Tuesday, November 29, 2011

Trippin' the live fantastic

Quando, nel 1970, i Beatles si sciolgono definitivamente dopo una lenta agonia, John Lennon rilascia uno dei suoi tipici caustici e apparentemente cinici commenti: "Il sogno è finito". Intendendo con ciò il sogno che aveva rappresentato l'avventura della più grande band del decennio appena finito, ma anche il sogno che quella band aveva elargito al mondo: senza i Beatles non ci sarebbero state le utopie e le speranze dei Sixties.

Quarant'anni e più dopo la fine di quel sogno, Paul McCartney ha rimesso insieme i cocci di quel sogno e lo ha mostrato, tutto intero nella sua bellezza, durante i due concerti italiani del suo On the Run Tour 2011, che si concluderà dopo una manciata di date nella natia Liverpool il prossimo 20 dicembre. Per McCartney, infatti, i Beatles non avrebbero mai dovuto finire: se negli ultimi mesi del 1969 tentò una battaglia impossibile, nei decenni trascorsi ha pazientemente rimesso in piedi un puzzle che era troppo bello perché si scomponesse definitivamente.


(Foto di Paolo Brillo)

Lo ha fatto perché lui, Paul McCartney, era "il" Beatle: ne è sempre stata l'anima più profonda, lo sperimentatore cosmico, il traghettatore verso sonorità impensabili, il tessitore dell'utopia. Con buona pace di John Lennon, dischi come Sgt Pepper's o Abbey Road è McCartney che ha fatto in modo che esistessero.

PER CONTINUARE A LEGGERE LA RECENSIONE DEL CONCERTO DI PAUL MCCARTNEY AL FORUM DI ASSAGO CLICCA SU QUESTO LINK

Friday, November 25, 2011

Natale il 31 gennaio



Show me the place, where you want your slave to go
Show me the place, I’ve forgotten I don’t know
Show me the place where my head is bend and low
Show me the place, where you want your slave to go

Show me the place, help me roll away the stone
Show me the place, I can’t move this thing alone
Show me the place where the word became a man
Show me the place where the suffering began

The troubles came I saved what I could save
A shred of light, a particle away
But there were chains so I hastened to the hay
There were chains, a lot of chains Like a spade

Show me the place, where you want your slave to go
Show me the place, I’ve forgotten I don’t know
Show me the place where my head is bend and low
Show me the place, where you want your slave to go

The troubles came I saved what I could save
A shred of light, a particle away
But there were chains so I hastened to the hay
There were chains so I loved you like a slave

(Leonard Cohen, Show me the Place)

Salvate i soldini a Natale se i nuovi padroni dell'Europa Sarkozy e Merkel ve ne lasciano ancora qualcuno. I due regali-regaloni da fare-farsi quest'anno arrivano più di un mese dopo Christmas time. In contemporanea. Lo stesso giorno infatti escono due dischi di cui uno, ovvio, è imperdibile e non si accettano scuse per lasciarlo lì, sugli scaffali virtuali del vostro negozio online. Almeno a giudicare dalle premesse. Dovrebbe cioè essere molto differente dall'ultimo suo lavoro, quel Dear Heather che aveva scontentato anche me che adoro quasi ogni secondo della musica di Leonard Cohen. Old Ideas a giudicare dal primo brano messo in Rete sembra avere parecchio di più.




Dice la sua casa discografica che questo "è identificabile come il più apertamente spirituale tra gli album pubblicati fino ad oggi". Per uno che ha fatto della spiritualità la sua musa, direi che suona stuzzicante. E ancora: "Le dieci canzoni del nuovo disco affrontano con linguaggio poetico alcuni dei più profondi dilemmi dell’umana esistenza: la relazione con un essere trascendente, l’amore, la sessualità, la perdita e la morte". Ci vado a nozze, soprattutto con la perdita. Come il titolo del suo libro, infatti, io sono un "beatiuful loser": beautiful magari poco, perdente tantissimo. E' tutta la vita che perdo. Ma attenzione, perché parla anche Cohen: “Maturando ho capito le istruzioni per l’uso che accompagnavano la mia voce. E queste istruzioni prevedono di non lamentarsi mai in modo casuale. Se proprio bisogna esprimere la grande, inevitabile sconfitta che attende ognuno di noi, bisogna almeno farlo rimanendo entro gli stretti confini della dignità e della bellezza”. Agli ordini Fieldcommander Cohen: la sconfitta quotidiana è il nostro mestiere.



