Monday, April 07, 2014

Guerra alla droga

Con un nome così, The War on Drugs/La guerra alla droga, potrebbe essere il gruppo preferito dell'ex ministro Giovanardi. Scherzi a parte, la band capitanata da Adam Granduciel, dopo l'addio risalente ormai già a qualche anno fa di Kurt Veil - che ha inaugurato una altrettanto valida carriera solista -, totalmente nelle sue mani, è una delle realtà migliori della scena musicale americana più recente. Lo dimostra l'ultimo bellissimo disco, "Lost in the Dream", probabilmente il loro lavoro migliore. In giro da cinque o sei anni, i War on Drugs arrivano dalla zona di Philadelphia e la loro musica non è facilmente ascrivibile alle solite etichette buone per ogni stagione. Certo, le influenze di Adam Granduciel sono evidenti: voce strascicata e anfetaminica alla Bob Dylan periodo "Blonde on Blonde", lunghe fughe chitarristiche che non possono ricordare quelle di Neil Young, gusto per ballate di tipo californiano.



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Monday, March 24, 2014

She is with the band

Un giorno di metà anni settanta, salì su un aereo e da Londra, dov'era nata, andò fino a Los Angeles. Aveva vent'anni, Sylvie Simmons, e in quel modo incosciente realizzò il suo sogno più grande, vivere la sua vita dentro alla musica. Oggi vive a San Francisco ed è una delle più quotate scrittrici rock del mondo, una delle pochissime donne ad aver fatto breccia in un ambiente fortemente maschilista, quello del giornalismo musicale. Il suo ultimo libro, la biografia di Leonard Cohen, "I'm Your Man" (pubblicato anche in Italia da Caissa Italia Editore), è un best-seller mondiale tradotto in oltre dieci lingue. Dopo aver collaborato con le maggiori riviste musicali degli anni 70 e 80, come Cream e Sound, scrive oggi sin dal primo numero per quella che è la miglior rivista musicale del mondo, Mojo, per la quale ha realizzato dozzine di interviste straordinarie, come quei cinque giorni passati insieme a Johnny Cash a casa sua pochi mesi prima che questi morisse.Con lei abbiamo parlato di "quel piccolo sciocco pezzo di musica che si ama così tanto da stare male".




Nel film di Cameron Crowe, "Almost Famous/Quasi famosi" c'è una frase detta da una delle protagoniste a un musicista: "Non riuscite a capire cosa significhi amare così tanto un piccolo, sciocco pezzo di musica o una band, da starci male": E' davvero possibile stare male per una canzone?




Assolutamente, credo profondamente che la musica possa suscitare una passione così forte come l'amore per un uomo, una donna, un bambino, un animale. Sin da quando ero una bambina, ero ossessionata con la musica in tutte le sue forme, ho sempre desiderato una vita nella musica, ma non ero sicura di come poter fare. Deve essere un percorso che segui per conto tuo, la mia passione per la musica batte ogni altro tipo di passione.

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Tuesday, March 18, 2014

Paint it. Black

Come in un brutto film, come in una canzone cantata milioni di volte, immaginata, allontanata perché troppo dolorosa e alla fine mai composta. Il jet privato, quello che dagli anni 70 li ha portati in giro per il mondo, con la linguaccia irriverente ben in vista sulla fusoliera è appena atterrato. Saranno le dieci di sera a Perth, Australia. A New York City sono le 8 di mattina delle stesso giorno, è domenica. Una domenica che lei passa in chissà quale modo, riposo forse poco: una donna in carriera come lei ha sempre cose a cui pensare anche di domenica. Troppe cose. Adesso invece è lunedì mattina, saranno le 9 e 30. A Perth, in Australia, sono le 11 e 30 di notte, il lunedì è quasi finito. Lui ha passato la giornata a svagarsi, a distendersi, è andato a passeggiare sulla bella spiaggia davanti all’oceano, ha anche accettato di farsi scattare qualche fotografia. Sorride, un buffo cappellino militare con la visiera in testa, gli occhiali da sole: più che la rock star che da decenni fa impazzire il mondo, sembra un turista tipicamente inglese, buffamente eccentrico come loro sanno essere. La foto di lui sorridente finisce su twitter. Fra due giorni dovrà di nuovo salire sul palco, come fa da cinquant’anni. Già, perché, anche se li porta benissimo, lui di anni ne ha 70. Avrà fatto un patto con il diavolo, dicono i soliti ben informati schiudendo i denti nell’invidia perché loro invece i 70 anni che hanno li dimostrano tutti. Insomma, ha la stessa età dell’ex presidente del consiglio italiano Mario Monti: chi li porta meglio? Chi ha fatto sesso droga e rock’n’roll per buona parte della sua vita o chi la vita l’ha passata dietro la scrivania delle banche e delle università? Ma questo, adesso, non centra nulla.




