra la folla per applaudire uno che di angeli ha bisogno e li ha sempre cercati.
Ci spiega il sikh dalla carnagione bianchissima come le sue ragazze, "quando Bob Dylan è in città non si può non andarlo a vedere". Così faranno anche nelle due sere seguenti di permanenza del cantautore americano a Roma, sempre in prima fila. Da quando li ho notatila prima sera ho pensato subito fossero ospiti speciali di Dylan, che ama tanto ogni tipo di religione, anche se dice che "le canzoni sono la mia religione". In realtà erano sì ospiti, ma non perché di religione sikh, ma perché musicisti anche loro. L'anno scorso hanno pure vinto un premio Grammy, ci tengono a spiegare, per il miglior disco new age, si chiamano White Sun. Sono di Santa Monica, California, a Roma hanno un centro yoga.
Usciamo nella notte romana e ci ritroviamo da qualche parte, con un senso di smarrimento e dolce perdutezza. Qualcosa è successo questa notte, ma noi non sappiamo csa, "do ya Mr. Jones"? Che concerto abbiamo visto? Chi era dietro il pianoforte che muoveva continuamente i piedi calzati in stivaletti bianchi tenendo il ritmo di una musica conosciuta a lui, l'unica parte del corpo che non riusciva a stare ferma, dietro a quella maschera impassibile e quel corpo rigido da sembrare una statua? Ha ragione il mio amico americano che da anni mi dice che andare a vedere Bob Dylan in concerto è come andare ad ammirare il Mount Rushmore? Ma dobbiamo andare, abbiamo appuntamento con la nipote di Botticelli. E un paio di bottiglie di vino rosso calabrese.
"Quando ero un ragazzino e vivevo a La Jolla, in California, una piccolissima cittadina, ogni 4 di luglio c'era una parata. Ricordo chiaramente i veterani della Guerra Civile che marciavano lungo la strada principale, alzando la polvere. La prima volta che ho ascoltato Bob Dylan, mi sono tornati alla mente. E ho pensato a lui come se fosse uno di quei veterani della Guerra Civile. Una sorta di troubadour del 19esimo secolo. Uno spirito americano antagonista. L'asprezza della sua voce e e la frugalità delle sue parole vanno dritte al cuore dell'America" (Gregory Peck)
La prima sera quando iniziano i bis ci eravamo lanciati sotto al palco, alto mezzo metro, come quelli dei vecchi concerti rock degli anni 70, che si vedono nei film dell'epoca, dove ti appoggi comodamente al palco stesso. Chiedo al tipo della security se posso fare un paio di foto senza flash ovviamente, mi risponde ridendo "ormai le fanno tutti, che te devo dì" e registro 15 secondi di video, invece, mai stato così vicino al cantante, in quasi 40 anni di suoi concerti, senza spintoni, senza donnine deliranti, senza fan allucinati, tutti invece ad ammirarlo in estatico silenzio e lui contento. Alla fine manda un bacio sorridente alla donna a fianco a me, evidentemente la conosce bene.
La sera dopo invece la security è imbestialita e ci blocca prima della prima fila di poltroncine urlando "ordine dell'artista se fate come ieri sera dice domani non suonerà". Boh. A un certo punto un maori imbruttito si lancia dal palco su uno spettatore che ha fatto l'imprudenza di tirare fuori il cellulare, la sera prima il maori probabilmente lo avevano chiuso a chiave nei camerini. Lo insulta, lo minaccia fisicamente, poi se ne torna sul palco. Lui, il cantante, ci guarda malissimo mentre sembra che voglia andarsene dopo i primi due versi di Blowin' in the Wind. Forse invece sta guardando malissimo la security. Tutto sembra fuori controllo. D'altro canto Phil Ochs negli anni 60 diceva che "Dylan sul palco è LSD puro". Lo è ancora, a quasi 77 anni di età. Lo sguardo è una fessura cattiva cattiva, sembra di essere agli ultimi istanti della sfida all'OK Corral, scruta tra la folla per vedere se là in mezzo ci sono ancora William Zanzinger e il Gobbo di Notre Dame. Ci sono vibrazioni cattive, fantasmi dell'elettricità che però non hanno nulla di buono da dire. Infatti se ne va senza lanciare nessun bacio. In sala restano solo il Roving Gambler e Dio, aspettano Casanova per uscire da lì per tornare nel vicolo della Desolazione. O riprendere l'highway 61 dove li aspetta Robert Johnson e il suo amico Lucifero.
"Il suo modo di suonare qualunque strumento è del tutto ibrido. Non ha senso dal punto di vista musicale. Quando suona il piano, non ha alcun senso se non per l'ascoltare e lui stesso. Se sei un musicista ti viene da dire: Be', ma che ci stai a fare qui? Non ha alcun senso. Lo stesso quando suona la chitarra. E' come se qualunque cosa suoni tu debba aspettare un anno o due per avere l'approccio giusto per essere in grado di apprezzarlo. Al primo ascolto, ogni cosa che fa sembra senza speranza. Poi ci ripensi e realizzi che era perfetto, del tutto giusto" (Eric Clapton)
A Milano, oltre un palco alto quasi due metri, le prime due file di poltroncine sono divise dal resto della platea da una specie di muretto. Il palco è gigantesco, e lui e la band si mettono in fondo in fondo, il più lontano possibile dalla folla. Nessuno stasera ha voglia di vedere se c'è Johanna, nessuno sente alcun tipo di dolore, stanotte mentre siamo tutti soli sotto la pioggia.
Il cantante è in grande forma stasera, sputa i versi come fosse una mitragliatrice, scardina le coordinate del buon senso musicale cercando una melodia impossibile che solo lui sente nella testa attorcigliato nel dolore. La mia amica che lo sta vedendo per la prima volta dice che c'è un grande senso di dolore nel modo in cui canta, malinconia e tristezza. Tangled up in blue. D'altro canto, "love sick" ed è un "melancholy mood" quello che ci avvolge tutti.
Poi si ricorda di quando rivoltava il mondo tanto che qualcuno scrisse che se mai ci si ricorderà di Bob Dylan, ci si ricorderà di un fottuto uomo di rock'n'roll. Sono i minuti più esaltanti della serata, sembrano i tempi quando scendeva da una Buick 6 e stendeva tutti a terra, anche Stones e Beatles. Non c'è ne è per nessuno. ma quei minuti volano anche questi via presto. E' tutto un succedersi di memorie, ricordi tra la nebbia, pillole di anfetamina, e lacrime, come fossi una bambina. In fondo siamo tutti soli nella vita.
Usciamo nella pioggia e abbiamo in mente solo le foglie che cadono con grazia in autunno, anche se questa è primavera. E' una vita piena di dolore e qualcuno deve farsene carico per noi, che altrimenti ci spezzeremmo in due. Lui ha portato il peso del mondo per decenni, e ancora lo fa. Io penso a due ragazze lasciate a Roma e se mai le rivedrò. Vado a casa, intrappolato nel blu, ad ascoltare Leonard Cohen.
The falling leaves drift by the window
The autumn leaves of red and gold
I see your lips, the summer kisses
The sun-burned hands I used to hold
Ci guardiamo negli occhi e ci riconosciamo, mezz'ora prima ci eravamo stretti la mano uscendo dalla sala dell'Auditorio Spazio della Musica, che come dice De Gregori ha davvero una acustica infame, benché sia la gloria musicale della capitale. Erano seduti in prima fila ed era impossibile non notarli, rilucevano di bianco come degli angeli, magari scesi tra la folla per applaudire uno che di angeli ha bisogno e li ha sempre cercati.
Ci spiega il sikh dalla carnagione bianchissima come le sue ragazze, "quando Bob Dylan è in città non si può non andarlo a vedere". Così faranno anche nelle due sere seguenti di permanenza del cantautore americano a Roma, sempre in prima fila. Da quando li ho notatila prima sera ho pensato subito fossero ospiti speciali di Dylan, che ama tanto ogni tipo di religione, anche se dice che "le canzoni sono la mia religione". In realtà erano sì ospiti, ma non perché di religione sikh, ma perché musicisti anche loro. L'anno scorso hanno pure vinto un premio Grammy, ci tengono a spiegare, per il miglior disco new age, si chiamano White Sun. Sono di Santa Monica, California, a Roma hanno un centro yoga.
Usciamo nella notte romana e ci ritroviamo da qualche parte, con un senso di smarrimento e dolce perdutezza. Qualcosa è successo questa notte, ma noi non sappiamo csa, "do ya Mr. Jones"? Che concerto abbiamo visto? Chi era dietro il pianoforte che muoveva continuamente i piedi calzati in stivaletti bianchi tenendo il ritmo di una musica conosciuta a lui, l'unica parte del corpo che non riusciva a stare ferma, dietro a quella maschera impassibile e quel corpo rigido da sembrare una statua? Ha ragione il mio amico americano che da anni mi dice che andare a vedere Bob Dylan in concerto è come andare ad ammirare il Mount Rushmore? Ma dobbiamo andare, abbiamo appuntamento con la nipote di Botticelli. E un paio di bottiglie di vino rosso calabrese.
"Quando ero un ragazzino e vivevo a La Jolla, in California, una piccolissima cittadina, ogni 4 di luglio c'era una parata. Ricordo chiaramente i veterani della Guerra Civile che marciavano lungo la strada principale, alzando la polvere. La prima volta che ho ascoltato Bob Dylan, mi sono tornati alla mente. E ho pensato a lui come se fosse uno di quei veterani della Guerra Civile. Una sorta di troubadour del 19esimo secolo. Uno spirito americano antagonista. L'asprezza della sua voce e e la frugalità delle sue parole vanno dritte al cuore dell'America" (Gregory Peck)
La prima sera quando iniziano i bis ci eravamo lanciati sotto al palco, alto mezzo metro, come quelli dei vecchi concerti rock degli anni 70, che si vedono nei film dell'epoca, dove ti appoggi comodamente al palco stesso. Chiedo al tipo della security se posso fare un paio di foto senza flash ovviamente, mi risponde ridendo "ormai le fanno tutti, che te devo dì" e registro 15 secondi di video, invece, mai stato così vicino al cantante, in quasi 40 anni di suoi concerti, senza spintoni, senza donnine deliranti, senza fan allucinati, tutti invece ad ammirarlo in estatico silenzio e lui contento. Alla fine manda un bacio sorridente alla donna a fianco a me, evidentemente la conosce bene.
La sera dopo invece la security è imbestialita e ci blocca prima della prima fila di poltroncine urlando "ordine dell'artista se fate come ieri sera dice domani non suonerà". Boh. A un certo punto un maori imbruttito si lancia dal palco su uno spettatore che ha fatto l'imprudenza di tirare fuori il cellulare, la sera prima il maori probabilmente lo avevano chiuso a chiave nei camerini. Lo insulta, lo minaccia fisicamente, poi se ne torna sul palco. Lui, il cantante, ci guarda malissimo mentre sembra che voglia andarsene dopo i primi due versi di Blowin' in the Wind. Forse invece sta guardando malissimo la security. Tutto sembra fuori controllo. D'altro canto Phil Ochs negli anni 60 diceva che "Dylan sul palco è LSD puro". Lo è ancora, a quasi 77 anni di età. Lo sguardo è una fessura cattiva cattiva, sembra di essere agli ultimi istanti della sfida all'OK Corral, scruta tra la folla per vedere se là in mezzo ci sono ancora William Zanzinger e il Gobbo di Notre Dame. Ci sono vibrazioni cattive, fantasmi dell'elettricità che però non hanno nulla di buono da dire. Infatti se ne va senza lanciare nessun bacio. In sala restano solo il Roving Gambler e Dio, aspettano Casanova per uscire da lì per tornare nel vicolo della Desolazione. O riprendere l'highway 61 dove li aspetta Robert Johnson e il suo amico Lucifero.
"Il suo modo di suonare qualunque strumento è del tutto ibrido. Non ha senso dal punto di vista musicale. Quando suona il piano, non ha alcun senso se non per l'ascoltare e lui stesso. Se sei un musicista ti viene da dire: Be', ma che ci stai a fare qui? Non ha alcun senso. Lo stesso quando suona la chitarra. E' come se qualunque cosa suoni tu debba aspettare un anno o due per avere l'approccio giusto per essere in grado di apprezzarlo. Al primo ascolto, ogni cosa che fa sembra senza speranza. Poi ci ripensi e realizzi che era perfetto, del tutto giusto" (Eric Clapton)
A Milano, oltre un palco alto quasi due metri, le prime due file di poltroncine sono divise dal resto della platea da una specie di muretto. Il palco è gigantesco, e lui e la band si mettono in fondo in fondo, il più lontano possibile dalla folla. Nessuno stasera ha voglia di vedere se c'è Johanna, nessuno sente alcun tipo di dolore, stanotte mentre siamo tutti soli sotto la pioggia.
Il cantante è in grande forma stasera, sputa i versi come fosse una mitragliatrice, scardina le coordinate del buon senso musicale cercando una melodia impossibile che solo lui sente nella testa attorcigliato nel dolore. La mia amica che lo sta vedendo per la prima volta dice che c'è un grande senso di dolore nel modo in cui canta, malinconia e tristezza. Tangled up in blue. D'altro canto, "love sick" ed è un "melancholy mood" quello che ci avvolge tutti.
Poi si ricorda di quando rivoltava il mondo tanto che qualcuno scrisse che se mai ci si ricorderà di Bob Dylan, ci si ricorderà di un fottuto uomo di rock'n'roll. Sono i minuti più esaltanti della serata, sembrano i tempi quando scendeva da una Buick 6 e stendeva tutti a terra, anche Stones e Beatles. Non c'è ne è per nessuno. ma quei minuti volano anche questi via presto. E' tutto un succedersi di memorie, ricordi tra la nebbia, pillole di anfetamina, e lacrime, come fossi una bambina. In fondo siamo tutti soli nella vita.
Usciamo nella pioggia e abbiamo in mente solo le foglie che cadono con grazia in autunno, anche se questa è primavera. E' una vita piena di dolore e qualcuno deve farsene carico per noi, che altrimenti ci spezzeremmo in due. Lui ha portato il peso del mondo per decenni, e ancora lo fa. Io penso a due ragazze lasciate a Roma e se mai le rivedrò. Vado a casa, intrappolato nel blu, ad ascoltare Leonard Cohen.
The falling leaves drift by the window
The autumn leaves of red and gold
I see your lips, the summer kisses
The sun-burned hands I used to hold
Monday, January 15, 2018
Gimme Shelter
A volte, per scrivere una canzone di protesta non c'è bisogno di slogan, di accuse eclatanti, di prese di posizioni ideologiche. Basta una strofa, per rispecchiare in modo efficace una intera epoca storica. Come nel caso di You Can't Always Get What You Want, brano dei Rolling Stones pubblicato nel 1969, ma scritto e inciso nel 68: "Sono andato giù alla manifestazione per ottenere la giusta quota di abusi cantando Sfogheremo la nostra frustrazione se non lo facciamo, faremo saltare una miccia da cinquanta ampere". C'è tutto in queste quattro righe: le manifestazioni che erano all'ordine del giorno in quel 1968, la partecipazione di tanti giovani che non capendone neppure le motivazioni ideologiche vi prendevano parte per sfogare la loro frustrazione rabbiosa di persone che si sentivano escluse dalla società, le botte della polizia, la minaccia di passare dalle marce alle bombe, come sarebbe in effetti successo da lì a poco. Nel ritornello, la canzone affermava una massima di saggezza zen rara a quei tempi. Mentre per le strade i giovani gridavano "vogliamo il mondo e lo vogliamo adesso" gli Stones si distaccavano con il realismo di "you can't always get what you want", non puoi ottenere sempre quello che vuoi.
