"Accidenti Davide: ai tempi del vinile questo sarebbe stato un triplo ellepì". "Esatto, come Sandinista dei Clash!". Scherza e ride Davide Van De Sfroos, è decisamente di buon umore e soddisfatto del suo nuovo disco, il primo dopo tre anni, e ovviamente la prima cosa che gli viene in mente è uno dei suoi gruppi preferiti, i Clash. Chi scrive lo ricorda sul palco pochi minuti prima di una esibizione, intento ad attaccare con cura sulla sua chitarra un adesivo dei Clash. Le radici musicali di quest'artista sono profonde e diverse, ma tutte sanamente rock. Lo si sente in questo disco, "Goga e Magoga", ricchissimo di spunti, di citazioni, di una varietà sonica come non era mai successo prima. E allora ci sta un'altra citazione: "Potrebbe essere un 'freewheelin' Van De Sfroos, un Van De Sfroos a ruota libera, che ne dici?". Annuisce ridacchiando.
Anche liricamente è un disco ricco come non mai, un disco "bipolare" lo ha definito lui con una delle sue tipiche irresistibili immagini, che racconta "un'epoca che con il bipolarismo e la confusione interiore ed esteriore ha imparato a convivere con apparente rassegnazione". Un'epoca dove l'io dell'uomo è devastato, annichilito e addormentato, e lui lo dice benissimo, ma non per questo bisogna arrendersi. "Le mie canzoni cercano di comunicare comunque speranza" sottolinea. Ed è vero: immagini di luce appaiono e scompaiono qua e là nelle canzoni. Maria, la madre di Dio, per cui una preghiera vale sempre la pena, l'infermiera davanti alle atrocità della guerra che diventa un padre nostro. E alla fine quella dichiarazione bellissima, che la vita è un dono, che la vita è appartenenza, che la vita è affidarsi: "Qualcuno di loro ha maledetto il suo ballo, qualcuno ha perfino pregato di esser tagliato ma in molti accettano il dono, il dono di farsi cullare".
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Wednesday, April 23, 2014
Monday, April 21, 2014
This is the story of the Hurricane
In quei mesi del 1976 era impossibile non ascoltarla: ogni qualvolta accendevi una radio, la canzone Hurricane di Bob Dylan usciva fuori. Anche nella provincia dell’impero come era ed è ancora oggi l’Italia, così lontana negli anni 70 dal mondo dello spettacolo, della musica e della politica americana, Stati Uniti, il cuore invece dell’impero. In quei giorni Internet era neppure un sogno nella testa di qualche scienziato, eppure la forza di quella canzone fu così devastante che bucò ogni barriera, diventando un singolo di successo planetario. Fu un impatto multi mediatico e multi culturale. Addirittura si ballava nelle prime discoteche, agli albori della disco music che sarebbe esplosa poco dopo con i Bee Gees, per quel suo ritmo incalzante e arrembante. Sbucò anche in televisione, dove Bob Dylan negli ultimi mesi del 1975 si era recato per partecipare a un programma in tributo al discografico che aveva scoperto anni prima lui e tanti altri, ad esempio Bruce Springsteen, John Hammond, e l’aveva cantata in anteprima.
Quella serata venne trasmessa anche alla televisione italiana nei primi mesi del 1976 e per molti fu come se la vita cambiasse nel giro di pochi minuti. Chi scrive quella sera era un ragazzino di 13 anni che cambiò canale così per caso e rimase intrappolato da quella voce mai ascoltata prima, che spalancava orizzonti infiniti, che inquietava e che malediceva, che non era simile a niente altro che avevi ascoltato prima e che ti inchiodava davanti al televisore senza possibilità di proferire un solo “eh”.
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Hurricane - Bob Dylan from LA REVOLUCION ES AHORA! on Vimeo.
Quella serata venne trasmessa anche alla televisione italiana nei primi mesi del 1976 e per molti fu come se la vita cambiasse nel giro di pochi minuti. Chi scrive quella sera era un ragazzino di 13 anni che cambiò canale così per caso e rimase intrappolato da quella voce mai ascoltata prima, che spalancava orizzonti infiniti, che inquietava e che malediceva, che non era simile a niente altro che avevi ascoltato prima e che ti inchiodava davanti al televisore senza possibilità di proferire un solo “eh”.