L'altro acquisto invece sarà solo per gli hard core fan, ma sembra promettere assai. Un quadruplo cd che raccoglie ben 73 pezzi quasi tutti incisi per l'occasione: pensate che c'è anche Mark Knopfler che fa Restless Farewell. Wow. Si tratta di Chimes of Freedom: Songs of Bob Dylan Honoring 50 Years of Amnesty International, per festeggiare i 50 anni di Amnesty International. Detro, personaggini per tutti, ma proprio tutti i gusti: Adele, Patti Smith, Pete Townsend, Ke$ha, The Gaslight Anthem, Sting, Jackson Browne, Elvis Costello, Sinead O’Connor, Kris Kristofferson, Bad Religion, Marianne Faithfull, My Chemical Romance, Bryan Ferry, Pete Seeger. Dicono i tipi di Amnesty: “La musica di Bob Dylan è eterna perché cattura in modo unico il nostro struggimento, la nostra gioia, la nostra fragilità e il nostro coraggio. Pochi artisti come lui riescono ad avere una tale profondità nei testi, ispirandoci così tanto e arrivando sempre a superare le nostre aspettative. Noi di Amnesty International siamo immensamente grati nei suoi confronti e nei confronti di tutti gli artisti che hanno contribuito a questo progetto”. Salvate i soldini, se ve ne rimangono ancora. Questi sono (fucking) hard times.

Tuesday, November 22, 2011

On a night like this/ 2

The world is old
The world is great
Lessons of life
Can’t be learned in a day
I watch and I wait
And I listen while I stand
To the music that comes
from a far better land


La storia comincia più o meno una sera di 45 anni fa, quando un ragazzetto di 16, 17 anni con i soldi probabilmente scroccati ai genitori con la scusa di una serata al pub si reca invece a vedere un concerto rock. Il luogo è Newcastle, profonda Inghilterra operaia. Sul palco quella sera sta per andare in scena il più straordinario concerto rock da quando Elvis si è esibito allo stadio di Seattle lanciando l’urlo “good rockin tonight” o da quando i Beatles hanno spaccato le televisioni di milioni di americani all’Ed Sullivan Show. “This is not british music, this is american music. Aw come on” dice il magrissimo cantante americano sul palco, così pieno di anfetamine quasi da saltare in aria. Per il ragazzetto inglese è tutto, la sua vita cambia, anche se ancora non lo sa.

Luglio 2007, Londra, Kensington High
, saletta riservata di un ristorante super posh. Quel ragazzetto è un uomo di quasi sessant’anni che annuisce e sorride gentilmente a ogni cosa che gli dico. Fu una sorpresa che lui decise di non inserire quella canzone sul disco che tu avevi prodotto? Ride alla grande, per farsi improvvisamente serio: “No, non rimasi sorpreso da quella scelta. Sapevo già che tipo di personaggio è. Lo vidi la prima volta nel 1966 a Newcastle: ero già un suo fan, rimasi un suo fan e sarò sempre un suo fan ”.


Nella Ville Lumièere, la Gay Paree come la chiama l'americano, non va in onda nessun duetto, ma si percepiscono vibrazioni di una forza così inenarrabile da arrivare da ogni angolo del palco. Musica che arriva da un altro mondo, migliore di questo probabilmente. L’inglese, da tempo, è diventato anche lui una star, e le loro strade si sono già incrociate in molti strabilianti modi. E’ tutto rimandato a qualche sera dopo: i duetti improvvisamente sono tre, poi diventano quattro poi ancora cinque, con l’inglese che accompagna il cantante americano con la sua chitarra. A Milano sono solo tre le canzoni, ma per il tempo che durano sul palco c’è quel ragazzetto di 17 anni che sta cercando di rivivere la notte che gli cambiò la vita: Ah this is not british music, this is american music. C’è una intensità così violenta, così devastante come solo quando due astri collidono, due soli si incendiano, due cuori immensi si sfiorano. Anche l’americano vive questi momenti come se il tempo fosse adesso quello di Newcastle, 1966.