"Una canzone non serve alla rivoluzione se non sei tu a seguirla con l'azione" diceva Joan Baez, la regina del movimento per i diritti civili, lasciando trapelare quanto la musica non fosse abbastanza per "cambiare il mondo". In realtà, le canzoni rock hanno sempre riflesso quello che accadeva intorno, una sorta di ripetitore satellitare, più che incitare a scendere per le strade. Il 68 ci sarebbe stato anche senza la musica rock, per capirci, ma la musica rock ne è stata la colonna sonora, cogliendone aspetti e limiti molto più di ogni altra forma di comunicazione. Come sempre d'altro canto, perché non c'è mezzo di comunicazione più profondo, appassionato e intelligente delle canzoni.
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"Una canzone non serve alla rivoluzione se non sei tu a seguirla con l'azione" diceva Joan Baez, la regina del movimento per i diritti civili, lasciando trapelare quanto la musica non fosse abbastanza per "cambiare il mondo". In realtà, le canzoni rock hanno sempre riflesso quello che accadeva intorno, una sorta di ripetitore satellitare, più che incitare a scendere per le strade. Il 68 ci sarebbe stato anche senza la musica rock, per capirci, ma la musica rock ne è stata la colonna sonora, cogliendone aspetti e limiti molto più di ogni altra forma di comunicazione. Come sempre d'altro canto, perché non c'è mezzo di comunicazione più profondo, appassionato e intelligente delle canzoni.
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Sunday, November 19, 2017
Sympathy for the Lord
"Non puoi combattere la musica gospel. Non puoi combattere una Messa di Beethoven, o l'altezza delle guglie di una cattedrale. Non esiste una canzone che dica: Vieni avanti ateo! Non puoi vincere"
(Randy Newman)
Chi è buono e chi è cattivo? Puoi davvero servire un padrone solo, che sia il diavolo o il Signore? O piuttosto sarà una battaglia lunga tutta la vita, dentro e fuori di te, con il sangue dell'Agnello ai piedi della croce, che a volte si avvicina e altre volte si allontana?
Alla fine resterai come il predicatore, a predicare nella chiesa vuota e abbandonata, fino a lasciarti andare su una panca, scuotendo la testa sconsolato?
Bob Dylan aveva portato sui palcoscenici di mezzo mondo questa lotta sovrumana. Più che un predicatore intenzionato a salvare il mondo, il cantante aveva fatto quello che aveva sempre fatto: mettere a nudo su un palcoscenico davanti a migliaia di persone la sua umanità incerta come ogni passero che cade, come ogni granello di sabbia. Lui, e quella banda di fuorilegge e quelle donne bellissime, nessuna chiesa dall'Alabama alla Virginia li avrebbe mai fatti entrare a esibirsi. No, perché facevano paura. Era evidente che in mezzo a loro c'era un ospite indesiderato. Lucifero. Quei concerti, più che una liturgia gospel, furono qualcosa come un ascensore per l'inferno: potevi entrarci ma non sapevi se ne saresti uscito vivo.
In questo cofanetto ogni cd si apre con una sinuosa, serpeggiante, viziosa versione di Slow Train che ti entra sottopelle e ti possiede, non ti molla più, che incredibilmente suona sempre diversa, la migliore delle quali resta quella provata in studio con i fiati, una orchestra tuonante e senza pietà, che Dylan dovette lasciare a casa perché avere le coriste e anche i fiati era troppo costoso per un tour così inaspettato nel suo contenuto che non si sapeva neanche se la gente sarebbe andata a vederlo. Ci andarono, in massa, perché mai musica fu suonata così in grazia di Dio. E del diavolo.
Quello che strappa la pelle alle ossa in queste performance, lo si trova quasi tutto nel primo cd, che contiene esecuzioni da ognuno dei tre anni di gospel tour. When You Gonna Wake Up, come venne suonata quella sera ad Oslo nel 1981, è qualcosa che nessuno, in quel periodo storico, poteva fare. Comincia con le sole tastiere a sorreggere un Dylan apparentemente disperato, sconsolato, che implora, poi entra tutta la band e le coriste ed è un bing bang, è un sabba rock'n'roll come nessuno poteva neanche immaginare di sfiorare in quei giorni, né gli Stones, né Springsteen, nessuno dei sopravvissuti coetanei a Dylan. E' furia selvaggia, è un ritmo torrenziale secco e incalzante dettato dalla chitarra di Tackett che batte il tempo sincopato e funk, dal basso poderoso dello scatenato Drummond, dalla batteria che rulla implacabile alzando ill ritmo e da un Dylan realmente posseduto. E' ferocia allo stato puro. Poi per l'ultimo ritornello il tempo si fa ancora più veloce e chi gli sta dietro a questi qua? Ai tempi dicevano, "eh be' canta canzoni reazionarie e noiose e poi fa anche un R&B gospel standard, senza vita, vecchio".
Accade di nuovo in Saved e Solid Rock, in quest'ultima la lotta sul palco fra Dio e satana è più evidente che mai, quando la corista esplode due urli in successione che vogliono spaventare il cantante, quasi osceni: è posseduta. Chi avrebbe voluto in una chiesa questa banda di angeli e diavoli, di apocalisse e di ira di Dio? Accade tutto nel momento e quando il cantante si siede al piano come lo si vede nel dvd per cantare una magnificente e impressionante When He Returns, tutti i pezzi del puzzle cadono ai suoi piedi: non ha mai cantato così bene in vita sua, non lo farà mai più. Sono incalzato dalla chiamata del Signore, e allora non resta che prendere in mano la rosa che la ragazza sotto al palco gli offre, accennare leggermente col capo e scomparire nei corridoi dietro al palco. Non c'è pace e non c'è conforto, quest'uomo è nato per combattere la guerra della vita, solo.
Ma c'è un incantevole angolo di purezza e di rassicurazione, di gentilezza e di perdono. E' nascosto in mezzo alle mille gemme di questo cofanetto e potrebbe passare inosservato. Una chitarra acustica che fa strumming su e giù per le corde, le voci del cantante e della cantante un po' indietro, in una sala che immaginiamo buia e mal microfonata. Cantano una melodia antica come il mondo, alternandosi nelle strofe e poi unendosi insieme. Avrebbe potuto inciderla Elvis, e infatti lo fece, poco prima di morire. E' tale la perfezione e la purezza del canto, che vorresti metterti in ginocchio e pregare e lasciare che Rise Again scorra per sempre senza sosta nella tua notte più oscura, Perché è una luce quella che accende.
(Randy Newman)
Chi è buono e chi è cattivo? Puoi davvero servire un padrone solo, che sia il diavolo o il Signore? O piuttosto sarà una battaglia lunga tutta la vita, dentro e fuori di te, con il sangue dell'Agnello ai piedi della croce, che a volte si avvicina e altre volte si allontana?
Alla fine resterai come il predicatore, a predicare nella chiesa vuota e abbandonata, fino a lasciarti andare su una panca, scuotendo la testa sconsolato?
Bob Dylan aveva portato sui palcoscenici di mezzo mondo questa lotta sovrumana. Più che un predicatore intenzionato a salvare il mondo, il cantante aveva fatto quello che aveva sempre fatto: mettere a nudo su un palcoscenico davanti a migliaia di persone la sua umanità incerta come ogni passero che cade, come ogni granello di sabbia. Lui, e quella banda di fuorilegge e quelle donne bellissime, nessuna chiesa dall'Alabama alla Virginia li avrebbe mai fatti entrare a esibirsi. No, perché facevano paura. Era evidente che in mezzo a loro c'era un ospite indesiderato. Lucifero. Quei concerti, più che una liturgia gospel, furono qualcosa come un ascensore per l'inferno: potevi entrarci ma non sapevi se ne saresti uscito vivo.
In questo cofanetto ogni cd si apre con una sinuosa, serpeggiante, viziosa versione di Slow Train che ti entra sottopelle e ti possiede, non ti molla più, che incredibilmente suona sempre diversa, la migliore delle quali resta quella provata in studio con i fiati, una orchestra tuonante e senza pietà, che Dylan dovette lasciare a casa perché avere le coriste e anche i fiati era troppo costoso per un tour così inaspettato nel suo contenuto che non si sapeva neanche se la gente sarebbe andata a vederlo. Ci andarono, in massa, perché mai musica fu suonata così in grazia di Dio. E del diavolo.
Quello che strappa la pelle alle ossa in queste performance, lo si trova quasi tutto nel primo cd, che contiene esecuzioni da ognuno dei tre anni di gospel tour. When You Gonna Wake Up, come venne suonata quella sera ad Oslo nel 1981, è qualcosa che nessuno, in quel periodo storico, poteva fare. Comincia con le sole tastiere a sorreggere un Dylan apparentemente disperato, sconsolato, che implora, poi entra tutta la band e le coriste ed è un bing bang, è un sabba rock'n'roll come nessuno poteva neanche immaginare di sfiorare in quei giorni, né gli Stones, né Springsteen, nessuno dei sopravvissuti coetanei a Dylan. E' furia selvaggia, è un ritmo torrenziale secco e incalzante dettato dalla chitarra di Tackett che batte il tempo sincopato e funk, dal basso poderoso dello scatenato Drummond, dalla batteria che rulla implacabile alzando ill ritmo e da un Dylan realmente posseduto. E' ferocia allo stato puro. Poi per l'ultimo ritornello il tempo si fa ancora più veloce e chi gli sta dietro a questi qua? Ai tempi dicevano, "eh be' canta canzoni reazionarie e noiose e poi fa anche un R&B gospel standard, senza vita, vecchio".
Accade di nuovo in Saved e Solid Rock, in quest'ultima la lotta sul palco fra Dio e satana è più evidente che mai, quando la corista esplode due urli in successione che vogliono spaventare il cantante, quasi osceni: è posseduta. Chi avrebbe voluto in una chiesa questa banda di angeli e diavoli, di apocalisse e di ira di Dio? Accade tutto nel momento e quando il cantante si siede al piano come lo si vede nel dvd per cantare una magnificente e impressionante When He Returns, tutti i pezzi del puzzle cadono ai suoi piedi: non ha mai cantato così bene in vita sua, non lo farà mai più. Sono incalzato dalla chiamata del Signore, e allora non resta che prendere in mano la rosa che la ragazza sotto al palco gli offre, accennare leggermente col capo e scomparire nei corridoi dietro al palco. Non c'è pace e non c'è conforto, quest'uomo è nato per combattere la guerra della vita, solo.
Ma c'è un incantevole angolo di purezza e di rassicurazione, di gentilezza e di perdono. E' nascosto in mezzo alle mille gemme di questo cofanetto e potrebbe passare inosservato. Una chitarra acustica che fa strumming su e giù per le corde, le voci del cantante e della cantante un po' indietro, in una sala che immaginiamo buia e mal microfonata. Cantano una melodia antica come il mondo, alternandosi nelle strofe e poi unendosi insieme. Avrebbe potuto inciderla Elvis, e infatti lo fece, poco prima di morire. E' tale la perfezione e la purezza del canto, che vorresti metterti in ginocchio e pregare e lasciare che Rise Again scorra per sempre senza sosta nella tua notte più oscura, Perché è una luce quella che accende.
Wednesday, June 07, 2017
“Canta, o Musa, e attraverso me narra la storia”
"Highbrow, lowbrow, chasing illusion, chasing death, the great white whale, white as polar bear, white as a white man, the emperor, the nemesis, the embodiment of evil. The demented captain who actually lost his leg years ago trying to attack Moby with a knife…".
La voce di Bob Dylan scorre profonda e melodiosa, con un ritmo incalzante e cadenzato, con battiti precisi, come se stesse leggendo una poesia e non un discorso. La sua voce è così: è ritmo, è musica, è il vecchio schiavo fuori della capanna dello Zio Tom che intona il blues senza accompagnamento strumentale, è l'ebreo errante che legge i salmi nelle sinagoghe di tutto il mondo, è il soldato sudista lacero e sconfitto dopo la guerra civile, è Omero che recita l'Odissea, è il contadino hillbilly seduto tra le rovine della sua fattoria al tempo della grande depressione.
L'abbiamo sentita, la voce di Bob Dylan, cantare le sue canzoni, canzoni che spesso sono "raccontate" più che cantate. Questa è la sua voce, che canti o che parli. Una voce mistica, vecchia come è vecchio il mondo. Provate a metterci sotto una base ritmica elettronica, sentirete l'unico vero rapper al mondo che declama e non ferisce le orecchie andando fuori tempo. D'altro canto il primo brano autenticamente hip hop lo scrisse lui, un bianco del Minnesota, nel 1965, Subterranean Homesick Blues. La sua voce è rock'n'roll allo stato puro, ma è anche William Shakespeare che legge passi dell'Amleto ai suoi attori.
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La voce di Bob Dylan scorre profonda e melodiosa, con un ritmo incalzante e cadenzato, con battiti precisi, come se stesse leggendo una poesia e non un discorso. La sua voce è così: è ritmo, è musica, è il vecchio schiavo fuori della capanna dello Zio Tom che intona il blues senza accompagnamento strumentale, è l'ebreo errante che legge i salmi nelle sinagoghe di tutto il mondo, è il soldato sudista lacero e sconfitto dopo la guerra civile, è Omero che recita l'Odissea, è il contadino hillbilly seduto tra le rovine della sua fattoria al tempo della grande depressione.
L'abbiamo sentita, la voce di Bob Dylan, cantare le sue canzoni, canzoni che spesso sono "raccontate" più che cantate. Questa è la sua voce, che canti o che parli. Una voce mistica, vecchia come è vecchio il mondo. Provate a metterci sotto una base ritmica elettronica, sentirete l'unico vero rapper al mondo che declama e non ferisce le orecchie andando fuori tempo. D'altro canto il primo brano autenticamente hip hop lo scrisse lui, un bianco del Minnesota, nel 1965, Subterranean Homesick Blues. La sua voce è rock'n'roll allo stato puro, ma è anche William Shakespeare che legge passi dell'Amleto ai suoi attori.
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Friday, October 14, 2016
Poems In Naked Wonder
E' un afoso giorno di giugno del 1970. Nell'aria solo il frinio delle cicale, fastidioso e inquietante come solo è il verso delle cicale. Una lussuosa limousine arranca verso la prestigiosa università di Princeton, dove per la prima volta verrà concessa una laurea in musica, honoris causa, a un cantautore rock. Dentro, oltre all'autista, ci sono due delle più famose rock star al mondo e la moglie di uno di loro. Uno dei due si appresta a ricevere la laurea. Non sembra molto entusiasta. Anzi. Tornerà a casa infastidito a tal punto da scrivere subito una velenosa canzone su quella giornata: "As I stepped to the stage to pick up my degree the locusts sang off in the distance... I glanced into the chamber where the judges were talking darkness was everywhere, it smelled like a tomb... I was ready to leave, I was already walkin’ I put down my robe, picked up my diploma... Took hold of my sweetheart and away we did drive Straight for the hills, the black hills of Dakota... sure was glad to get out of there alive…". Felice di essere uscito vivo da lì, da Princeton.
Bob Dylan è il primo cantautore rock il cui lavoro viene riconosciuto da una università americana. Quello del 9 giugno 1970 è un momento storico, Ad accompagnarlo l'amico David Crosby che letteralmente lo spinge sul palco al momento della consegna. E' l'incontro/scontro tra due mondi, quello accademico della cultura ufficiale e quello dell'allora controcultura, di cui Bob Dylan è considerato dai giovani di tutta America la voce più forte e influente. Anche gli accademici se ne rendono conto tanto che nel discorsetto di premiazione dicono: “Anche se tutti sanno che non gradisce la notorietà e le situazioni pubbliche e sebbene si stia avvicinando alla pericolosa età dei 30 anni, Bob Dylan rimane l’autentica espressione della turbata e impegnata coscienza della giovane America”. In effetti il cantautore ha 29 anni e a quei tempi era d'uso dire: “Non fidarti di chi ha più di 30 anni”. A 30 anni si era vecchi e si apparteneva all'establishment.