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Friday, April 18, 2014
Henry Poole is here
"Non vedo nulla". "Non stai guardando". La vita e il modo di affrontarla in fondo potrebbe essere tutta riassunta in queste due battute, quelle che si scambiano Henry Poole (l'attore Luke Wilson) e la sua vicina di casa, Esperanza (nome non casuale, ovviamente). Quello che non vede nulla è Henry, perché Esperanza, donna semplice, riesce anche a vedere il volto di Gesù sul muro di un fatiscente cottage alla periferia di Los Angeles che è poi la casa dove è cresciuto Henry e dove è tornato per morire, convinto di avere una malattia terminale. Ma lui, bicchiere di superalcolici sempre in mano, quel volto non lo vede.
Henry "ha smesso di credere alla speranza, ma la speranza non ha smesso di credere in lui". "Henry Poole - Lassù qualcuno ti ama" (titolo originale Henry Poole Is Here) è un bel film uscito nel 2008, poco visto e abbastanza trascurato, come sempre quando un film non è pensato per i baracconi fatti da effetti super tecnologici in 3D, ma ha invece una bella storia da raccontare. Sky Cinema lo ha trasmesso in queste serate pre pasquali: forse "lassù", nei palazzi di Sky, c'è davvero qualcuno che programma i film con un senso. Perché "Hnenry Poole" è la storia di un miracolo, di una resurrezione anche, dunque perfetto per i giorni di Pasqua. E ha una bellissima colonna sonora: memorabile la scena in cui un ormai confuso e smarrito Henry Poole mani in tasca si sofferma a guardare il panorama di Los Angeles al tramonto e sotto parte una delle più belle canzoni di Bob Dylan, Not Dark Yet, "non è ancora buio ma ci manca poco".
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Henry "ha smesso di credere alla speranza, ma la speranza non ha smesso di credere in lui". "Henry Poole - Lassù qualcuno ti ama" (titolo originale Henry Poole Is Here) è un bel film uscito nel 2008, poco visto e abbastanza trascurato, come sempre quando un film non è pensato per i baracconi fatti da effetti super tecnologici in 3D, ma ha invece una bella storia da raccontare. Sky Cinema lo ha trasmesso in queste serate pre pasquali: forse "lassù", nei palazzi di Sky, c'è davvero qualcuno che programma i film con un senso. Perché "Hnenry Poole" è la storia di un miracolo, di una resurrezione anche, dunque perfetto per i giorni di Pasqua. E ha una bellissima colonna sonora: memorabile la scena in cui un ormai confuso e smarrito Henry Poole mani in tasca si sofferma a guardare il panorama di Los Angeles al tramonto e sotto parte una delle più belle canzoni di Bob Dylan, Not Dark Yet, "non è ancora buio ma ci manca poco".
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Friday, April 11, 2014
Brother Jackson
Brother Jackson, come lo chiamano alcuni, è stata l'autentica voce dell'uomo comune, quello che John Lennon preferiva chiamare il "working class ero", l'eroe della classe operaia. Jackson Browne nel suo straordinario catalogo di canzoni composte nell'arco di una carriera quarantennale, non ha mai però ceduto ad alcuna ideologia di sorta, tanto meno quella del cosiddetto "blue collar rock", il rock - appunto - della classe operaia di cui sarebbero stati esponenti di spicco (ma lo erano davvero?) Bruce Springsteen e John Mellencamp.
Tutti loro, è vero, hanno cantato la quotidianità della vita reale, quella fatta di orari 9-5, di cartellini da timbrare, di autostrade da asfaltare, della fuga del sabato sera, i pannolini da cambiare, il lavoro da cercare, matrimoni che andavano a rotoli e allo stesso tempo domeniche pomeriggio passate al parco a giocare con i figli. Quelle persone che sono il sale della terra insomma, come dicevano i Rolling Stones nella più bella canzone dedicata appunto agli eroi della vita quotidiana, Salt of the Earth.
Jackson Browne ci ha messo però una particolare capacità di compassione, uno sguardo caritatevole e pieno di amore per quest'uomo che fatica e sputa sang per mettere insieme, come si diceva una volta, il pane con il companatico. Una canzone come For Everyman, per dirne una, ne è il manifesto più affascinante e commovente, un abbraccio al cuore dell'uomo che desidera e combatte per una vita dignitosa, condizione comune a tutti anche se molti tendono a dimenticarlo nella banalità e nella distrazione delle promesse vacue del mondo: appunto, "per ogni uomo".