“Lo vidi la prima volta nel 1966 a Newcastle: ero già un suo fan, rimasi un suo fan e sarò sempre un suo fan ”.

Londra, Hammersmith Apollo, teatro di un milione di sanguinanti battaglie rock. E’ l’ultima sera, l’ultima tentazione, l’ultimo rimpianto. Il tour, questo tour, finisce qua. Anche stasera a inizio del suo set, lui, l’inglese, è salito sul palco e ha suonato tre canzoni con l’americano, formidabili come sempre. Poi, inaspettatamente, senza che neanche lu’americano se lo aspettasse, è risalito per l’ultimo bis. L’americano a modo suo è evidentemente contento, si muove attorno alla tastiera come un bambinetto davanti a un giocattolo nuovo. La canzone è Forever Young. All’inglese tocca di cantare la seconda strofa per intero, poi l’americano e l’inglese si scambiano un verso ciascuno nell’ultima terza strofa. Quando l’inglese canta “may your song always be sung”, che la tua canzone possa essere cantata per sempre, fa un ampio gesto col braccio destro e indica vistosamente lui, l’americano. Il pubblico impazzisce. L’americano aspetta di finire il brano, poi si avvicina all’inglese e lo abbraccia. C’è un significato in ogni cosa, in ogni decisione, in ogni istante: le strade si incrociano, gli eventi accadono, la scintilla si illumina, ogni cosa va al suo posto. E’ tutto già scritto, è tutto già deciso, prima, in un tempo immemorabile.


(Foto di Paolo Brillo - copyright reserved)

Mark Knopfler ha pagato il suo debito a Bob Dylan, che quella sera di un secolo fa, di un tempo immemorabile, gli aveva cambiato la vita. Era un suo fan allora, è ancora un suo fan oggi. Che questa canzone possa essere cantata per sempre, anche per noi, così da pagare ogni debito. Guardiamo, e aspettiamo, mentre ascoltiamo quella musica che arriva da un mondo molto migliore.



Friday, November 18, 2011

Una panchina vuota. A Soho Square

An empty bench in Soho Square.
If you’d have come you’d have found me there

But you never did ‘cos you don’t care and I’m so sorry baby

I don’t mind loneliness too much but when I met you I was touched

And that was good enough for me but do we always have to be sorry

Why can’t we just be happy baby?

One day you’ll be waiting there, no empty bench in Soho Square

And we’ll dance around like we don’t care

And I’ll be much too old to cry

And you’ll kiss me quick in case I die before my birthday


A Soho Square c'è una panchina. E' vuota la maggior parte dell'anno, ma in un giorno speciale si riempie di gente, attorno. Soho Square è un angolo di verde e di silenzio nel cuore più vero di Londra, Soho. Ci sono capitato per puro caso anni fa mentre cercavo l'albergo dove dovevo incontrare per una intervista Shawn Colvin. Sono rimasto spiazzato, sbucando dall'intricato dedalo di vicoli e vicoletti che costituiscono Soho, il quartiere della musica e della vita notturna, in cui ogni metro parla di storia e di storie di uomini e donne. Qui c'è la chiesa di San Patrizio di cui ho parlato altre volte, dove dentro dormono tranquilli i barboni sulle panche e sotto si estendono chilometri di antiche catacombe. Soho Square è un rifugio, e come tutti i rifugi è il luogo degli innamorati. E' un luogo che sprizza magia, solitudine, amore e raffinata melanconia, tipicamente british. Ogni volta che vado a Londra passo da Soho Square, a respirare tutte queste cose e portarmele via.