Adesso se ne torna in albergo perché si sente un po’ inquieto, è quasi mezzanotte e come ogni volta che sta per cominciare una nuova tournée gli vengono dei pensieri, tornano a galla volti mai dimenticati davvero. Winnie the Pooh, il buffo pazzo con il capelli a caschetto biondi, Brian, morto annegato nella sua piscina nessuno ha mai capito veramente come. Sente dei brividi: lui voleva bene a Brian, era stato grazie a lui che tutto era nato e che nei successivi cinquant’anni si era potuto permettere di fare la vita più bella al mondo: musica, donne, soldi, tanti soldi. Era anche diventato Sir, altro che simpatia per il demonio.

A New York sono ormai le dieci di mattina, a Perth è passata da pochi secondi la mezzanotte ed è già martedì. Lei sale su una seggiola, annoda una delle sue eleganti sciarpe di seta al collo a una lampada e si lascia andare.

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Sunday, March 16, 2014

Quella lunga estate da solo

Recensione di To Live Alone in That Long Summer, pubblicata sul numero di marzo della rivista Outsider


Attenzione, maneggiare con cura, "handle with care". E' tornato Barzin, il poeta canadese originario dell'Iran: non è roba per tutti. Il suo ultimo disco, quasi cinque anni fa ormai, "Notes to an Absent Lover", aveva devastato una generazione di cuori già infranti per conto loro. Be' una generazione è un po' tanto, visto che come tutte le cose migliori quel disco non l'avevano comprato in molti, almeno da questa parte dell'oceano. Ma di male ne aveva fatto a tanti, a tutti coloro che si portano dentro un cuore malandato per troppo amore. Quelle canzoni erano diventate citazioni, motti, appunti da appendersi al bavero della giacca per affrontare una stagione difficile. Raramente qualcuno aveva saputo descrivere così bene la fine di un amore, offrendo poche scappatoie, forse solo Graham Greene, ma questo non era un romanzo.
Un disco a tratti impossibile da ascoltare, per quell'urgenza carica di dolore nel descrivere la sofferenza come raramente si era ascoltato nella storia della canzone d'autore. Il paragone con Blood on the Tracks di Bob Dylan non era azzardato, anche per l'accompagnamento musicale minimale. Ma soprattutto scalfiva quella voce spettrale, appena sussurrata, così carica di angoscia e solitudine.



Adesso è finalmente tornato. Le ambientazioni soniche e liriche sono sempre quelle, evidentemente la solitudine del cuore per Barzin è una condizione esistenziale, anche se adesso l'accompagnamento strumentale è più ricco (con lui questa volta ci sono Sandro Perri, Tony Dekker dei Great Lake Swimmers, Daniela Gesundhet degli Snowblink Tamara Lindeman dei Wheather Station tra gli altri), lo spettro sonoro si approfondisce di eleganti nuove sfumature. Soprattutto è totale l'immedesimazione con un altro gigante canadese, Leonard Cohen, tanto che a tratti in queste nuove canzoni ti viene spontaneo immaginare la voce profonda del grande vecchio. Deve avere una tristezza speciale, il Canada. Barzin se vogliamo propri etichettarlo potremmo definirlo slow core, come altri grandi canadesi delle ultime generazioni: Great Lake Swimmers, Brian Borcherdt, Donovan Woods, Jbm.
Non mancano anche questa volta le citazioni dylaniane (nel disco precedente erano molteplici), oltre a Cohen altro grande punto di riferimento del canadese-iraniano, ad esempio "Dylan is playing After Midnight" dimostrando così di essere aggiornatissimo visto che si tratta di un brano dell'ultimo disco, Tempest.
Le canzoni sono ancora dolorose fessure aperte in camere abbandonate: l'iniziale All the While procede in modo ipnotico, su un fraseggio di chitarra sempre uguale, creando quel clima un po' claustrofobico che ha sempre caratterizzato le sue migliori canzoni.

