Saturday, December 27, 2008

Settimane astrali

Ho lasciato l'ufficio l'anti vigilia di Natale con una copia del nuovo disco di Van Morrison, Astral Weeks Live at Hollywood Bowl, che uscirà a metà di febbraio 2009. E' la documentazione dei due concerti tenuti dall'irlandese lo scorso novembre per ricordare il quarantennale di uno dei dischi più affascinanti e misteriosi di tutti i tempi, Astral Weeks appunto.
Il risultato, tenuto conto che in vent'anni circa non sono mai riuscito a vedere un concerto di Morrison degno del suo nome - e ne ho visti tanti -, dell'età dell'artista e della difficoltà dell'esecuzione di un disco così particolare, è sopra ogni aspettativa. Formidabile. Da sottolineare - anche se non c'entra niente con Astral Weeks - uno dei due bis finali, una versione di Common One da brivido, degna di quel capolavoro assoluto che fu uno dei più grandi dischi di tutti i tempi, It's too late to stop now, da cui in questi giorni sto ascoltando a ripetizione un estratto di Astral Weeks lì presente, la pazzesca e mozzafiato esecuzione della bellissima Cyprus Avenue. Che termina appunto nell'urlo rauco e possente: "ITS TOO LATE TO STOP NOW!". Quando la musica faceva paura.
Così, affascinato da queste musiche, ho recuperato anche un bel dvd, Van Morrison a Montreux nel 1980, che presenta una sua performance di altissimo livello. In particolare una It Stoned Me a tempo accelerato davvero esaltante.

Tra un piatto di bollito e uno zampone, sto gustando anche il nuovo disco del sempre bravissimo Neal Casal, Roots and Wings ("le radici e le ali", come direbbero i Gang), uno che se il mondo girasse nel verso giusto invece di essere lui il chitarrista di quell'occasione mancata che risponde al nome di Ryan Adams, sarebbe questi il suo chitarrista. O forse manco quello, magari il roadie. Disco perlopiù acustico, suonato benissimo, pieno di canzoni dal fascino antico e suggestivo.

Infine, come contorno ci metto un Dylan ad altissimo tasso emozionale, il concerto del 19 novembre 2001, tenuto sulle macerie ancora fumanti delle Twin Towers, dove il cantautore rivendica il suo ruolo di voce di una città: "Quasi tutte le canzoni che ho suonato stasera sono state scritte in questa città. Non ho bisogno di altro per dire quanto è importante per me New York". Oltre una It aint me babe da pelle d'oca con assolo di armonica che non sembra finire mai e una fierissima Hard Rain sputata con disprezzo in faccia agli assassini, una Just like Tom Thumb's Blues che finisce con il pubblico del Madison Sqaure Garden in tripudio alle parole di "I'm goin' back to New York City, I do believe I have enooooough!".

Se non ci sentiamo ancora, tra una scossa di terremoto, una tempesta di vento e un freddo polare, buon fine di questo anno (solo adesso mi sono accorto che il 2008 era bisestile, si spiegano tante cose...) e miglior inizio di quello nuovo.

Tuesday, December 23, 2008

Che sia il Natale dei pazzi

“Paura della pazzia. Vedere pazzia in ogni sentimento che miri direttamente a una mèta e faccia dimenticare tutto il resto. Che cosa è allora la non-pazzia? Non-pazzia è stare come un mendicante davanti alla soglia di fianco all’ingresso, marcirvi e crollare.
Eppure P. e O. sono pazzi disgustosi. Ci devono essere pazzie più grandi di coloro che ne sono affetti. Questo espandersi dei piccoli pazzi nella grande pazzia è forse ciò che disgusta.
Ma ai farisei non apparve anche Cristo in queste condizioni?”


(Franz Kafka)

Auguri

Friday, December 19, 2008

Un tempo immemorabile. A Seattle

The phone don't ring
And the sun refused to shine
Never thought I'd have to pay so dearly
For what was already mine
For such a long, long time
We made mad love
Shadow love
Random love
And abandoned love
Accidentally like a martyr

The hurt gets worse and the heart gets harder
The days slide by
Should have done, should have done, we all sigh
Never thought I'd ever be so lonely
After such a long, long time
Time out of mind


Nell’autunno del 2002 Bob Dylan si apprestava a riprendere la strada per una nuova serie di concerti. Non era niente di nuovo, apparentemente, solo una nuova tappa del Never Ending Tour che questa volta sarebbe cominciata da Seattle, nord California.
Niente di nuovo, ma in realtà molto di nuovo. Quella serie di concerti avrebbe segnato un nuovo, ma drammatico, cambiamento, nell’approccio live del cantautore americano. Niente di nuovo neanche qui, visto che era tutta la vita che Dylan lo faceva. Per alcuni (probabilmente solo io) l’inizio della sua parabola discendente.
La sera del 4 ottobre, a Seattle, quando sul palco si notò la presenza di un pianoforte elettrico modello Casio, tutti si chiesero se Dylan avesse assoldato un tastierista. Invece sarebbe stato lui a mettersi dietro alle tastiere. Non lo avrebbe fatto per tutta la serata, ma ben presto sì, quello sarebbe diventato il suo strumento preferito, e addio alla chitarra. Il che dura tutt’oggi, anche se nel tempo Dylan ha imparato a conoscere i vari tasti che la caratterizzano, adesso preferendo la sonorità “organo” a quella “pianoforte”. Con un solo problema: Bob Dylan non sa suonare né il pianoforte né l’organo. Il suo, quella sera, era un “plink plonk” scoordinato e fuori tempo, il più delle volte tenuto saggiamente nascosto nel mixeraggio complessivo degli strumenti dal palco.

Non era solo lo strumento del cantautore che cambiava, ma anche la voce. Nulla di nuovo ancora una volta: in quarant’anni di carriera Bob ylan aveva più volte cambiato la voce di quante volte io abbia cambiato automobile in vent’anni (e ne ho cambiate parecchie). Ogni volta, però, era una sfumatura, un approccio, un qualcosa di diverso, ma che fondamentalmente lasciava intatta la voce. Che non è mai stata bella, per gli standard di Tin Pan Alley, ma affascinante, inquietante, tagliente, sardonica, con quel fraseggio unico che nessuna ha mai avuto nel campo della musica popolare. Adesso invece era solo una voce affaticata. Che mostrava, sera dopo sera, gli inevitabili segni di un deterioramento impossibile a fermarsi. Qualche spiritoso gli affibbiò un nuovo (niente di nuovo…) soprannome: The wolfman, l’uomo lupo. A volte gli mancava il respiro, altre quella voce un tempo orgogliosa e sprezzante crollava a terra in un rantolo doloroso.

E se vi sembra abbastanza, no, non lo è ancora. Non era finita qua. Quella sera a Seattle avrebbe mostrato altro ancora. Dopo una iniziale, rara, ma suonata recentemente anche in Europa, Solid Rock, il quarto pezzo in scaletta lasciò il pubblico a domandarsi se stesse ascoltando un inedito di Dylan. Solo quelli, là in mezzo, che conoscevano uno dei più grandi songwriter americani di sempre (a volte mi viene da pensare, il più grande – dopo Dylan naturalmente) ebbero un sussulto. Erano le note, seppur affaticate nella versione di Dylan, della straordinaria Accidentally like a Martyr. L’autore? Mister Warren Zevon.
Non sarebbe finita lì, perché nel corso della stessa serata di Zevon avrebbe eseguito anche la violenta Boom Boom Mancini e la dolcissima, tristissima Mutineer.