Contro accademici, professori e ceto medio borghese Dylan aveva scritto canzoni taglienti e piene di disprezzo: “You've been with the professors and they've all liked your looks... with great lawyers you have discussed lepers and crooks You've been through all of F. Scott Fitzgerald's books... you're very well-read, it's well-known” (Ballad of a Thin Man).Erano due mondi in collisione.
Nei decenni successivi il palmares del cantautore si sarebbe riempito oltremisura di premi e onorificenze, da quello Oscar per la miglior canzone da film, nel 2001, a un'altra laurea honoris causa nel 2004 concessa questa volta dalla più antica e celebre università scozzese, la St Andrews (nelle foto dell'evento lo si vede letteralmente addormentato in mezzo a professori e accademici), al Premio Kennedy, la più importante onorificenza americana all'arte e alla cultura, data a Dylan dalle mani di Barack Obama, dalla Legione d'onore francese ("drogato e pacifista non può meritarla" protestò un generale) al Neustadt International Prize for Literature, a un Pulitzer alla carriera. E ancora: il National Book Critics Circle Awards per la sua autobiografia, (Chronicles; insieme a Tarantola, l'unico libro mai scritto dal cantautore) e ancora il Premio Principe di Asturias con la motivazione che “la canzone e la poesia della sua opera crea scuola e determina l’educazione sentimentale di milioni di persone”.
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Bob Dylan è il primo cantautore rock il cui lavoro viene riconosciuto da una università americana. Quello del 9 giugno 1970 è un momento storico, Ad accompagnarlo l'amico David Crosby che letteralmente lo spinge sul palco al momento della consegna. E' l'incontro/scontro tra due mondi, quello accademico della cultura ufficiale e quello dell'allora controcultura, di cui Bob Dylan è considerato dai giovani di tutta America la voce più forte e influente. Anche gli accademici se ne rendono conto tanto che nel discorsetto di premiazione dicono: “Anche se tutti sanno che non gradisce la notorietà e le situazioni pubbliche e sebbene si stia avvicinando alla pericolosa età dei 30 anni, Bob Dylan rimane l’autentica espressione della turbata e impegnata coscienza della giovane America”. In effetti il cantautore ha 29 anni e a quei tempi era d'uso dire: “Non fidarti di chi ha più di 30 anni”. A 30 anni si era vecchi e si apparteneva all'establishment.
Contro accademici, professori e ceto medio borghese Dylan aveva scritto canzoni taglienti e piene di disprezzo: “You've been with the professors and they've all liked your looks... with great lawyers you have discussed lepers and crooks You've been through all of F. Scott Fitzgerald's books... you're very well-read, it's well-known” (Ballad of a Thin Man).Erano due mondi in collisione.
Nei decenni successivi il palmares del cantautore si sarebbe riempito oltremisura di premi e onorificenze, da quello Oscar per la miglior canzone da film, nel 2001, a un'altra laurea honoris causa nel 2004 concessa questa volta dalla più antica e celebre università scozzese, la St Andrews (nelle foto dell'evento lo si vede letteralmente addormentato in mezzo a professori e accademici), al Premio Kennedy, la più importante onorificenza americana all'arte e alla cultura, data a Dylan dalle mani di Barack Obama, dalla Legione d'onore francese ("drogato e pacifista non può meritarla" protestò un generale) al Neustadt International Prize for Literature, a un Pulitzer alla carriera. E ancora: il National Book Critics Circle Awards per la sua autobiografia, (Chronicles; insieme a Tarantola, l'unico libro mai scritto dal cantautore) e ancora il Premio Principe di Asturias con la motivazione che “la canzone e la poesia della sua opera crea scuola e determina l’educazione sentimentale di milioni di persone”.
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Tuesday, June 14, 2016
"Desire" 40 anni dopo: furore e desiderio, quel fuoco che non si è mai spento
La mia seconda figlia in questi giorni sta facendo gli esami di terza media. Immagini e ricordi lontani nel tempo sbucano fuori. Quarant'anni fa anche io facevo quegli stessi esami. E mi ricordo...
Il ragazzino curvo sul foglio, nel grande tavolo della sala. Sfoglia continuamente un minuscolo dizionario italiano-inglese, poi prende la penna e annota ogni singola parola: “the”, articolo, “il”. Bene, commenta. Va avanti così in quell’impresa impossibile, tradurre i testi di quelle canzoni di “quel” disco. Più difficile quando trova espressioni non contemplate nel vocabolarietto, tipo “son of a bitch” o "nigger".
Una mattina a scuola il prof di tedesco chiede alla classe di portargli “uno di quei dischi di quei cantanti che ascoltate sempre, mi interessa capire l’uso dell’inglese moderno”. Lui gli porta ovviamente “quel” disco, che per lui è “il” disco (anche perché non poteva permettersene economicamente tanti in prima superiore e comunque era il disco che gli stava cambiando la vita, anche se non se ne rendeva ancora bene conto). Il giorno dopo il prof torna in classe sbraitando e mollandogli malamente indietro il disco: “Ma che razza di inglese è questo, poi è pieno di parolacce, i Beatles sì che cantano usando un inglese scolasticamente perfetto!”. Ecco un buon motivo per starsene alla larga dai Beatles pensa, accarezzando teneramente il suo disco.
Anni dopo, a una cena super posh (cercatelo sul vocabolario) con i dirigenti americani di Mtv che stavano per aprire i loro uffici in Italia, la manager chiede ai giornalisti: “Come avete imparato l’inglese?”. Silenzio. “Ascoltando i dischi rock, immagino”. Tutti alzano la mano: io sì! Anche io! Certo! A lui il pensiero va a quei lunghi pomeriggi spesi a tradurre quelle canzoni, non si alzava dal tavolo neanche se i suoi amici, come fino a poche settimane prima, venivano a chiamarlo per andare a giocare a pallone o se in televisione c'era il suo programma preferito. "In realtà" disse alla donna "io ho imparato l'americano, non l'inglese". Era vero.
D’altro canto non poteva farne a meno. Da quella sera che per puro caso, chiuso in cucina dai genitori che ricevevano nel salotto buono degli ospiti, facendo zapping sugli unici due canali disponibili, Rai Uno e Rai Due, era incappato in quella figura inquietante. Aveva smesso di fare qualunque cosa stesse facendo, non poteva togliere gli occhi dallo schermo della tv e non poteva far altro che ascoltare. Pareti, sedie, casa: nulla esisteva più. Una figura enigmatica, ma talmente carismatica da reclamare attenzione senza fare il minimo sforzo. Come si dice in gergo, "bucava lo schermo". Giacca di pelle nera, una capigliatura stile afro, la chitarra, occhi pieni di furore che lanciavano saette minacciose verso di lui. Voleva essere ascoltato. Si imponeva. Era come una sorta di profeta dell’ultima ora che chiamava a uscire dall’angolo in cui ti eri nascosto. Pentitevi peccatori bastardi, sembrava dire. E tu sapevi che aveva ragione anche se non capivi una parola di quello che cantava.
La voce. Incazzata, rabbiosa, veemente, spigolosa, apocalittica, ma allo stesso tempo sprigionava una melodia strana, magica, ipnotica. Ammaliante. E soprattutto incalzante: non si esce vivi da qui, suggeriva misteriosamente. Non era una bella voce no. Non come quelle dei cantanti che ascoltavano i suoi fratelli maggiori, ad esempio i Beatles. Era una sorta di angelo vendicatore. Una canzone lunghissima che non finiva più. Fece in tempo a sentire dai presentatori il titolo: Hurricane. Da quel momento lo scopo della sua vita fu sapere quanto più possibile di quel cantante che, seppe da suo fratello, si chiamava Bob Dylan. Il primo passo doveva essere comprare il disco che, sebbene uscito a gennaio, era in quella tarda primavera ancora il suo ultimo e conteneva quella canzone: si intitolava "Desire". Internet era probabilmente qualcosa che non era ancora nella mente dei suoi creatori e a metà degli anni 70 scoprivi che un disco era uscito anche mesi dopo la pubblicazione.
A giugno, quando ebbe tra le mani le 5mila lire, regalo per la promozione all’esame di terza media, si recò alla Standa dove sapeva si vendevano i dischi. Chiese alla commessa “l’ultimo di Bob Dylan” ma lei non sapeva quale fosse. Lui le disse il titolo, “Desire”. Lei non lo trovava mentre l’angoscia cominciava a stringergli lo stomaco: ma io devo averlo! diceva a se stesso. Ah eccolo, disse la commessa. Sollievo. Ma si chiama “Desiré” (alla francese). Pagò e lo portò via ripetendo fra sé e sé: presuntuosa ignorante.
"Desire" pubblicato nei primi giorni di gennaio 1976, fu il 17esimo disco della carriera di Bob Dylan, cominciata con il primo album del 1962. E’ un disco unico fra i suoi tanti capolavori, frutto di un periodo particolare di genialità e passione creativa, quando il cantante tornò nei luoghi dove aveva mosso i primi passi da sconosciuto per diventare il più acclamato artista rock degli anni 60 insieme a Beatles e Stones. Tornò al Greenwich Village di New York, dove ancora sopravvivevano i suoi antichi compagni di quei giorni antichi e riprese possesso del suo ruolo, riscoprendo chi era.
Accompagnato da una violinista zigana incontrata per caso sui marciapiedi del Village e portata in studio, da una sezione ritmica potente e pulsante come un treno nel seguire le sue linee musicali irregolari e improvvisate, e dalla voce meravigliosa di Emmylou Harris, l’ex compagna di Gram Parsons (che si dannò per riuscire ad armonizzare con lui, incapace di aspettare gli altri e sempre avanti), con l'aiuto nel comporre alcuni testi del commediografo di Broadway Jacques Levy, Dylan incise in alcune sedute di registrazioni caotiche la versione rock di Furore di Steinbeck e le visioni dei Vagabondi del Dharma di Jack Kerouac. Un disco che è la messa in scena della New York degli anni 70, delle sue contraddizioni e dei suoi eroi perdenti, di un'America a metà strada nel suo percorso, piena di dubbi e interrogativi.
Rubin Hurricane Carter, il pugile condannato all’ergastolo per un omicidio che non aveva mai commesso; il boss della mafia Joey Gallo che diventa una sorta di Robin Hood che abita e muore nelle Main Streets di Martin Scorsese. La regina degli zingari incontrata nel sud della Francia a cui dedica una preghiera yiddish straziante in One More Cup of Coffee; fuorilegge, santi e peccatori in fuga nel Messico di Pancho Villa inseguiti da un Pat Garrett fuori tempo massimo, in Romance in Durango; un’isola dell’Oceano Pacifico dove un terremoto travolge, come nel film di John Houston L’isola di corallo (anche se lì era un uragano), l’ambasciatore sovietico, un greco, una donna con un cappello di panama, un soldato omosessuale, un giocatore d’azzardo, il portiere di un albergo, lì esiliati dal mondo della normalità apparente, uniti nella morte. E poi la moglie di Dylan, la cui relazione stava andando a pezzi, dipinta come “un mistico angelo” tra le piramidi egiziane, Isis, Iside, la dea egizia della fertilità in un blues apocalittico seduto al pianoforte come fosse una marcia funebre. Nel disco anche il tempo di uno scherzetto, sorta di spot per un’agenzia di viaggi esotica inesistente – chi diavolo mai avrebbe voluto andare in vacanza in Mozambico? - , Mozambique, a discapito di capolavori registrati in quelle session e lasciati fuori, come Abandoned Love. Ma chi conosce Dylan sa che da ogni suo disco restano sempre fuori uno o due capolavori. Non sarebbe un genio se avesse le idee chiare sulla sua stessa arte e su se stesso.
Il disco si chiude con una disperata implorazione, che porta il titolo della moglie stessa, Sara. Dicono le leggende che mentre Dylan stava registrando questa canzone, lei fosse dietro al vetro dello studio di registrazione. Un momento di cinema verità, di vita, arte, amore e odio che culminano in un momento fotografato per l’eternità. Dopo il divorzio della coppia, un paio di anni dopo, questa canzone non sarebbe mai più stata eseguita dal vivo.
Con Hurricane infine Bob Dylan, come a inizio carriera, era tornato a essere la voce degli ultimi, di tutti gli“aching ones whose wounds cannot be nursed (…) the countless confused, accused, misused, strung-out ones an’ worse”. L’America guardava a lui di nuovo come il punto di riferimento, sembrava essere di nuovo colui che “indica la strada” e magari adesso, là dove i presidenti americani affondavano negli scandali e nella mancanza di alcuna ispirazione, in un paese che usciva con le ossa rotte da una guerra inutile e che aveva ucciso i suoi giovani migliori, lui era in grado di portarla fuori dalle paludi del post Vietnam, Bob Dylan stava invece già guardando oltre.
Desire (che all’interno conteneva lunghe note poetiche di Allen Ginsberg, entusiaste, tanto da scrivere di un nuovo rinascimento poetico, simile a quanto accaduto nel 1955 - i poeti beat - e nel 1965 - la controcultura) fu l’ultimo grande successo discografico di Bob Dylan, un milione di copie vendute solo in Italia, ai primi posti in molte classifiche del mondo. Tutte queste canzoni sono state rimosse dal suo autore: quando l’arte incontra la vita troppo profondamente, quello che resta è sangue nei solchi. Lui era comunque già andato via, altrove, a inseguire il mistero della vita, mai pago e per sempre incapace di rimanere nello stesso posto con le stesse persone. “Un milione di facce ai miei piedi ma tutto quello che vedo sono occhi scuri”.
Ma per noi mortali le canzoni restano e il disco può suonare ancora e ancora. Le ferite che sono diverse per ciascun ascoltatore si riaprono e si richiudono con consolazione a ogni ascolto: “Metti su un disco e gli angeli si radunano intorno” aveva promesso Dylan.
Bob Dylan mi ha preso una sera dal mondo dell’innocenza per darmi mille visioni di un lento treno dove il tempo non interferisce, e un tamburino magico quando il dolore senza senso scompare; attraverso giorni di crescita e attraverso le lotte con il mondo e con me stesso, con il sapore agrodolce della solitudine, come un uccello ferito sul filo della luce. Le sue parole taglienti come lama di rasoio mi marchiarono a sangue per lunghi anni, dandomi come una barriera per respingere gli assalti del mondo e del male sino a che venne il momento di pagare il prezzo alla vita e non bastò più nemmeno quello scudo. Ma ancora, in certi momenti, faccio ritorno a quella barriera, un luogo della mente e dell’anima dove io sono io e nessun altro può entrarci. E lì mi sento salvo, al sicuro dal male del mondo. Quelle canzoni sono rimaste. Come un tatuaggio marchiato a fuoco nel sangue. Come un segno. Come un urlo.
Adesso sorrido, insieme a quel ragazzino di quaranta anni fa curvo sul foglio, che non avrebbe mai pensato che quarant'anni dopo Bob Dylan potesse ancora fare dischi e concerti. Sono stato fortunato: quale titolo più bello e autentico poteva avere il primo disco della mia vita di questo: “desire”, desiderio. Il desiderio di una vita piena di occasioni e incontri, di bellezza e felicità impiantato nel cuore, quello che hanno tutti gli uomini e le donne della terra. Non sapevo di averlo, un disco me lo tirò fuori. Ci sarebbe stato un prezzo da pagare, perché per vivere all’altezza del nostro desiderio si prendono pugni in faccia, calci nel sedere, a volte lo eliminiamo noi perché fa troppo male, a volte si palesa inaspettato in un paio di occhi, in un tramonto, in una notte stellata. A volte in una carezza, altre, spesso, in una bottiglia di vino da quattro soldi lanciata a frantumarsi contro gli scogli. A volte fa male, davvero male. Come un cavatappi infilato nel cuore, o come un uccello sul filo che il vento butta giù. Quel desiderio che nessuno può togliermi, se non io. Quel desiderio di essere alla fine accolto da un abbraccio che non finisce più: Oh sister when I come to knock on your door Don't turn away you'll create sorrow Time is an ocean but it ends at the shore You may not see me tomorrow.