Ma Barzin sa anche scrivere splendide melodie, con inflessioni di pop di classe; ne sono la prova brani incantevoli come Fake It ‘Til You Make It, In the Morning e soprattutto Lazy Summer, un brano epico. Altrove, ad esempio In The Dark You Can Love This Place, coniuga una brillante melodia a una atmosfera notturna e sofferente, capace però sempre di evitare ogni monotonia, catturando l'ascoltatore in una visione sonica e cinematica affascinante ed elegante allo stesso tempo. Se nel disco precedente Barzin affrontava la disperazione di una rottura sentimentale, questa volta il tema sembra maggiormente essere la solitudine metropolitana, l'impossibilità di adattare i nostri sentimenti, i nostri desideri al ritmo di una vita sempre più anonima, pura sopravvivenza, dove si vive per lavorare e si lavora attendendo la morte. Lui dice di aver cercato di fare un disco così sin da quando ha cominciato a incidere: la sua soddisfazione non può che essere anche la nostra.

Tuesday, March 11, 2014

Il tunnel

Nel tunnel della vita si entra pensando sia anche quello dell'amore. Solo a metà del viaggio ci si accorge di essere entrati in un tunnel dell'orrore.

Nel Tunnel di via Sammartini, la strada più lurida e spaventosa di Milano, che nessuno è mai riuscito a ripulire veramente, dove si aggiravano un tempo zombie, senzatetto, possibili stupratori e scarti assortiti della bella società, ci entriamo cercando una benedizione, l'ultima possibile. Lo scenario intorno è da Gotham City, o da Blade Runner con quelle fabbriche abbandonate e cadenti. Dentro però ci accoglieranno i monaci del rock, i santi del dopo apocalisse, le voci gregoriane che dal medioevo prossimo venturo in una specie di ritorno al futuro offrono consolazione e redenzione dai peccati.



E' vero, non c'è più Tim Smith a cantare, la sua voce meravigliosa che sapeva lenire ogni ferita dell'anima è rimasta da qualche parte nel Texas a cercare chissà cosa. Loro invece ci sono tutti. E da come appaiono sul piccolo palco, le luci proiettate dietro di loro sul pubblico che riempie ogni angolo del locale, sono solo delle silhouette in ombra che nascondono i volti. Perché questo sono oggi i Midlake, servitori della canzone anonimi a cui non interessa mettersi in mostra, lontani milioni di miglia da qualunque concessione all'entertainment, umili monaci del rock che armonizzano in coro nel buio. E quelle voci così stupendamente all'unisono, senza una vera voce solista, ci sorprendono subito ancora una volta, meglio di una volta: è davvero un coro che si innalza dal buio cercando di aprire uno squarcio nel soffitto, verso la luce, fuori del tunnel.

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Friday, March 07, 2014

Hey hey my my Kurt Cobain will never die

Da qualche tempo mi succede spesso: ho nostalgia degli anni 90. Non so bene perché, ma mi succede. Forse dipende dal solito fatto, cioè rimpiangere quanto abbiamo vissuto nel passato e considerarlo sempre migliore di quanto stiamo vivendo adesso. Un classico, insomma, della nostalgia umana. O forse dipende dal fatto che da quando siamo entrati nel terzo millennio non è accaduto niente degno di nota. Sto parlando di musica naturalmente. Del resto di cose successe, purtroppo, dalle Twin Towers alla crisi economica globale, ce ne sarebbe da riempire una enciclopedia.

Di certo negli anni 90 non avevo nostalgia degli anni 80, quel decennio non mi è mai mancato e credo non mi mancherà mai. Gli anni 70? In quelli ci sono dentro da sempre, praticamente sono una istantanea vivente di quel decennio e vista la musica che girava allora, non me ne pento e ci sto dentro alla grande. Sono sempre fortemente convinto infatti che l'ultimo grande disco della storia del rock sia uscito il 14 dicembre 1979, "London Calling" dei Clash ovviamente.


Se penso invece a questi ultimi tredici anni, a parte le band di cosiddetto neo folk (Avett Bros, Fleet Foxes, Mumford and Sons e chi più ne ha più ne metta) cos'altro è accaduto da farti fermare la macchina mentre hai la radio accesa e dire: accidenti che canzone? Che poi anche questi gruppi tendenzialmente hanno fatto un bel disco e poi niente di che. A me non viene in mente nulla, e infatti siamo sempre qui a lodare i dischi dei grandi vecchi, ormai vecchissimi. Già sapete chi intendo. Degli anni Duemila salvo due canzoni, neanche due dischi interi, però sono due grandi canzoni: England dei National e I and Love and You degli Avett Brothers.