Che sta succedendo qui, mister Jones? Il mondo dei fan si sarebbe scatenato a cercare la risposta su Internet, per scoprire che Bob Dylan aveva deciso di omaggiare un amico morente. Warren Zevon era stato dichiarato malato terminale: il tumore che lo aveva colpito gli lasciava pochi mesi di vita. Per tutto quel tour autunnale Dyan avrebbe continuato ad omaggiarlo, senza mai perdersi in banali discorsetti dal palco sul perché e percome avesse deciso di cantare quelle canzoni: era la musica che parlava, non c’era bisogno di aggiungere altro. Come dire: queste canzoni sono troppo belle perché vadano dimenticate e se adesso il suo autore non può più cantarle, allora lo farò io, un'ultima volta. E poi, le sere dopo,inserendo altri pezzi di Zevon in scaletta, ad esempio Lawyers, Guns and Money. Mai, nella storia del rock, si era assistito a una cosa del genere. Di solito, i tributi si fanno quando l’amico è già nella cassa. Interrogato (Zevon si sarebbe recato a vederlo quando il cantautore avrebbe suonato a Los Angeles, qualche sera dopo), Warren avrebbe detto che queste esecuzioni di sue canzoni da parte di Bob Dylan erano il punto più alto della sua carriera.
Se Mutineer la si può ascoltare nel tributo su cd Enjoy Every Sandwich, fu Accidentally like a Martyr il momento più commovente di questo evento. Ogni sera Bob Dylan, cercando di recuperare ciò che restava della sua voce, avrebbe lasciato srotolare la splendida e maestosa melodia del brano, fino al punto in cui la canzone dice “time out of miiiiiiind”. Già, proprio come il titolo del suo disco di qualche anno prima, Time out of Mind. Un tempo immemorabile, dove risiedono la pietà, la bellezza, il sogno e la speranza. Della vita che non muore. Dove esiste quella “tower of song” di cui canta Leonard Cohen, Dove i poeti, i santi e i peccatori si ritrovano. In un tempo immemorabile. Dove ogni sera trovava rifugio, nel cantarla, il cuore addolorato di Bob Dylan.
Che si può ascoltare qua: http://www.box.net/shared/static/t5sjjbdc3i.mp3

Quel tour avrebbe visto Dylan, sin dalla serata di Seattle, affrontare altre cover: una sorprendente, esplosiva e virulenta Brown Sugar degli Stones; Old Man di Neil Young (che sembrava cucita apposta per lui visto l’argomento toccato…) e finanche una incredibile End of the Innocence, del cantante degli yuppie per eccellenza, Don Henley. Che nella versione di Bob Dylan diventava magnificente.

Era diventato il “cover tour”, il tour delle cover, e in modo sorprendente erano proprio questi brani altrui che Dylan eseguiva nel modo migliore, lasciando noia e routine alle sole sue canzoni. Per quando il tour avrebbe raggiunto New York, per le sue ultime date, era morto un altro grande amico, George Harrison. Nella sera del 13 novembre una nuova cover sarebbe stata aggiunta, per una sola e unica volta: Something.
Warren Zevon, invece, sarebbe morto undici mesi dopo quella sera di Seattle, il 3 settembre 2003. Nel suo ultimo disco, registrato durante la malattia e pubblicato postumo, ringraziava Bob Dylan cantando la canzone di chi si appresta al grande e ultimo viaggio, Knockin’ on Heaven’s Door.

Wednesday, December 17, 2008

The ballad of Jacksie James

La prima volta che lo vidi, era seduto a un tavolo di ristorante, tra Eric Andersen e Rick Danko. Non parlava mai, mi faceva venire in mente il Phil Spector che si vede per pochi minuti nel film Easy Rider. Un personaggio misterioso e alquanto sinistro. Avrei giurato che nella tasca della giacca tenesse nascosta una calibro 45.
Poi ho imparato a conoscerlo. Un uomo, un mito. Uno dei pochi music fan che ha anche il dono dell’umorismo, che non passa il tempo a catalogare le b-side di dischi rari, ma preferisce una buona bottiglia di vino e la compagnia di qualche bella ragazza a noiose discussioni se sia più importante un disco di Dirk Hamilton o uno di Tom Russell. Anche se oggi l’alcol non è che lo regga più così tanto: una volta ho dovuto anche metterlo a letto, non riusciva neanche a togliersi i pantaloni. E dire che non avevamo mica esagerato così tanto.

In tempi impossibili, quando il mestiere di music promoter in Italia non esisteva neanche, parlo della fine degli anni 70, lui volò fino a Woodstock per fare conoscenza con una delle più grandi leggende della musica d’autore, quell’Eric Andersen che se il mondo girasse per il verso giusto oggi dovrebbe avere un posto a fianco, dal punto di vista del successo commerciale, dei vari James Taylor e Jackson Browne. Per quanto riguarda il posto artistico, quello di Andersen è ben al di sopra di Taylor o Browne. Nel 1980 lo portò a suonare in Italia. Che coraggio. Ma erano altri tempi, c’era talmente tanta fame di musica americana che, con una chitarra acustica e accompagnato da un bassista e basta, Andersen si trovò a suonare davanti a più di 3mila persone a un festival dell’Unità.
Le loro avventure on the road le racconterò un’altra volta, citerò soltanto che il buon Eric si spese quasi tutto l’ingaggio per comprarsi un vestito di Armani che poi dimenticò in albergo, mentre una delle sue girlfriend lo buttava fuori della camera pesto e sanguinante. Rock stars…

Con lui ho passato momenti indimenticabili, ad esempio guidando per le strade della Svizzera con a bordo Eric Andersen e Bob Neuwirth: ci mancava solo Bob Dylan e poi avremmo ricostruito esattamente una scena al Greenwich Village metà anni 60. Al ritorno da uno splendido concerto, riuscimmo anche a perdere la strada.
Devo dire che è anche un po’ bastardo: quando Andersen lo invitò a casa sua in Norvegia, dove alloggiava anche Lou Reed e a cui lui insegnò a cucinare gli spaghetti con sugo di pomodoro mentre questi canticchiava “walk on the wild side…”, venne anche portato a fare la conoscenza di Bob Dylan prima di un concerto di questi a Oslo. A me non mi invitò. Ma l’ho perdonato: in fondo, io non l’ho invitato quando Joni Mitchell mi ha invitato a casa sua. Me la sono anche fatta, questa non te l’aveva ancora raccontata, Jacksie.

Ecco, quello è il nome con cui lo chiamano gli amici e le leggende del rock che lui frequenta abitualmente, in quel di Carpi, tra Modena e Correggio: Jacksie. Da anni mi manda quello che è il regalo di Natale che più apprezzo: una compilation cd a tema. Ne ha fatte di tutti i colori: canzoni sulla guerra, sui fiumi o sugli outlaws del vecchio west. Ci trovo sempre pezzi rarissimi di cantautori formidabili di cu non avevo mai sentito parlare. Per non parlare della bonus track che quasi sempre ci infila dentro, un pezzo dove canta lui e suonano i suoi amici. Meglio degli Squallor.
Quest’anno ha festeggiato il decimo anniversario dell’iniziativa addirittura con un doppio cd, anche se devo dirti, caro Jacksie, che con tutti i grandi pezzi di Willy DeVille, perché mai hai pensato di infilarci una delle sue poche ma evidenti porcate, con quel synth e batteria elettronica?

Comunque io voglio bene a quest’uomo. È un amico, un grande amico. L’ultimo romantico, l’ultimo vero fuorilegge tra la via Emilia e il west. God bless you, Jacksie.
Ps: siccome è una star, non vuole essere ripreso dalle macchine fotografiche. Ecco perché una foto di Brad Pitt nei panni di Jesse James, ma in realtà lui è ancora più figo di Brad.

Sunday, December 14, 2008

Quei maledetti 22 minuti

Gran vociare per la clamorosa denuncia (penale) che Claudio Trotta, patron di Barley Arts, una delle più importanti agenzie di promozione concerti italiane, ha ricevuto per colpa di Bruce Springsteen.
Motivo? Aver sforato di 22 minuti l'orario imposto lo scorso giugno durante il concerto del Boss allo stadio San Siro/Meazza di Milano. Il permesso infatti scadeva alle 23 e 30, ma Bruce ha voluto regalare un altro bis al suo pubblico. Adesso, dopo esposto di 46 residenti della zona, è scattata una denuncia che potrebbe portare anche al carcere.
A parte che una denuncia di tal genere dimostra la schizofrenia in cui oggi si muove certa magistratura (il penale lo si usi per casi adeguati e non per 22 minuti di musica in più), tutti a dire che questi residenti cattivi che dovevano comprarsi casa altrove porteranno alla fine della musica live a Milano, e proprio in vista di un evento come l'Expo.