A Soho Square c'è una panchina vuota quasi tutti i giorni dell'anno, tranne in un giorno speciale, dove alcune persone vi si radunano attorno. E' la panchina di Kirsty MacColl, che a Soho Square dedicò una bellissima canzone dal titolo omonimo, che diceva "C'è una panchina vuota a Soho Square, se ci verrai mi ci troverai, ma tu non ci vieni perché non te ne importa. Ma un giorno sarai lì ad aspettare, non ci sarà nessuna panchina vuota a Soho Square e danzeremo come se non ce ne importasse nulla e sarò troppo vecchia per piangere, e mi bacerai velocemente, nel caso io muoia prima del mio compleanno".


Kirsty MacColl, che tutti ricordiamo per il suo meraviglioso duetto con Shane MacGowan nel brano Fairytale of New York, è morta prima del suo compleanno, uccisa da un motoscafo di un milionario messicano entrato dove non si doveva entrare con un motoscafo, dove Kirsty stava nuotando con il figlio. Riuscì a salvare la vita del figlio, ma venne investita dalla barca morendo sul colpo. Era il 10 ottobre del 2001. Dieci anni fa. Da allora ogni 10 ottobre fan e amici si radunano introno alla panchina di Soho Square, su cui hanno messo una targhetta con alcuni versi della canzone di Kirsty.

Pochi giorni fa è morto, di tumore, anche un grandissimo della canzone inglese, Jackie Leven. C'è evidentemente una qualche maledizione sui grandi cantori folk inglesi, che in un modo o nell'altro muoiono tutti prima del tempo e malamente. Nick Drake, John Martyn, Bert Jansch, adesso Jackie. Vite maledette, troppo intense per rimanere su questa terra troppo a lungo. Jackie Leven scrisse un album intitolato The Mystery of Love Is Greater Than the Mystery of Death. Incise anche la sua versione di Soho Square di Kirsty, una bellissima versione. Non so se i due si siano mai incontrati in vita, conosciuti, seduti insieme su quella panchina. Ma sono sicuro che adesso quella panchina non sarà mai più vuota e abbandonata, neanche negli altri giorni dell'anno. Perché a Soho Square c'è adesso una panchina dove siedono per sempre Kirsty e Jackie: il mistero dell'amore è più grande del mistero della morte. E supera la morte. Questo dicono le canzoni.