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Saturday, March 01, 2014

To dance beneath the diamond sly

Bizzarro – ma mica tanto – che subito dopo aver riscoperto e riapprofondito i legami con il mio scrittore contemporaneo preferito, Nick Hornby, grazie a un suo vecchio libro letto solo adesso, riscopro e riapprofondisco i miei legami anche con il regista contemporaneo che, adesso lo so, è anche il mio preferito. Ho visto infatti per caso, come sempre mi succede con i film, Elizabethtown di Cameron Crowe, un film uscito nel lontano 20005: è incredibile come Crowe stia al cinema quanto Hornby stia alla letteratura.
La cifra che li contraddistingue è infatti la musica rock, intesa non come sottofondo riempi buchi, ma come parte integrante della vita. Non sono due cose separate: coincidono, si alimentano, si commentano, si confondono e si esaltano. Il risultato è sempre quello di dare una ventata di bellezza e di ottimismo.




Nessuno come Cameron Crowe sa usare le canzoni rock con altrettanta efficacia e buon gusto: Elizabethtown, che inizialmente mi sembrava un film stucchevole e che onestamente non ha questa gran trama, si risolve come la sua ennesima deliziosa, confortante e piacevolissima iniezione di bellezza. E che canzoni. Altro che il borioso uso che ne fanno i fratelli Coen, specie nell’ultimo fallimentare A proposito di Davis, dove la musica viene piegata alle esigenze immancabilmente pessimiste, dei due registi. Con Crowe la musica si impone: è la vita, è la realtà, ma solo pochi fortunati sanno percepirlo, devono avere amato la musica davvero tanto per capire questo fondamentale passaggio. “To truly love some silly little piece of music, or some band, so much that it hurts” come diceva una delle groupie in Almost famous, il film capolavoro di Crowe e il più bel film mai girato sulla musica rock. Ma sono cose queste che capiamo solo noi che nella vita siamo i “supplenti”, non i protagonisti, come dice la protagonista di Elizabethtown: noi le figure secondarie, quelli che non ci prendono mai sul serio, i falliti, i perdenti. Abbiamo il nostro piccolo segreto che ci aiuta a stare a galla.

Di Crowe ho trovato pretenzioso e noioso solo Vanilla Sky, il resto, da Singles a Jerry McGuire, sempre affascinante. Sì: Crowe è un inguaribile ottimista. Ma anche noi cinici abbiamo bisogno di ottimismo, almeno al cinema. E lui lo fa in modo convincente, ricco di magia e noi crediamo alla magia, do you believe in magic?
Elizabethtown si risolve meravigliosamente nell’ultima mezz’ora: in quel viaggio on the road non c’è solo la salvezza del protagonista, ma anche un minidocumentario sulla storia della musica rock con alcune canzoni straordinarie. E il finale.,. sì il finale è perfettamente a lieto fine. Ci sta. A cosa servirebbero altrimenti le canzoni rock? D’altro canto tutto il film è stato ispirato da un verso magico, quello che Bob Dylan scrisse in Mr. Tambourine Man: to dance beneath the sky with one hand waving free… Le canzoni rock dicono la verità. Sempre. Così che si può aver voluto così bene al proprio padre – o marito – morto da

Sunday, February 23, 2014

Come diventare buoni

“Che cosa ti fa pensare che io sia triste?”

“Ah! Tu sei triste per definizione. E’ la tua condizione permanente.”