Mah. Tutta la solidarietà a Trotta naturalmente, ma diciamocelo: uno stadio non è stato costruito per i concerti. A parte che la qualità della musica, dentro a San Siro, fa vomitare (e viene da chiedersi che grado di nebbia abbia ormai ottenebrato il cervello di chi gode a sborsare un sacco di soldi per andare a sentire un concerto in uno stadio dove si vede e si sente malissimo e dichararsi poi anche contenti e pronti a rifarlo), è innegabile che chi viva nelle sue vicinanze abbia anche dei diritti. Senza arrivare al penale, ovviamente. A me rompe i coglioni anche la festa annuale dell'oratorio sotto casa mia, che fanno casino e musica fino all'una di notte. Ma è un giorno all'anno. I concerti allo stadio ormai sono il must che ogni musicista deve avere nel curriculum per dire che è un grande. Come nel caso di certi musicisti italiani che regalano i biglietti pur di arrivare a riempire lo stadio e far vedere che ce l'hanno fatta.

Diciamo poi che in Italia nessuno, e i promoter italiani anche, ha mai pensato a costruire luogh deputati alla musica, e alla musica soltanto. Bill Graham, leggendario promoter americano, quello che ha lanciato tutta la scena di San Francisco e non solo, inaugurando ad esempio i due Fillmore, West e East, aprì negli anni a sue spese meravigliosi posti per concerti, ad esempio lo Shoreline Amphitheatre, lontani dalle residenze abitative e con acustica e visuale favolose.
In Italia come sempre ci si aspetta l'intervento dall'alto, dello stato o di chissà chi. Mai sborsare e rischiare di tasca propria, che infilando la gente negli stadi o nei palazzetti si guadagna bene e non si spende un tubo. Al Forum di Assago - comunque costruito per il basket e NON per la musica -, ancora oggi i parcheggi sono campi di patate dove in caso di pioggia si sprofonda nel fango, non esistono uscite regolari dai parcheggi e manca ancora un servizio adeguato per arrivarci e tornare a casa senza macchina.
Avanti così allora, freghiamocene di chi paga il biglietto. E togliamo la denuncia penale a Trotta. Magari facciamo pagare una multa a Bruce?

Thursday, December 11, 2008

Here today, gone tomorrow

A volte penso che i Ramones siano stati l'unico, il più grande e memorabile gruppo rock di tutti i tempi. Hanno scritto grandi canzoni? No. Erano musicisti o cantanti dotati di classe superiore? No. Hanno cambiato il corso della storia della musica? No. Però avevano l'attitudine, che non è il look, ma avere la coscienza di cosa voglia dire fare questa musica. "Johnny Ramone aveva stampato il ghigno del non c'è domani", ha detto qualcuno. Perché poco importa imbastire concerti di alto livello se non stai suonando sempre come se fosse l'ultima occasione della tua vita. E per i Ramones era sempre così.
E a proposito di look: le mode rock nascono e spariscono. Cioè, magari ogni tanto lo stilista di turno decide che è ora di tirare fuori dalla soffitta il modo di vestirsi da hippie, o da rocker anni 50, o da quel che volete (per fortuna le pettinature stile anni 80 non tornano mai), ma il look che i Ramones si erano inventati non è mai passato di moda. Ogni tanto mia figlia 14enne - e siamo nel 2008 - mi sembra Joey Ramone: capelli lunghi sugli occhi, chiodo nero, jeans strappati (sì li hanno inventati loro a metà anni 70 e da allora non sono mai passati di moda) e scarpe da tennis. Troppo figo.E il modo di stare sul palco. Ok Chuck Berry, o Pete Townshend che mulinava il braccio mentre suonava la chitarra, ma dopo Johnny Ramone con le gambe spalancate e la chitarra bassissima e lo sguardo sempre a terra, non si è mai più visto un chitarrista stare sul palco in modo altrettanto formidabile ed epico.

Oggi stavo facendo una ricerca per lavoro e mi sono imbattutto nella storia di quando, nel gennaio 2005, fu inaugurata una statua di bronzo al cimitero di Hollywood, dove Johnny è sepolto. Erano presenti gente come Rob Zombie, Eddie Vedder, John Frusciante e tanti altri. Alcuni non riuscirono a spiccicare parola, al momento di tenere un ricordo, perché scoppiavano in lacrime. Il cantante dei Pearl Jam diceva che, per uno come lui che era cresciuto senza un padre, Johnny Ramone aveva ricoperto lui quel ruolo. Dicono che il chitarrista dei Ramones, politicamente, fosse piuttosto di destra. E allora come fa uno di sinistra come Vedder a dire certe cose? E' rock'n'roll baby. Fanculo la politica.

Non si sono mai presi sul serio, cantavano dell'essere dei cretini,del non voler diventare adulti e non sapendo scrivere canzoni memorabili, hanno evitato l'imbarazzo di quei "geni" della musica rock che, avendo scritto tre o quattro canzoni memorabili, si sono ricoperti di ridicolo per il resto della loro carriera ogni volta che ci hanno riprovato.

Sono solo uno dei tanti gruppi che avrei potuto ma non sono mai riuscito a vedere in concerto. E adesso che sono tutti morti, sarà difficile farlo. Avrei potuto, quando vennero a Milano nei primissimi 80, ma declinai. La mia amica che ci andò tornò tutta incazzata: "Cazzo che merda. Hanno suonato pochissimo e ogni pezzo durava due minuti. E poi erano tutti uguali". Forse pensava di andare a vedere Jackson Browne.
Sì, credo proprio di sì: i Ramones sono stati l'unico, il più grande gruppo rock di tutti i tempi.

Sunday, December 07, 2008

Old friends (and the best of the rest)

Mentre cerco di fare mente locale su quali siano i miei dischi preferti del 2008, mi porto avanti con il lavoro. Ready for the Flood, il disco della reunion di Mark Olson e Gary Louris, menti brillanti del miglior gruppo di alternative country - ma in realtà un vero e proprio gruppo classic rock - degli anni 90, esce a fine gennaio 2009. Lo sto già ascoltando, ma per adesso non mi sembra granché. Composto e registrato prima dell'uscita recente dei due dischi solisti di Louris e Olson (il buon Vagabonds del primo, lo zoppicante Salvation Blues del secondo), mostra che forse i due già pensavano ai propri lavori anziché che a questo. Che nonostante la produzione di Chris Robinson dei Black Crowes, appare dimesso, svogliato, privo di pezzi memorabili, abbastanza sfigato. Essenzialmente acustico, piace nei brani più intimi, in arpeggiate ballate folkie che ricordano Simon & Garfunkel, ma non lascia alcun segno nel resto. Avrebbe meritato altra produzione e altre canzoni. O forse sono io che in giornate tra le più depresse dei miei anni recenti, non riesco a coglierne il vero contenuto.
E allora torno ai dischi che mi sono piaciuti di più di questo anno a fine corsa, e la lista ci metto poco a farla. Di dischi nuovi, a parte le ristampe, non ne ascolto granché, quei pochi che mi piacciono preferisco approfondirli e tornare a gustarli, scavarli a fondo, e così tante, tantissime uscite non mi prendo neanche la cura di perderci del tempo. Non sono un tuttologo e ho poco tempo a disposizione.
Ecco qua, allora: Shelby Lynne, con il suo tributo emozionante a Dusty Springfield; i Black Crowes di War Paint; i Rem di Accelerator perché mi hanno dato una sana dose di rock'n'roll; i Fleet Foxes, abbastanza misteriosi per intrigarmi; Jakob Dylan, perché ha una voce e buone storie da raccontare; JJ Grey & Mofro, Orange Blossoms è il miglior disco di black music dai tempi di Papa Was a Rolling Stone, e poi, tutti assieme da angolature diverse, Neil Diamond, Marianne Faithfull e Paul McCartney-Fireman.Quest'anno ci metto anche due italiani,mi succede di rarissimo, Davide Van De Sfroos e Francesco De Gregori, perché mi hanno fatto compagnia. E tanto basta.