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Tutti loro, è vero, hanno cantato la quotidianità della vita reale, quella fatta di orari 9-5, di cartellini da timbrare, di autostrade da asfaltare, della fuga del sabato sera, i pannolini da cambiare, il lavoro da cercare, matrimoni che andavano a rotoli e allo stesso tempo domeniche pomeriggio passate al parco a giocare con i figli. Quelle persone che sono il sale della terra insomma, come dicevano i Rolling Stones nella più bella canzone dedicata appunto agli eroi della vita quotidiana, Salt of the Earth.
Jackson Browne ci ha messo però una particolare capacità di compassione, uno sguardo caritatevole e pieno di amore per quest'uomo che fatica e sputa sang per mettere insieme, come si diceva una volta, il pane con il companatico. Una canzone come For Everyman, per dirne una, ne è il manifesto più affascinante e commovente, un abbraccio al cuore dell'uomo che desidera e combatte per una vita dignitosa, condizione comune a tutti anche se molti tendono a dimenticarlo nella banalità e nella distrazione delle promesse vacue del mondo: appunto, "per ogni uomo".
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Tuesday, April 08, 2014
Do They Know It's Christmas?
Trent'anni fa quasi, un giovane cantante, per la verità già un po' dimenticato dalle cronache rock dopo un successo istantaneo di qualche anno precedente, pensava e dava vita al più grandioso evento musicale della storia, superiore anche al festival di Woodstock del 1969 e rimasto oggi ancora inimitabile, nonostante le centinaia di tentativi di imitazioni. Il Live Aid, che Bob Geldof, musicista nord irlandese noto solo a un pubblico ristretto, rese possibile fu l'evento degli eventi, per impatto mediatico, numero di spettatori, intento benefico. Si voleva rispondere al dramma della morte per fame di milioni di africani, specie quelli dell'Etiopia, e cosa c'è più bello, di più nobile e più coinvolgente di impegnarsi per rispondere a una catastrofe del genere? In fondo la musica rock lo aveva sempre gridato: noi possiamo cambiare il mondo.
Un evento pensato in simultanea sui palcoscenici di Londra e di Philadelphia, dall'altra parte dell'oceano, e poi la diretta televisiva mondiale per miliardi di spettatori. Sui due palchi, i più grandi nomi della scena musicale di allora e di sempre, clamorosa reunion dei Led Zeppelin compresa.
Il Live Aid fu un discreto fallimento, i soldi destinati ai bambini africani per anni finirono non si sa dove, poi ne giunsero a destinazione solo una parte, considerando anche le spese ciclopiche dell'evento. Bob Geldof tornò nel suo anonimato di musicista rock incompiuto nonostante il suo nome diventasse un po' una sorta di Gandhi del rock, diventando anche baronetto per il merito benefico della sua iniziativa.
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Un evento pensato in simultanea sui palcoscenici di Londra e di Philadelphia, dall'altra parte dell'oceano, e poi la diretta televisiva mondiale per miliardi di spettatori. Sui due palchi, i più grandi nomi della scena musicale di allora e di sempre, clamorosa reunion dei Led Zeppelin compresa.
Il Live Aid fu un discreto fallimento, i soldi destinati ai bambini africani per anni finirono non si sa dove, poi ne giunsero a destinazione solo una parte, considerando anche le spese ciclopiche dell'evento. Bob Geldof tornò nel suo anonimato di musicista rock incompiuto nonostante il suo nome diventasse un po' una sorta di Gandhi del rock, diventando anche baronetto per il merito benefico della sua iniziativa.
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Monday, April 07, 2014
Guerra alla droga
Con un nome così, The War on Drugs/La guerra alla droga, potrebbe essere il gruppo preferito dell'ex ministro Giovanardi. Scherzi a parte, la band capitanata da Adam Granduciel, dopo l'addio risalente ormai già a qualche anno fa di Kurt Veil - che ha inaugurato una altrettanto valida carriera solista -, totalmente nelle sue mani, è una delle realtà migliori della scena musicale americana più recente. Lo dimostra l'ultimo bellissimo disco, "Lost in the Dream", probabilmente il loro lavoro migliore. In giro da cinque o sei anni, i War on Drugs arrivano dalla zona di Philadelphia e la loro musica non è facilmente ascrivibile alle solite etichette buone per ogni stagione. Certo, le influenze di Adam Granduciel sono evidenti: voce strascicata e anfetaminica alla Bob Dylan periodo "Blonde on Blonde", lunghe fughe chitarristiche che non possono ricordare quelle di Neil Young, gusto per ballate di tipo californiano.