Nick Hornby salva la vita. Nick Hornby è il miglior scrittore della mia generazione. In realtà non so se sia così, so che ogni volta che mi imbatto in un suo libro (ne ho letti solo quattro: Alta fedeltà, Un ragazzo, Tutta un'altra musica e Come diventare buoni) la mia vita diventa migliore, per quel tempo almeno che dura la lettura del libro. Come insegna proprio Come diventare buoni, l’ultimo che ho letto, è impossibile infatti cambiare la propria e altrui vita per sempre, ma il fatto che possa cambiare in meglio anche per poco, è già abbastanza.
A Nick Hornby mi sono sempre avvicinato con diffidenza, anche perché quando l’’ho scoperto era già un mito di generazioni intere e a me i miti scoperti da altri solitamente non piacciono. Devo scoprirli io, devono avere a che fare con me, devono parlare a me. Così + stato: leggendolo in ritardo rispetto alle masse, ho scoperto che Hornby scriveva di me e parlava a me. Nick Hornby mi parla, e alla grande: sa tutto di me. E poi scrive da dio. Ad esempio in Come diventare buoni, all’inizio non mi piaceva: uno scrittore uomo che scrive un libro in cui la protagonista è una donna? Ma che ne sa un uomo di cosa sia una donna? Presuntuoso, ho pensato. Poi invece mi sono arreso perché Hornby scrive veramente da dio. Fa sorridere, fa rolorare dal ridere, fa piangere, fa incazzare, ma soprattutto è un realista straordinario, una sorta di Raymond Carver in chiave generazione 2.0. Ha una compassione enorme per le persone di cui scrive, Nick Hornby, che è tenera e commovente: vuole bene al prossimo, si capisce, e non lo giudica, anzi lo abbraccia.


Come diventare buoni me l’ha regalato la mia famiglia lo scorso Natale, evidentemente perché pensavano che io debba diventare buono, e hanno ragione. Come dice la mia collega di scrivana in redazione, io sono una persona orribile. Proprio come David, il marito della protagonista Katie, che ha – con mia somma invidia – una rubrica sul quotidiano della sua città intitolata L’uomo più arrabbiato di Holloway. E’ il mio sogno avere una rubrica così.
Come diventare buoni, oltre a contenere pagine di letteratura di classe immensa, è bello perché alla fine ti dice che diventare buoni è impossibile. Ho tirato un sospiro di sollievo quando me ne sono accorto. Ma allo stesso tempo scava a fondo nelle nostre esistenze miserabili e ne tira fuori l’essenza: al fondo di noi stessi, desideriamo una cosa sola, appunto essere buoni. E’ ciò che fa la nostra consistenza, è nel nostro cuore e ci definisce, anche se cerchiamo di scacciare questa cosa ogni giorno di più. Così non serve il matrimonio a renderci buoni, non servono i figli, il lavoro, l’impegno nel sociale, andare in chiesa la domenica.
E’ qualcosa di più grande di noi, tocca affidarsi, e Hornby, pur chiudendo il libro in modo violento e apparentemente amaro - perfettamente carveriano, con la domanda lasciata irrisolta -, lascia intuire che è un lavoro da fare e da chiedere. Tolte le croste della banalità che ci contraddistingue – anche e soprattutto quella del buonismo – resta un cuore che implora per sé e per gli altri. E se nel nostro cuore c’è questo desiderio, fa intuire Hornby, vuol dire che ci è stato messo dentro e che allora tocca capire chi è stato. Uno buono, immagino.

Sunday, February 16, 2014

Siamo tutti come Giobbe

"Sentirsi tristi, ma proprio tristi tristi, tanto da chiedervi il senso della vita: a mio padre capitava spesso". Margherita è la figlia di Roberto Freak Antoni, il leader degli Skiantos, il gruppo - a torto o a ragione - definito di "rock demenziale", scomparso nei giorni scorsi. Quando Margherita finisce di parlare, di dire la sua orazione funebre ai funerali del padre, qualcuno alza un cartello con la scritta ovazione, in quello stile che sarebbe piaciuto al padre scomparso.



Chi sia stato veramente Freak Antoni è difficile dirlo, ma a questo punto non conta più. Figlio di una stagione particolarissima della storia italiana, quella che vide negli indiani metropolitani alla fine degli anni 70 porre domande implacabili a cui nessuno seppe rispondere, mentre la rivoluzione del movimento studentesco finiva inghiottita negli anni di piombo, dello spirito di quella stagione fu l'interprete migliore. Fece sua la cinica ironia di chi aveva perso tutto: le speranze, le utopie, le ideologie dei fratelli maggiori e si trovava a guardare i carri armati nelle strade di Bologna, mentre - eresia - questi perdenti fischiavano e insultavano i leader sindacali, i leader intoccabili dell'ideologia che li aveva traditi per primi. Chi c'era, ricorda quella stagione come un ultimo grido alzato al cielo: vogliamo il mondo e lo vogliamo adesso. Un grido disatteso.