Tuesday, December 02, 2008

Così è. Se vi pare


Alla fine l’ho fatto. Non è che i bei commenti ricevuti ultimamente su questo blog (grazie, però… troppo buoni) siano stai la ragione scatenante. Ci stavo lavorando da anni, in realtà. Poi l’ho proposto a editori grandi e piccoli e ognuno aveva la sua risposta: dovresti cambiare questo e quello, ma come facciamo a promuovere un libro così, oggi c’è la crisi… blah blah blah.
Tanto, anche se lo pubblicavo con Mondadori, un libro di storie di Paolo Vites non lo avrebbero mai messo in vetrina. Sarebbe finito a fare la polvere sotto a qualche tavolo. Per non parlare delle offerte economiche che uno scrittore esordiente si sente proporre. Anche con questo sistema del self publishing praticamente non ci guadagno niente, ma almeno non ho dovuto cambiare una virgola.

I lettori di questo blog mi perdoneranno, di fatto questo libro contiene un “best of” di quanto qui pubblicato nel corso degli anni, però rivisto, ampliato e poi anche diversi racconti inediti. In fondo io sono abbastanza vecchio da preferire ancora il buon libro su carta a un computer, che quando fai click tutto si spegne, anche quello che hai scritto. Il libro invece rimane. Lo puoi sempre portare con te al gabinetto, dove si fanno, è risaputo, le migliori letture. Il computer al gabinetto è un po’ scomodo.
Così spero che chi avrà la bontà di ordinarlo presso questo sito http://ilmiolibro.kataweb.it/ lo possa apprezzare come un diario, una riflessione, una serie di appunti sparsi che, soprattutto, ci tenevo un giorno le mie figlie potessero andare a sfogliare per sapere cose di loro padre che difficilmente avrei saputo comunicare in altro modo.

È uno sporco lavoro, ma qualcuno doveva farlo…

Wednesday, November 26, 2008

Bob Dylan's Dream

Nell'aprile 2009 Internet non esisteva più. Un attacco di hacker, una mossa degli uomini in nero, nessuno lo sapeva con precisione, ma era ormai da circa otto, nove mesi che era impossibile collegarsi. Ovviamente, il flusso globale di notizie, di ogni genere, anche quelle musicali, era anch'esso nel black out completo. Panico? Piuttosto, anche perché la notizia, un anno prima circa, a gennaio 2008, che Bob Dylan aveva smesso di fare concerti senza dire se si trattava del tanto temuto ritiro dalle scene, la fine del Never Ending Tour, aveva lasciato tutti, fan e non, con un macigno sullo stomaco.

Fu così che la notizia, giunta sui giornali, la vechia carta stampata che adesso era tornata ad essere la fonte primaria di news come ai vecchi tempi, che Bob Dylan sarebbe tornato sulle scene proprio con un concerto, il 15 aprile, al teatro Arcimboldi di Milano, venne accolta con un boato virtuale di gioia. I cinici commentarono bah, la venue è finalmente decente, invece di quella merda di Forum di Assago, però sarà il solito concerto con quella band di sfigati e poi lui non ha più voce e non si cura di arrangiare un po' le sue vecchie canzoni. Che poi fa sempre quelle.
Nonostante ciò, i circa 2mila biglietti venduti alla cifra record, per l'Italia, di 200 euro andarono via nel giro di 5 minuti (non si poterono comprare su Internet, ovviamente, ma facendo file di ore e ore davanti alle vecchie rivendite).

Perché Dylan tornava sulle scene proprio dall'Italia? Nessuno lo sapeva. Qualcuno ricordò che una volta, durante un concerto a Torino, nel 1998, aveva a un certo punto bofonchiato un "è bello essere di nuovo nel più bel paese del mondo". E tanto bastava.
Chi giunse al teatro vide un palco spoglio, con uno sgabello al centro, un microfono davanti e un vecchio pianoforte verticale sulla sinistra. Alcuni cominciarono a fremere: vuoi vedere che questo fa un concerto da solo, come non ne fa più dal 1965? Alle 9 precise le luci in sala si spensero. Il palco era nel buio più completo, il silenzio era qualcosa di fisico. Si sentirono dei passi sulle assi di legno e una piccola torcia, sulla destra illuminò un paio di stivali. Si sentì il rumore metallico di corde di chitarra acustica sfregate, poi una luce bianca sul retro del palco illuminò una figura aggrappata allo sgabello. Nessuna luce lo illuminava sul volto, si poteva solo scorgere una silouhette nera che attaccò a suonare una vecchia Martin acustica. Lo sferragliare di note era magia pura, poi la voce, bella, forte, rotonda e piena, attaccò Most of the Time, suonata come la si può sentire su Tell Tale Signs, acustica e con tanto di lunghi parti di armonica.
Il pubblico in sala era esterefatto che quasi si dimenticò di battere le mani alla fine del pezzo. Sempre al buio, con le luci dietro, Bob Dylan attaccò una dolente, meravigliosa, To Ramona. A questo punto tutti i presenti si alzarono in piedi tributando una standing ovation che durò oltre 5 minuti.
L'uomo sul palco venne finalmente illuminato: indossava una corta giacchetta nera stile messicano, con decorazioni varie; una t-shirt bianca, un paio di jeans, stivaloni a punta. Bob Dylan sorrideva compiaciuto. Si mise a parlare, sereno, rilassato, dicendo come aver lasciato i palchi per più di un anno gli avesse fatto bene alla mente ma anche alla voce, e scoppiò a ridere divertito.

Si alzò, si diresse al pianforte sula sinistra e ne uscì una vigorosa, piena di sentimento soul, versione di Dignity, seguita da una trascendentale Queen Jane Approximately e una, nella sua intensità vocale, stordente If you see her say hello.
"Adesso devo chiamare qualche amico" disse tornando al centro del palco. Giunsero, uno dopo l'altro, Larry Campbell che imbracciava una fisarmonica; Marty Stuart con un mandolino; il leggendario bassista inglese Danny Thompson e Jim Keltner a una batteria che era solo un rullante e un charleston. "Questa canzone parla di una ragazza che ho lasciato sulla riva del fiume rosso" e le note inconfondibili e purissime di una catartica Red River Shore si alzarono alte nel teatro.

I presenti, ancora oggi, fanno fatica a ricordare che canzoni furono poi eseguite. Quasi sicuro che fece Tomorrow's Long Time, così come Corrina, Corrina, piena di sentimento. Al pianoforte fece anche When He Returns e prima dell'ultimo bis una dolcissima Sad Eyed Lady of the Lowlands. Tra un brano e l'altro raccontava lunghi anedotti su come e perché aveva scritto queste canzoni.
Tornò sul palco per i bis accompagnato da "un'amica speciale", come definì la sempre bellissima Emmylou Harris. Tributarono un ricordo a Gram Parsons, ovviamente, con una delicata e toccante Love Hurts, poi fecero One More Cup Of Coffee.
Rimasto di nuovo da solo, per l'ultimo pezzo decise di ricordare l'unico, grande e vero amore della sua vita, e lasciò scivolare una Sara da incanto.
Nel camerino, dopo il concerto, incontrando alcuni giornalisti, al perché questo ritorno sulle scene e questo tipo di spettacolo, disse semplicemente: "Avevo smesso di fare concerti perché mi ero rotto le scatole di vedere le scalette dei miei show pubblicate ogni giorno, e i commenti dei fan, e la gente che si mandava le canzoni con il cellulare. Adesso che Internet non c'è più, posso riprendere la strada. Aspettatevi altre sorprese, sto già pensando di fare alcune date in America in duo, con il mio amico Bruce Springsteen. Io e lui e basta, pensate che alla gente piacerà?".

Ps: il 15 aprile 2009 Bob Dylan - quello vero - suonerà al Forum di Assago

Tuesday, November 25, 2008

Thanksgiving, 1976

Alcuni di loro sono morti. Altri si sono ritirati dalle scene. Nessuno, comunque, è stato più in grado di superare quello che, musicalmente, questi uomini e donne avevano fatto fino a quel giorno. Che era il 25 novembre 1976, quando uno dopo l’altro sfilarono sul palco del Winterland di San Francisco i più brillanti esponenti di una generazione che con le loro canzoni avevano cantato utopie, speranze, disillusioni di un momento storico unico di quel secolo, il 900. Stavano dicendo addio, ma non lo sapevano. Ma suonarono come se fosse stata l'ultima notte della loro vita, meglio di ogni altra volta.