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Monday, March 24, 2014
She is with the band
Un giorno di metà anni settanta, salì su un aereo e da Londra, dov'era nata, andò fino a Los Angeles. Aveva vent'anni, Sylvie Simmons, e in quel modo incosciente realizzò il suo sogno più grande, vivere la sua vita dentro alla musica. Oggi vive a San Francisco ed è una delle più quotate scrittrici rock del mondo, una delle pochissime donne ad aver fatto breccia in un ambiente fortemente maschilista, quello del giornalismo musicale. Il suo ultimo libro, la biografia di Leonard Cohen, "I'm Your Man" (pubblicato anche in Italia da Caissa Italia Editore), è un best-seller mondiale tradotto in oltre dieci lingue. Dopo aver collaborato con le maggiori riviste musicali degli anni 70 e 80, come Cream e Sound, scrive oggi sin dal primo numero per quella che è la miglior rivista musicale del mondo, Mojo, per la quale ha realizzato dozzine di interviste straordinarie, come quei cinque giorni passati insieme a Johnny Cash a casa sua pochi mesi prima che questi morisse.Con lei abbiamo parlato di "quel piccolo sciocco pezzo di musica che si ama così tanto da stare male".
Nel film di Cameron Crowe, "Almost Famous/Quasi famosi" c'è una frase detta da una delle protagoniste a un musicista: "Non riuscite a capire cosa significhi amare così tanto un piccolo, sciocco pezzo di musica o una band, da starci male": E' davvero possibile stare male per una canzone?
Assolutamente, credo profondamente che la musica possa suscitare una passione così forte come l'amore per un uomo, una donna, un bambino, un animale. Sin da quando ero una bambina, ero ossessionata con la musica in tutte le sue forme, ho sempre desiderato una vita nella musica, ma non ero sicura di come poter fare. Deve essere un percorso che segui per conto tuo, la mia passione per la musica batte ogni altro tipo di passione.
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Nel film di Cameron Crowe, "Almost Famous/Quasi famosi" c'è una frase detta da una delle protagoniste a un musicista: "Non riuscite a capire cosa significhi amare così tanto un piccolo, sciocco pezzo di musica o una band, da starci male": E' davvero possibile stare male per una canzone?
Assolutamente, credo profondamente che la musica possa suscitare una passione così forte come l'amore per un uomo, una donna, un bambino, un animale. Sin da quando ero una bambina, ero ossessionata con la musica in tutte le sue forme, ho sempre desiderato una vita nella musica, ma non ero sicura di come poter fare. Deve essere un percorso che segui per conto tuo, la mia passione per la musica batte ogni altro tipo di passione.
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Tuesday, March 18, 2014
Paint it. Black
Come in un brutto film, come in una canzone cantata milioni di volte, immaginata, allontanata perché troppo dolorosa e alla fine mai composta. Il jet privato, quello che dagli anni 70 li ha portati in giro per il mondo, con la linguaccia irriverente ben in vista sulla fusoliera è appena atterrato. Saranno le dieci di sera a Perth, Australia. A New York City sono le 8 di mattina delle stesso giorno, è domenica. Una domenica che lei passa in chissà quale modo, riposo forse poco: una donna in carriera come lei ha sempre cose a cui pensare anche di domenica. Troppe cose. Adesso invece è lunedì mattina, saranno le 9 e 30. A Perth, in Australia, sono le 11 e 30 di notte, il lunedì è quasi finito. Lui ha passato la giornata a svagarsi, a distendersi, è andato a passeggiare sulla bella spiaggia davanti all’oceano, ha anche accettato di farsi scattare qualche fotografia. Sorride, un buffo cappellino militare con la visiera in testa, gli occhiali da sole: più che la rock star che da decenni fa impazzire il mondo, sembra un turista tipicamente inglese, buffamente eccentrico come loro sanno essere. La foto di lui sorridente finisce su twitter. Fra due giorni dovrà di nuovo salire sul palco, come fa da cinquant’anni. Già, perché, anche se li porta benissimo, lui di anni ne ha 70. Avrà fatto un patto con il diavolo, dicono i soliti ben informati schiudendo i denti nell’invidia perché loro invece i 70 anni che hanno li dimostrano tutti. Insomma, ha la stessa età dell’ex presidente del consiglio italiano Mario Monti: chi li porta meglio? Chi ha fatto sesso droga e rock’n’roll per buona parte della sua vita o chi la vita l’ha passata dietro la scrivania delle banche e delle università? Ma questo, adesso, non centra nulla.