Quella sera che fui mandato in cucina per non disturbare.
Ps: l'autore ci tiene a precisare che oggi ama e adora i Beatles...
Il ragazzino curvo sul foglio, nel grande tavolo della sala. Sfoglia continuamente un minuscolo dizionario italiano-inglese, poi prende la penna e annota ogni singola parola: “the”, articolo, “il”. Bene, commenta. Va avanti così in quell’impresa impossibile, tradurre i testi di quelle canzoni di “quel” disco. Più difficile quando trova espressioni non contemplate nel vocabolarietto, tipo “son of a bitch” o "nigger".
Una mattina a scuola il prof di tedesco chiede alla classe di portargli “uno di quei dischi di quei cantanti che ascoltate sempre, mi interessa capire l’uso dell’inglese moderno”. Lui gli porta ovviamente “quel” disco, che per lui è “il” disco (anche perché non poteva permettersene economicamente tanti in prima superiore e comunque era il disco che gli stava cambiando la vita, anche se non se ne rendeva ancora bene conto). Il giorno dopo il prof torna in classe sbraitando e mollandogli malamente indietro il disco: “Ma che razza di inglese è questo, poi è pieno di parolacce, i Beatles sì che cantano usando un inglese scolasticamente perfetto!”. Ecco un buon motivo per starsene alla larga dai Beatles pensa, accarezzando teneramente il suo disco.
Anni dopo, a una cena super posh (cercatelo sul vocabolario) con i dirigenti americani di Mtv che stavano per aprire i loro uffici in Italia, la manager chiede ai giornalisti: “Come avete imparato l’inglese?”. Silenzio. “Ascoltando i dischi rock, immagino”. Tutti alzano la mano: io sì! Anche io! Certo! A lui il pensiero va a quei lunghi pomeriggi spesi a tradurre quelle canzoni, non si alzava dal tavolo neanche se i suoi amici, come fino a poche settimane prima, venivano a chiamarlo per andare a giocare a pallone o se in televisione c'era il suo programma preferito. "In realtà" disse alla donna "io ho imparato l'americano, non l'inglese". Era vero.
D’altro canto non poteva farne a meno. Da quella sera che per puro caso, chiuso in cucina dai genitori che ricevevano nel salotto buono degli ospiti, facendo zapping sugli unici due canali disponibili, Rai Uno e Rai Due, era incappato in quella figura inquietante. Aveva smesso di fare qualunque cosa stesse facendo, non poteva togliere gli occhi dallo schermo della tv e non poteva far altro che ascoltare. Pareti, sedie, casa: nulla esisteva più. Una figura enigmatica, ma talmente carismatica da reclamare attenzione senza fare il minimo sforzo. Come si dice in gergo, "bucava lo schermo". Giacca di pelle nera, una capigliatura stile afro, la chitarra, occhi pieni di furore che lanciavano saette minacciose verso di lui. Voleva essere ascoltato. Si imponeva. Era come una sorta di profeta dell’ultima ora che chiamava a uscire dall’angolo in cui ti eri nascosto. Pentitevi peccatori bastardi, sembrava dire. E tu sapevi che aveva ragione anche se non capivi una parola di quello che cantava.
La voce. Incazzata, rabbiosa, veemente, spigolosa, apocalittica, ma allo stesso tempo sprigionava una melodia strana, magica, ipnotica. Ammaliante. E soprattutto incalzante: non si esce vivi da qui, suggeriva misteriosamente. Non era una bella voce no. Non come quelle dei cantanti che ascoltavano i suoi fratelli maggiori, ad esempio i Beatles. Era una sorta di angelo vendicatore. Una canzone lunghissima che non finiva più. Fece in tempo a sentire dai presentatori il titolo: Hurricane. Da quel momento lo scopo della sua vita fu sapere quanto più possibile di quel cantante che, seppe da suo fratello, si chiamava Bob Dylan. Il primo passo doveva essere comprare il disco che, sebbene uscito a gennaio, era in quella tarda primavera ancora il suo ultimo e conteneva quella canzone: si intitolava "Desire". Internet era probabilmente qualcosa che non era ancora nella mente dei suoi creatori e a metà degli anni 70 scoprivi che un disco era uscito anche mesi dopo la pubblicazione.
A giugno, quando ebbe tra le mani le 5mila lire, regalo per la promozione all’esame di terza media, si recò alla Standa dove sapeva si vendevano i dischi. Chiese alla commessa “l’ultimo di Bob Dylan” ma lei non sapeva quale fosse. Lui le disse il titolo, “Desire”. Lei non lo trovava mentre l’angoscia cominciava a stringergli lo stomaco: ma io devo averlo! diceva a se stesso. Ah eccolo, disse la commessa. Sollievo. Ma si chiama “Desiré” (alla francese). Pagò e lo portò via ripetendo fra sé e sé: presuntuosa ignorante.
"Desire" pubblicato nei primi giorni di gennaio 1976, fu il 17esimo disco della carriera di Bob Dylan, cominciata con il primo album del 1962. E’ un disco unico fra i suoi tanti capolavori, frutto di un periodo particolare di genialità e passione creativa, quando il cantante tornò nei luoghi dove aveva mosso i primi passi da sconosciuto per diventare il più acclamato artista rock degli anni 60 insieme a Beatles e Stones. Tornò al Greenwich Village di New York, dove ancora sopravvivevano i suoi antichi compagni di quei giorni antichi e riprese possesso del suo ruolo, riscoprendo chi era.
Accompagnato da una violinista zigana incontrata per caso sui marciapiedi del Village e portata in studio, da una sezione ritmica potente e pulsante come un treno nel seguire le sue linee musicali irregolari e improvvisate, e dalla voce meravigliosa di Emmylou Harris, l’ex compagna di Gram Parsons (che si dannò per riuscire ad armonizzare con lui, incapace di aspettare gli altri e sempre avanti), con l'aiuto nel comporre alcuni testi del commediografo di Broadway Jacques Levy, Dylan incise in alcune sedute di registrazioni caotiche la versione rock di Furore di Steinbeck e le visioni dei Vagabondi del Dharma di Jack Kerouac. Un disco che è la messa in scena della New York degli anni 70, delle sue contraddizioni e dei suoi eroi perdenti, di un'America a metà strada nel suo percorso, piena di dubbi e interrogativi.
Rubin Hurricane Carter, il pugile condannato all’ergastolo per un omicidio che non aveva mai commesso; il boss della mafia Joey Gallo che diventa una sorta di Robin Hood che abita e muore nelle Main Streets di Martin Scorsese. La regina degli zingari incontrata nel sud della Francia a cui dedica una preghiera yiddish straziante in One More Cup of Coffee; fuorilegge, santi e peccatori in fuga nel Messico di Pancho Villa inseguiti da un Pat Garrett fuori tempo massimo, in Romance in Durango; un’isola dell’Oceano Pacifico dove un terremoto travolge, come nel film di John Houston L’isola di corallo (anche se lì era un uragano), l’ambasciatore sovietico, un greco, una donna con un cappello di panama, un soldato omosessuale, un giocatore d’azzardo, il portiere di un albergo, lì esiliati dal mondo della normalità apparente, uniti nella morte. E poi la moglie di Dylan, la cui relazione stava andando a pezzi, dipinta come “un mistico angelo” tra le piramidi egiziane, Isis, Iside, la dea egizia della fertilità in un blues apocalittico seduto al pianoforte come fosse una marcia funebre. Nel disco anche il tempo di uno scherzetto, sorta di spot per un’agenzia di viaggi esotica inesistente – chi diavolo mai avrebbe voluto andare in vacanza in Mozambico? - , Mozambique, a discapito di capolavori registrati in quelle session e lasciati fuori, come Abandoned Love. Ma chi conosce Dylan sa che da ogni suo disco restano sempre fuori uno o due capolavori. Non sarebbe un genio se avesse le idee chiare sulla sua stessa arte e su se stesso.
Il disco si chiude con una disperata implorazione, che porta il titolo della moglie stessa, Sara. Dicono le leggende che mentre Dylan stava registrando questa canzone, lei fosse dietro al vetro dello studio di registrazione. Un momento di cinema verità, di vita, arte, amore e odio che culminano in un momento fotografato per l’eternità. Dopo il divorzio della coppia, un paio di anni dopo, questa canzone non sarebbe mai più stata eseguita dal vivo.
Con Hurricane infine Bob Dylan, come a inizio carriera, era tornato a essere la voce degli ultimi, di tutti gli“aching ones whose wounds cannot be nursed (…) the countless confused, accused, misused, strung-out ones an’ worse”. L’America guardava a lui di nuovo come il punto di riferimento, sembrava essere di nuovo colui che “indica la strada” e magari adesso, là dove i presidenti americani affondavano negli scandali e nella mancanza di alcuna ispirazione, in un paese che usciva con le ossa rotte da una guerra inutile e che aveva ucciso i suoi giovani migliori, lui era in grado di portarla fuori dalle paludi del post Vietnam, Bob Dylan stava invece già guardando oltre.
Desire (che all’interno conteneva lunghe note poetiche di Allen Ginsberg, entusiaste, tanto da scrivere di un nuovo rinascimento poetico, simile a quanto accaduto nel 1955 - i poeti beat - e nel 1965 - la controcultura) fu l’ultimo grande successo discografico di Bob Dylan, un milione di copie vendute solo in Italia, ai primi posti in molte classifiche del mondo. Tutte queste canzoni sono state rimosse dal suo autore: quando l’arte incontra la vita troppo profondamente, quello che resta è sangue nei solchi. Lui era comunque già andato via, altrove, a inseguire il mistero della vita, mai pago e per sempre incapace di rimanere nello stesso posto con le stesse persone. “Un milione di facce ai miei piedi ma tutto quello che vedo sono occhi scuri”.
Ma per noi mortali le canzoni restano e il disco può suonare ancora e ancora. Le ferite che sono diverse per ciascun ascoltatore si riaprono e si richiudono con consolazione a ogni ascolto: “Metti su un disco e gli angeli si radunano intorno” aveva promesso Dylan.
Bob Dylan mi ha preso una sera dal mondo dell’innocenza per darmi mille visioni di un lento treno dove il tempo non interferisce, e un tamburino magico quando il dolore senza senso scompare; attraverso giorni di crescita e attraverso le lotte con il mondo e con me stesso, con il sapore agrodolce della solitudine, come un uccello ferito sul filo della luce. Le sue parole taglienti come lama di rasoio mi marchiarono a sangue per lunghi anni, dandomi come una barriera per respingere gli assalti del mondo e del male sino a che venne il momento di pagare il prezzo alla vita e non bastò più nemmeno quello scudo. Ma ancora, in certi momenti, faccio ritorno a quella barriera, un luogo della mente e dell’anima dove io sono io e nessun altro può entrarci. E lì mi sento salvo, al sicuro dal male del mondo. Quelle canzoni sono rimaste. Come un tatuaggio marchiato a fuoco nel sangue. Come un segno. Come un urlo.
Adesso sorrido, insieme a quel ragazzino di quaranta anni fa curvo sul foglio, che non avrebbe mai pensato che quarant'anni dopo Bob Dylan potesse ancora fare dischi e concerti. Sono stato fortunato: quale titolo più bello e autentico poteva avere il primo disco della mia vita di questo: “desire”, desiderio. Il desiderio di una vita piena di occasioni e incontri, di bellezza e felicità impiantato nel cuore, quello che hanno tutti gli uomini e le donne della terra. Non sapevo di averlo, un disco me lo tirò fuori. Ci sarebbe stato un prezzo da pagare, perché per vivere all’altezza del nostro desiderio si prendono pugni in faccia, calci nel sedere, a volte lo eliminiamo noi perché fa troppo male, a volte si palesa inaspettato in un paio di occhi, in un tramonto, in una notte stellata. A volte in una carezza, altre, spesso, in una bottiglia di vino da quattro soldi lanciata a frantumarsi contro gli scogli. A volte fa male, davvero male. Come un cavatappi infilato nel cuore, o come un uccello sul filo che il vento butta giù. Quel desiderio che nessuno può togliermi, se non io. Quel desiderio di essere alla fine accolto da un abbraccio che non finisce più: Oh sister when I come to knock on your door Don't turn away you'll create sorrow Time is an ocean but it ends at the shore You may not see me tomorrow.
Quella sera che fui mandato in cucina per non disturbare.
Ps: l'autore ci tiene a precisare che oggi ama e adora i Beatles...
Thursday, April 28, 2016
Songs of love & hate
"Spero che moriate e che la vostra morte venga presto, seguirò il vostro feretro in un pallido pomeriggio e starò a guardare mentre vi seppelliscono e resterò sulla vostra tomba fino a quando sarò certo che siate morti". Bob Dylan è uno che sa odiare, non c'è dubbio. D'altro canto la prima canzone "vaffanculo" della storia del rock, che fosse dedicata agli ex compagni "politicamente impegnati" o a una ex fidanzata poco conta: Positively Fourth Street è una tale ondata di disprezzo e di odio come nessuno mai prima e mai dopo. Bob Dylan non ha mai scritto canzoni di pietà, di misericordia, di patetica fratellanza fondata sul nulla, non avrebbe cioè mai potuto scrivere Imagine.
Anche quando si converte alla "religione dell'amore", il cristianesimo, la sua fede è iniettata di odio, rancore e vendetta.
Slow Train Comin' è un disco che fa paura. Se si supera la barriera ideologica del buonismo di sinistra, quella che fece scandalizzare tutti i superstiti del 68 ancora in circolazione (in risposta a Gotta Serve Somebody, John Lennon scrisse e registrò il brano Serve Yourself, velenosa parodia della forte religiosità presente nella canzone di Dylan. Nel suo diario, a proposito del brano di Dylan, Lennon scrisse: «La produzione di Jerry Wexler è pessima, il cantato patetico, e il testo veramente imbarazzante» *) si scopre un disco che non sa cosa sia la carità. La musica di Slow Train Comin' si adegua perfettamente a questa notte di ira furibonda che attraversa le canzoni. E' dura, aspra, taglia in due l'ascoltatore. Dopo aver sentito Change my way of thinkin', ai tempi, un mio amico rimase senza parole per lunghi secondi poi commentò: "Bob Dylan non ha mai fatto rock così duro nella sua vita".
Liberati i cavalli, bagnatosi nelle acque di un Giordano che assomiglia di più all'Acheronte, spogliatosi dei vestiti glam da super star, da nuovo Elvis, che aveva indossato nel tour mondiale di un anno prima, Bob Dylan esce adesso da una palude putrida della Louisiana, da un campo di cotone del Mississippi, da un juke joint dell'Alabama con indosso qualche straccio. E' la reincarnazione di Robert Johnson tornato dall'inferno per dire che il mondo intorno è andato a puttane ed è destinato a implodere. I decenni che sono seguiti a questo disco hanno dimostrato come la profezia contenuta in questo disco si sia avverata.