Fu la sera dell’ultimo valzer, quando Van Morrison scalciando come un indemoniato terrorizzò quanti lo stavano guardando. Quando Eric Clapton tornò a suonare la chitarra solista da dio, come non faceva da anni. Sembrava non volersi fermare più. Quando Neil Young si presentò sul palco con il naso impolverato di cocaina (che il regista abilmente fece scomparire, su sua richiesta, dalle immagini del film). Quando Bob Dylan con i suoi vecchi amici con cui aveva sconvolto il mondo esattamente dieci anni prima, tornò a suonare “fucking loud”, facendo riecheggiare la voce di Walt Whitman su un palcoscenico rock. E quando Ronnie Hawkins lanciò ancora una volta quell’urlo, quello del rock’n’roll. Joni Mitchell seduceva e incantava, mentre, pacioso e con lo sguardo di chi sapeva già come sarebbe andata a finire, Muddy Waters benediceva tutti e The Band mandava in scena l’ultima esibizione di un’America che era già scomparsa con i morti della Guerra di secessione.

Fu l’ultimo valzer del rock, e il regista di Taxi Driver lo coglieva con capacità a tutt’oggi insuperabile: non si vedono mai gli spettatori, nel suo film. Questa è una celebrazione di quegli uomini sul palco.
“Ecco cosa è L’ultimo valzer” dice nel film Robbie Robertson. “Sedici anni on the road. Un numero che ti fa paura. Non potrei vivere per vent’anni sulla strada. Non penso di poter neanche discutere una cosa del genere”. Avrebbe tenuto fede a quelle parole. Non sarebbe più tornato on the road.

Friday, November 21, 2008

La repubblica invisibile di Oliver James

“La morte non è, ovviamente, accettata universalmente. Nella musica tradizionale la gente poteva accettare, attraverso le canzoni, che il mistero è un fatto, un fatto tradizionale”
(Bob Dylan, 1966)

C’è un uomo solo che vaga per tutte le canzoni del disco, o è un demonio. Potrebbe essere un uomo che impazzito per il dolore si sta trasformando in un diavolo. L’urlo che esce fuori da Tiger Mountain Peasant Song è un urlo straziante, dell’uomo che è andato a visitare la tomba (di chi? di Oliver James? o la sua stessa tomba?) nei boschi freschi di rugiada: “Cara ombra viva e che stai bene, come può morire un corpo? Dimmi tutto, tutto quello che è vero”. Entra in città, un mattino “scosso dalle premonizioni della mia morte” e poi l’invocazione: “Jesse, non so cosa io abbia fatto, mi sto trasformando in un demonio”. Era dai tempi di Robert Johnson che non si sentiva in una canzone una tale disperazione e angoscia, nel testo e nel modo in cui la bellissima Tiger Mountain Pleasant Song viene eseguita in splendida solitudine.

Il diavolo è una presenza attiva anche in Your Protector: “Mentre giaci morente accanto a me, baby, io sono quello del gioco a pistolettate, mi aspetterai, aspetterai l’altro me stesso? Stai correndo con il diavolo”.
Il paesaggio in cui ci si imbatte per tutto il disco, tranne apparenti momenti di serenità, è desolato. Le Blue Ridge Mountains saranno anche un bel posto rigoglioso della sua natura, ma quello in cui stiamo camminando è un inverno spoglio, freddo e certamente poco accogliente. In White Winter Hymnal c’è un soldato inglese durante la guerra civile americana che sta osservando il suo amico Michael cadere morto sotto i colpi da fuoco: “E m girai indietro ed eccoti, Michael stai cadendo e trasformando la bianca neve in rossa come le fragole d’estate”.

Il protagonista vaga, non si capisce se nei luoghi della sua memoria, tra persone amate che sta cercando di ritrovare. Il “brother” (O brother, where are thou, come diceva quel film) è un elemento costante per quasi tutto il disco (“Non dici nulla dei tuoi ultimi due anni, guarda le tue mani aggrinzite e un coltello d’argento, venti dollari in mano che te li fanno stringere così forte, tutte le evidenze della tua vita vacante, fratello mio tu sei nato e cercherai di fare quello che hai fatto prima, lascia che la tua famiglia ti riporti alla tua mente originale”, He doesnt know why) o in quelli della vita reale (“Il mondo è vivo adesso, dentro e fuori della nostra casa, al mattino quando il passero e il gabbiano volano e Jonathan ed Evelym si stancano… mentimi se vorrai in cima alla collina di Beringer, dimmi quello che vuoi, ogni vecchia bugia andrà bene, ma riportami da te”, Ragged Wood).

Alla fine, Oliver James (era lui il protagonista incontrato lungo tutte le canzoni del disco?) è morto: “Sulla strada verso la casa di tuo fratello, solleverai il suo corpo dalla spiaggia e lo porterai a casa. Si torna alla casa di tuo fratello adesso più vuota, mia cara, il suono di antiche voci tintinna delicato nel tuo orecchio: Oliver James, non si bagnerà più nella pioggia”. La domanda permane: chi era, Oliver James, e che cosa aveva fatto di male nella sua vita?

Il disco dei Fleet Foxes è un disco straordinario. Ci ho messo mesi a entrarci dentro, ma adesso è impossibile uscirne. Quelle armonie vocali che sembrano quasi dei canti di antichi monaci oltre il tempo, in un tempo immemorabile, o quelli di generazioni scomparse, lassù nelle Blue Ridge Mountain, che invocano una presenza/assenza, e si innestano su chitarre acustiche, percussioni ossessive, paurose dilatazioni psichedeliche, finanche la spensieratezza di un coro dei Beach Boys.
È un disco stregato. A metterlo su fa quasi paura. Ma è un disco vero.

Wednesday, November 19, 2008

One hit wonder

Non è solo il fatto di aver avuto un solo brano di successo in tutta la propria carriera. È il tipo di successo che quel brano fu, a rendere speciale la storia di Jody Reynolds, dimenticato eroe dell’era rockabilly, scomparso qualche giorno fa a 75 anni di età.
Di personaggi che in quegli anni (formidabili, ma per davvero), i '50, spuntavano dal nulla, pubblicavano un 45 giri, ne vendevano uno o due milioni di copie e poi sparivano dalle scene ce ne sono stati tanti, ad esempio Terry Clement and the Tune Tones con la sua She’s My Baby Doll che cantava, oltraggioso e pieno di humour “La ragazza ricca ha un profumo costoso, la ragazza povera fa lo stesso, la mia ragazza non ne ha nessuno, ma la puoi odorare lo stesso”. Oppure Billy Lee Riley che con i suoi marziani (The Green Men) registrò uno dei singoli più assurdi e bizzarri mai sentiti, Flying Saucers Rock’n’Roll, gli oggetti volanti del r'n'r.
“Il rockabilly fu una musica davvero speciale” scrive Greil Marcus “il solo stile del primo rock’n’roll che provò che i ragazzi bianchi potevano fare tutto: potevano essere strani, eccitanti, spaventosi e liberi come gli uomini di colore che improvvisamente stavano camminando per le onde delle radio d’America”.

Jody Reynolds era un tipo tutto a modo suo. Un giorno, nel 1956, ascoltò Elvis cantare Heartbreak Hotel. Rimase così impressionato che la ascoltò per cinque volte consecutive. Non si era mai sentito un pezzo rockabilly che invece di essere una lussuriosa carica di ritmo, era invece una tristissima nenia che sembrava suggerire un significato solo: morte.
Si mise a scrivere un pezzo: gli uscì fuori Endless Sleep, una storia ancora più oscura e misteriosa, quella di un ragazzo che va in cerca della sua fidanzata dopo che i due hanno litigato: “La notte era scura, la pioggia cadeva, cercai la mia bambina, non riuscii a trovarla, vidi le sue tracce sulla spiaggia, ebbi paura che se ne fosse andata via per sempre”.