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Wednesday, February 12, 2014

Cronaca vera

Mi chiamo Francesca. Ho 14 anni e non so perché mi trovo in questo posto. E’ buio, fa freddo, ci devono anche essere dei topi schifosi. Li sento. In realtà so benissimo perché mi trovo qua. Sto salendo le scale fino al tetto. Questo era un albergo una volta. Ogni piano che faccio credo di sentire voci di bambini che ridono, mamme arrabbiate, papà che russano. Ma adesso è buio e fa freddo. E ci sono i topi. Devo arrivare sul tetto di questo schifo di albergo abbandonato e poi sarà finita. Mi dispiace tanto, mi dispiace nonna. Chiedo scusa a tutti, anche a papà e mamma. Ma sto salendo le scale al buio e poi non ci sarà più nessuno che mi prenderà in giro.

Volevo tanto bene al mio ragazzo, lui mi ha lasciato e vabbè ci stava, e me piaceva andare a scuola. Però mi prendevano in giro, ogni volta che scrivevo qualcosa e chiedevo per favore aiutatemi c’era qualcuno che mi diceva che ero una brutta culona e che dovevo morire. «Fai schifo come persona». Perché? Le mie piccole bocche aperte sulle braccia chiedono solo un po’ di aiuto. «Spero che uno di questi giorni taglierai la vena importantissima che c’è sul braccio e morirai!». Non dimenticatemi. Fra poco sarò morta davvero. Mi dispiace tanto nonna.

Ecco, sto per buttarmi di sotto. Così il computer non lo accenderò più e nessuno mi prenderà più in giro. Ciao nonna, addio anche a questi topi schifosi. Non voglio più piangere da sola in camera mia. Mi dispiace, chiedo scusa a tutti. Non dimenticatemi. Non so cosa sta succedendo.


Lui ha chiesto alla prima moglie se può prendere Caterina, Caterina ha 8 anni, può vederla due volte la settimana. Poi ha chiesto anche alla seconda moglie se può stare un po’ con Roberto, 2 anni, è figlio di questa altra donna e suo, naturalmente. Solo qualche ora, sto traslocando, spiega, mettiamo via le robe negli scatoloni, giochiamo un po’. Va bene, hanno detto tutte e due, alle 20 mando mia mamma a prendere Caterina. Ok, Roberto lo riporto io.
Nella casa c’è confusione e sporcizia, a Caterina non piace, Papà voglio andare a casa. Anche questa è casa tua, risponde lui innervosito. Roberto inciampa su degli scatolini e comincia a piangere. Lui rivede in pochi istanti una vita di fallimenti, due matrimoni fottuti andati in pezzi, il secondo pochi giorni prima di Natale. Che schifo pensa. Poi il lavoro che c’è ok, ma quanti soldi mi ci vorranno adesso per pagare tutti questi alimenti, pensa. Non ce la potrà mai fare. Sono solo. Guarda i suoi bambini e gli viene da piangere. Sono solo. Ho fallito tutto. Non sa come si è trovato quel coltellaccio per tagliare il salame tra le mani, però gli dà un senso di sicurezza.


Si guarda attorno. Quello non è un posto per due bambini piccoli, tutto quel casino e lo sporco. E’ allora che si avvicina prima a lei e con un taglio veloce le squarcia la gola. Non riesce neanche a gridare. Poi tocca al fratellastro. Il sangue zampilla ovunque. Cosa ho fatto. Telefona al fratello per dirglielo poi si pianta il coltello nel petto. Ma lui non è degno neanche di morire.

Che fallito sono, pensa mentre lo portano in ospedale.
Fuori la nonna è arrivata a prendere la sua nipotina, ma l’hanno già portata via quelli della polizia mortuaria. Nella notte fredda un urlo indicibile si alza nel buio. I miei bambini. La mia bambina.

Monday, February 03, 2014

Uncool


Era un inverno del cazzo. Freddo, neve, tantissima neve: anche Times Square, la porta verso Brooklyn e i teatri era sommersa di neve. Qualche sera prima era andato a vedere una nuova messa in scena di Aspettando Godot. Gli piaceva il teatro, gli era sempre piaciuto e adesso, a 46 anni, gli piaceva ancora di più. Hollywood e quel mondo di finti bastardi cominciava a stancarlo. Non che lui aveva mai dovuto sottomettersi a qualche ruolo imbecille per un po’ di soldi. No, aveva sempre scelto le sue parti dopo averle studiato a fondo e allora diceva sì o no. Come quando gli avevano proposto di interpretare il ruolo di Hilly Kristal, il fondatore del CBGB’s. Aveva rifiutato perché, aveva detto loro, “non era una sceneggiatura storicamente realista”. Ecco.