L'unico che ai tempi dell'uscita del disco se ne accorse fu Charles Shaar Murray di NME, che descrisse il messaggio delle canzoni "sgradevole e pieno d'odio". In Italia il problema non si poneva neanche perché già ai tempi di Street Legal Stampa Alternativa definiva Dylan "un traditore che ha rinnegato tutto il suo passato e un porco fascista". Per il fondatore e direttore di Rolling Stone Jann Wenner questo disco, scrisse nella sua recensione, poteva essere, musicalmente, il miglior disco di Dylan di sempre e certamente il migliore dai tempi dei Basement Tapes. Risentito oggi, quasi quarant'anni dopo, Slow Train Comin' suona fresco e potente esattamente come allora, anzi di più, perché è cresciuto ancora e di musica così brutale oggi non se ne sente più.
Bob Dylan - Precious Angel di butterflyah
Anche Nick Cave ne colse il contenuto reale, citando il brano di apertura, Gotta serve somebody: «Quel trascinarsi predatorio dell'apertura, le liriche intrecciate, la voce logora e seducente, l'immensa mancanza di carità nel suo messaggio, il senso di agonia del tutto...Mi trovavo in un bar, l'avevo ascoltata al jukebox e mi guardai in giro, domandandomi come mai le vite di tutti i presenti non fossero state immediatamente cambiate da quell'ascolto».
Le chitarre taglienti come rasoi implacabili di Mark Knopfler dettano le cadenze dei brani, la ritmica martellante e pulsante è ossessiva e inquietante, le voci femminili sono indietro, come registrate in un'altra stanza e più che un coro gospel sembrano le voci di anime dannate che spingono per tornare in vita. E la voce. Lou Reed la definirebbe "vicious": è strisciante e brutale, è incazzosa e viscerale: "Gli uomini imploreranno Dio di ucciderli, ma loro non saranno in grado di morire". Oh mercy? No mercy!
Cosa successe in quegli studi dell'Alabama in quelle notti in cui fu registrato il disco, nessuno lo sa, neanche il leggendario produttore Jerry Wrexler: "Non avevo idea che si fosse lasciato coinvolgere in questa storia dei Cristiani Rinati finché non cercò di coinvolgermi. Gli dissi: Guarda Bob, hai a che fare con un incallito ateo ebreo di 62 anni. Non c'è speranza per me. Limitiamoci a fare 'sto disco, va bene?".
Come è durata per tutto il disco, la rabbia si ricompone solo alla fine. Le acque del Mississippi per la prima volta si placano. La performance vocale che Dylan rilascia da solo al pianoforte in When He return è il vertice di ogni sua performance vocale (anche se il Grammy per la performance vocale dell'anno andò a Gotta serve somebody), un gioiello di forza e di sentimento e tenerezza e compassione.
Anni dopo, Dylan avrebbe così commentato: "Quel periodo in cui fui un Cristiano Rinato fu parte della mia esperienza di vita. Doveva accadere. Quando vengo coinvolto in qualcosa, vengo coinvolto in maniera totale, non marginale". Non ci sono mezze misure nella vita e nell'arte. Per questo Bob Dylan è sempre stato il più grande artista rock. Qualunque cosa l'uomo faccia, deve servire Dio o il Diavolo, non esistono vie di mezzo e bisogna decidere da che parte schierarsi. Il bene e il male esisteranno sempre.
* Lennon's Lost Diary Tape (5th September 1979), The Complete Lost Lennon Tapes, Vol. 17
Anche quando si converte alla "religione dell'amore", il cristianesimo, la sua fede è iniettata di odio, rancore e vendetta.
Slow Train Comin' è un disco che fa paura. Se si supera la barriera ideologica del buonismo di sinistra, quella che fece scandalizzare tutti i superstiti del 68 ancora in circolazione (in risposta a Gotta Serve Somebody, John Lennon scrisse e registrò il brano Serve Yourself, velenosa parodia della forte religiosità presente nella canzone di Dylan. Nel suo diario, a proposito del brano di Dylan, Lennon scrisse: «La produzione di Jerry Wexler è pessima, il cantato patetico, e il testo veramente imbarazzante» *) si scopre un disco che non sa cosa sia la carità. La musica di Slow Train Comin' si adegua perfettamente a questa notte di ira furibonda che attraversa le canzoni. E' dura, aspra, taglia in due l'ascoltatore. Dopo aver sentito Change my way of thinkin', ai tempi, un mio amico rimase senza parole per lunghi secondi poi commentò: "Bob Dylan non ha mai fatto rock così duro nella sua vita".
Slow Train Coming - Bob Dylan from summer soul channel on Vimeo.
Liberati i cavalli, bagnatosi nelle acque di un Giordano che assomiglia di più all'Acheronte, spogliatosi dei vestiti glam da super star, da nuovo Elvis, che aveva indossato nel tour mondiale di un anno prima, Bob Dylan esce adesso da una palude putrida della Louisiana, da un campo di cotone del Mississippi, da un juke joint dell'Alabama con indosso qualche straccio. E' la reincarnazione di Robert Johnson tornato dall'inferno per dire che il mondo intorno è andato a puttane ed è destinato a implodere. I decenni che sono seguiti a questo disco hanno dimostrato come la profezia contenuta in questo disco si sia avverata.
L'unico che ai tempi dell'uscita del disco se ne accorse fu Charles Shaar Murray di NME, che descrisse il messaggio delle canzoni "sgradevole e pieno d'odio". In Italia il problema non si poneva neanche perché già ai tempi di Street Legal Stampa Alternativa definiva Dylan "un traditore che ha rinnegato tutto il suo passato e un porco fascista". Per il fondatore e direttore di Rolling Stone Jann Wenner questo disco, scrisse nella sua recensione, poteva essere, musicalmente, il miglior disco di Dylan di sempre e certamente il migliore dai tempi dei Basement Tapes. Risentito oggi, quasi quarant'anni dopo, Slow Train Comin' suona fresco e potente esattamente come allora, anzi di più, perché è cresciuto ancora e di musica così brutale oggi non se ne sente più.
Bob Dylan - Precious Angel di butterflyah
Anche Nick Cave ne colse il contenuto reale, citando il brano di apertura, Gotta serve somebody: «Quel trascinarsi predatorio dell'apertura, le liriche intrecciate, la voce logora e seducente, l'immensa mancanza di carità nel suo messaggio, il senso di agonia del tutto...Mi trovavo in un bar, l'avevo ascoltata al jukebox e mi guardai in giro, domandandomi come mai le vite di tutti i presenti non fossero state immediatamente cambiate da quell'ascolto».
Le chitarre taglienti come rasoi implacabili di Mark Knopfler dettano le cadenze dei brani, la ritmica martellante e pulsante è ossessiva e inquietante, le voci femminili sono indietro, come registrate in un'altra stanza e più che un coro gospel sembrano le voci di anime dannate che spingono per tornare in vita. E la voce. Lou Reed la definirebbe "vicious": è strisciante e brutale, è incazzosa e viscerale: "Gli uomini imploreranno Dio di ucciderli, ma loro non saranno in grado di morire". Oh mercy? No mercy!
Cosa successe in quegli studi dell'Alabama in quelle notti in cui fu registrato il disco, nessuno lo sa, neanche il leggendario produttore Jerry Wrexler: "Non avevo idea che si fosse lasciato coinvolgere in questa storia dei Cristiani Rinati finché non cercò di coinvolgermi. Gli dissi: Guarda Bob, hai a che fare con un incallito ateo ebreo di 62 anni. Non c'è speranza per me. Limitiamoci a fare 'sto disco, va bene?".
Come è durata per tutto il disco, la rabbia si ricompone solo alla fine. Le acque del Mississippi per la prima volta si placano. La performance vocale che Dylan rilascia da solo al pianoforte in When He return è il vertice di ogni sua performance vocale (anche se il Grammy per la performance vocale dell'anno andò a Gotta serve somebody), un gioiello di forza e di sentimento e tenerezza e compassione.
Anni dopo, Dylan avrebbe così commentato: "Quel periodo in cui fui un Cristiano Rinato fu parte della mia esperienza di vita. Doveva accadere. Quando vengo coinvolto in qualcosa, vengo coinvolto in maniera totale, non marginale". Non ci sono mezze misure nella vita e nell'arte. Per questo Bob Dylan è sempre stato il più grande artista rock. Qualunque cosa l'uomo faccia, deve servire Dio o il Diavolo, non esistono vie di mezzo e bisogna decidere da che parte schierarsi. Il bene e il male esisteranno sempre.
* Lennon's Lost Diary Tape (5th September 1979), The Complete Lost Lennon Tapes, Vol. 17
Monday, November 23, 2015
Le foglie morte
La parata di poliziotti e carabinieri con il mitragliatore stretto fra le mani sembra uscire da quel vicolo della desolazione che il cantante che stiamo andando a sentire ha cantato tante volte. Fa davvero impressione trovarsi in una lunga colonna che procede lentamente verso l’ingresso con quella scorta armata fino ai denti: è guerra. La spensieratezza di un concerto svanisce mentre procedi a piccoli passi e non puoi pensare che in un teatro simile una settimana fa esatta tanti come te sono morti ammazzati durante un concerto. I controlli uno a uno, con il metal detector, le borse aperte e scandagliate a fondo, i computer lasciati forzatamente agli uomini armati all’ingresso: è guerra.
Dentro per fortuna l’atmosfera cambia, e quando le luci si spengono e le prime note delle chitarre al buio si spargono nella sala comincia un applauso all’inizio timido perché ancora congelato dai pensieri di prima. Poi sempre più forte mano a mano che nella penombra i musicisti raccolgono i loro strumenti e infine diventa un boato di liberazione, potente, selvaggio, ininterrotto quando la figurina esile di Bob Dylan prende il suo posto. Sembriamo dire: ce l’abbiamo fatta, siamo vivi, e lui è qui con noi, che lotta e piange con noi.
Da quel momento alla fine tutto il concerto è racchiuso dal brano che lo apre a quello che lo chiude, come due profezie, come due implacabili maledizioni, come quel senso di umanità follemente incomprensibile che è la cifra stessa delle canzoni di Dylan. “People are crazy and times are strange I’m locked in tight, I’m out of range I used to care, but things have changed” sputa fuori quasi con disprezzo nell’iniziale Things Have Changed. Canzone vincitrice di un premio Oscar, scritta nel 2000 ancora prima degli attentati alle Torri Gemelle, contiene tutta l’inquietante e misteriosa capacità profetica del suo autore: “La gente è pazza, i tempi sono strani, sono ingessato qui, sono fuori vista, una volta me ne importava ma adesso le cose sono cambiate”. Il senso però questa volta sembra diverso: non è più lo sprezzante annuncio di chi ha rinunciato a vivere perché la vita è diventata incomprensibile e si chiama fuori. Adesso è quasi il lamento di chi chiede perdono per non essere capace di cambiare il mondo e se stesso.
CLICCA SU QUESTO LINK PER LEGGERE TUTTO L'ARTICOLO
Dentro per fortuna l’atmosfera cambia, e quando le luci si spengono e le prime note delle chitarre al buio si spargono nella sala comincia un applauso all’inizio timido perché ancora congelato dai pensieri di prima. Poi sempre più forte mano a mano che nella penombra i musicisti raccolgono i loro strumenti e infine diventa un boato di liberazione, potente, selvaggio, ininterrotto quando la figurina esile di Bob Dylan prende il suo posto. Sembriamo dire: ce l’abbiamo fatta, siamo vivi, e lui è qui con noi, che lotta e piange con noi.
Da quel momento alla fine tutto il concerto è racchiuso dal brano che lo apre a quello che lo chiude, come due profezie, come due implacabili maledizioni, come quel senso di umanità follemente incomprensibile che è la cifra stessa delle canzoni di Dylan. “People are crazy and times are strange I’m locked in tight, I’m out of range I used to care, but things have changed” sputa fuori quasi con disprezzo nell’iniziale Things Have Changed. Canzone vincitrice di un premio Oscar, scritta nel 2000 ancora prima degli attentati alle Torri Gemelle, contiene tutta l’inquietante e misteriosa capacità profetica del suo autore: “La gente è pazza, i tempi sono strani, sono ingessato qui, sono fuori vista, una volta me ne importava ma adesso le cose sono cambiate”. Il senso però questa volta sembra diverso: non è più lo sprezzante annuncio di chi ha rinunciato a vivere perché la vita è diventata incomprensibile e si chiama fuori. Adesso è quasi il lamento di chi chiede perdono per non essere capace di cambiare il mondo e se stesso.
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Friday, October 23, 2015
La chiave dell'anima
C'è una zona franca nelle nostre esistenze, dove nessuno può entrare, neanche i violenti e i dittatori. "È qualcosa che sfugge ai leader, che il potere non può controllare, una delle pochissime. Nessun dittatore può imbrigliarla. È zona franca, l’unica che ci resta" ha detto poco tempo fa Keith Richards nel corso di una intervista parlando della musica rock e delle canzoni.
Ho sempre vissuto una esperienza similare quando ho ascoltato una canzone, sin dalle primissime volte, quando ero un ragazzino. Nel momento stesso in cui le prime note si spargono nell'aria, è come se un muro si ergesse tra me e il mondo, tra me e gli altri. Una forza più grande di me mi trascina, mi trasporta e mi conduce altrove. In quella zona franca di cui parla Keith Richards. Lì, nessuno può entrare, tantomeno il male del mondo, i potenti, i violenti, i dittatori. Il mio stesso male rimane fuori. E' una forma di autismo probabilmente, ma è salvifico. A me ha salvato la vita.
E soprattutto non sono stato io a creare questi muri. Non è stata una costruzione auto imposta. E' accaduto. Una liberazione immensa, qualcosa di più grande di me e di misterioso. Succede continuamente, anche quando accendo la radio in macchina, qualcosa si sovrappone al rumore fastidioso, alle chiacchiere inutili e banali. A volte mi sono dovuto fermare e accostare la macchina al ciglio della strada per non perdere un istante di una canzone che stava passando improvvisamente. A volte una frase rivoltami mentre ascoltavo una canzone mi ha fatto male come uno schiaffone in faccia, perché ha interrotto quel mio viaggio meraviglioso.
Non è che necessariamente l'ascolto di una canzone mi faccia stare meglio o peggio, semplicemente mi tira fuori da me, spalanca il mio io a un Io più grande. A volte mentre ascolto un disco sto galleggiando sopra il mio corpo disteso là, sopra il divano. Lo guardo affascinato e sono in trance.
"Non ho mai trovato un duplicato di quella chiave che apre l’anima" ha detto ancora Richards. Neanche io ho mai fatto una esperienza più liberante, solo in quei momenti sono in contatto con la mia anima, il mio io più profondo e troppo spesso trascurato dalla vita.
Naturalmente questo tipo di esperienza non è sufficiente per condurre una esistenza "liberata". Il fatto stesso che la canzone dopo tre o quattro minuti finisca è un brutale ritorno alla realtà, una realtà che va comunque affrontata. Ma quello che ho vissuto in quei pochi minuti in quella zona franca, lascia una sorta di eco che riverbera dentro di me, suggerendomi che la vita è qualcosa che va oltre e verso quell'oltre io posso e devo guardare.
Se oggi le canzoni rock hanno perso in gran parte quella carica propulsiva e immaginifica che possedevano, c'è abbastanza materiale in cinquant'anni di storia per attingervi continuamente. Qualcosa che è sempre stato trascurato, qualcosa definito un passatempo, una distrazione, qualcosa che non ha mai avuto una dignità culturale, almeno in Italia.
Nei paesi angloamericani le canzoni rock sono state recepite come quello che sono state per davvero, il più grande esperimento innovatore culturale e sociale del novecento. Una esplosione di libertà, di porte abbattute, di connessione dell'anima con il grande spirito che muove l'universo. Presidenti della Repubblica, primi ministri, scienziati, scrittori e registi citano continuamente canzoni rock, attingono a quella carica per giudicare il presente. C'è una mole immensa di giudizi storici e politici, ma soprattutto umani, nelle canzoni rock. Nessun altra forma di comunicazione degli ultimi cinquanta, sessant'anni ha espresso in maniera talmente profonda il contenuto del cuore dell'uomo: bisogno di felicità, di giustizia, di amore, di significato, il grido dell'uomo in poche parole.