Tuesday, November 15, 2011

On a night like this

Un amico, mentre discutevamo nella nebbia fonda fonda quasi fossimo stati due serial killer sulle rive del Tamigi invece di essere nella bassa padana fuori del Forum di Assago, diceva: con quelli della sua generazione, un concerto è sempre commemorazione e nostalgia. Con Dylan, invece, è accadimento nel presente. Concordo. Al terzo concerto nel giro nel giro di cinque mesi (non mi accadeva da secoli) sono stato preso per l'ennesima volta in contropiede e lasciato a farmi l'eco di me stesso proprio come l'eco diabolico di Mister Jones. Li avevo lasciati tre settimane fa, Dylan e la "sua" band, intenti in uno spettacolo a base di blues del più intenso e minaccioso, li ho ritrovati ieri sera come la più straordinaria, selvaggia, virulenta, insomma una autentica "badass rock'n'roll band". Anzi, no: una autentica rockabilly band che la nebbia ha vomitato fuori dagli studi della Sun con ciqnuant'anni di ritardo.
Anche l'eterno brutto anatroccolo del gruppo, Stu Kinball, è sbocciato come un fiore e spacca con un paio di assolo da paura stasera. Un amico dagli spalti del Forum mi messaggia per chiedere perché "Dylan fa quelle cose alla pianola". Non lo so e comunque non è una pianola. Forse crede di essere Brian Auger, o Manfred Mann, o Augie Meyers oppure quel dimenticato piccolo tastierista della Sun Records: lo trovo incredibilmente efficace, specie in quel delizioso e stordente riff boogie insistente di Levee's Gonna Break. Sì, una rockabilly band con l'intensità e l'impianto audio dei Metallica. Highway 61, che a giugno all'Alcatraz era stata stucchevole e zoppicante, stasera è il Midnight Train che sferraglia pauroso nella notte piena di nebbia. Ovvio che qua fuori quando usciremo ci aspetterà il midnight rambler per tagliarci la gola. Stu e Charlie Sexton dialogano con un godimento alle stelle e il loro godimento arriva a fiotti sul pubblico. Era dal 2003, dai tempi belli di Freddy Koella, che la Dylan band non esprimeva tanto sangue e passione. Le prime tre canzoni, poi, quando sul palco c'era Mark "sultan of swing" Knopfler sono devastanti e accecanti. L'ex Dire Straits ha tenuto in piedi con una potenza di tiro impressionante tutta la band, dando struttura, vigore, direzione di tiro tanto che quando è sceso dal palco e sul palco è rimasto solo "spirit on the water", è sembrato crollare tutto. Per fortuna ci si è ripresi presto.
Ma che potenza di fuoco si è ascoltata con lui sul palco durante Leopard Skin Pill Box Hat; che dolcezza piena di mestizia si è incanalata in Its all over now Baby Blue. Quanto swing purissimo in Things Have Changed. Valeva la pena di correre fino a qui anche se i pezzi sono stati solo tre e non cinque come in altre serate. Un altro amico messaggia anche lui dagli spalti: "Charlie Stackalee Sexton e c'è anche l'hunchback of Notre dame che gli porta le armoniche". Su quel palco stanotte potrebbe succedere di tutto. Anni fa qualcuno disse che durante certi concerti e durante certe canzoni, Dylan e la sua band sembrano essere a bordo di una macchina gettata a trecento all'ora su una strada piena di curve e ostacoli. E che si divertano come pazzi a imboccare quella strada a quella velocità con il rischio di uscirne fuori e spaccarsi il muso sul vetro. Ieri sera è stato così per gran parte del concerto. Personalmente, ho preso la proposta, rarissima, di Simple Twist of Fate come un regalo preziosissimo, da autentico gentleman che esprimeva così tutto il suo apprezzamento per il pubblico milanese. In quei minuti come solo nei suoi momenti migliori Dylan era una maschera in totale trasformazione che riassumeva, disfava e raccontava i mille volti della sua esistenza. Impressionante: ecco the original vagabond in carne e ossa, anche lui sputatto da questa nebbia benedetta.
Ma ieri sera ho goduto immensamente per una Thunder on the Mountain che non avevo mia apprezzato: stavo imboccando la via obbligatoria della toilette, mi sono dovuto fermare e tornare indietro. Quello che stava succedendo sul palco era impossibile. Ma era autentico. Accadeva, ancora una volta, nel momento. "People are crazy and times are strange": mai come ieri sera mi sono sentito libero come a un concerto rock. In un mondo che è sempre più dominato da gente impazzita, in tempi che sono fottutamente strani, l'unico posto dove sentirsi liberi è un concerto rock. Come questo, ovviamente.

Post scriptum: così preso nell'entusiasmo della musica fatta fino a pochi secondi prima, a Bob Dylan esce un urlo che sembra quasi un canto. Come se la canzone eseguita poc'anzi non fosse finita in realtà. Vuole presentare la sua band, come fa ogni sera. "Hello friends, I want to introduce my baaaaaaaaaaand right now!". Entusiasmo e gioiosità, robe rare, in pubblico, da parte di quest'uomo. E mi viene in mente una immagine: questo è il ragazzino di 17 anni che cinquant'anni fa al liceo di Hibbing, la sua scuola, si era esibito in un mini set di selvaggio rock'n'roll con la sua piccola band di ragazzini come lui, i Golden Chords. Non è un caso che allora come oggi fosse davanti a delle tastiere, pianoforte, pianola, organetto. L'incontenibile entusiasmo di allora è lo stesso di oggi. Questa è la mia band.


Tutte le foto sono copyright di Paolo Brillo (uomo fotografia dell'anno)

Thursday, November 10, 2011

Brucetellers

Pour me a drink Theresa
In one of those glasses you dust off
And I'll watch the bones in your back
Like the stations of the cross


Dunque, ho scoperto che, attraverso la grafologia, lo studio della calligrafia di Bruce Springsteen, il nostro esprime "una nozione del bello e soprattutto di bene". Lo sospettavo. E che ha anche il bisogno di "elevarsi" per sfuggire a una paura innata dell'indifferenza altrui: in questo senso ci sarebbe da parte sua "una ricerca inconscia di identificazione al principio paterno, al padre quale rappresentante della legge e dell'autorità". Da un punto di vista escatologico, un sentimento di dipendenza dal Padre, con la P maiuscola. Ho sempre sospettato anche questo.