Adesso se ne torna in albergo perché si sente un po’ inquieto, è quasi mezzanotte e come ogni volta che sta per cominciare una nuova tournée gli vengono dei pensieri, tornano a galla volti mai dimenticati davvero. Winnie the Pooh, il buffo pazzo con il capelli a caschetto biondi, Brian, morto annegato nella sua piscina nessuno ha mai capito veramente come. Sente dei brividi: lui voleva bene a Brian, era stato grazie a lui che tutto era nato e che nei successivi cinquant’anni si era potuto permettere di fare la vita più bella al mondo: musica, donne, soldi, tanti soldi. Era anche diventato Sir, altro che simpatia per il demonio.
A New York sono ormai le dieci di mattina, a Perth è passata da pochi secondi la mezzanotte ed è già martedì. Lei sale su una seggiola, annoda una delle sue eleganti sciarpe di seta al collo a una lampada e si lascia andare.
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Adesso se ne torna in albergo perché si sente un po’ inquieto, è quasi mezzanotte e come ogni volta che sta per cominciare una nuova tournée gli vengono dei pensieri, tornano a galla volti mai dimenticati davvero. Winnie the Pooh, il buffo pazzo con il capelli a caschetto biondi, Brian, morto annegato nella sua piscina nessuno ha mai capito veramente come. Sente dei brividi: lui voleva bene a Brian, era stato grazie a lui che tutto era nato e che nei successivi cinquant’anni si era potuto permettere di fare la vita più bella al mondo: musica, donne, soldi, tanti soldi. Era anche diventato Sir, altro che simpatia per il demonio.
A New York sono ormai le dieci di mattina, a Perth è passata da pochi secondi la mezzanotte ed è già martedì. Lei sale su una seggiola, annoda una delle sue eleganti sciarpe di seta al collo a una lampada e si lascia andare.
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Sunday, March 16, 2014
Quella lunga estate da solo
Recensione di To Live Alone in That Long Summer, pubblicata sul numero di marzo della rivista Outsider
Attenzione, maneggiare con cura, "handle with care". E' tornato Barzin, il poeta canadese originario dell'Iran: non è roba per tutti. Il suo ultimo disco, quasi cinque anni fa ormai, "Notes to an Absent Lover", aveva devastato una generazione di cuori già infranti per conto loro. Be' una generazione è un po' tanto, visto che come tutte le cose migliori quel disco non l'avevano comprato in molti, almeno da questa parte dell'oceano. Ma di male ne aveva fatto a tanti, a tutti coloro che si portano dentro un cuore malandato per troppo amore. Quelle canzoni erano diventate citazioni, motti, appunti da appendersi al bavero della giacca per affrontare una stagione difficile. Raramente qualcuno aveva saputo descrivere così bene la fine di un amore, offrendo poche scappatoie, forse solo Graham Greene, ma questo non era un romanzo.
Un disco a tratti impossibile da ascoltare, per quell'urgenza carica di dolore nel descrivere la sofferenza come raramente si era ascoltato nella storia della canzone d'autore. Il paragone con Blood on the Tracks di Bob Dylan non era azzardato, anche per l'accompagnamento musicale minimale. Ma soprattutto scalfiva quella voce spettrale, appena sussurrata, così carica di angoscia e solitudine.
Adesso è finalmente tornato. Le ambientazioni soniche e liriche sono sempre quelle, evidentemente la solitudine del cuore per Barzin è una condizione esistenziale, anche se adesso l'accompagnamento strumentale è più ricco (con lui questa volta ci sono Sandro Perri, Tony Dekker dei Great Lake Swimmers, Daniela Gesundhet degli Snowblink Tamara Lindeman dei Wheather Station tra gli altri), lo spettro sonoro si approfondisce di eleganti nuove sfumature. Soprattutto è totale l'immedesimazione con un altro gigante canadese, Leonard Cohen, tanto che a tratti in queste nuove canzoni ti viene spontaneo immaginare la voce profonda del grande vecchio. Deve avere una tristezza speciale, il Canada. Barzin se vogliamo propri etichettarlo potremmo definirlo slow core, come altri grandi canadesi delle ultime generazioni: Great Lake Swimmers, Brian Borcherdt, Donovan Woods, Jbm.