Ci sono dischi come Highway 61 Revisited di Bob Dylan che descrivono meglio di qualunque trattato socio politico che cosa succedeva nell'America degli anni 60 e ci sono canzoni come Stairway to Heaven dei Led Zeppelin che descrivono tutto il mistero che inabita nell'uomo e oltre l'uomo.
Ma in Italia tutto questo non è mai stato recepito. E' un peccato. Continuiamo ad assistere a dibattici politici che usano formule appartenenti a un passato naufragato, che non hanno più nulla da dire all'uomo di oggi, linguaggi che si rifanno a ideologie marxiste, liberal che non parlano più a una umanità che intanto è andata da un'altra parte. Professori universitari e insegnati scolastici insistono in linguaggi codificati che non dicono nulla ai giovani, non sanno suscitare alcun interesse, censurando la ricchezza del loro io. Eppure c'è un patrimonio là fuori, in centinaia di dischi, che sa dire tanto.
Immaginate di tornare a casa ogni sera e trovare cucinato da vostra moglie lo stesso menu. Un piatto di pastasciutta al sugo rosso e una bistecca. Così ogni sera della vita. Poi una volta per caso entrate in cucina e trovate ogni ben di dio, carni, pesce, condimenti succulenti, piatti di ogni tipo. Vostra moglie è lì che se li sta godendo. Voi ne assaggiate qualcuno, vi incuriosite, ma poi tornate alla sicurezza della pastasciutta. Così accade con le canzoni rock, lasciate in cucina per pochi.
Le trasmissioni televisive italiane hanno imposto da tempo un blackout cerebrale. Il modo di intervistare i musicisti, sempre con le solite domande a base di luoghi comuni. Ma, più in generale, il fatto è che c'è poca o nessuna preparazione e si tirano fuori sempre le stesse cose: la droga, lo spirito ribelle, il sesso e la trasgressione.
Bob Dylan è il menestrello di Duluth e il cantore del '68, Bruce Springsteen è quello di Born in the Usa. Patti Smith è la sacerdotessa del punk.
In generale il rock trattato sempre come una cosa da ribelli, da alternativi, come una curiosità zoologica.
Un importante quotidiano a proposito del film su Janis Joplin, ha scritto: Jonis e i Bog Brothers.
Nella sua intervista Keith Richards lascia intuire che le canzoni rock hanno un linguaggio che va oltre e aiuta a capire cosa succede. "Solo più tardi avrei capito che in quelle cose che chiamavamo americane di America non c’era niente. Il paese è un miscuglio di razze. Questo e solo questo mi affascina degli Stati Uniti: al contrario dell’Europa, ne riconosci l’identità attraverso la musica più che attraverso la letteratura o la pittura".
Va bene citare i soliti noti, da Leopardi a Cesare Pavese, soprattutto perché è facile, scontato e non costa fatica, ma quanta ricchezza si potrebbe comunicare ai giovani parlando loro di Nick Cave o Leonard Cohen. Non è esterofilia: ci ripetono tutti i giorni che viviamo in un mondo globalizzato, ma vale solo per le strategie economiche. E la cultura?
Va bene leggere I promessi sposi, ma chissà cosa scatterebbe nei giovani se si leggessero Il libro del desiderio di Leonard Cohen, le poesie di Patti Smith o I diari del campo di basket di Jim Carroll.
"Per me il rock and roll è sempre stato per tutti, fin dall’inizio. Avvertivo qualcosa di profondissimo, di sconvolgente in quel ritmo. Mai pensato che fosse musica usa e getta. Non ho mai trovato un duplicato di quella chiave che apre l’anima". Chi quella chiave l'ha trovata, ringrazia.
Ho sempre vissuto una esperienza similare quando ho ascoltato una canzone, sin dalle primissime volte, quando ero un ragazzino. Nel momento stesso in cui le prime note si spargono nell'aria, è come se un muro si ergesse tra me e il mondo, tra me e gli altri. Una forza più grande di me mi trascina, mi trasporta e mi conduce altrove. In quella zona franca di cui parla Keith Richards. Lì, nessuno può entrare, tantomeno il male del mondo, i potenti, i violenti, i dittatori. Il mio stesso male rimane fuori. E' una forma di autismo probabilmente, ma è salvifico. A me ha salvato la vita.
E soprattutto non sono stato io a creare questi muri. Non è stata una costruzione auto imposta. E' accaduto. Una liberazione immensa, qualcosa di più grande di me e di misterioso. Succede continuamente, anche quando accendo la radio in macchina, qualcosa si sovrappone al rumore fastidioso, alle chiacchiere inutili e banali. A volte mi sono dovuto fermare e accostare la macchina al ciglio della strada per non perdere un istante di una canzone che stava passando improvvisamente. A volte una frase rivoltami mentre ascoltavo una canzone mi ha fatto male come uno schiaffone in faccia, perché ha interrotto quel mio viaggio meraviglioso.
Non è che necessariamente l'ascolto di una canzone mi faccia stare meglio o peggio, semplicemente mi tira fuori da me, spalanca il mio io a un Io più grande. A volte mentre ascolto un disco sto galleggiando sopra il mio corpo disteso là, sopra il divano. Lo guardo affascinato e sono in trance.
"Non ho mai trovato un duplicato di quella chiave che apre l’anima" ha detto ancora Richards. Neanche io ho mai fatto una esperienza più liberante, solo in quei momenti sono in contatto con la mia anima, il mio io più profondo e troppo spesso trascurato dalla vita.
Naturalmente questo tipo di esperienza non è sufficiente per condurre una esistenza "liberata". Il fatto stesso che la canzone dopo tre o quattro minuti finisca è un brutale ritorno alla realtà, una realtà che va comunque affrontata. Ma quello che ho vissuto in quei pochi minuti in quella zona franca, lascia una sorta di eco che riverbera dentro di me, suggerendomi che la vita è qualcosa che va oltre e verso quell'oltre io posso e devo guardare.
Se oggi le canzoni rock hanno perso in gran parte quella carica propulsiva e immaginifica che possedevano, c'è abbastanza materiale in cinquant'anni di storia per attingervi continuamente. Qualcosa che è sempre stato trascurato, qualcosa definito un passatempo, una distrazione, qualcosa che non ha mai avuto una dignità culturale, almeno in Italia.
Nei paesi angloamericani le canzoni rock sono state recepite come quello che sono state per davvero, il più grande esperimento innovatore culturale e sociale del novecento. Una esplosione di libertà, di porte abbattute, di connessione dell'anima con il grande spirito che muove l'universo. Presidenti della Repubblica, primi ministri, scienziati, scrittori e registi citano continuamente canzoni rock, attingono a quella carica per giudicare il presente. C'è una mole immensa di giudizi storici e politici, ma soprattutto umani, nelle canzoni rock. Nessun altra forma di comunicazione degli ultimi cinquanta, sessant'anni ha espresso in maniera talmente profonda il contenuto del cuore dell'uomo: bisogno di felicità, di giustizia, di amore, di significato, il grido dell'uomo in poche parole.
Ci sono dischi come Highway 61 Revisited di Bob Dylan che descrivono meglio di qualunque trattato socio politico che cosa succedeva nell'America degli anni 60 e ci sono canzoni come Stairway to Heaven dei Led Zeppelin che descrivono tutto il mistero che inabita nell'uomo e oltre l'uomo.
Ma in Italia tutto questo non è mai stato recepito. E' un peccato. Continuiamo ad assistere a dibattici politici che usano formule appartenenti a un passato naufragato, che non hanno più nulla da dire all'uomo di oggi, linguaggi che si rifanno a ideologie marxiste, liberal che non parlano più a una umanità che intanto è andata da un'altra parte. Professori universitari e insegnati scolastici insistono in linguaggi codificati che non dicono nulla ai giovani, non sanno suscitare alcun interesse, censurando la ricchezza del loro io. Eppure c'è un patrimonio là fuori, in centinaia di dischi, che sa dire tanto.
Immaginate di tornare a casa ogni sera e trovare cucinato da vostra moglie lo stesso menu. Un piatto di pastasciutta al sugo rosso e una bistecca. Così ogni sera della vita. Poi una volta per caso entrate in cucina e trovate ogni ben di dio, carni, pesce, condimenti succulenti, piatti di ogni tipo. Vostra moglie è lì che se li sta godendo. Voi ne assaggiate qualcuno, vi incuriosite, ma poi tornate alla sicurezza della pastasciutta. Così accade con le canzoni rock, lasciate in cucina per pochi.
Le trasmissioni televisive italiane hanno imposto da tempo un blackout cerebrale. Il modo di intervistare i musicisti, sempre con le solite domande a base di luoghi comuni. Ma, più in generale, il fatto è che c'è poca o nessuna preparazione e si tirano fuori sempre le stesse cose: la droga, lo spirito ribelle, il sesso e la trasgressione.
Bob Dylan è il menestrello di Duluth e il cantore del '68, Bruce Springsteen è quello di Born in the Usa. Patti Smith è la sacerdotessa del punk.
In generale il rock trattato sempre come una cosa da ribelli, da alternativi, come una curiosità zoologica.
Un importante quotidiano a proposito del film su Janis Joplin, ha scritto: Jonis e i Bog Brothers.
Nella sua intervista Keith Richards lascia intuire che le canzoni rock hanno un linguaggio che va oltre e aiuta a capire cosa succede. "Solo più tardi avrei capito che in quelle cose che chiamavamo americane di America non c’era niente. Il paese è un miscuglio di razze. Questo e solo questo mi affascina degli Stati Uniti: al contrario dell’Europa, ne riconosci l’identità attraverso la musica più che attraverso la letteratura o la pittura".
Va bene citare i soliti noti, da Leopardi a Cesare Pavese, soprattutto perché è facile, scontato e non costa fatica, ma quanta ricchezza si potrebbe comunicare ai giovani parlando loro di Nick Cave o Leonard Cohen. Non è esterofilia: ci ripetono tutti i giorni che viviamo in un mondo globalizzato, ma vale solo per le strategie economiche. E la cultura?
Va bene leggere I promessi sposi, ma chissà cosa scatterebbe nei giovani se si leggessero Il libro del desiderio di Leonard Cohen, le poesie di Patti Smith o I diari del campo di basket di Jim Carroll.
"Per me il rock and roll è sempre stato per tutti, fin dall’inizio. Avvertivo qualcosa di profondissimo, di sconvolgente in quel ritmo. Mai pensato che fosse musica usa e getta. Non ho mai trovato un duplicato di quella chiave che apre l’anima". Chi quella chiave l'ha trovata, ringrazia.
Sunday, September 13, 2015
Il suono della vita
Ricordo le telefonate eccitate: ma fa anche Chimes of Freedom, una versione irriconoscibile. Così irriconoscibile che infatti non era neanche Chimes of Freedom. In quei giorni antichi in cui si scopriva che stava per uscire un disco nuovo solo attraverso i passaparola dei più informati e soprattutto qualche passaggio radio, quando le radio non erano spazzatura, ma erano libere, libere veramente come cantava Eugenio Finardi, l'attesa aumentava di giorno in giorno. Poi il disco usciva e naturalmente un ragazzino di 14 anni non poteva permettersi di comprarlo subito, doveva aspettare la luna buona dei genitori che gli sganciassero i soldini.
Hard Rain usciva il 13 settembre di 39 anni fa. Era un bel periodo quello per essere ragazzi, c'era tanta bella musica dietro ogni angolo. Desire era uscito solo sette mesi prima, io l'avevo comprato due mesi prima, e già c'era un altro nuovo disco di Bob Dylan. Un disco misterioso, strano, pure bizzarro. A cominciare da quell'incredibile foto di copertina, un volto straniato e straniante, in primissimo piano, con quegli occhi inquietanti ed evidentemente sballati. Un disco punk prima del punk, un disco ferocemente garage, che urlava la stessa follia del Dylan di dieci anni prima, quello di "play fucking loud". Un Dylan spiazzante e irriconoscibile come allora, che buttava là un disco live con soli nove pezzi quando tutti facevano dei lussuosi doppi live che poi erano dei greatest hits pure ritoccati in studio per correggere errori e stonature e per auto incensarsi: ascoltate come siamo bravi, sembrava dicessero tutti.
Dylan se ne fregava. Il suono era indecifrabile, avvolto di nebbie soniche, la voce implacabile, cattiva, le canzoni scelte tra le sue più oscure, ma di una bellezza travolgente. Una bellezzaa inquietante. Cambiava i testi originali, improvvisava, guidava i musicisti dietro di lui nel caos più totale, nel buio più spaventoso, per uscirne salvo alla fine, ma era una guerra. C'era sangue nei solchi.
Il più grande disco dal vivo di Bob Dylan per chi scrive ancora oggi, ancor più della magnificenza dei live del 1966. Idiot Wind, la più grande performance mai registrata dal vivo della più grande canzone di sempre. Shakespeare sta gridando nel cortile. Paura. Le più intense e commoventi declamazioni liriche, One too many mornings. Mestizia, dolore, separazione, solitudine agghiacciante, You're a big girl now. Un urlo implacable, Lay lady lay. Garage rock del più insolente e straboccante, Maggie's farm.
Erano dei giorni gloriosi quelli per essere un ragazzino che si affacciava alla vita e quel disco suona ancora oggi più vivo che mai e più misterioso di allora.
Quella faccia finì anche su un poster, e quel poster finì sul muro della mia stanza da letto. A dettare il tempo, il ritmo della scoperta, la paura di crescere, le ansie, la consolazione, una compagnia per guardare in faccia a una vita che non era quella che doveva essere.
Ma non eri solo. Quel disco mi ha salvato la vita. Fu un riparo dalla tempesta della vita, proprio come la canzone, Shelter from the storm.
Hard Rain usciva il 13 settembre di 39 anni fa. Era un bel periodo quello per essere ragazzi, c'era tanta bella musica dietro ogni angolo. Desire era uscito solo sette mesi prima, io l'avevo comprato due mesi prima, e già c'era un altro nuovo disco di Bob Dylan. Un disco misterioso, strano, pure bizzarro. A cominciare da quell'incredibile foto di copertina, un volto straniato e straniante, in primissimo piano, con quegli occhi inquietanti ed evidentemente sballati. Un disco punk prima del punk, un disco ferocemente garage, che urlava la stessa follia del Dylan di dieci anni prima, quello di "play fucking loud". Un Dylan spiazzante e irriconoscibile come allora, che buttava là un disco live con soli nove pezzi quando tutti facevano dei lussuosi doppi live che poi erano dei greatest hits pure ritoccati in studio per correggere errori e stonature e per auto incensarsi: ascoltate come siamo bravi, sembrava dicessero tutti.
Dylan se ne fregava. Il suono era indecifrabile, avvolto di nebbie soniche, la voce implacabile, cattiva, le canzoni scelte tra le sue più oscure, ma di una bellezza travolgente. Una bellezzaa inquietante. Cambiava i testi originali, improvvisava, guidava i musicisti dietro di lui nel caos più totale, nel buio più spaventoso, per uscirne salvo alla fine, ma era una guerra. C'era sangue nei solchi.
Il più grande disco dal vivo di Bob Dylan per chi scrive ancora oggi, ancor più della magnificenza dei live del 1966. Idiot Wind, la più grande performance mai registrata dal vivo della più grande canzone di sempre. Shakespeare sta gridando nel cortile. Paura. Le più intense e commoventi declamazioni liriche, One too many mornings. Mestizia, dolore, separazione, solitudine agghiacciante, You're a big girl now. Un urlo implacable, Lay lady lay. Garage rock del più insolente e straboccante, Maggie's farm.