Scopro questa e un sacco di altre cose, tanta roba insomma, nel libro Brucetellers: un libro che mi sto divertendo un sacco a leggere, e io non mi diverto mai, o quasi. Divertirsi, nel leggere un libro, non significa farsi risate come davanti a uno Zelig qualsiasi, ma vuol dire apprendere con piacere. Scopro anche che in questo bel libro, il cui ricavato andrà completamente in beneficenza alla Fondazione dell'Ospedale Pediatrico Meyer di Firenze, ci sono anche io. Questo non è molto divertente ed è anche riciclato, nel senso che la mia mancanza ormai cronica di tempo libero mi ha obbligato a mandare un pezzo che scrissi anni fa, dopo il concerto di San Siro del 2003. Peccato: avrei potuto piuttosto raccontare che invece di incontrare Springsteen, come sembra abbiano fatto tutti i fan italiani leggendo queste pagine, ho incontrato e intervistato piacevolmente Patti Scialfa e Little Steven. Ma chissenefrega, no, di loro due.

Nel libro ho scoperto personaggi straordinari alcuni dei quali avevo tra i millantamila amici di Facebook: li ho ritrovati in molti qua dentro, scoprendo che su FB mi chiedono tantissimi fan di Springsteen la loro amicizia, quando io, a giudicare da certe mailing list, dovrei essere il nemico numero uno di Springsteen (perché a-me-mi dischi come Working on a Dream sembranno dischi dei Pooh peggiori e il karaoke della E Street Band degli ultimi anni non lo reggo). Non è un caso che nella lista dei post più letti del mio blog, al primo posto c'è sempre questo qua. Mi sovviene in aiuto la straordinaria, divertente e brillante descrizione della Springsteen-fandom che fa Il Cala, in apertura libro. Un genio, il Calandriello, come tutti i liguri d'altronde.

In Brucetellers ho ritrovato amici musicisti che non vedo di persona da decenni, come Graziano Romani o Massimo Bubola, colleghi giornalisti idem, come Ermanno Labianca (straordinario il ritratto di Bruce che accende dei ceri dentro San Petronio) e Mauro Zambellini, fan dal cuore bello come Angela Del Rosso che apre citando Leonard Cohen: che classe, baby. Ho ammirato il talento di Gianluca Morozzi che mi ha fatto ricordare che a Verona nel 1993 c'ero anche io: tanto poco mi piacque quello show che me l'ero dimenticato. Insomma, belle pagine piene di vibranti ricordi, da spizzicare qua e là, saltando tra le pagine, per lungo tempo. Good job, mi viene da dire a chi ha avuto questa pensata: un libro, un diario commosso, per ricordare un amico che non c'è più. Bellissimo, come ho sentito dire a Bruce in innumerevoli concerti italiani.

Un tale lavoro fatto bene che mi ha fatto venir voglia di rimettermi in discussione: vediamo se sono pirla davvero o no, mi sono detto. Ho rimesso su in sequenza Magic e Working on a Dream. Be', Magic mi suona ancora esattamente come la recensione che scrissi al tempo: una prima metà straordinariamente bella, strepitosa, una seconda metà affannosamente così così. E Working? Be', i Pooh, anche nei loro momenti peggiori hanno fatto di meglio. Shoot me now! I love Bruce, mi spiace: per tutta la vita avrò davanti quell'immagine dell'uomo in piedi sul pianoforte che vidi quella sera a Mister Fantasy in tv, a sfidare il mondo e soprattutto me stesso. Cosa chiedere di più, a chi ha avuto la fortuna di imbattersi in certi maestri, istigatori della bellezza?