Un brano che suggeriva l’ipotesi del suicidio non poteva essere accettato nel glamorous anni 50, e molte etichette infatti la rifiutarono. Sarà solo una coincidenza, ma a dimostrarsi interessata a pubblicarla fu una etichetta di Los Angeles che si chiamava Demon, il demonio. Ma anche loro chiesero a Reynolds di cambiare il finale e metterci un lieto fine, del tipo che vedeva la ragazza tra le onde e l’aiutava a uscirne. Jody non ne fu contento, ma il brano, nel 1958, volò al primo posto delle classifiche vendendo oltre un milione di copie. Negli anni, l'avrebbero incisa decine di altri musicisti.
Fu il suo unico successo, ma in breve Endless Sleep divenne l’apripista di un nuovo modo di scrivere le canzoni, le cosiddette “teen tragedy”, brani dove si parlava di incidenti, suicidi, morti fra fidanzati. Ad esempio Teen Angel di Ray Peterson, Tell Laura I Love Her, Ebony Eyes degli Everly Brothers e naturalmente Leader of the Pack delle Shangri-Las. E, incredibilmente, diventavano tutte dei successoni. Evidentemente, toccavano un angolo misterioso del cuore degli ascoltatori. Chi dice che la musica rock è fuga dalla realtà, si prenda un appunto: queste canzoni che avevano a tema situazioni strazianti erano comprate da milioni di ragazzi. Perché è questo che la gente vuole, sentirsi raccontare la propria vita, scontrarsi con la realtà. Bob Dylan lo aveva capito. In Chronicles cita Endless Sleep come una canzone, seppur rockabilly, autenticamente folk nei contenuti, e le canzoni folk cantavano della realtà: "C'era sempre un qualche tipo di canzone folk che spuntava fuori. Endless Sleep, la canzone di Jody Reynolds che era stata popolare anni prima, nel suo contenuto era una canzone folk".
Anche se le canzoni rock avrebbero perso presto questo carisma. Ma è un'altra storia.

Jody continuò a fare dischi per diversi anni, poi aprì un negozio di dischi e strumenti musicali a Palm Springs, California. Fra i suoi clienti anche Elvis, che usò una sua chitarra per il leggendario come back show del Natale 1968. Ogni tanto, in questi decenni, si è esibito nel circuito delle vecchie glorie. Cantando quel suo unico, grande successo. Che parlava di una ragazza morta.

Monday, November 17, 2008

Light of Day Europe Benefit and other assorted news

È almeno un paio d’anni che passano da Roma, e vabbé che Roma è probabilmente la più bella città d’Italia e una di quelle dove si mangia meglio (particolare a cui i rocker nord americani non sono assolutamente insensibili) era però l’ora che questa bella iniziativa approdasse anche al nord. Il 3 dicembre la serata di beneficenza Light Of Day, una istituzione nel New Jersey a cui quasi sempre partecipa Bruce Springsteen, esordisce a Como, al Music Sound. Sul palco Joe D’Urso, l’ottimo Willie Nile, i bravi Marah, ma soprattutto finalmente potrò vedere in azione il mio songwriter preferito degli ultimi anni, Jesse Malin. Tutto rigorosamente acustico.

E visto che siamo in tema di news che sfiorano il Boss, è annunciato per il 27 gennaio il nuovo disco Workin’ on a Dream. La canzone non mi esalta per niente, si può ascoltare su youtube sia in versione acustica durante i comizi pro Obama dello scorso ottobre, che in quella elettrica durante una partita della NFL (http://it.youtube.com/watch?v=BIO_uEX6DAk). Dodici pezzi registrati durante le pause del recente tour mondiale, ancora con Brendan O’Brien alla produzione, qualche titolo imbarazzante come Queen of the Supermarket e due bonus, le già conosciute The Wrestler e A Night with the Jersey Devil. Naturalmente, con la E Street. Si parla anche di un tour europeo a marzo.
Diamo un contentino anche ai dylaniani: tre date del nonno Bob già confermate ad aprile 09, tra cui Milano e Roma.

Sunday, November 16, 2008

Ieri sera

Ieri sera sono andato a vedere i Fleet Foxes in concerto. Il disco mi aveva colpito, ma fino a un certo punto. Dal vivo sono bravi, maledettamente bravi, e il loro concerto è un piccolo avvenimento, in un'epoca musicale dove ciò accade sempre di meno. Certo, non sono originali, il loro modo di usare le armonie vocali pesca in egual misura da Beach Boys, Simon & Garfunkel e classica tradizione folk anglo-americana, ma lo sanno fare benissimo (non è facile cantare così dal vivo) aggiungendoci una dose di sacrale solennità che li fa sembrare quasi un coro gregoriano coi capelli da hippie e le chitarre acustiche.
Peccato il tutto si sia tenuto nel cesso della musica milanese, i Magazzini Generali, un lungo capannone dove la gente è costretta ad ammassarsi tutta di fronte al palco senza visuale laterale; bastano 200 persone per costringerti a stare in fondissimo, lontanissmo, e comunque, ovunque ti trovi, a vedere un cazzo e sentire malissimo. Il giorno in cui a questa toilette sarà impedito di tenere concerti non sarà mai troppo vicino. Ovviamente il concerto non ho potuto goderlo come avrebbe meritato, ma i Fleet Foxes sono la novità migliore della scena americana dai tempi degli esordi dei Wilco.

Ieri sera, prima di andare a sentire i Fleet Foxes, ho sentito a un tg Massimo Cacciari, sindaco di Venezia. Lo ammiro moltissimo, è uno a cui darei "chiavi in mano" il governo d'Italia in qualunque momento. Persona colta, aperta, non idelogica, un gran bel tipo. Ma è un uomo anche lui, e come tutti dice a volte la sua bella cazzata. Come ieri sera che diceva che il caso di Eluana Englaro è un caso di accanimento terapeutico. No sindaco, non è un caso di accanimento terapeutico perché Eluana non è attaccata a macchinari per vivere. Lei è viva, di suo. Si sveglia ogni mattina, vvie la sua giornata e si addormenta. Un mese fa circa ha avuto, a sorpresa delle mestruazioni perdendo molto sangue. I medici non sapevano spiegarlo se non con un modo da parte di Eluana di far capire che lei è viva.
Eluana, come molti anziani e i bambini piccoli, ha solo bisogno di essere aiutata a nutrirsi e questo, sindaco Cacciari, non si chiama accanimento terapeutico, si informi. La finisca di guardare le foto di quando Eluana aveva 18 anni che mostrano i tg tuti i giorni e vada a vedere come è Eluana oggi. Guardi la realtà. Una donna viva, seppur non nel modo in cui io e lei lo siamo. Cosa passi nel suo cervello nessuno lo sa, ma se la scienza si è dichiarata incapace di dirlo (come sempre nel caso della scienza) non è un buon motivo perché dei giudici prendano il posto di scienza, parlamento e si diano deliri di onnipotenza legiferando al posto del governo:"Se leggiamo le motivazioni della sentenza, poi, sono aberranti, in quanto sostengono che la dignità di una persona sta nell'essere sano. La dignità, insomma, decisa per legge. Che acqua e cibo non siano cure lo capirebbe anche il più disgraziato dei laicisti. In base a quella sentenza, poi, di fatto si autorizza il suicidio di chiunque non possa o non voglia nutrirsi autonomamente", dal sito http://berlicche.splinder.com/).