Erano dei giorni gloriosi quelli per essere un ragazzino che si affacciava alla vita e quel disco suona ancora oggi più vivo che mai e più misterioso di allora.
Quella faccia finì anche su un poster, e quel poster finì sul muro della mia stanza da letto. A dettare il tempo, il ritmo della scoperta, la paura di crescere, le ansie, la consolazione, una compagnia per guardare in faccia a una vita che non era quella che doveva essere.
Ma non eri solo. Quel disco mi ha salvato la vita. Fu un riparo dalla tempesta della vita, proprio come la canzone, Shelter from the storm.
Shelter From The Storm - Bob Dylan from Rolling Thunder Bard on Vimeo.
Friday, September 11, 2015
Incoerente anche come panettiere
Adesso che tutti quelli che ti davano dei consigli vomitano la loro plastica ai miei piedi per convincermi del mio dolore e che le mie conclusioni dovrebbero essere più drastiche. Non chiedetemi più di presentare i vostri libri quando nessun editore vuole pubblicare i miei. Non chiedetemi di ascoltare i vostri dischi. Non chiedetemi di scrivere recensioni dei vostri libri e delle vostre canzoni con la scusa che vi interessa la mia opinione, se così fosse me la chiedereste in privato. Ho fatto scarpe per tutti, ho creato anche dei mostri, siete stati più furbi di me, mentre io vado ancora in giro scalzo. Non mandatemi post su facebook, a meno che me li mandiate dal vicolo della desolazione.
Io voglio tornare a casa da mia mamma, mangiare la pastasciutta che ha cucinato per me e camminare per ore intorno al tavolo basso rotondo della sala mentre sta suonando Workingman's Dead dei Grateful Dead. Voglio ascoltare Alabama Rain di Jim Croce mentre lei suona il campanello e sale a trovarmi. Per rinunciare alla mia giovinezza ho fatta tanta fatica, anche per arrivare di fronte al mare. Queen Jan, approssimativamente, vieni a trovarmi. Sono incoerente, anche come panettiere.
Io voglio tornare a casa da mia mamma, mangiare la pastasciutta che ha cucinato per me e camminare per ore intorno al tavolo basso rotondo della sala mentre sta suonando Workingman's Dead dei Grateful Dead. Voglio ascoltare Alabama Rain di Jim Croce mentre lei suona il campanello e sale a trovarmi. Per rinunciare alla mia giovinezza ho fatta tanta fatica, anche per arrivare di fronte al mare. Queen Jan, approssimativamente, vieni a trovarmi. Sono incoerente, anche come panettiere.
Sunday, August 30, 2015
Abramo sull'autostrada 61
Il 30 agosto di cinquant'anni, un ragazzino ebreo che aveva da poco compiuto 24 anni pubblicò un disco che si intitolava "Highway 61 Revisited". Cinquant'anni dopo quasi tutti sono concordi nel definirlo il più importante disco rock di sempre. "Chiunque abbia un po' di sale in zucca sa che Highway 61 Revisited è il più grande disco rock della storia" mi disse ad esempio una volta uno che di musica rock sa una o due cose, artista rock lui stesso di vaglia, John Mellencamp.
Pubblicato secondo disco di una trilogia che spezzerebbe le reni a qualunque altro collega, e di fatto nessuno si è mai avvicinato a tali vertici, tanto che John Lennon in quei mesi del 1965 si alzò in piedi e come membro dell'allora gruppo rock più importante del pianeta, si azzardò a dire: "E' Bob Dylan che ci mostra la strada". "Highway 61 Revisited" nonostante tanta gloria non è forse ancora stato ancora esplorato a fondo. Gli altri due dischi per la cronaca sono "Bringing It All Back Home" di pochi mesi precedente a questo e "Blonde on Blonde" di meno di un anno successivo. Insieme costituiscono la trilogia più esplosiva, emozionante, affascinante e rivoluzionaria di sempre, tanto che l’irrompere sulle scene musicali della seconda metà degli anni 60 di gruppi rock e di solisti successiva ad essi non sarebbe stata minimamente ipotizzabile. La canzone radiofonica di tre minuti era spazzata via (il 45 giri di Like a Rolling Stone venne pubblicato su due facciate, e nonostante questo schizzò in testa a tutte le classifiche) e come disse Joni Mitchell ascoltando un brano delle session di “Highway 61 Revisited” pubblicato su singolo, Positively 4th Street, “adesso in una canzone si può davvero parlare di tutto, anche mandare a fanculo le persone”. La musica rock era stata liberata e con essa nulla sarebbe stato più uguale a prima. Ma soprattutto quello che Bob Dylan introduceva, ad esempio con Mr. Tambourine Man, era mettere in primo piano in una canzone l’io, punto centrale del dramma umano, che le ideologie e il moralismo borghese dell’America del dopo guerra aveva nascosto sotto i detriti del consumismo volgare, delle ipocrisie piccolo borghesi, della superiorità anche razziale: WASP, “white anglo saxon protestant”, quelli che probabilmente avevano fatto fuori lo scomodo JFK. Costringendo tra l’altro lo stesso Dylan ad abbandonare l’impegno politico dopo la notizia della sua morte.
Quel linguaggio musicale e lirico inedito ancora oggi viene guardato da chiunque prenda in mano una chitarra (non ci sarebbe mai stato un Bruce Springsteen, per dirne uno, senza questi tre dischi). Quei tre dischi sono stati il più completo, ambizioso e avventuroso ritratto in musica dell'America, dei suoi fantasmi, delle sue promesse mancate, delle sue radici, mai inciso da un artista rock.
Se si vuole sapere cosa fu l'America degli anni 60 non servono trattati sociologici, interpretazioni politiche, discussioni filosofiche. Basta ascoltare questi dischi in sequenza. Se il vostro cervello non esploderà davanti a questa potenza sonica e lirica, allora avrete di che meditare per il resto della vostra vita. Non è un caso ad esempio che le Black Panther, il movimento afroamericano para terroristico, nacque quando i due fondatori passarono un pomeriggio ad ascoltare senza sosta il brano Ballad of a Thin Man, contenuto in "Highway 61".
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Pubblicato secondo disco di una trilogia che spezzerebbe le reni a qualunque altro collega, e di fatto nessuno si è mai avvicinato a tali vertici, tanto che John Lennon in quei mesi del 1965 si alzò in piedi e come membro dell'allora gruppo rock più importante del pianeta, si azzardò a dire: "E' Bob Dylan che ci mostra la strada". "Highway 61 Revisited" nonostante tanta gloria non è forse ancora stato ancora esplorato a fondo. Gli altri due dischi per la cronaca sono "Bringing It All Back Home" di pochi mesi precedente a questo e "Blonde on Blonde" di meno di un anno successivo. Insieme costituiscono la trilogia più esplosiva, emozionante, affascinante e rivoluzionaria di sempre, tanto che l’irrompere sulle scene musicali della seconda metà degli anni 60 di gruppi rock e di solisti successiva ad essi non sarebbe stata minimamente ipotizzabile. La canzone radiofonica di tre minuti era spazzata via (il 45 giri di Like a Rolling Stone venne pubblicato su due facciate, e nonostante questo schizzò in testa a tutte le classifiche) e come disse Joni Mitchell ascoltando un brano delle session di “Highway 61 Revisited” pubblicato su singolo, Positively 4th Street, “adesso in una canzone si può davvero parlare di tutto, anche mandare a fanculo le persone”. La musica rock era stata liberata e con essa nulla sarebbe stato più uguale a prima. Ma soprattutto quello che Bob Dylan introduceva, ad esempio con Mr. Tambourine Man, era mettere in primo piano in una canzone l’io, punto centrale del dramma umano, che le ideologie e il moralismo borghese dell’America del dopo guerra aveva nascosto sotto i detriti del consumismo volgare, delle ipocrisie piccolo borghesi, della superiorità anche razziale: WASP, “white anglo saxon protestant”, quelli che probabilmente avevano fatto fuori lo scomodo JFK. Costringendo tra l’altro lo stesso Dylan ad abbandonare l’impegno politico dopo la notizia della sua morte.
Quel linguaggio musicale e lirico inedito ancora oggi viene guardato da chiunque prenda in mano una chitarra (non ci sarebbe mai stato un Bruce Springsteen, per dirne uno, senza questi tre dischi). Quei tre dischi sono stati il più completo, ambizioso e avventuroso ritratto in musica dell'America, dei suoi fantasmi, delle sue promesse mancate, delle sue radici, mai inciso da un artista rock.
Se si vuole sapere cosa fu l'America degli anni 60 non servono trattati sociologici, interpretazioni politiche, discussioni filosofiche. Basta ascoltare questi dischi in sequenza. Se il vostro cervello non esploderà davanti a questa potenza sonica e lirica, allora avrete di che meditare per il resto della vostra vita. Non è un caso ad esempio che le Black Panther, il movimento afroamericano para terroristico, nacque quando i due fondatori passarono un pomeriggio ad ascoltare senza sosta il brano Ballad of a Thin Man, contenuto in "Highway 61".
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Friday, July 17, 2015
Full moon. And empty arms
"L'unica cosa che io e Bob Dylan abbiamo in comune è il numero delle lettere nel nostro nome di battesimo": scherza così Ben Harper, sul palco del Moon and Stars Festival di Locarno, chiamato ad aprire per il leggendario cantautore.
Umile, simpatico, dispensatore di buone vibrazioni di chiara matrice hippie che lo percorrono in lungo e in largo, il musicista di Claremont, California, ha dimostrato se ce n'era bisogno tutta la stoffa artistica che lo caratterizza, in una accoppiata, la sua e Dylan, che è stata quella americanissima, tra padri e figli, di un'unica identità musicale seppur dispiegata con accenti diversi. Accompagnato dalla sua band storica, gli Innocent Criminals, tornata dopo tanti progetti solisti e paralleli tra cui il bellissimo disco di qualche tempo fa inciso insieme alla madre, Ben Harper ha emozionato la folta platea della Piazza Grande di Locarno, un catino dalla temperatura simile a quella della giungla della Cambogia, con la sua musica piena di riferimenti alla golden age del rock, gli anni 70. Riff presi in prestito da Led Zeppelin e Stones, deliziose ballate acustiche, spruzzate caraibiche ed echi grunge, talento chitarristico purissimo (con l'aiuto del sempre ottimo ex Wallflowers, Michael Ward) specie quando siede con la sua Weissenborn degli anni 20 sulle ginocchia, un talento come se ne ascolta sempre più raramente. Il suo concerto è una festa, tra sorrisi e una band coi fiocchi in cui spiccava il percussionista, autore di vivaci jam con il batterista e il bassista, da aprire squarci della memoria che arrivano fino ai giorni felici di Woodstock.
Concerto aperto da Diamonds on the Inside, che curiosamente ricorda tanto uno dei classici del Maestro che salirà dopo di lui sul palco, e cioè I Shall Be Released, con tante chicche di una carriera ormai ultra ventennale: Burn to Shine, Roses from my Friends, Steal my Kisses, Amen Omen e tante altre. Ben Harper arriva adesso in Italia, il consiglio è ovviamente di andare a vederlo.
Quando la notte è ormai scesa su Locarno, senza che la bolla di caldo sia diminuita, senza annuncio alcuno improvvisamente sul palco appare lui. Con il suo tipico apparente distacco, prende posto davanti a un microfono curiosamente circondato da altri due vintage, di quelli che usavano Frank Sinatra ed Elvis per capirsi. E' il massimo degli effetti speciali che Dylan offre, oltre a due piccoli busti marmorei piazzati sui monitor di cui non si capisce esattamente il senso: una Venere greca e una sorta di Beethoven, si direbbero.
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Umile, simpatico, dispensatore di buone vibrazioni di chiara matrice hippie che lo percorrono in lungo e in largo, il musicista di Claremont, California, ha dimostrato se ce n'era bisogno tutta la stoffa artistica che lo caratterizza, in una accoppiata, la sua e Dylan, che è stata quella americanissima, tra padri e figli, di un'unica identità musicale seppur dispiegata con accenti diversi. Accompagnato dalla sua band storica, gli Innocent Criminals, tornata dopo tanti progetti solisti e paralleli tra cui il bellissimo disco di qualche tempo fa inciso insieme alla madre, Ben Harper ha emozionato la folta platea della Piazza Grande di Locarno, un catino dalla temperatura simile a quella della giungla della Cambogia, con la sua musica piena di riferimenti alla golden age del rock, gli anni 70. Riff presi in prestito da Led Zeppelin e Stones, deliziose ballate acustiche, spruzzate caraibiche ed echi grunge, talento chitarristico purissimo (con l'aiuto del sempre ottimo ex Wallflowers, Michael Ward) specie quando siede con la sua Weissenborn degli anni 20 sulle ginocchia, un talento come se ne ascolta sempre più raramente. Il suo concerto è una festa, tra sorrisi e una band coi fiocchi in cui spiccava il percussionista, autore di vivaci jam con il batterista e il bassista, da aprire squarci della memoria che arrivano fino ai giorni felici di Woodstock.
Concerto aperto da Diamonds on the Inside, che curiosamente ricorda tanto uno dei classici del Maestro che salirà dopo di lui sul palco, e cioè I Shall Be Released, con tante chicche di una carriera ormai ultra ventennale: Burn to Shine, Roses from my Friends, Steal my Kisses, Amen Omen e tante altre. Ben Harper arriva adesso in Italia, il consiglio è ovviamente di andare a vederlo.
Quando la notte è ormai scesa su Locarno, senza che la bolla di caldo sia diminuita, senza annuncio alcuno improvvisamente sul palco appare lui. Con il suo tipico apparente distacco, prende posto davanti a un microfono curiosamente circondato da altri due vintage, di quelli che usavano Frank Sinatra ed Elvis per capirsi. E' il massimo degli effetti speciali che Dylan offre, oltre a due piccoli busti marmorei piazzati sui monitor di cui non si capisce esattamente il senso: una Venere greca e una sorta di Beethoven, si direbbero.
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Friday, January 30, 2015
Happy Birthday Mister Frank
"Happy birthday, Mister Frank". Non erano in molti quelli che potevano permettersi di rivolgersi a lui chiamandolo semplicemente Frank. Facendo così, al termine della sua esibizione durante la serata dedicata agli 80 anni di Frank Sinatra, Bob Dylan dimostrava ancora una volta la sua sfrontatezza e la sua audacia, caratteristiche che lo avevano sempre caratterizzato nel corso della sua carriera, esattamente come avevano accompagnato quella di Sinatra. E poi Dylan quella sera, così dicono le leggende, era stato invitato a esibirsi personalmente da lui, da Ol' Blue Eyes.
Dylan in cambio dell'onore aveva dato vita a una delle sue più intense e commoventi esibizioni di sempre, scegliendo un suo brano oscuro e dimenticato da tutti, pieno di mestizia, risentimento e malinconia, la canzone Restless Farewell incisa originariamente nel 1964, quando la distanza tra i due non poteva essere più macroscopica. Il folksinger della nuova sinistra e della nuova America kennedyana uno, il simbolo di un'America superata dai tempi e dalle circostanze storiche l'altro, quella della buona borghesia, dei guardiani del mondo libero, del boom economico dove ognuno può farcela.