In realtà, mi viene in mente adesso quello che avrei potuto scrivere pr Brucetellers. E non avrei scritto di Bruce. No, avrei scritto di un personaggio straordinario la cui faccia e il cui gesto più di vent'anni dopo ce li ho ancora scolpiti nella mente. Era il 23 luglio 1988. Avevamo passato una giornata orribile, nel catino torrido dello Stadio Comunale di Torino il cui momento migliore era stato il lancio di pomodori verso Claudio Baglioni. Poi ore di pseudo folksinger e insopportabili pop star. Ma era venuta l'ora, quella per cui il 90% delle persone aveva riempito lo stadio. Davanti a me un ragazzo sfatto e annichilito proprio come mi sentivo io. E' un attimo: quella voce e le chitarre che sferragliano il riff di Cadillac Ranch. Il ragazzo davanti a me si toglie in mezzo secondo la t shirt e la lancia in aria con un urlo di soddisfazione incontenibile, rimanendo a torso nudo per tutto il resto del concerto. Mai gesto fu più rock di quel gesto, un gesto di liberazione totale, cose che solo Springsteen poteva far accadere. Forse quel ragazzo è tra gli autori di Brucetellers. devo scoprirlo. Così allora, Teresa, versami un altro drink.Guarderò le ossa della tua schiena ancora una volta, come si guarda una Via Crucis.

Saturday, November 05, 2011

Genova resiste


Tragedie come quella di ieri succedono ogni giorno in tutto il mondo. Ovvio che quando colpiscono ciò che hai di più caro, ti costringono a reagire maggiormente, anche se non è bello, anche se non bisognerebbe mai ignorare tutto il dolore del mondo. Questa volta però è un orrore che si ripete, in modo ingiustificato. Quella foto qua sopra è la prima pagina de Il Secolo XIX del 1970: 41 anni fa, l'alluvione a Genova fece 25 morti. Ieri ne ha fatti 7, tra cui tre bambini, annegati come topi. Le colpe di chi amministra Genova e la Regione Liguria sono immense, hanno le mani lorde di sangue, perché non solo non hanno mai risolto alla radice in 41 anni una situazione metropolitana a perenne rischio, ma perché hanno mandato la gente a morire per strada in situazione di allarme due. C'è da chiedere al signor sindaco di Genova se sappia cosa significi un allarme due: le scuole dovevano restare chiuse, la gente invitata a non uscire. Una mamma è morta annegata per essere andata a prendere il figlio a scuola. Una città in mano a degli irresponsabili che verrebbe voglia di chiamare assassini.

Io amo Genova. Conosco ogni centimetro di questa città come si conosce il corpo della donna che ami. Genova mi ha sempre accolto come una madre nelle mie fughe, da casa, da scuola. E' una città misteriosa, Genova, piena di piccoli angoli nascosti e meravigliosi: li conosco tutti. In quegli angoli nascosti ho incontrato i miei primi amori di ragazzino, nei bar fumosi e puzzolenti ho bevuto il mio primo vino, alle donne di vita nei carrugi ho detto di no quando mi chiamavano sorrideno ad andare da loro. Al molo dove decenni prima partivano gli emigranti ho passato ore a sognare quei volti davanti ai moderni transatlantici immensi. Da Principe a Brignole ho attraversato ogni anfratto decine di volte. Sono ammutolito davanti alla Lanterna che neanche davanti all'Empire State Building e mi sono commosso dentro palazzi antichi chiusi al mondo e pieni di segreti. Ho corso e urlato alle manifestazioni e ho visto qui, a Genova, il mio primo cocnerto: David Bromberg, 1979. E ci ho visto Allen Ginsberg recitare il suo mantra con il mio primo grande amore sognando che eravamo Renaldo & Clara. Dallo stadio Marassi sono fuggito una volta durante Genoa - Inter, le mie due squadre del cuore, per colpa un diluvio torrenziale, partita interrotta, correndo bagnati fradici per le strade a cerca rifugio. Ti amo Genova. Non riesco a perdonare quello che continuano a farti. Belin.