E ancora, da un commento nello stesso sito, perché questa non è una battaglia fra cattolici e non credenti come vogliono farci credere: "Io non ce l'ho un dio da pregare ma sono d'accordo con ogni parola di questo post. Mi fa paura una sentenza così e mi fanno paura tutti quelli che la festeggiano".

http://www.medicinaepersona.org/cm/notizia.jhtml?param1_1=N11d9cc899a97d6160f6

Wednesday, November 12, 2008

Novembre

Qui, proprio dentro di me, ho trovato un luogo incantato, solo perché si è lasciato trovare
(Patti Smith)












Lascia che lo spirito del defunto si allontani e continua la tua celebrazione della vita
(Allen Ginsberg)

Tuesday, November 11, 2008

This is the story of Glen Sherley

There are men here that don't ever worship
There are men here who scoff at the ones who pray
But I've got down on my knees in that greystone chapel
And I thank the Lord for helpin' me each day
Now there's greystone chapel here at Folsom
It has a touch of God's hand on ever stone
It's a flower of light in a field of darkness and it's givin' me the strenght to carry on
Inside the walls of prison my body may be but my Lord has set my soul free

(Greystone Chapel, Glen Sherley)

L'altra sera ho messo su distrattamente, per dovere di recensione, il dvd allegato alla nuova edizione di Folsom Prison Blues, il live di Johnny Cash registrato nel 1968 nella prigione di Folsom, uno dei grandi dischi della storia del rock. La nuova edizione ha un cd in più con il secondo concerto - inedito - e un dvd. Ok, figo, ma già sapevo che di quella leggendaria esibizione non esistevano filmati. Così comincio a vedere il dvd, la storia dei fatti, interviste, una - ennesima - storia di Cash... a un certo punto mi sono anche addormentato.

Mi sono risvegliato chissà perché quando si cominciava a parlare di Glen Sherley. Ricordavo vagamente che quella volta Cash eseguì una canzone scritta da un detenuto. Da quel momento non ho più potuto staccare gli occhi dal televisore, per seguire la drammatica storia di Glen Sherley, un detenuto per motivi poco chiari ("rapina a mano armata" dirà lui a un certo punto) che fece avere al cappellano di Folsom una sua composizione da dare a Cash. Questi, ascoltatala, la imparò la sera prima, colpito dalla sua bellezza; verso la fine del concerto, l'uomo in nero si avvicina al microfono: "Questa è la tua canzone, Glen" e attacca la sua Greystone Chapel. Sherley, all'oscuro, fa un balzo in piedi; Cash gli porge la mano, i due si incontrano e idealmente comincia una amicizia che avrà conseguenze profonde. La canzone è comunque un brano di un realismo terrificante: scritta da un prigioniero in uno dei peggiori carceri americani, è una preghiera di un uomo che solo nei mattoni grigi della cappella penitenziaria riesce a vedere uno straccio di salvezza.

Tre anni dopo,ancora in prigione, Sherley ha un altro suo brano portato al successo da un'altra country star, Eddie Arnold, con Portrait of a Woman. Cash, che nel frattempo è diventato un paladino della lotta per la riforma delle prigioni americane, lo ha preso a cuore, riconosce il suo talento e lo aiuta a registrare un intero disco, dal vivo, in prigione. Riesce anche a farlo uscire di galera, nel 1971: formidabili le immagini, nel dvd, di Cash che lo aspetta fuori di prigione.

La storia viene poi raccontata dai figli di Sherley, con immagini di concerti di un uomo che sembra aver ritrovato la redenzione. Partecipa a diversi tour con Cash, è un uomo nuovo. Ma il music business si rivela troppo duro per uno che in prigione ha visto chissà quale inferno. Il demonio torna a bussare alla sua porta, riesplode il suo lato violento, la droga è l'unico modo per lenire l'angoscia che lo assedia e si allontana da tutti, anche i figli lo sfuggono. Sparisce, nel mistero. L'11 maggio 1978 la figlia riceve una telefonata. "Mio padre è morto, vero?" dice lei. "Sì, si è ucciso".
Nel dvd si vede la donna, per ironia della sorte oggi poliziotto, aprire per la prima volta il certificato di morte del padre "Morto per colpo di pistola alla testa". Aveva solo 42 anni, ma già nelle immagini di dieci anni prima con Johnny Cash a Folsom, nel 1968, sembra un uomo molto più vecchio. Negli ultimi tempi per vivere dava da mangiare alle vacche, dicono che ne nutriva anche diecimila al giorno. Ma quel demonio che aveva segnato la sua vita lo aveva seguito da Folsom fino a là,senza lasciargli scampo.

Cash avrebbe accusato il colpo. Non avrebbe più fatto concerti nei carceri. Come dice il chitarrista Marty Stuart nel dvd a proposito dello stesso Cash, di Elvis, Jerry Lee, Carl Perkins, "questi uomini erano una sorta di predicatori mancati. Avrebbero salvato molte vite se non avessero preso la strada del rock'n'roll". O magari ne hanno salvate altre lo stesso.
Ci sono due lati per ogni storia, e questa era quella di Glen Sherley, che scrisse Greystone Chapel.

Thursday, November 06, 2008

Political Bob

I was born in 1941 the year Pearl Harbor was bombed, it has been dark ever since. I guess things are really gonna change now
(Bob Dylan durante un concerto a Minneapolis, la sera del 4 novembre 2008)

Nel gennaio 1993 Bob Dylan era fra i tanti musicisti rock invitati sulle scale del Campidoglio a esibirsi per celebrare l’elezione di Bill Clinton a presidente degli Stati Uniti. Cantò Chimes of Freedom, una canzone che significava più di mille comizi elettorali a proposito di appartenenza politica a uno schieramento piuttosto che a un altro.
Due sere fa, a Minneapolis, durante un concerto, saputa la notizia della ormai certa vittoria di Obama, il musicista ha rilasciato dal palco la dichiarazione che leggete là sopra, “credo che le cose adesso cambieranno davvero”. In scaletta, brani dal significato palese come The Times They Are A-Changin’ e Masters of War.

La gente si è sempre lamentata che Bob Dylan, a differenza di uno Springsteen, non prenda posizioni politiche, non scriva più canzoni politiche (a parte che con quelle che ha scritto 40anni fa, non ha certo bisogno di farne di nuove) e queste sue dichiarazioni o partecipazioni a eventi politici dovrebbero fare piazza pulita su certe lamentele. Sì, Bob Dylan vota e sostiene il Partito democratico americano. Questo non vuol dire che fa un uso strumentale del suo essere artista per convincere i suoi fan a votare questo o quel partito. Arte e politica non ci azzeccano nulla.

C’è una dimensione etica, invece, nella politica, che oggi non esiste più e che Dylan non perde occasione di ricordarci. Perché nella frase del concerto di Minneapolis, ci sono dentro valutazioni profondissime ed enormi, come sempre quando Bob Dylan apre bocca anche per dire solo due parole. Ad esempio, che nell’“oscurità” in cui siamo vissuti dai tempi di Pearl Harbor ci sono dentro anche quegli anni che secondo la maggior parte delle persone avrebbero cambiato il mondo in meglio, gli anni 60. Al momento vale la pena fare una sola valutazione, che credo sia quella che più stia a cuore a Dylan stesso, e cioè che la lunga marcia per i diritti civili dei neri americani, cominciata con la marcia di Washington nel 1963 (e Dylan c’era, era sul palco a cantare) si è finalmente conclusa con l’elezione di un nero a presidente degli Stai Uniti.
E perciò, anche se adesso tutti saltano sul carrozzone di Obama con le motivazioni più incredibili e che di fatto non centrano nulla con un modo di intendere la politica che è diverso milioni di anni luce ad esempio da quello italiano, siamo contenti della sua vittoria. Buon lavoro, Mr President.

Tuesday, November 04, 2008

Top Ten Interviews

Be' visto che con l'intervista a Paul McCartney posso ormai dirigermi spedito verso il pre pensionamento, mi sono messo a pensare a quelle passate, agli incontri che ho potuto fare grazie a questo lavoro, a immaginarmi una top ten alla Nick Hornby (anche se le sue sono top 5) di quasi vent'anni di interviste. Non tanto per le clamorose confessioni o chissà quali dichiarazioni (pensate che un giornalista di Rolling Stone - quello americano - quando fa una intervista, passa un mese on the road con il musicista in questione o fa delle session di tre ore per volta per diverse settimane. Che possiamo farci noi con i "15 minuti 15" a disposizione con un McCartney?) ma per aver avuto la possibilità di avvicinarmi, toccare con mano, o sentire la voce al telefono con ogni volta un pezzetto diverso della storia del rock. E anche in quel poco di tempo, scoprire certi lati, certe sfumature di personaggi che altrimenti non avrei mai scoperto. E allora...