Restless Farewell, ma pochi se ne accorsero quella sera con l'unica eccezione probabilmente dello stesso Sinatra, era la versione dylaniana di My Way, scritta anni prima che Sinatra incidesse la sua dichiarazione di vita, il suo manifesto. Dylan cantava la stessa dichiarazione di indipendenza e così facendo chiariva perché i due più grandi artisti americani del novecento, insieme a Elvis naturalmente, erano sulla stessa strada: "Un falso orologio prova a sputare fuori il mio tempo, per disgrazia, distrarmi e preoccuparmi, la sporcizia del pettegolezzo mi soffia in faccia, ma se la freccia è dritta e il bersaglio è scivoloso, può penetrare nella povere non importa quanto essa sia spessa, quindi rimarrò fedele a me stesso, rimango quello che sono e dico addio e non me ne frega niente". Esattamente come Sinatra diceva in My Way: "Ho programmato ogni percorso, ho fatto attenzione a ogni passo e molto, molto più di questo, l'ho fatto a modo mio".
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Dylan in cambio dell'onore aveva dato vita a una delle sue più intense e commoventi esibizioni di sempre, scegliendo un suo brano oscuro e dimenticato da tutti, pieno di mestizia, risentimento e malinconia, la canzone Restless Farewell incisa originariamente nel 1964, quando la distanza tra i due non poteva essere più macroscopica. Il folksinger della nuova sinistra e della nuova America kennedyana uno, il simbolo di un'America superata dai tempi e dalle circostanze storiche l'altro, quella della buona borghesia, dei guardiani del mondo libero, del boom economico dove ognuno può farcela.
Restless Farewell, ma pochi se ne accorsero quella sera con l'unica eccezione probabilmente dello stesso Sinatra, era la versione dylaniana di My Way, scritta anni prima che Sinatra incidesse la sua dichiarazione di vita, il suo manifesto. Dylan cantava la stessa dichiarazione di indipendenza e così facendo chiariva perché i due più grandi artisti americani del novecento, insieme a Elvis naturalmente, erano sulla stessa strada: "Un falso orologio prova a sputare fuori il mio tempo, per disgrazia, distrarmi e preoccuparmi, la sporcizia del pettegolezzo mi soffia in faccia, ma se la freccia è dritta e il bersaglio è scivoloso, può penetrare nella povere non importa quanto essa sia spessa, quindi rimarrò fedele a me stesso, rimango quello che sono e dico addio e non me ne frega niente". Esattamente come Sinatra diceva in My Way: "Ho programmato ogni percorso, ho fatto attenzione a ogni passo e molto, molto più di questo, l'ho fatto a modo mio".
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Wednesday, November 05, 2014
Lo! And behold! (an american epic)
“Nella grande musica folk c’è un mistero, c’è magia, c’è verità e c’è la Bibbia. Non potrò mai avvicinarmi a tanto, ma ci proverò” (Bob Dylan, New York Daily News, maggio 1967)
Era l'estate dell'amore, era l'estate del 67. Ed era l'anno della musica magica, colorata, psichedelica. I Beatles si erano inventati la saga del Sergente Pepper e a San Francisco non ci potevi andare se non avevi un fiore tra i capelli. A Monterey salivano alte nel cielo farfalle colorate e le chitarre bruciavano sul palco. Era l'estate di pace & amore, era l'anno delle buone vibrazioni. Era il momento in cui Londra diventava swingin' e i Pink Floyd sognavano che tutti facevano l'amore su astronavi dirette verso spazi siderali. Le gonne diventavano mini, i capelli degli uomini sempre più lunghi, qualcuno andava in India a trovare il senso della vita e le droghe erano sempre di più e sempre più sconvolgenti. Il mondo stava cambiando, era l'anticipo dell'era dell'Acquario, e ogni cosa era possibile.
Ma qualcuno di tutto questo sconvolgimento cosmico non ne sapeva nulla o almeno lo ignorava.
Lassù, sulle Catskill Mountains, faceva freddo. Le case di legno erano disperse nei fitti boschi che guardavano dall'alto la meravigliosa vallata del fiume Hudson. Qua il senso di isolamento era totale. Potevi pensare di vivere ancora ai tempi dei primi esploratori che si imbattevano in qualche tribù indiana. Oppure nel tardo ottocento, quando quassù erano rimasti solo boscaioli, trafficanti di whisky clandestino, predicatori che fuggivano il demonio.
Anche loro in un certo senso erano fuggiti. Uno soprattutto. Era fuggito da una vita che lo stava ammazzando. Curiosamente, se non erano state le droghe, i contestatori che ogni sera si radunavano davanti al palco, le fan invasate che cercavano di strappargli i vestiti di dosso, i giornalisti a caccia di rivelazioni mistiche e rivoluzionarie, a ucciderlo - quasi - erano state proprio queste montagne solitarie.
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Era l'estate dell'amore, era l'estate del 67. Ed era l'anno della musica magica, colorata, psichedelica. I Beatles si erano inventati la saga del Sergente Pepper e a San Francisco non ci potevi andare se non avevi un fiore tra i capelli. A Monterey salivano alte nel cielo farfalle colorate e le chitarre bruciavano sul palco. Era l'estate di pace & amore, era l'anno delle buone vibrazioni. Era il momento in cui Londra diventava swingin' e i Pink Floyd sognavano che tutti facevano l'amore su astronavi dirette verso spazi siderali. Le gonne diventavano mini, i capelli degli uomini sempre più lunghi, qualcuno andava in India a trovare il senso della vita e le droghe erano sempre di più e sempre più sconvolgenti. Il mondo stava cambiando, era l'anticipo dell'era dell'Acquario, e ogni cosa era possibile.
Ma qualcuno di tutto questo sconvolgimento cosmico non ne sapeva nulla o almeno lo ignorava.
Lassù, sulle Catskill Mountains, faceva freddo. Le case di legno erano disperse nei fitti boschi che guardavano dall'alto la meravigliosa vallata del fiume Hudson. Qua il senso di isolamento era totale. Potevi pensare di vivere ancora ai tempi dei primi esploratori che si imbattevano in qualche tribù indiana. Oppure nel tardo ottocento, quando quassù erano rimasti solo boscaioli, trafficanti di whisky clandestino, predicatori che fuggivano il demonio.
Anche loro in un certo senso erano fuggiti. Uno soprattutto. Era fuggito da una vita che lo stava ammazzando. Curiosamente, se non erano state le droghe, i contestatori che ogni sera si radunavano davanti al palco, le fan invasate che cercavano di strappargli i vestiti di dosso, i giornalisti a caccia di rivelazioni mistiche e rivoluzionarie, a ucciderlo - quasi - erano state proprio queste montagne solitarie.
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Monday, April 21, 2014
This is the story of the Hurricane
In quei mesi del 1976 era impossibile non ascoltarla: ogni qualvolta accendevi una radio, la canzone Hurricane di Bob Dylan usciva fuori. Anche nella provincia dell’impero come era ed è ancora oggi l’Italia, così lontana negli anni 70 dal mondo dello spettacolo, della musica e della politica americana, Stati Uniti, il cuore invece dell’impero. In quei giorni Internet era neppure un sogno nella testa di qualche scienziato, eppure la forza di quella canzone fu così devastante che bucò ogni barriera, diventando un singolo di successo planetario. Fu un impatto multi mediatico e multi culturale. Addirittura si ballava nelle prime discoteche, agli albori della disco music che sarebbe esplosa poco dopo con i Bee Gees, per quel suo ritmo incalzante e arrembante. Sbucò anche in televisione, dove Bob Dylan negli ultimi mesi del 1975 si era recato per partecipare a un programma in tributo al discografico che aveva scoperto anni prima lui e tanti altri, ad esempio Bruce Springsteen, John Hammond, e l’aveva cantata in anteprima.
Quella serata venne trasmessa anche alla televisione italiana nei primi mesi del 1976 e per molti fu come se la vita cambiasse nel giro di pochi minuti. Chi scrive quella sera era un ragazzino di 13 anni che cambiò canale così per caso e rimase intrappolato da quella voce mai ascoltata prima, che spalancava orizzonti infiniti, che inquietava e che malediceva, che non era simile a niente altro che avevi ascoltato prima e che ti inchiodava davanti al televisore senza possibilità di proferire un solo “eh”.
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Hurricane - Bob Dylan from LA REVOLUCION ES AHORA! on Vimeo.
Quella serata venne trasmessa anche alla televisione italiana nei primi mesi del 1976 e per molti fu come se la vita cambiasse nel giro di pochi minuti. Chi scrive quella sera era un ragazzino di 13 anni che cambiò canale così per caso e rimase intrappolato da quella voce mai ascoltata prima, che spalancava orizzonti infiniti, che inquietava e che malediceva, che non era simile a niente altro che avevi ascoltato prima e che ti inchiodava davanti al televisore senza possibilità di proferire un solo “eh”.
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Wednesday, January 29, 2014
This Machine Surrounds Hate and Forces It to Surrender
"Certo, è morto. Ma questo non significa che se ne sia andato": così Arlo Guthrie, figlio di quel Woody che aveva cantato e suonato con Pete Seeger, lui stesso compagno di avventure musicali in uno splendido revival degli anni 70 mai realmente interrotto, commentando la morte dell'anziano musicista americano. Pete Seeger, è di lui che stiamo parlando, è morto serenamente lo scorso lunedì, alla veneranda età di 94 anni. Una vita lunga, che ha attraversato quasi tutto il novecento in prima persona, ma anche questo terzo millennio cominciato da poco più di una decina di anni, perché, questa fu la qualità di Seeger, non si è mai fermato o arreso per un semplice motivo. In Seeger la canzone e la vita non avevano una spartizione, ma coincidevano. E lui ha sempre creduto di più nella canzone che nel cantante. Per questo, anche se morto, figure come quella di Peet Seeger non possono scomparire.
(Pete Seeger's banjo)
Certo, in questa epoca banale di notiziari usa e getta, di musica preconfezionata, di perdita della memoria e delle radici, la scomparsa di Seeger rappresenta un po' il taglio, doloroso, della grande quercia che vegliava sull'umanità e che ha tenuto unita l'America nei suoi laceranti conflitti interni. La caduta di questa quercia sta provocando grande rumore e turbamento, ma inevitabilmente da semi buoni potranno nascere frutti buoni.
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(Pete Seeger's banjo)
Certo, in questa epoca banale di notiziari usa e getta, di musica preconfezionata, di perdita della memoria e delle radici, la scomparsa di Seeger rappresenta un po' il taglio, doloroso, della grande quercia che vegliava sull'umanità e che ha tenuto unita l'America nei suoi laceranti conflitti interni. La caduta di questa quercia sta provocando grande rumore e turbamento, ma inevitabilmente da semi buoni potranno nascere frutti buoni.
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Wednesday, January 08, 2014
Make some noize
A volte quello che ci vuole veramente è un po' di rumore, aveva detto qualcuno anni fa. Quella che segue è una storia di rumore, quando il rumore è l'unica cosa che resta per farsi sentire, o per sentire se stessi.
Alla fine degli anni 60 una canzone tracciava le coordinate dell'apocalisse imminente così come la percepivano milioni di americani. All along the watchtower, scritta e incisa da Bob Dylan e pubblicata sul disco "John Wesley Harding" uscito nei primissimi giorni del 1968, l'anno in cui l'apocalisse sembrò davvero diventare ipotesi reale tra massacri in Vietnam e paese in preda alla rivoluzione, era una inquietante ballata acustica dai versi misteriosi sostenuta da un'armonica quasi impossibile da ascoltare, tanto lancinante e acida suonava nelle orecchie degli ascoltatori. Ispirata a diversi passaggi dell'antico testamento, essa sembrava esprimere una inquietudine potente, difficile da decifrare. Chi erano i messaggeri che stavano arrivando? Cosa portavano con sé, quale annuncio di morte e di paura? Chi erano il joker e il ladro, che studiavano come abbandonare una città troppo confusa e assassina? La vita ormai non era diventata altro che una beffa? In pochi versi scarni ed essenziali, Bob Dylan descriveva la pazzia che aveva avvolto la società americana, quella della guerra in Vietnam, e si tirava fuori da tutto ciò: io e te, si dicono il poker e il ladro, ci siamo già passati e non è questo il nostro destino, non diciamo falsità, l'ora sta diventando tarda.
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Alla fine degli anni 60 una canzone tracciava le coordinate dell'apocalisse imminente così come la percepivano milioni di americani. All along the watchtower, scritta e incisa da Bob Dylan e pubblicata sul disco "John Wesley Harding" uscito nei primissimi giorni del 1968, l'anno in cui l'apocalisse sembrò davvero diventare ipotesi reale tra massacri in Vietnam e paese in preda alla rivoluzione, era una inquietante ballata acustica dai versi misteriosi sostenuta da un'armonica quasi impossibile da ascoltare, tanto lancinante e acida suonava nelle orecchie degli ascoltatori. Ispirata a diversi passaggi dell'antico testamento, essa sembrava esprimere una inquietudine potente, difficile da decifrare. Chi erano i messaggeri che stavano arrivando? Cosa portavano con sé, quale annuncio di morte e di paura? Chi erano il joker e il ladro, che studiavano come abbandonare una città troppo confusa e assassina? La vita ormai non era diventata altro che una beffa? In pochi versi scarni ed essenziali, Bob Dylan descriveva la pazzia che aveva avvolto la società americana, quella della guerra in Vietnam, e si tirava fuori da tutto ciò: io e te, si dicono il poker e il ladro, ci siamo già passati e non è questo il nostro destino, non diciamo falsità, l'ora sta diventando tarda.
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Monday, December 02, 2013
Il mio barbarico YAWP
Come tutte le cose, anche di una tournée se ne capiranno contenuti e contorni col tempo. Vale la pena però segnalare alcune cose. Quello che ad esempio si legge in gran numero sui social network a proposito dell'ultimo tour di Bob Dylan, che ha recentemente toccato anche l'Italia con ben sei date. Persone più scafate e con più esperienza live del sottoscritto, ad esempio, quasi unanimemente sottolineano di essersi trovati davanti i migliori concerti di Dylan da lungo tempo. C'è chi dice i migliori addirittura dal 1995, chi dal 2000, chi dal 2003. Viene ovviamente da chiedersi perché. Viene anche da chiedersi se Dylan, con rare eccezioni, non abbia buttato via quasi dieci anni della sua carriera, gli ultimi. Lo dicono anche i media, specie quelli inglesi solitamente molto acidi e critici con Dylan (un po' con tutti, in realtà).
Ecco cosa ha scritto The Independent ad esempio dopo il secondo show di Londra: "A stunning return to form. Where he has gone through the motions in some recent tours, tonight he stood without guitar in front of his band at the front of the stage, not just reinterpreting his songs, but doing so with care and feeling. The voice that can be a relic of past triumphs was marvellously and unexpectedly once more an instrument, elongating syllables in vintage style". Un ritorno alla forma (migliore), una voce meravigliosamente e inaspettatamente ancora una volta uno strumento. Il dubbio che gli ultimi anni Dylan li abbia buttati via dal punto di vista concertistico si fa sempre più forte. Dal 2004 al 2009 circa le sue esibizioni sono state trascurate, mal eseguite, senza cura e senza impegno, con una band di accompagnatori a cui era vietato fare un assolo e con arrangiamenti di livello bassissimo.
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Ecco cosa ha scritto The Independent ad esempio dopo il secondo show di Londra: "A stunning return to form. Where he has gone through the motions in some recent tours, tonight he stood without guitar in front of his band at the front of the stage, not just reinterpreting his songs, but doing so with care and feeling. The voice that can be a relic of past triumphs was marvellously and unexpectedly once more an instrument, elongating syllables in vintage style". Un ritorno alla forma (migliore), una voce meravigliosamente e inaspettatamente ancora una volta uno strumento. Il dubbio che gli ultimi anni Dylan li abbia buttati via dal punto di vista concertistico si fa sempre più forte. Dal 2004 al 2009 circa le sue esibizioni sono state trascurate, mal eseguite, senza cura e senza impegno, con una band di accompagnatori a cui era vietato fare un assolo e con arrangiamenti di livello bassissimo.
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