Thursday, November 03, 2011

Disoccupati (e) credenti

Debutta oggi a Roma al teatro Manhattan lo spettacolo "Disoccupati credenti", che vi resterà in scena fino al 6 novembre (nei giorni 3-4-5 novembre alle ore 21, e il 6 alle ore 18). Si tratta di una piece scritta da Enzo Jannacci - che ha curato anche la regia - insieme all'attore e musicista Osvaldo Ardenghi, che da tempo collabora con Jannacci. Nata su idea di Ardenghi nel 1994 con la collaborazione di Jannacci, è stata adesso aggiornata dai due con diversi riferimenti al contesto attuale e dopo essere stata presentata in passato in diverse scuole, arriva per la prima volta nella Capitale. Si tratta di un testo comico sul coraggio di essere se stessi, senza scorciatoie, che prende in giro la maleducazione, il modo di evadere dal quotidiano tra alcol, pasticche e guida pericolosa e dove entra in scena anche il Nazareno.



Jannacci, nel corso di questa conversazione esclusiva con IlSussidiario.net, ci ha spiegato il senso e i retroscena dello spettacolo: per tutti gli appassionati dello straordinario autore di canzoni, interprete, attore e scrittore milanese una bella notizia, la possibilità cioè che questo spettacolo approdi anche nei teatri. In tempi poveri di grandi emozioni come quelli che stiamo vivendo, c'è bisogno di ritrovare un autore come lui. C'è bisogno infatti, come diceva lo stesso Jannacci parlando delle canzoni, di turbamento: "La canzone deve lasciar turbati", disse una volta. E così un'opera teatrale. Qualunque cosa. Perché siamo fin troppo assuefatti alla banalità, al grande nulla o, peggio, alla paura. C'è bisogno di qualcosa che smuova il cuore. "Io sono un tipo pericoloso", ci dirà nel corso di questa intervista. Perfetto, abbiamo bisogno di gente pericolosa.



CLICCA SU QUESTO LINK PER LEGGERE L'INTERVISTA A ENZO JANNACCI

Tuesday, November 01, 2011

Loutallica!

"Una collaborazione insolita sarebbe stata tra Metallica e Cher. Questa è una collaborazione ovvia"
(Lou Reed)


È il 1975 quando i negozi di dischi si apprestano a ricevere uno dei dischi più assurdi e misteriosi del tempo (quel tempo; col tempo, ci saremmo abituati a ben altre assurdità). Si intitola "Metal Machine Music", è un doppio album e ne è l'autore una delle figure più controverse della storia del rock, ma certamente una delle più geniali: Lou Reed.

L'ex Velvet Underground che ha lanciato da qualche anno una brillante carriera solista con dischi di spessore lirico e musicale straordinario, come "Transformer" e "Berlin" è personaggio che vive nella penombra dei bassifondi newyorchesi, tra droga e travestiti. È il maledetto del rock per eccellenza, ma anche uno dei più brillanti cantori del lato oscuro dell'animo umano, della sua miseria e della sua perdizione senza redenzione.

Da qualche tempo la sua casa discografica insiste perché pubblichi musica abbastanza commerciale per sfondare in classifica. Lui risponde con un doppio vinile di laceranti feedback, di rumorismo sonico, di musica strafottente e cacofonica senza parole. Un disastro commerciale totale che però risulterà negli anni influente per un sacco di band di rock alternativo e che getta i semi per una collaborazione che si compirà più di trent'anni dopo.



Sono i primissimi anni Ottanta, invece, quando a San Francisco nasce una band che fa del nuovo verbo metal, l'esposizione della musica rock ai suoi livelli più distorti e rumoristi, il proprio verbo musicale, ma anche il nome. Un nome che qualcuno dei membri è andato forse a scoprire in quel disco di Lou Reed di qualche anno prima. Si chiamano Metallica e diventeranno in breve tempo uno dei gruppi più amati al mondo, pionieri del thrash, della musica più aggressiva che si possa immaginare.

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Sangue nei solchi del cuore

“Bob Dylan è in città, c’è bisogno di catturare qualcosa di magico”. La “città” è ovviamente New York, al telefono John Hammond, il più gran...

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