Faceva freddo a New York in quei giorni, e sulla costa est era arrivata una nuova partita di eroina che, dicevano, era peggio di mettersi nelle vene un veleno per i topi: ci lasciavi la pelle subito, e di morti se ne stavano già trovando parecchi in giro, fulminati da una overdose. Per distinguerla, qualcuno vendeva le bustine di eroina con un asso di picche e un asso di cuori stampato sopra. Le bustine con l’asso di picche le prendevi a tuo rischio e pericolo.


"L'unica vera moneta in questo mondo in bancarotta è ciò che si condivide con qualcuno quando sei uncool": da qualche tempo quelle parole gli risuonavano in continuazione nella testa. Le aveva dette lui in uno dei suoi tanti ruoli di attore, o le aveva sentite dire da qualcun altro? Quando si recita a lungo, e in ruoli di personaggi così tragicamente devastati, ad esempio quel sacerdote che forse era stato un pedofilo, ma nessuno lo sapeva, neanche lui, alla fine finisci per diventare un altro, la tua identità si mischia con quella del personaggio. Lui, da tempo, forse da sempre, si sentiva “uncool”. Non si sentiva a suo agio in un mondo di cui non si sentiva parte. Sto sempre a casa, io non esco mai, diceva Lester Bangs/Philip Seymour.

Così quelle sere nonostante il freddo girava per le strade di NYC. Aspettava il suo uomo. Per 23 anni era stato pulito, poi un anno e mezzo fa aveva ripreso a farsi. Perché? Forse era stanco. Anche una vita piena di soddisfazioni ti stanca e ti svuota l’anima. Aveva una compagna e tre figli splendidi, ma si sentiva inadeguato, aveva paura. Forse era quel vuoto che si portava dentro da sempre, da quando bambino aveva visto sua madre crescere lui e gli altri tre fratelli da sola, perché il padre se n’era andato. Un padre che scompare non si rimpiazza con nulla, neanche con un premio Oscar, e lo aveva detto quella sera a Hollywood, prendendo in mano la statuetta e ringraziando davanti a tutti gli imbecilli in sala sua madre.

Allora quella mattina, prima di andare a prendere i figli e portarli a scuola, aveva deciso di farsi ancora una volta. Poi si sarebbe sentito meglio, avrebbe guardato i figli negli occhi sapendo di poter dire loro: io non vi abbandonerò mai. Altrimenti, temeva di non riuscirci.

Ancora in mutande era andato in bagno, aveva tirato fuor siringa e laccio e aveva preso in mano le due bustine. Su di una c’era un asso di picche, sull’altra quello di cuori. Non si ricordava più cosa gli aveva detto l’uomo che gliele aveva vendute, e decise di mettere nella siringa la povere che era in quella con su l’asso di picche.

Lo ritrovarono con la siringa ancora infilata nel braccio. C’erano otto bustine vuote vicino a lui e altre due ancora piene di eroina. Nessuno avrebbe mai saputo se aveva cercato apposta l’overdose.

Qualcuno nell’appartamento accese una radio. Si faceva fatica a sintonizzarsi, le frequenze erano disturbate. Fino a quando non venne captata una voce che veniva da molto lontano. Era la sua voce. Stava lanciando il suo ultimo messaggio al mondo:

“Cari ascoltatori, vi dico solo questo: che Dio vi benedica! Quanto a voi bastardi al potere, non sperate che sia finita! Anni che vanno, anni che vengono e i politici non faranno mai un cazzo per rendere il mondo un posto migliore! Ma ovunque nel mondo, ragazzi e ragazze avranno semre i loro sogni e tradurranno quei sogni in canzoni...
Non muore niente di importante questa notte! Solo 4 brutti ceffi su una nave di merda! L'unico dispiacere stanotte è che negli anni futuri ci saranno tante fantastiche canzoni, che non sarà nostro privilegio trasmettere ma, credete a me, saranno comunque scritte! E saranno comunque cantate! E saranno comunque la meraviglia del mondo!".


Philip Seymour Hoffman (July 23, 1967 – February 2, 2014)

Sangue nei solchi del cuore

“Bob Dylan è in città, c’è bisogno di catturare qualcosa di magico”. La “città” è ovviamente New York, al telefono John Hammond, il più gran...

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