Non mancano anche questa volta le citazioni dylaniane (nel disco precedente erano molteplici), oltre a Cohen altro grande punto di riferimento del canadese-iraniano, ad esempio "Dylan is playing After Midnight" dimostrando così di essere aggiornatissimo visto che si tratta di un brano dell'ultimo disco, Tempest.
Le canzoni sono ancora dolorose fessure aperte in camere abbandonate: l'iniziale All the While procede in modo ipnotico, su un fraseggio di chitarra sempre uguale, creando quel clima un po' claustrofobico che ha sempre caratterizzato le sue migliori canzoni.
Ma Barzin sa anche scrivere splendide melodie, con inflessioni di pop di classe; ne sono la prova brani incantevoli come Fake It ‘Til You Make It, In the Morning e soprattutto Lazy Summer, un brano epico. Altrove, ad esempio In The Dark You Can Love This Place, coniuga una brillante melodia a una atmosfera notturna e sofferente, capace però sempre di evitare ogni monotonia, catturando l'ascoltatore in una visione sonica e cinematica affascinante ed elegante allo stesso tempo. Se nel disco precedente Barzin affrontava la disperazione di una rottura sentimentale, questa volta il tema sembra maggiormente essere la solitudine metropolitana, l'impossibilità di adattare i nostri sentimenti, i nostri desideri al ritmo di una vita sempre più anonima, pura sopravvivenza, dove si vive per lavorare e si lavora attendendo la morte. Lui dice di aver cercato di fare un disco così sin da quando ha cominciato a incidere: la sua soddisfazione non può che essere anche la nostra.
Attenzione, maneggiare con cura, "handle with care". E' tornato Barzin, il poeta canadese originario dell'Iran: non è roba per tutti. Il suo ultimo disco, quasi cinque anni fa ormai, "Notes to an Absent Lover", aveva devastato una generazione di cuori già infranti per conto loro. Be' una generazione è un po' tanto, visto che come tutte le cose migliori quel disco non l'avevano comprato in molti, almeno da questa parte dell'oceano. Ma di male ne aveva fatto a tanti, a tutti coloro che si portano dentro un cuore malandato per troppo amore. Quelle canzoni erano diventate citazioni, motti, appunti da appendersi al bavero della giacca per affrontare una stagione difficile. Raramente qualcuno aveva saputo descrivere così bene la fine di un amore, offrendo poche scappatoie, forse solo Graham Greene, ma questo non era un romanzo.
Un disco a tratti impossibile da ascoltare, per quell'urgenza carica di dolore nel descrivere la sofferenza come raramente si era ascoltato nella storia della canzone d'autore. Il paragone con Blood on the Tracks di Bob Dylan non era azzardato, anche per l'accompagnamento musicale minimale. Ma soprattutto scalfiva quella voce spettrale, appena sussurrata, così carica di angoscia e solitudine.
Adesso è finalmente tornato. Le ambientazioni soniche e liriche sono sempre quelle, evidentemente la solitudine del cuore per Barzin è una condizione esistenziale, anche se adesso l'accompagnamento strumentale è più ricco (con lui questa volta ci sono Sandro Perri, Tony Dekker dei Great Lake Swimmers, Daniela Gesundhet degli Snowblink Tamara Lindeman dei Wheather Station tra gli altri), lo spettro sonoro si approfondisce di eleganti nuove sfumature. Soprattutto è totale l'immedesimazione con un altro gigante canadese, Leonard Cohen, tanto che a tratti in queste nuove canzoni ti viene spontaneo immaginare la voce profonda del grande vecchio. Deve avere una tristezza speciale, il Canada. Barzin se vogliamo propri etichettarlo potremmo definirlo slow core, come altri grandi canadesi delle ultime generazioni: Great Lake Swimmers, Brian Borcherdt, Donovan Woods, Jbm.
Non mancano anche questa volta le citazioni dylaniane (nel disco precedente erano molteplici), oltre a Cohen altro grande punto di riferimento del canadese-iraniano, ad esempio "Dylan is playing After Midnight" dimostrando così di essere aggiornatissimo visto che si tratta di un brano dell'ultimo disco, Tempest.
Le canzoni sono ancora dolorose fessure aperte in camere abbandonate: l'iniziale All the While procede in modo ipnotico, su un fraseggio di chitarra sempre uguale, creando quel clima un po' claustrofobico che ha sempre caratterizzato le sue migliori canzoni.