1. Paul McCartney, ovviamente, per i motivi detti nei giorni scorsi. Insomma, quando mi ha chiamato al telefono e si è messo a dirmi "Hey Paolo where are you" al solo sentire "quella" voce mi sfilavano davanti la copertina di Sgt Pepper, il concerto allo Shea Stadium, John e Paul ad Amburgo... E io, totalmente stordito "Sono in ufficio" e lui "No, in che città". Ah "Milano, Italy...". Geeez. Il carisma di un uomo così,comunque, è uscito tutto fuori in quei pochi minuti di telefonata: autorevolezza, coscienza del proprio ruolo nella storia, ma anche incapacità a contenere la propria umana simpatia, come quando si è messo a improvvisare una canzone al telefono... O alla fine come quando in una scnea di Help! mi ha salutato con: "Fireman rules!".

2. Scotty Moore. Al telefono nel 1997. Mi maledico per non aver conservato il nastro dell'intervista. L'uomo che era con Elvis in quello studio di Memphis quel pomeriggio del 1954 in cui veniva registrata That's All Right, Mama, quel giorno che nacque il rock'n'roll... Una persona squisita, un vero gentleman del vecchio Sud, lo ricordo così: alla mia domanda che ricordo gli rimanesse di Elvis, mi commosse con un "he is still my little brother".

3. Patti Smith,ancora una telefonica, nel 2004, bella lunga quasi un'ora. Lei è intensa con le risposte allo stesso modo in cui declama le sue poesie, materna con un povero fan come il sottoscritto che quando le dice che per tutti quegli anni in cui era stata via dalle scene ci era mancata tanto, risponde: "Non me ne sono mai andata, non sono mai stata via, ero sempre con voi. Quando cambiavo i pannolini ai miei figli, pensavo a voi". Quasi ti metteresti a piangere.

4. Joe Strummer, un anno circa prima che morisse, intervistato di persona qua a Milano. Non ho molto da dire se non che sono grato di aver condiviso un'ora della sua vita prima che fosse troppo tardi. Mi manchi,Joe.
5. Robbie Robertson. Di persona, nel 1997. Di questo incontro mi maledico per non essermi fatto fare una foto insieme, e dire che con me c'era un fotografo. Imbecille che sono. Gran personaggio, se la tirava un po' troppo in verità, lasciando cadere tutto dall'alto e con quell'abbronzatura esagerata da lampadato del tipo "hey, io arrivo da Hollywood, mica da Niguarda", ma d'altro canto lui era sul palco nel momento più importante dell'intera storia del rock, quella sera a Manchester nel 1966 quando Bob Dylan chiese a lui e agli altri di suonare "fuckin' loud".

6. Gregg Allman, al telefono credo fosse nel 2001 o 2002. Un'altra leggenda della golden age del rock'n'roll, simbolo di tutti gli eccessi e di tutta la grande musica dei 70s, cocainomane incallito che per sfuggire la galera non esitò a tradire i suoi migliori amici. Quando lo intervisto io, è un pacioso sessantenne che non beve e non fuma manco più, ma è un torrente di parole in esilarante accento dixie che ogni due secondi ti chiama "brother"...

7. Beth Orton. Non è un pezzo di storia del rock, ma io sono innamorato di lei. E tanto basta. Di persona, nel 2002, nella sua camera d'albergo a Verona, la città degli amanti...

8. Joe Boyd. Non è un musicista, ma se ne ha fatte di robe... compreso produrre il primo 45 giri dei Pink Floyd e soprattutto produrre Nick Drake (era anche a Newport 65, quel giorno che Dylan attaccò la spina alla chitarra...). Lo apprezzo ancor di più quando taglia corto: "Una bella canzone deve costringermi a chiudere il televisore, mettere via il giornale che sto leggendo, non fare più nulla e ascoltare solo quella. Non mi succede più da vent'anni".

9. Bob Neuwirth, 2002. Questa è quasi una intervista stile Rolling Stone, durata mesi: in macchina, mentre lo portavo a un concerto in Svizzera; al telefono da Los Angeles; nel camerino di uno squallido piccolo club milanese. Chi è? Be', il fratello di sangue di Bob Dylan negli anni 60, l'amante di Janis Joplin, quello che doveva aiutare Jim Morrison a smettere di bere ma si ubriacava più di lui eccetera eccetera. "Chi cazzo sei, un agente del Kgb? Smettila di fare domande": come si fa a non volergli bene.
10. A pari merito: David Crosby (che anche se ha ufficialmente smesso di drogarsi, da come parla deve avere in corpo ancora droga sufficiente per il resto della vita), Roger McGuinn (gelido e inattaccabile, mamma mia, se non avesse inciso uno dei 45 giri più belli di tutti i tempi lo manderesti un po' a cagare...), James Taylor (timido e gentilissimo: solo dopo mezz'ora che parliamo la smette di chiamarmi "Sir": a me? please sweet baby James...), Donovan (che 40 anni dopo è ancora convinto che siamo negli anni 60 e sta ancora cercando di far lievitare il Pentagono), per tutto quello che hanno fatto per la storia di questa musica. E per me.

Thanx for the music, everybody.

Friday, October 31, 2008

London calling

Due notti agitate, ma di più. Sveglie continue. Sta suonando il telefono? Che ore sono? Devo correre in ufficio. God. Non mi succedevano cose del genere dai tempi delle grandi interrogazioni scolastiche. Il post che ho dedicato ai grandi del passato ha sortito qualche effetto dopotutto. Da quando mi hanno detto che “lui” mi avrebbe telefonato per farsi intervistare, ho passato giorni da incubo, agitato come uno scolaretto il giorno prima degli esami.

Be’, vorrei vedere voi. Non so che esempio farvi, non so quali siano le vostre aspettative, ma, senza essere blasfemi, per me è stato come se mi avessero detto: “Fra due giorni ti chiama al telefono Dio”. Il Dio del rock’n’roll, ovviamente. Calcolando che: Bob Dylan non me lo faranno mai intervistare, Jim Morrison e Jimi Hendrix sono morti da un po’, Mick Jagger e Keith Richards pure (ma non lo sanno), quale altra icona dei 60s rimane?

Ovvio, lui. Come lo chiamiamo noi che siamo suoi fan, Paulie. Per tutti gli altri Sir Paul McCartney. Non ridete. Per chi fa questo lavoro, e ama i Beatles ovviamente, qua stiamo parlando di premio alla carriera. Come ritirare un orologio d’oro il giorno del pensionamento. Cosa che a questo punto,dopo averlo intervistato, potrò pure fare. Che altro mi resta?
Be’, l’intervista la leggerà – chi vorrà – su Jam di dicembre. Per smorzare la tensione mi sono divertito a pensare le domande che non avrei mai dovuto fare a Sgt Pepper.

“In un momento storico in cui le reunion sono all’ordine del giorno, quando ci sarà finalmente una reunion dei Beatles?” (avrei dovuto chiedergli di una reunion dei Wings? Accidenti, è vero!)

“Non ti senti in colpa per essere ancora vivo mentre John che scriveva canzoni molto più belle delle tue è morto?” (in realtà preferisco - e di molto - le sue canzoni dell’era Beatles che quelle di Lennon)

“Hai scritto le due canzoni più noiose della storia della musica, Yesterday e Hey Jude: qual è il tuo segreto?” (Yesterday l’adoro, ma Hey Jude in effetti…)

“Preferisci la bistecca Fiorentina o una grigliata stile barbecue?” (ah, Paul è vegetariano?? Azz)

“Perché quando fai dischi belli usi un nome finto, The Fireman, e quando fai le tue solite porcate usi quello vero?”

“Adesso che finalmente ti sei tolto di torno la zoppa smenandoci un sacco di soldi, sarai mica così stupido da sposarti un’altra volta?”


Ok. L’intervista, quella vera, è oggi pomeriggio. Shit, mi sono dimenticato di portarmi la fiaschetta del whiskey per farmi coraggio. Dove sono le anfetamine? Fingers crossed… Stay tuned (se sopravvivo).

Sangue nei solchi del cuore

“Bob Dylan è in città, c’è bisogno di catturare qualcosa di magico”. La “città” è ovviamente New York, al telefono John Hammond, il più gran...

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