Ma Barzin sa anche scrivere splendide melodie, con inflessioni di pop di classe; ne sono la prova brani incantevoli come Fake It ‘Til You Make It, In the Morning e soprattutto Lazy Summer, un brano epico. Altrove, ad esempio In The Dark You Can Love This Place, coniuga una brillante melodia a una atmosfera notturna e sofferente, capace però sempre di evitare ogni monotonia, catturando l'ascoltatore in una visione sonica e cinematica affascinante ed elegante allo stesso tempo. Se nel disco precedente Barzin affrontava la disperazione di una rottura sentimentale, questa volta il tema sembra maggiormente essere la solitudine metropolitana, l'impossibilità di adattare i nostri sentimenti, i nostri desideri al ritmo di una vita sempre più anonima, pura sopravvivenza, dove si vive per lavorare e si lavora attendendo la morte. Lui dice di aver cercato di fare un disco così sin da quando ha cominciato a incidere: la sua soddisfazione non può che essere anche la nostra.
Tuesday, March 11, 2014
Il tunnel
Nel tunnel della vita si entra pensando sia anche quello dell'amore. Solo a metà del viaggio ci si accorge di essere entrati in un tunnel dell'orrore.
Nel Tunnel di via Sammartini, la strada più lurida e spaventosa di Milano, che nessuno è mai riuscito a ripulire veramente, dove si aggiravano un tempo zombie, senzatetto, possibili stupratori e scarti assortiti della bella società, ci entriamo cercando una benedizione, l'ultima possibile. Lo scenario intorno è da Gotham City, o da Blade Runner con quelle fabbriche abbandonate e cadenti. Dentro però ci accoglieranno i monaci del rock, i santi del dopo apocalisse, le voci gregoriane che dal medioevo prossimo venturo in una specie di ritorno al futuro offrono consolazione e redenzione dai peccati.
E' vero, non c'è più Tim Smith a cantare, la sua voce meravigliosa che sapeva lenire ogni ferita dell'anima è rimasta da qualche parte nel Texas a cercare chissà cosa. Loro invece ci sono tutti. E da come appaiono sul piccolo palco, le luci proiettate dietro di loro sul pubblico che riempie ogni angolo del locale, sono solo delle silhouette in ombra che nascondono i volti. Perché questo sono oggi i Midlake, servitori della canzone anonimi a cui non interessa mettersi in mostra, lontani milioni di miglia da qualunque concessione all'entertainment, umili monaci del rock che armonizzano in coro nel buio. E quelle voci così stupendamente all'unisono, senza una vera voce solista, ci sorprendono subito ancora una volta, meglio di una volta: è davvero un coro che si innalza dal buio cercando di aprire uno squarcio nel soffitto, verso la luce, fuori del tunnel.
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Nel Tunnel di via Sammartini, la strada più lurida e spaventosa di Milano, che nessuno è mai riuscito a ripulire veramente, dove si aggiravano un tempo zombie, senzatetto, possibili stupratori e scarti assortiti della bella società, ci entriamo cercando una benedizione, l'ultima possibile. Lo scenario intorno è da Gotham City, o da Blade Runner con quelle fabbriche abbandonate e cadenti. Dentro però ci accoglieranno i monaci del rock, i santi del dopo apocalisse, le voci gregoriane che dal medioevo prossimo venturo in una specie di ritorno al futuro offrono consolazione e redenzione dai peccati.
E' vero, non c'è più Tim Smith a cantare, la sua voce meravigliosa che sapeva lenire ogni ferita dell'anima è rimasta da qualche parte nel Texas a cercare chissà cosa. Loro invece ci sono tutti. E da come appaiono sul piccolo palco, le luci proiettate dietro di loro sul pubblico che riempie ogni angolo del locale, sono solo delle silhouette in ombra che nascondono i volti. Perché questo sono oggi i Midlake, servitori della canzone anonimi a cui non interessa mettersi in mostra, lontani milioni di miglia da qualunque concessione all'entertainment, umili monaci del rock che armonizzano in coro nel buio. E quelle voci così stupendamente all'unisono, senza una vera voce solista, ci sorprendono subito ancora una volta, meglio di una volta: è davvero un coro che si innalza dal buio cercando di aprire uno squarcio nel soffitto, verso la luce, fuori del tunnel.
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Friday, March 07, 2014
Hey hey my my Kurt Cobain will never die
Da qualche tempo mi succede spesso: ho nostalgia degli anni 90. Non so bene perché, ma mi succede. Forse dipende dal solito fatto, cioè rimpiangere quanto abbiamo vissuto nel passato e considerarlo sempre migliore di quanto stiamo vivendo adesso. Un classico, insomma, della nostalgia umana. O forse dipende dal fatto che da quando siamo entrati nel terzo millennio non è accaduto niente degno di nota. Sto parlando di musica naturalmente. Del resto di cose successe, purtroppo, dalle Twin Towers alla crisi economica globale, ce ne sarebbe da riempire una enciclopedia.
Di certo negli anni 90 non avevo nostalgia degli anni 80, quel decennio non mi è mai mancato e credo non mi mancherà mai. Gli anni 70? In quelli ci sono dentro da sempre, praticamente sono una istantanea vivente di quel decennio e vista la musica che girava allora, non me ne pento e ci sto dentro alla grande. Sono sempre fortemente convinto infatti che l'ultimo grande disco della storia del rock sia uscito il 14 dicembre 1979, "London Calling" dei Clash ovviamente.
Se penso invece a questi ultimi tredici anni, a parte le band di cosiddetto neo folk (Avett Bros, Fleet Foxes, Mumford and Sons e chi più ne ha più ne metta) cos'altro è accaduto da farti fermare la macchina mentre hai la radio accesa e dire: accidenti che canzone? Che poi anche questi gruppi tendenzialmente hanno fatto un bel disco e poi niente di che. A me non viene in mente nulla, e infatti siamo sempre qui a lodare i dischi dei grandi vecchi, ormai vecchissimi. Già sapete chi intendo. Degli anni Duemila salvo due canzoni, neanche due dischi interi, però sono due grandi canzoni: England dei National e I and Love and You degli Avett Brothers.
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Di certo negli anni 90 non avevo nostalgia degli anni 80, quel decennio non mi è mai mancato e credo non mi mancherà mai. Gli anni 70? In quelli ci sono dentro da sempre, praticamente sono una istantanea vivente di quel decennio e vista la musica che girava allora, non me ne pento e ci sto dentro alla grande. Sono sempre fortemente convinto infatti che l'ultimo grande disco della storia del rock sia uscito il 14 dicembre 1979, "London Calling" dei Clash ovviamente.
Se penso invece a questi ultimi tredici anni, a parte le band di cosiddetto neo folk (Avett Bros, Fleet Foxes, Mumford and Sons e chi più ne ha più ne metta) cos'altro è accaduto da farti fermare la macchina mentre hai la radio accesa e dire: accidenti che canzone? Che poi anche questi gruppi tendenzialmente hanno fatto un bel disco e poi niente di che. A me non viene in mente nulla, e infatti siamo sempre qui a lodare i dischi dei grandi vecchi, ormai vecchissimi. Già sapete chi intendo. Degli anni Duemila salvo due canzoni, neanche due dischi interi, però sono due grandi canzoni: England dei National e I and Love and You degli Avett Brothers.
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Sangue nei solchi del cuore
“Bob Dylan è in città, c’è bisogno di catturare qualcosa di magico”. La “città” è ovviamente New York, al telefono John Hammond, il più gran...
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E ci sono state le lacrime e c’è stata una stella cadente che ha attraversato il cielo aprendosi in due. E ci sono state preghiere e c’è sta...
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"Edward Hopper, pittore statunitense famoso soprattutto per i ritratti della solitudine nella vita americana contemporanea". Oibò,...
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L'altra sera sono andato a vedere il concerto di Bruce Springsteen And The E Street Band. Ogni volta che viene in Italia non me lo perd...
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Nick Hornby, in tutte le top five del suo (peraltro bello) Alta fedeltà, naturalmente non ha incluso la top five delle migliori fuck you son...
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E' una giornata di sole oggi a Los Angeles. D'altro canto a Los Angeles c'è sempre il sole. L'anziano signore, sempre elegan...
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This blog for hire , come diceva il musicista rock più amato in questo blog... Così oggi lascio spazio all'amico Giorgio Natale , con cu...
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Paolo Vites, giornalista musicale da circa 25 anni, ne ha visti di concerti. Dai primi, a fine anni 70, quando la musica dal vivo tornò a es...
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Quello che è successo a Parigi la sera del 13 novembre, a molti di noi appassionati di musica rock ci ha segnato per sempre. Non perché un r...
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